DANNI DA DEQUALIFICAZIONE INDENNIZZABILI IN BASE AGLI  ELEMENTI PRESUNTIVI ACQUISITI NEL GIUDIZIO

 

Cass. sez. lav. 27 agosto 2003, n. 12553 (ud. 3 marzo 2003) – Pres. Senese- Rel. D’Agostino – Zanon SpA (avv. Testa, Palatella) c. Petkovic (avv. Loiacono Romagnoli, Lando)

 

Inflizione di dequalificazione professionale – Danno da umiliazione e per lesione del diritto all’immagine nell’ambiente di lavoro – Risarcibilità in via equitativa, sulla base degli elementi presuntivi acquisiti, senza necessità di prova di pregiudizio da parte del danneggiato – Spettanza.

 

Va respinto l’addebito che la Corte di appello abbia errato nel riconoscimento al ricorrente demansionato dei danni patiti, identificabili nelle sofferenze e nella umiliazione subite dal medesimo nell'ambiente di lavoro, in quanto – all’opposto – la Corte veneziana ha fatto corretta applicazione della ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (cfr. tra le tante Cass. N. 15868 del 2002, Cass. N. 7967 del 2002, Cass. N. 10 del 2002, Cass. N. 14199 del 2001).

Svolgimento del processo

Con ricorso al giudice del lavoro di Vìcenza depositato il 13.10.1998 Marinko Petkovic premesso di essere stato assunto nel 1995 dalla s.p.a. Ettore Zanon come impiegato tecnico con inquadramento nella 6° categoria CCNL metalmeccanici e di aver svolto nei primi giorni di lavoro mansioni di caposquadra, lamentava di essere stato successivamente adibito a mansioni di saldatore, calderaio e molatore, proprie della 4° categoria. Ciò premesso chiedeva al giudice adito dì condannare la società a reintegrarlo nelle mansioni di impiegato tecnico,o comunque rientranti nel 6° livello, ed a risarcirlo dei danni subiti.

La società si costituiva e chiedeva il rigetto della domanda deducendo che il Petkovic, erroneamente inquadrato in 6° categoria al momento dell'assunzione, non aveva mai svolto compiti di caposquadra ma solo mansioni di saldatore, proprie della 4° categoria.

Il Tribunale di Vicenza, espletata 1'istruzione, con sentenza resa il 16 febbraio 2000, accertava il diritto del lavoratore a svolgere mansioni di 6° categoria e condannava la società al risarcimento dei danni liquidati in lire 13 milioni. Detta decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Venezia con la sentenza qui impugnata.

In motivazione la Corte territoriale osservava che il Patkovic, essendo stato assunto come impiegato tecnico di 6° livello, aveva diritto ad espletare le mansioni proprie della qualifica per la quale era stato assunto, non essendo ipotizzabile alcun errore da parte della società, né essendo consentita ex art. 2103 c.c. una tacita accettazione da parte del lavoratore dell'intervenuta dequalificazione del rapporto di lavoro. Osservava che l'accettazione da parte del lavoratore delle mansioni inferiori non era stata tempestivamente allegata dalla società in primo grado e non era stata provata. Rilevava altresì la Corte che l'avvenuto demansionamento costituiva un inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro che comportava per quest'ultimo l'obbligo del risarcimento dei danni subiti dal lavoratore, identificabili nelle sofferenze e nella umiliazione subite dal Petkovic nell'ambiente di lavoro e liquidabili in via equitativa.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Ettore Zanon ha proposto ricorso con otto motivi ed ha depositato memoria. L'intimato resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denuncia violazione dell'art. 2103 c.c. ed insufficiente motivazione e si rileva che le mansioni di impiegato tecnico, per le quali il Petkovic era stato assunto, non si riferivano alla sola 6° categoria, bensì a tutte le mansioni tecniche di tutte le categorie; si sostiene che anche le mansioni di saldatore erano mansioni di impiegato tecnico, sicché nella specie era inesistente la lamentata assegnazione a mansioni inferiori a quelle di assunzione.

Con il secondo motivo si denuncia violazione dell'art. 1362 e segg. c.c. in relazione agli articoli 1 e 4 CCNL di settore nonché omessa ed insufficiente motivazione; si addebita al Tribunale di non aver individuato quale fosse stata la volontà delle parti all'atto della conclusione del contratto di lavoro; si rileva che nelle trattative al Petkovic era stato chiaramente specificato che veniva assunto come saldatore, qualifica propria della 4° categoria, mentre l'inquadramento in 6" categoria era dovuto a mero errore, per cui nella realtà non si era verificato alcun demansionamento.

Con il terzo motivo si denuncia violazione degli articoli 2103 e 2697 c.c. nonché omessa ed insufficiente motivazione, e si osserva che il demansionamento del lavoratore è legittimo quando sia da questi accettato, anche con fatti concludenti. Si osserva che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, la circostanza era stata eccepita tempestivamente in primo grado e si lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sul motivo di appello con il quale era stata richiesta l'ammissione della prova testimoniale non ammessa dal giudice di primo grado.

