L'autunno del mercato del lavoro

 

Un'analisi a mente fredda del Protocollo del 23 luglio 2007 governo-parti sociali. Che va in una direzione molto diversa da ciò che si diceva nel programma dell'Unione e confema che ci si appella alle direttive comunitarie solo quando parlano di doveri e non quando sanciscono diritti

 

di Massimo Roccella (Ordinario di diritto del lavoro nell'Un. di Torino)

 

Con la ripresa autunnale tornano d’attualità le questioni del lavoro. Conviene, sotto questo aspetto, tornare a esaminare in termini più articolati i contenuti del Protocollo del 23 luglio 2007 in materia di mercato del lavoro. E l’analisi punto per punto in casi del genere è sicuramente più utile di qualsiasi giro di parole.

 

1. Legge Biagi. Da quando il governo Prodi è in carica si è ascoltato il ministro del Lavoro insistentemente ripetere la frase “abrogheremo le forme di lavoro più precarizzanti, job on call e staff leasing”. Ebbene, cosa è accaduto? Il bersaglio, benché apparentemente a portata di mano, non è stato centrato. Il Protocollo infatti annuncia la cancellazione del lavoro intermittente (job on call), ma per quanto riguarda lo staff leasing, di fronte alla levata di scudi di Confindustria, la questione è stata demandata ad un ulteriore approfondimento fra le parti. Sfortunatamente, è noto a tutti che sul punto non c’è davvero nulla da approfondire. Job on call e staff leasing costituiscono istituti assolutamente ignorati dalle imprese: di talché la loro abrogazione aveva (avrebbe) portata meramente simbolica. Evidentemente la Confindustria ai simboli (all’ideologia) della precarietà è molto sensibile: e il governo non è riuscito a farle cambiare idea. Passi.

Sembra però, a questo punto, davvero eccessiva la pretesa di invitare i sindacati ad un “tavolo di confronto” per discutere della cancellazione dello staff leasing. Un confronto del genere, invero, si configura inevitabilmente come una perdita di tempo, come ogni discussione priva di sostanza reale: dal momento che tutti, ma proprio tutti, sanno che nella legge Biagi è stato ridisciplinato un istituto - l’appalto di servizi -  che assolve alla stessa funzione economica dello staff leasing, ma è molto più conveniente per le imprese e, proprio per questo, da esse ampiamente usato. Non a caso il programma dell’Unione contiene un impegno ad intervenire sull’intera materia delle esternalizzazioni (appalto di servizi e trasferimento d’azienda) con l’obiettivo di ripristinare equità e legalità nel mercato del lavoro.

2. Contratti a termine. Il programma dell’Unione prevede non solo un superamento della legge Biagi (che invece, allo stato, è destinata a restare tale e quale nei suoi tratti portanti), ma anche del decreto legislativo 368/2001 sui contratti di lavoro a termine. La disciplina attuale, infatti, non solo costituisce un veicolo di precarizzazione del mercato del lavoro, ma si pone in patente contrasto con la direttiva comunitaria del 1999: come da anni sostiene la migliore opinione giuslavoristica. Il contrasto, soprattutto, è particolarmente evidente in materia di assunzioni successive a termine: una prassi fraudolenta, che il diritto comunitario avversa, mentre la normativa italiana (varata dal governo Berlusconi) consente senza porvi alcuna seria limitazione. Che cosa accadrebbe adesso, ove mai i contenuti del Protocollo diventassero norma di legge? Accadrebbe che, attraverso successivi rinnovi, un lavoratore potrebbe essere assunto a termine dallo stesso datore di lavoro per ben 36 mesi (36 mesi, proprio così: e come si fa a definire di carattere temporaneo un’occasione di lavoro di tale durata?); dopo di che si potrebbe procedere ancora ad ulteriori assunzioni a termine (in numero, a quanto pare, indefinito), con la sola accortezza di fare apporre ai nuovi contratti il timbro sacramentale dell’ispettore del lavoro. Nell’intervallo fra un contratto a termine e l’altro, naturalmente, sarebbe sempre possibile essere impiegati come interinali o magari con un contrattino a progetto (dilatando la precarietà senza limiti predeterminabili).

