Autonomia del giudice civile nel riscontro del reato per il riconoscimento del danno morale
    Sommario:
1.   L’abbandono legislativo del principio di pregiudizialità dell’azione penale sulla civile
2.   Il principio dell’autonomia (o  separazione) dei giudizi nel nuovo codice di procedura penale: conferme dottrinali ed applicazioni giurisprudenziali conformi
3.   L’autonomia del giudice del lavoro nel riscontro del reato, in fattispecie di molestie sessuali e di pregiudizio alla salute psicofisica, ai fini del risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.
      
 
1.      L’abbandono legislativo del principio di pregiudizialità dell’ azione penale sulla civile
Si pone, spesso, nella pratica  - in caso di ricorso giudiziale  del lavoratore in sede civile per il risarcimento del danno allo stato di salute (a seguito di pratiche di mobbing, demansionamento, vessazioni e/o molestie sessuali, trasferimenti e licenziamenti ingiuriosi, e simili) – il problema se  il giudice del lavoro possa liquidare, in aggiunta al danno biologico eventualmente riscontrato ed equitativamente determinato ex art. 1226 c.c., anche il “danno morale” (costituito dalle sofferenze psichiche e dai patemi d’animo sofferti, di solito, transitoriamente in conseguenza degli indebiti trattamenti ricevuti), danno che, com’è noto, presuppone (allo stato dell’attuale legislazione) per la sua risarcibilità il riscontro e la ricorrenza di un reato ( secondo l’art. 2059 c.c. e 185 c.p.) ed il cui importo non è indifferente  in quanto mediamente liquidato giudizialmente in via equitativa in misura parametrica oscillante tra il 40-50% dell’importo del danno biologico.
Per essere più chiari si pone (e va risolto) il quesito se sussista in capo al giudice del lavoro adito un’autonoma competenza nell’accertamento del reato – ai soli fini del risarcimento del danno morale – ovvero se allo stesso (ed indirettamente al lavoratore) sia preclusa la facoltà di tale  accertamento, da riconoscere esclusivamente  di pertinenza del giudice penale e, pertanto, essere conseguente ad un’azione del lavoratore in sede penale o al rinvio d’ufficio da parte del giudice civile al giudice penale, con  correlativa sospensione del giudizio civile.
Va subito detto che una risposta negativa al quesito sopra formulato era d’obbligo nell’assetto normativo strutturato dal vecchio codice di procedura civile e penale, mentre una risposta positiva s’impone nell’attuale nuovo assetto, cioè a dire dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447) e delle  ed innovazioni al codice di procedura civile.
A tali  nuovi eventi normativi si deve, infatti, l’abbandono del principio di unità della giurisdizione (con prevalenza del giudicato penale sul civile e pregiudizialità dell’azione penale rispetto alla civile) per la scelta, a favore del diritto di difesa anche a costo di pervenire a giudicati contrastanti, del principio dell’autonomia (o separazione) dei giudizi.
Va comunque detto, per verità storica,  che già prima  della riforma dei codici di procedura (civile e penale) – che ha sancito il  venir meno del principio di pregiudizialità e di preminenza dell'azione penale sulla civile – si sosteneva che "per applicare la disciplina  del risarcimento del danno da reato, ex art. 2947, 3° comma, c.c., non é necessario che sia stato iniziato un procedimento penale, ma è sufficiente che il caso sia considerato astrattamente come reato” (1), spettando in tal caso "al giudice civile di accertare 'incidenter tantum' che nella specie sia configurabile un reato"(2)  In particolare Corte cost. n.102/1981 (seguita da Corte Cost. n. 118/1986 (3) è pervenuta  – pur in regime di vigenza del principio (oramai caduto) di pregiudizialità e preminenza dell'azione penale su quella civile -  alla "dichiarazione di illegittimità del 5° comma dell'art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965, nella parte in cui non consente...che l'accertamento del fatto di reato possa essere compiuto dal giudice civile… anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione",  asserendo che, se nel suddetto regime (si ripete, oramai non più vigente) "si giustifica che l'azione civile non sia proponibile in pendenza del processo penale, non trova invece alcuna razionale giustificazione che sia anche…limitata ad ipotesi tassative la possibilità di chiedere al giudice civile, ai fini dell'azione di sua competenza, l'accertamento dell'illecito…".