Con il quarto motivo si denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c. nonché omessa ed insufficiente motivazione e si sostiene che il Petkovìc aveva chiesto di essere "reintegrato" nelle mansioni di impiegato tecnico; poiché le mansioni di saldatore sono di impiegato tecnico di 4° categoria, mentre non esistono mansioni di impiegato tecnico di 6° categoria, e poiché il ricorrente non aveva mai espletato mansioni di 6° categoria, la domanda di reintegrazioni in queste ultime mansioni doveva essere respinta perché priva di significato.

Con il quinto motivo si denuncia violazione dell'art. 115 c.p.c. nonché insufficienza di motivazione e si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che il lavoratore aveva provato di essere stato assunto per svolgere le mansioni di 6° categoria e di aver svolto effettivamente in un primo tempo dette mansioni.

Con il sesto motivo si denuncia violazione degli articoli 185 c.p. e 2059 c.c. e si osserva che il danno morale ed il danno biologico sono risarcibili solo se dipendenti da un reato; si esclude che nella specie il lavoratore abbia provato di aver subito una lesione dell'integrità fisica o psichica per effetto del preteso demansionamento; si addebita alla Corte di aver superato la norma dì sbarramento dell'art. 2059 sul risarcimento del danno non patrimoniale.

Con il settimo motivo si denuncia violazione dell'art. 1227 c.c. e si addebita alla Corte di non aver valutato il concorso di colpa del lavoratore nella determinazione del danno, per non aver reagito con prontezza al preteso demansionamento.

Con l'ottavo motivo si denuncia violazione degli articoli 2086 c.c. e 41 Cost. e si sostiene che il giudice di merito, reintegrando il lavoratore nelle mansioni di6° categoria, mai svolte in precedenza,  di fatto avrebbe determinato l’instaurazione autoritativa di un nuovo rapporto tra le parti.

Osserva preliminarmente il Collegio che non può essere preso in considerazione il motivo di ricorso proposto nella memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., perché tale tardiva integrazione è inammissibile (cfr. Cass. N. 1699 del 1996).

Il primo, secondo, quarto, quinto e ottavo motivo possono essere trattati congiuntamente per la loro stretta connessione. Con dette censure, sotto vari profili, la società ricorrente sostiene che la Corte veneziana ha errato nel ritenere che il Petkovic fosse stato assunto come impiegato tecnico di 6° categoria. Si sostiene che ove la Corte avesse valutato correttamente le risultanze istruttorie non poteva non giungere alla conclusione che le parti, al di là delle espressioni adoperate nella lettera di assunzione, avevano convenuto che al lavoratore sarebbero state assegnate le mansioni di saldatore proprie della 4° categoria.

Tali doglianze sono nel loro complesso infondate.

La Corte di merito ha riportato il contenuto della lettera di assunzione del 24.4.1995, del seguente tenore: “Lei sarà inquadrato alla 6° categoria della classificazione unica del vigente CCNL e le verrà applicata la disciplina speciale parte terza del CCNL (quella cioè che riguarda gli impiegati)...Le sue mansioni  si  esplicheranno  in qualità di  impiegato tecnico".

Il giudice di appello, con motivazione congrua ed immane da vizi logici, ha rilevato, sulla scorta delle risultanze istruttorie, che le mansioni inizialmente affidate al Petkovic (addestramento di un gruppo di connazionali e funzioni di interprete nei rapporti tra gli operai slavi ed i vari caporeparto) erano sicuramente riconducibili alla 6° categoria, sicché la volontà delle parti, nella conclusione del contratto di lavoro, corrispondeva esattamente alla formulazione della lettera di assunzione (nella quale non si parla affatto di mansioni di saldatore), mentre era da escludere la presenza di errori nella redazione del documento. Solo dopo qualche tempo tali mansioni erano state di fatto revocate ed al Petkovic erano state attribuite le mansioni inferiori di saldatore, fatto questo che comportava un demansionamento in violazione dell'art. 2103 c.c.

E' noto che, per costante giurisprudenza di questa Corte, l'interpretazione della volontà contrattuale e del contenuto precettivo del contratto, comportando apprezzamenti di fatto, è riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in cassazione solo per vizi di motivazione o per violazione dei canoni ermeneutici (Cass. N. 2074 del 2002, Cass. N. 4085 del 2001).

Nella specie la ricostruzione della vicenda contrattuale fatta dalla Corte di merito da un lato non presenta incongruenze o contraddizioni che ne vizino il procedimento argomentativo; dall'altro lato non mostra alcuna palese violazione dei principi che regolano l'interpretazione dei contratti.