Una disciplina del genere varrebbe a sanare il contrasto fra ordinamento italiano e diritto comunitario?  Vale la pena di ricordare che, con una recente sentenza (del luglio 2006), la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha chiarito in termini inequivocabili che le assunzioni successive a termine consentite dalla direttiva devono essere presidiate da ragioni “precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in tale particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi”; ed ha aggiunto - ed è quel che più rileva per giudicare dei contenuti del Protocollo - che “una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non soddisferebbe i requisiti” voluti dal diritto comunitario: essendo del tutto evidente che, se allo scopo non può essere sufficiente una norma di legge o di regolamento, neppure si potrebbe pensare di aggirare l’ostacolo per interposto ispettore del lavoro.

Certo è che qualche volta si ha l’impressione che a Roma dell’Europa si conoscano soltanto i vincoli di Maastricht, tutto il resto (che non è poco: si tratta dell’Europa dei diritti) apparendo evidentemente un prodotto di sott’ordine, da cui si può tranquillamente prescindere. Se così non fosse, del resto, qualcuno si sarebbe preoccupato di ribattere alla signora Bonino, che nel bel mezzo del negoziato sulle pensioni urlava a squarciagola che l’Europa avrebbe trascinato in giudizio davanti alla Corte di Giustizia il nostro paese per aver omesso di parificare l’età pensionabile delle donne a quella degli uomini, che il diritto comunitario non richiede affatto tale parificazione: la pertinente direttiva comunitaria (direttiva 79/7 del 19 dicembre 1978: art. 7.1. lett.a), al contrario, lascia totalmente liberi gli Stati membri di fissare età di pensionamento differenziate in ragione del sesso. Non è un problema, per il governo dell’Unione, che il ministro delle Politiche comunitarie mostri di ignorare così palesemente il diritto comunitario, permettendosi, anzi, di esprimere a mezzo stampa opinioni del tutto destituite di fondamento?

3. Orario di lavoro. Dopo le “riforme” dell’era Berlusconi nel nostro paese non esiste più un limite in senso proprio dell’orario di lavoro giornaliero: può accadere, in virtù di un complicato marchingegno giuridico, che si lavori anche per 13 ore al giorno, nell’ambito di settimane di 77 ore lavorative, senza infrangere la legge. Si poteva supporre che il governo dell’Unione volesse ripristinare un elemento minimo di civiltà del lavoro, com’è appunto il limite di durata massima della giornata lavorativa. E invece no: al contrario si è pensato di incentivare il lavoro straordinario intervenendo sulla relativa contribuzione per abbassarne il costo (come se questo fosse eccessivo e non risultasse invece già adesso, come qualsiasi negoziatore sindacale ben sa, inferiore al costo del lavoro ordinario). Tutto si può fare, naturalmente, nel contesto di un Protocollo intitolato alla competitività. Ma, ammesso ed assolutamente non concesso che la riduzione del costo del lavoro rappresenti la via maestra per rilanciare la competitività, va osservato che tutte le indagini internazionali confermano che due fattori incidono in maniera decisiva sulla sicurezza dei lavoratori: il lavoro precario e gli orari lunghi. Gli incidenti sul lavoro, in altre parole, si addensano soprattutto fra i lavoratori atipici (assunti a termine ed interinali: non a caso la Comunità europea ha adottato una direttiva specifica al riguardo) e quelli costretti a regimi orari particolarmente usuranti (peraltro dagli stessi lavoratori ben accetti, in particolare quando, come da noi, le retribuzioni sono fra le più basse d’Europa e la possibilità di mettere in tasca qualche centesimo di euro in più non può essere respinta a cuor leggero: il che, ovviamente, non giustifica la proposta del governo, rendendola semmai per questo aspetto - duole doverlo constatare - particolarmente cinica).

L’alleggerimento contributivo sul lavoro straordinario è stato da più parti criticato per le sue negative ricadute occupazionali. Seppure queste non dovessero verificarsi, come altri sostengono, la misura resterebbe censurabile per le ragioni appena richiamate. La direttiva europea in materia di orario di lavoro, del resto, risulta fondata proprio sul nesso fra regimi di orario e tutela della salute; una misura come quella prefigurata nel Protocollo, viceversa, rischierebbe di incrinare la coerenza dell’iniziativa politica che sulle questioni della protezione della salute dei lavoratori il governo dell’Unione sta meritoriamente sviluppando sin dal momento del suo insediamento (da ultimo con l’approvazione del testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro).