Le chiare insofferenze dei giudici della Consulta, sopra evidenziate, sono sfociate - dopo la caduta del principio di pregiudizialità e preminenza dell'azione penale sulla civile -  in un pacifico e consolidato orientamento  giurisprudenziale liberale in ordine alla piena sussistenza di una effettiva autonomia del giudice civile nell'accertamento del reato. Si veda per tutte Cass. 6.2.1990, n. 817 (4) secondo cui: "Il giudice civile può liberamente accertare la eventuale sussistenza  della responsabilità penale del datore di lavoro per il danno biologico subito dal lavoratore…a condizione però che tale accertamento avvenga nel rigoroso rispetto delle norme che disciplinano l'acquisizione delle prove nel giudizio penale, dovendo in ogni caso escludersi l'utilizzazione di presunzioni legali…". In senso conforme, Pret. Monza 15.12.1992 (5) secondo cui: "ove, in relazione alla produzione di un infortunio sul lavoro, sia accertata – anche in sede civile – la responsabilità penale dei destinatari degli obblighi posti dall'art. 2087 c.c. – sussiste il diritto in capo al lavoratore al risarcimento…del danno biologico…nonché del danno morale". Ancora, in senso conforme  all'autonomia del giudice civile nel riscontro del reato, Corte cost. 18.7.1991, n. 356 (6) secondo cui: " è noto che, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, l'accertamento che l'infortunio o la malattia professionale sono stati determinati da negligenza o da inosservanza di disposizioni di legge e quindi dei doveri posti dallo stesso art. 2087 c.c., implica l'affermazione dell'esistenza nel fatto degli estremi costitutivi del reato di lesioni colpose. Ove…il giudice (civile, n.d.r.) non assecondando detto indirizzo giurisprudenziale…abbia escluso di poter identificare un reato, questa Corte non può che prenderne atto…sì che in difetto di sentenza di condanna penale ed avendo comunque escluso il giudice di merito l'esistenza di un fatto reato… la questione sollevata relativamente alla legittimità costituzionale dell'art. 10 d.p.r. n. 1124/1965 è rilevante".
 
2.     Il principio dell’autonomia (o  separazione) dei giudizi nel nuovo codice di procedura penale: conferme dottrinali ed applicazioni giurisprudenziali conformi
Il venir meno della pregiudizialità  dell'azione penale sulla civile – e conseguentemente della "sospensione necessaria" di quest'ultima rispetto alla prima – è stato riaffermato più di recente da Cass. 7 maggio 1997 n. 3992 e da Cass. 27 febbraio 1996, n. 1501 (7) secondo le quali: "Poiché nel nuovo codice di procedura penale non è più riprodotta la disposizione di cui all'art. 3, 2° comma, del codice abrogato, si deve ritenere che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio della unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo stato dal legislatore instaurato il sistema della pressoché completa autonomia e separazione fra i due giudizi, nel senso che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art. 75, 3° comma, del nuovo c.p.p., il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile dedotti nel giudizio (nella specie, la Cassazione ha affermato che, in caso di patteggiamento della pena previsto dall'art. 444 c.p.p., non avendo la relativa sentenza efficacia nel giudizio civile, il giudice civile, adito dal lavoratore per ottenere il risarcimento del c.d. danno differenziale, ha il potere di procedere ad un autonomo accertamento dei fatti al fine di stabilire la responsabilità o non del datore di lavoro)".
E la successiva sentenza della Cassazione del 13 maggio 1997, n. 4179 (8) – pur effettuando talune puntualizzazioni rispetto all'orientamento delle due precitate sentenze anteriori, puntualizzazioni irrilevanti per la fattispecie afferente alla richiesta di risarcimento del danno morale – ha anch'essa sostenuto:" Con riguardo alla sospensione del giudizio civile ex art. 295 c.p.c. (come novellato dall'art. 35 l. n. 353 del 1990) in pendenza di procedimento penale …occorre distinguere l'ipotesi del giudizio civile avente ad oggetto l'azione riparatoria ed il risarcimento del danno , che è disciplinata dall'art. 75 c.p.p. ed è tendenzialmente dominata dal principio dell'autonomia delle giurisdizioni e quindi dal divieto di sospensione del processo civile  se non nelle  due ipotesi previste dal 3° comma della citata disposizione (se l'azione è stata proposta in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado) e l'ipotesi di ogni altro giudizio civile, che invece è retta (ex art. 211 norme att., coord. e trans., c.p.p.) dal principio della prevenzione della possibile contraddittorietà di giudicato, sicché la sospensione (necessaria) del giudizio pregiudicato è in tal caso condizionata alla ricorrenza della duplice condizione dell'avvenuto esercizio dell'azione penale e della rilevanza e dell'opponibilità del giudicato penale formatosi a seguito di giudizio dibattimentale nei limiti previsti dall'art. 654 c.p.p.".
