DANNO BIOLOGICO DA INFARTO: IRRILEVANZA CONCAUSE PREESISTENTI

 

Cass. sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339 - Pres.  Delli Priscoli - Rel.  Mercurio - P.M. Mele - Ric.  Rasile - Res.  Ansaldo Spa

 

Rapporto di lavoro - Dirigente - Demansionamento e forzata inattività - Infarto - Danno biologico - Risarcibilità - Concausa naturale non imputatile - lrrilevanza

 

Il dirigente che, a seguito di demansionamento e forzata inattività, subisca uno stress psicofisico con conseguente infarto, ha diritto al risarcimento del danno biologico, nell'intera misura quantificata; né, a circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l'esistenza di una concausa naturale antecedente (aterosclerosi coronaria genetica), in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile.

 

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando «violazione dell'art. 112 c.p.c e/o vizio di motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia, con riguardo alle richieste di risarcimento del danno morale e del danno professionale specifico», lamenta che il Tribunale, incorrendo nello stesso errore del pretore, abbia erroneamente interpretato in modo restrittivo la domanda, pronunciando cioè sul solo danno biologico e non invece sulle altre tipologie di danno (morale e professionale specifico) come pure era stato specificato dal ricorrente in primo grado nella memoria del 9 febbraio 1995 depositata prima della pronunzia pretorile.  Censura quindi la motivazione dell'impugnata sentenza perché viziata da errori logici e di interpretazione, atteso che il danno «da malattia» comprende, oltre alla diminuzione dell'efficienza psico-fisica, anche la diminuita capacità professionale e la sofferenza morale, e per avere quindi respinto sul punto l'appello di esso Rasile.

Il motivo è infondato.

Premesso che l'interpretazione della domanda giudiziale costituisce accertamento di fatto riservato al giudice del merito (cfr.  Cass. 9 giugno 1971 n. 1728), -ed espresso nel caso di specie con motivazione congrua e sufficiente, deve pure escludersi che il Tribunale sia comunque incorso in vizio di omessa pronunzia e cioè che non abbia deciso sull'intera domanda con violazione del principio di cui al l'art. 112 c.p.c, così come lamenta il ricorrente.

E’ invero sufficiente rilevare - essendo in tal caso (di denunzia di error in procedendo) consentito alla Corte l'esame diretto degli atti processuali - che nel ricorso introduttivo dei giudizio di primo grado (del gennaio 1988) il Rasile ha avanzato richiesta di risarcimento del danno (oltre che patrimoniale per la dequalificazione) «alla salute e alla vita di relazione» (pagg. 17 e 18 ric.  Primo grado) senza alcun cenno, tra l'altro, al danno morale (cioè al danno di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.); e che nella stessa memoria richiamata dal ricorrente a sostegno del proprio assunto (dep. il 10 febbraio 1995) la medesima parte ha indicato tra le domande proposte nel ricorso introduttivo (oltre a quelle su cui non si controverte nella presente sede di legittimità) quella, specificata al punto «d», volta a «risarcigli il danno alla salute provocato per avergli causato malattia nervosa e infarto al miocardio con esiti permanenti» (pag. 1), domanda risarcitoria correttamente ritenuta dal Tribunale come avente a oggetto il solo danno biologico.

Danno biologico che, infatti, com'è costante insegnamento giurisprudenziale, è il danno alla salute immanente alla lesione dell'integrità biopsichica della persona, distinto da ogni danno di natura patrimoniale così come dal danno morale ex art. 185 c.p. e comprensivo anche del danno alla vita di relazione (cfr., tra le molte, Cass. 11 maggio 1999 n. 4653; 28 aprile 1999 n. 4231; 13 settembre 1996 n. 8260; 16 aprile 1996 n. 3565).

Le ulteriori e conclusive indicazioni della medesima memoria (10/2/1995) dove si prospetta pure un danno (patrimoniale e quindi distinto da quello biologico o morale) alla capacità lavorativa specifica e si deduce altresì che «a ciò va aggiunto il danno morale», comportano la introduzione, come è evidente, di ulteriori domande, nuove e inammissibili perché svolte tardivamente in relazione alle preclusioni poste dal rito del lavoro (cfr. artt. 414 e segg. c.p.c) e che, come tali, correttamente non sono state prese in esame dal Tribunale, il quale ne ha pure rilevato la tardività in relazione alla loro proposizione nell'atto d'appello.