In realtà le censure che la ricorrente muove alla sentenza impugnata si traducono nella proposizione di una interpretazione della vicenda contrattuale diversa da quella data dalla Corte veneziana e nella richiesta di un riesame del merito della decisione, inammissibile in sede di legittimità (Cass. N. 3928 del 2000), specie ove si consideri che la valutazione delle risultanze istruttorie ed il giudizio sulla attendibilità delle prove, cosi come la scelta di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione, è riservata la giudice del merito (Cass. N. 5231 del 2001, Cass. N. 6023 del 2000) e che il controllo di legittimità non può investire la valutazione delle prove operata dal giudice del merito ma solo la congruenza e la razionalità della motivazione (Cass. N. 2404 del 2000).

Una volta ritenuta corretta 1'interpretazione della Corte di merito circa l'avvenuta assunzione del lavoratore in 6° categoria, si rivelano del tutto prive di fondamento le doglianze espresse con il quarto ed ottavo motivo.

Il terzo motivo di ricorso, con il quale, contraddicendo quanto sostenuto nei motivi sopra esaminati, la ricorrente addebita alla Corte di appello di non aver rilevato che il lavoratore aveva accettato il demansionamento, non è meritevole di accoglimento.

La Corre veneziana, premesso che secondo la giurisprudenza di legittimità il patto di modifica in peius delle mansioni è legittimo solo quando è diretto ad evitare il licenziamento, al riguardo ha precisato che la società non ha offerto la prova che l'avvenuto demansionamento del Petkovic costituisse l'unica alternativa al licenziamento, mentre ha ritenuto non idoneo a provare il consenso del lavoratore il mancato immediato reclamo da parte di quest'ultimo per le mansioni inferiori assegnategli, avuto riguardo alla necessità di conservare il permesso di soggiorno.

Orbene, le censure che la ricorrente muove a tali affermazioni da un lato sono contraddittorie, perché si sostiene allo stesso tempo che tale prova non era necessaria e che la prova era stata comunque offerta nella comparsa di costituzione in primo grado; dall'altro sono generiche, perché la società si lamenta della mancata ammissione di prova testimoniale su circostanze che non vengono riprodotte, neppure sinteticamente, in ricorso. E' noto infatti che la parte che lamenta la mancata ammissione di una prova testimoniale ha l'onere di indicare in ricorso, anche in modo riassuntivo, il contenuto dei capitoli di prova al fine di consentire alla Corte di cassazione, che non è tenuta ad indagini integrative, di valutarne la decisività, senza chi a tal fine possa svolgere alcuna funzione sostitutiva il riferimento “per relationem” ad altri atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi del giudizio (Cass. N. 7177 del 1997, Cass. N. 5394 del 1998).

Per il resto le censure non investono minimamente l'impianto argomentativo del giudice a quo, la cui motivazione appare del tutto congrua e coerente.

Parimente infondate, infine, si palesano le censure mosse con il sesto ed il settimo motivo di ricorso, che vanno trattati congiuntamente per la loro connessione.

La ricorrente in modo inesatto addebita alla Corte di aver riconosciuto al Petkovic il risarcimento per danno morale e danno biologico superando la norma di sbarramento di cui all'art. 2059 c.c. (che ricollega il risarcimento del danno morale ad un reato) ed in mancanza di ogni prova della esistenza di una malattia fisica o psichica da parte del lavoratore in dipendenza dell'avvenuto demansionamento.

In realtà la corte veneziana, che non ha in alcun modo ricollegato il risarcimento ad una pretesa malattia dell'appellato, ha fatto corretta applicazione della ormai costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell'assunzione può derivare non solo la violazione dell'art. 2103 c.c., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell'interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione e la cui determinazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto (cfr. tra le tante Cass. N. 15868 del 2002, Cass. N. 7967 del 2002, Cass. N. 10 del 2002, Cass. N. 14199 del 2001).

Assolutamente non condivisibile, infine, oltre che inammissibile, si rivela la pretesa della società di imputare alla Corte di merito l'omesso esame del concorso di colpa del lavoratore per il ritardo con il quale ha proposto la domanda di risarcimento del danno.

La censura è inammissibile perché della questione non vi è traccia nella sentenza impugnata, sicché, non avendo la ricorrente eccepito la violazione dell'art. 112 c.p.c. ed il mancato esame del punto da parte del giudice di appello, deve ritenersi che la questione sia stata proposta per la prima volta in sede di legittimità (Cass. N. 492 del 2001, Cass. N. 10902 del 2001, Cass. N. 9946 del 2001).

Ma la censura è anche infondata in quanto non è lecito far carico, anche in parte, al lavoratore che ha esercitato il suo diritto al risarcimento nei termini prescrizionali, delle conseguenze derivanti da un comportamento illecito del datore di lavoro che egli ha dovuto subire ed al quale non ha avuto alcuna parte.

Per tutte le considerazioni sopra svolte il ricorso, dunque, deve essere respinto. Al rigetto consegue come per legge la condanna della ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 3350 oltre ad euro duemila per onorari.

Così deciso in Roma il 3 marzo 2003

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