In tema di orario di lavoro, d’altra parte, non convincono neppure gli incentivi promessi al part-time delle donne. Anche in questo caso, in effetti, è noto a tutti che le donne vorrebbero spesso lavorare part-time, ma per farlo avrebbero bisogno non solo di incentivi, quanto di regimi di orario rigidi (o flessibili a discrezione delle donne medesime, ivi inclusa in particolare la possibilità di trasformare, anche in via temporanea, un rapporto full time in lavoro a tempo parziale per far fronte all’intreccio, così spesso inestricabile, fra lavoro ed esigenze personali); mentre la controriforma varata attraverso la legge Biagi (che, a quanto pare, non si intende modificare neppure per questo aspetto) consente l’esatto contrario: regimi di orario flessibili a discrezione delle imprese, che rendono impossibile, o comunque estremamente difficile e logorante per le interessate, conciliare attività lavorativa e vita familiare. Se fosse possibile, sarebbe gradito in futuro evitare di ascoltare litanie sul basso tasso di attività delle donne nel nostro paese.

4. Ammortizzatori sociali. Il Protocollo evoca per l’ennesima volta un progetto di riforma globale destinato ad essere attuato in futuro: in concreto, e per il momento, prevedendosi soltanto un limitato intervento sull’indennità di disoccupazione ordinaria. L’elevazione nell’entità e nella durata dell’indennità di disoccupazione ed il riconoscimento della copertura previdenziale figurativa per l’intero periodo di godimento dell’indennità rappresentano un fatto positivo: v’è da augurarsi che il Parlamento approvi. E’ un fatto positivo di per sé, naturalmente, non se la riforma degli ammortizzatori sociali dovesse esaurirsi con questo provvedimento. Subito dopo il 23 luglio Romano Prodi ha parlato di sistema di ammortizzatori sociali finalmente di tipo europeo. Un’affermazione che si può accogliere, con molta indulgenza, come una sorta di auto-incoraggiamento a fare di più e di meglio: ancorché nel merito resti non condivisibile. Intanto perché il premier certamente non ignora che non esiste un modello europeo di ammortizzatori sociali; esistono tanti modelli diversi, più o meno protettivi. In secondo luogo perché fra il modello danese, tanto esaltato quanto si stava all’opposizione (quattro anni di indennità di disoccupazione al 90% dell’ultima retribuzione) e quello italiano vigente (e prossimo futuro) ci sarà pure una via di mezzo. Per percorrerla, peraltro, sarebbero necessarie risorse finanziarie considerevoli: nel caso nostro le scarse risorse disponibili sono state destinate ad un’operazione di assai dubbia opportunità economico-sociale (l’abbattimento del cuneo fiscale per le imprese), di cui peraltro nel programma dell’Unione non si trova alcuna traccia; e dunque è rimasto ben poco per la riforma degli ammortizzatori, che invece rappresenta il capitolo cruciale del programma di riforma del welfare dell’esecutivo guidato da Romano Prodi.

Aspettando che maturino tempi e condizioni finanziarie per la riforma organica, sarebbe almeno consigliabile astenersi dall’evocare a sostegno l’Europa. Se davvero bastasse un modesto incremento dell’importo dell’indennità di disoccupazione (mediamente del 10%, nel massimo dal 50 al 60% dell’ultima retribuzione per i primi sei mesi) e della durata della sua erogazione (di uno o due mesi, a seconda dei casi, con tetto massimo di otto mesi, elevato a dodici per gli ultracinquantenni) per parlare di sistema di ammortizzatori sociali finalmente ‘europeo’, ragionando a fil di logica se ne dovrebbe infatti concludere che il governo Berlusconi, che già aveva portato l’importo massimo al 50% dell’ultima retribuzione per i primi sei mesi e la durata massima a sette mesi (dieci per gli ultracinquantenni), aveva realizzato una riforma quasi-europea.

E’ evidente che, quando le risorse scarseggiano, si fa ciò che è possibile: proprio per questo sarebbe opportuno indirizzarle al meglio (anche la decontribuzione degli straordinari ha un costo per la finanza pubblica) e comunque non illudersi, né illudere, sull’impatto sociale delle misure prefigurate, tanto più quando esse siano obiettivamente di contenuto modesto.

