SCENE DA ANNI '60 (la carica della polizia contro gli operai Fiat di Melfi)

Ma non erano scomparse le tute sporche di grasso o vernice, le file di facce stanche alla fine del turno di notte, le due ore in autobus per andare e tornare dal lavoro, le fasi di lavorazione di due minuti per prendere un pezzo dal cestello, azionare un meccanismo e ricominciare, 240 volte al giorno?

Il lavoro non era diventato tutto camici bianchi e schermi di computer, macchine fruscianti che da sole costruiscono altre macchine, una passeggiata saltuaria lungo le linee pervadere che tutto funzioni bene? Le persone al lavoro non erano diventate per l'azienda preziose "risorse umane", da formare e trattare con ogni riguardo al fine di farle sentire partecipi, ovvero responsabili, dell'intero processo produttivo?

A dedurre da quel che sta accadendo in questi giorni negli impianti Fiat di Melfi parrebbe proprio di no. Lo scenario di Melfi sembra uno spezzone di film sulle fabbriche e sui modi di lavorare degli anni '60. Ci si ritrova quasi tutto, di quell'epoca, comprese le manganellate dei poliziotti sulle spalle degli operai. C'è il lavoro durissimo, i bassi salari, l'organizzazione del lavoro fondata su tempi e metodi imposti da uffici imperscrutabili (sostituiti oggi da computer parimenti imperscrutabili), il controllo opprimente dell'apparato aziendale su ogni istante della giornata lavorativa. Perfino le comunicazioni dei provvedimenti disciplinari - 2500 solo nell'ultimo anno - sono scritte nel linguaggio di allora, un ibrido di lessico dell'esercito piemontese e di pignoleria da burocrazia zarista.

Continuando a proiettare quel vecchio film, la Fiat, con l'aiuto del governo, ha però ottenuto un risultato imprevisto, il ritorno della classe operaia, quanto meno di una delle sue frazioni storicamente più significative, quella dei metalmeccanici. Scriveva Max Weber che una classe sociale si definisce come una comunità di destino. È quello che hanno capito benissimo gli operai di Melfi. E quel destino che li accomuna non gli piace per niente. È un destino che promette soltanto fatica, lavoro usurante, difficoltà economiche, scarsa o nulla crescita professionale, rischio di emarginazione dal mercato del lavoro appena si superano i quaranta. Dieci anni fa i loro padri o fratelli o sorelle maggiori non avevano protestato più che tanto, di fronte alla fabbrica che portava posti di lavoro in aree ancora contrassegnate dal sottosviluppo. Le nuove leve non gradiscono, e lo fanno sapere, muovendosi insieme, solidalmente, cortocircuitando le rappresentanze sindacali: come se appartenessero - fatto inaudito secondo la modernità vista da destra – ad un'unica classe sociale.

Se i futuri sviluppi confermassero che il ritorno dei metalmeccanici come classe sociale non è un fatto contingente, la Fiat ha un problema, ed i sindacati ne hanno un altro. Se vuole continuare a produrre mantenendo entro limiti tollerabili il livello di conflittualità in azienda - particolarmente rischioso a causa dell'eccessiva interdipendenza tra produzione reticolare dei componenti e produ-zione finale concentrata che ha realizzato - deve forse innovare radicalmente il modello di relazioni industriali che applica nei suoi stabilimenti da oltre mezzo secolo. Al precetto base «voi lavorate, noi pensiamo», dovrebbe sostituire l'idea che più sono quelli che pensano, meglio va la produzione in ogni suo segmento. Dovrebbe aprirsi all'idea che trattare con i sindacati può portare a forme di organizzazione del lavoro non solo più umane, ma più utili a tutta la filiera produttiva. Dovrebbe provare a retribuire meglio i lavoratori, dividendo con essi i benefici degli aumenti di produttività. Soprattutto dovrebbe rendersi conto che il modello militar-burocratico di organizzazione aziendale è oggi perdente perché cinesi e indiani, russi e brasiliani lo sanno ormai applicare con ancora maggiore durezza, pagando salari ancora inferiori. Per affrontare la loro concorrenza bisogna puntare a mobilitare l'intelligenza e le capacità professionali dei lavoratori, piuttosto che accentuare lo sfruttamento della loro forza lavoro.

Per i sindacati, ovviamente, il problema è quello della rappresentanza. Si è discusso a non finire, e con ragione, del fatto che il frazionamento delle imprese, la conseguente dispersione sul territorio delle forze di lavoro, la proliferazione delle tipologie contrattuali rendono sempre più difficoltoso il compito di rappresentare sul piano sindacale gli interessi reali e ideali dei lavoratori. Il caso Melfì dimostra che vi sono tuttora larghi strati di lavoratori che non sono dispersi nello spazio, sono inquadrati da contratti simili e debbono far fronte a condizioni di lavoro analoghe. Hanno insomma un destino comune, e comuni speranze di migliorarle. Dinanzi a questo fatto l'unità sindacale, almeno su alcuni punti essenziali, diventa un dovere non meno che una necessità. Nell'ultimo anno le tre confederazioni hanno fatto passi importanti in tale direzione. Bisognerebbe trovare un percorso - accidentato quanto si vuole, costellato di compromessi e dispute aspre quanto occorre - affinché anche le federazioni dei meccanici procedano nello stesso senso. Con il maggior potere contrattuale che così otterrebbero potrebbero contribuire a farci finalménte vedere un film sull'industria moderno, in luogo di uno degli anni '60, con un diverso modo di lavorare in fabbrica, e senza le scene della polizia che carica i dimostranti come ai tempi di Scelba.  

(articolo su “ la repubblica” del 27 aprile 2004, pp.1 e 18)

Luciano Gallino

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