2.             Con il secondo motivo il ricorrente, denunziando «violazione dell'art. 2043 c.c. e 40 e 41 c.p. e dei principi di diritto in ordine alla irrilevanza delle concause naturali antecedenti (o degli "antecedenti condizionanti") nella riferibilità dell'illecito e nella misura del risarcimento», censura la sentenza impugnata per avere, in adesione alla consulenza tecnica di secondo grado, escluso che il danno provocato dalla patologia cardiaca fosse imputabile in ragione dei 100 per cento al comportamento illegittimo della società Ansaldo, avendo riconosciuto quale concausa o antecedente condizionante una «aterosclerosi coronarica» con efficacia causale per due terzi, e per avere in tal modo violato i principi per i quali, come pure affermato nella giurisprudenza di questa Corte, una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una causa naturale non imputabile.  Assume quindi, in base a tali principi, doversi addebitare nella intera misura alla società Ansaldo la responsabilità del danno biologico (e quindi in misura tripla rispetto a quella riconosciuta nella specie del Tribunale) provocato dalla patologia cardiaca.

Questo motivo è fondato e va accolto.

Deve invero anche nel caso di specie, sul punto della rilevanza causale del comportamento illecito accertato dal giudice del merito a carico della società datrice di lavoro nella determinazione del danno cardiaco riscontrato sul Rasile, essere osservato il criterio, affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di concause dell'evento dannoso (alcune naturali e altre costituite da comportamento umano imputabile), secondo cui «alla stregua dei principi di cui agli artt.. 40 e 41 c.p., regolanti il rapporto di causalità in tema di responsabilità extracontrattuale, solo nel caso in cui le condizioni ambientali e i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell'uomo, si palesano sufficienti a determinare l'evento di danno indipendentemente dell'apporto del comportamento umano imputabile, l'autore dell'azione o della omissione resta sollevato per intero da ogni responsabilità dell'evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale, senza 'che in caso contrario la sua piena responsabilità per tutte le conseguenze scaturenti secondo normalità dall'evento medesimo possa subire una semplice riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile» (Cass.  1° febbraio 1991 n. 981; 27 maggio 1995 n. 5924).

Orbene, nel caso di specie il Tribunale non ha dato applicazione a tali principi allorquando ha individuato, sulla scorta,delle risultanze della consulenza tecnica d'appello - come già sinteticamente riferito nella parte narrativa della presente sentenza -, quali cause concorrenti della insorgenza dell'infarto miocardico, sia lo stress psicologico di origine lavorativa imputabile a comportamento illecito del datore di lavoro, sia una aterosclerosi coronarica costituente causa di origine genetica e comunque organica - e quindi da ritenersi naturale -, distinguendo e quantificando il grado di incidenza eziologica riferibile a ciascuna di queste due concause e così limitando la responsabilità dei datore di lavoro al grado di incidenza causale ravvisato nel suo comportamento.

Così operando il Tribunale è in effetti incorso nella violazione di legge denunciato con il motivo in esame, dovendo appunto ritenersi che «una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile» (così cit.  Cass. n. 981/1991), e sul punto l'impugnata sentenza deve essere cassata.

3.          Con il terzo motivo il ricorrente, denunziando «vizio di motivazione in ordine alla decorrenza del risarcimento del danno alla salute», lamenta che il Tribunale, senza alcuna spiegazione, abbia fatto decorrere il risarcimento dal luglio 1987, laddove era pacifico che la malattia cardiaca si era manifestato con infarto acuto nel precedente mese di marzo, cui aveva fatto riferimento il pretore.

Questo motivo è privo di fondamento.

Infatti il Tribunale, contrariamente a quanto assunto in ricorso, ha motivato e fornito al riguardo adeguata spiegazione indicando il 1° luglio 1987 come la data, accertata dal consulente tecnico d'ufficio, di consolidamento dei postumi invalidanti (evidentemente sia dell'infarto miocardico che della malattia nervosa).

4.      In conclusione, il ricorso deve essere accolto nel secondo motivo, mentre il primo e il terzo motivo devono essere rigettati.  La sentenza dev'essere cassata nella parte oggetto del motivo accolto, e la causa essere rinviata ad altro giudice di pari grado, che si designa nel Tribunale di La Spezia (Sezione lavoro), il qua le procederà a nuovo esame del punto trattato nel secondo motivo di ricorso uniforinandosi ai principi di diritto sopra enunciati, e provvederà altresì sulle spese del presente giudizio di legittimità (ex art. 385 ult. co. c.p.c).

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo dei ricorso; rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa al Tribunale di La Spezia, il quale provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

(pubblicata in Guida al lavoro 2000, n.11, 22 con nota di Ricci)

 

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