La stessa mancanza di equilibrio che si è registrata a proposito della questione degli ammortizzatori sociali, ad esempio, va segnalata anche a proposito delle misure relative alle “pensioni basse”. Va da sé che anche l’insieme di tali misure è positivo e merita di essere approvato; ma è sbagliato sottolineare più di tanto che ai pensionati saranno erogati 327 euro in unica soluzione nel 2007, trascurando che a regime l’incremento per le pensioni minime oscillerà, mediamente, attorno ai 29 euro al mese. Misura senz’altro positiva, va ribadito, e tale da comportare (unitamente alle altre del capitolo pensionistico) l’impiego di risorse significative: ma se si pensa che con erogazioni monetarie di simile importo si possa incidere in maniera davvero significativa sulle condizioni di vita dei singoli interessati e sul clima sociale del paese, ciò vuol dire che il distacco fra chi frequenta le stanze del palazzo e chi è costretto a misurarsi con le asprezze della vita di tutti i giorni si è fatto davvero grande.

5. Concertazione. Qui davvero c’è pochissimo da dire: sulle misure in tema di mercato del lavoro la concertazione semplicemente non c’è stata. Diciamo meglio: ci sarà anche stata con alcune parti sociali, ma trascurando alquanto la CGIL, che dopo tutto rappresenta una parte sociale non propriamente irrilevante. Spiace dover intravedere nella vicenda del Protocollo del 23 luglio  una singolare continuità di stile e di comportamenti con episodi della passata legislatura. Allora però si trattava di un governo di destra, per il quale quei comportamenti, ivi compreso il tentativo di mettere all’angolo la CGIL, erano cosa ovvia.

D’altra parte è ben noto che in un certo milieu intellettuale, che dice di collocarsi nell’area del centro-sinistra (tanto centro e nessuna sinistra), si teorizza la necessità di porre fine a quell’esperienza, dal momento che le negoziazioni fra governo e sindacati non rappresenterebbero un arricchimento della democrazia, ma soltanto un inutile ostacolo ad una più efficiente governabilità. Queste raffinate formulazioni, evidentemente, negli ambienti governativi hanno più peso di quanto si fosse disposti ad accreditargliene.

6. Buona politica. Sotto un profilo più strettamente politico, non si può non ribadire che il legame fra i contenuti del Protocollo in materia di mercato del lavoro e il programma dell’Unione è così vago da rendere inconsistente il vincolo di parentela. Chi avesse dubbi in proposito, del resto, può sempre cimentarsi nell’esercizio di mettere a confronto i due testi (del Protocollo e del programma) per farsi un’opinione propria. Si potrebbe ricordare che nell’ultimo periodo ci sono state impartite, con ritmo incalzante, infervorate lezioni sulla buona politica. Resta un punto interrogativo: è possibile includere fra i criteri della buona politica anche quello di un minimo di coerenza (un minimo, per carità) fra le cose che si dicono quando si sta all’opposizione e si scrivono nei programmi elettorali e quelle che poi si fanno quando si conquista il governo del paese? O non sarà forse che, quando questo criterio di coerenza minima viene meno, si apre la strada alla rassegnazione, all’apatia e, alla  fine, al ritorno in sella di quel populismo reazionario di cui ci illudevamo di esserci liberati?

In politica, come nella vita personale, opera un meccanismo psicologico, che tende a rimuovere i fatti sgradevoli o dolorosi, quanto più essi si allontanano nel tempo. Non è inutile, dunque, ricordare che il governo dell’Unione ha rappresentato, e rappresenta tuttora, una sorta di bene pubblico, un argine contro una delle destre peggiori d’Europa. Non sembra, però, che tutte le componenti dell’Unione siano mosse dagli stessi sentimenti al riguardo. Altrimenti non si smarrirebbe così facilmente la consapevolezza che anche le dighe più solide possono cedere, quando ci si esercita quotidianamente a picconarne le fondamenta: mostrando, ad esempio, di considerare il Programma dell’Unione come una sorta di libro dei sogni da riporre in un cassetto senza fondo.

(06/09/2007)

(fonte: http://www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=866)

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