In buona sostanza sussiste uniformità interpretativa in ordine all'autonomia  - anche di scelta da parte del lavoratore ricorrente – fra azione civile risarcitoria di danno per reato penale e azione penale di accertamento, quando l'azione civile attenga ad ipotesi di "restituzione o di risarcimento danno". L'autonomia tra i due tipi di azione trova il suo fondamento di diritto positivo nell'art. 75, 2° e 3° comma, c.p.p. "Questa norma al 2° comma sancisce il principio della separazione del giudizio civile per il risarcimento del danno e per le restituzioni ed il giudizio penale, disponendo che 'l'azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile'. Il legislatore penale, dunque ha accolto il principio dell'autonomia del giudizio civile dal giudizio penale ed ha abbandonato così quello della prevalenza della giurisdizione penale" (9). In senso conforme anche Giovagnoli (10) per il quale: "Secondo la sentenza citata (n. 4179/1997, n.d.r.) il codice di procedura penale del 1988 avrebbe introdotto la regola del 'simultaneus processus' (cioè concomitante ed autonomo, n.d.r.) solo con riferimento all'azione civile per danni da reato. In questa materia la previsione dell'art. 75 c.p.p. non lascia molti dubbi all'interprete: spetta al danneggiato la facoltà di scelta in ordine alla sede in cui esercitare l'azione riparatoria, e qualora egli ritenga di adire il giudice civile, il relativo giudizio proseguirà senza che  al danneggiato possa opporsi l'eventuale sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice penale. La regola  dell'autonoma prosecuzione dei giudizi qui incontra due sole eccezioni, previste dall'art. 75, 3° comma, c.p.p., in forza del quale  il processo civile rimane sospeso nel caso in cui inizi dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo che sia stata  pronunciata  la sentenza penale di primo grado".
Nonostante il 'distinguo' operato da Cass. n. 4179/1997 (nei confronti del più condivisibile orientamento di Cass. n. 1501/'96 e Cass. n. 3992/'97)  - 'distinguo' che, si ripete non riguarda le azioni civili per restituzione o risarcimento danno, si afferma decisamente da parte della dottrina che dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (d.p.r. 22.9.1988, n. 447) che non riproduce più  una disposizione analoga al precedente art. 3, 2° e 4° comma, c.p.p. e  dopo che è stata rivista  la regolamentazione già contenuta nell'art. 24 c.p.p. del 1930 ed è stata adottata una nuova disciplina in ordine agli effetti del giudicato penale negli artt. 651,652 e 654 c.p.p. e dopo che l'art. 35 della l. 26 novembre 1990, n. 353 è intervenuto sull'art. 295 c.p.c. cancellando il rinvio all'art. 3 c.p.p. che era sopravvissuto all'abrogazione di questa norma, "il principio dell'autonomia delle giurisdizioni, lungi dall'essere stato affermato in via parziale e tendenziale, è stato sancito in via generale, come risulta anche dalla disciplina dettata in materia di questioni pregiudiziali (art. 2 e 3 c.p.p. del 1988), dove il legislatore ha optato per la indipendente prosecuzione dei giudizi…" (11).  Osserva confermativamente Corte cost. n. 182/1996 (12)  che "proprio la recente riforma della norma citata (art. 295 c.p.c.) nell'attenuare il nesso di pregiudizialità penale in consonanza  con l'autonomia voluta dal nuovo codice di procedura penale per le azioni civili restitutorie e risarcitorie,  ha espresso, più in generale, il disfavore nei confronti del fenomeno sospensivo in quanto tale".
Conviene recentissimamente sull’introduzione – a seguito degli artt. 651-654 del vigente codice di procedura penale e delle innovazioni al codice di procedura civile – del principio del c.d. “doppio binario” o della separazione ed autonomia dei giudizi penale e civile, Vallebona (13)  che come noi correttamente afferma: “ L’azione risarcitoria per il danno derivante da reato (art. 185, 2° co., c.p.) può essere esercitata, a scelta del (lavoratore) danneggiato, sia in sede civile oppure in sede penale mediante la costituzione di parte civile ex art 74 e ss. c.p.p…con esclusione di qualsiasi efficacia nei suoi confronti dell’eventuale giudicato penale assolutorio (art. 652, 1° co., c.p.p., secondo il quale la ‘sentenza penale irrevocabile di assoluzione…ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste…, nel giudizio civile…, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, 2° co., c.p.p.). Pertanto il lavoratore che si ritenga danneggiato da un reato del datore di lavoro – normalmente dal reato di  lesioni personali colpose, ex art. 590 c.p., per violazione delle norma dell’art. 2087 c.c., in tema di prevenzione e sicurezza e a tutela della personalità morale ovvero per violazione del divieto di demansionamento, ex art. 2103 c.c., del rispetto della normativa in tema di riposi, trasferimenti, controlli,  sanzioni disciplinari, licenziamenti ovvero dai reati ricollegabili alle molestie sessuali (rinvenibili usualmente negli artt.610, 621,660 c.p., n.d.r.) – ha una doppia chanche, poiché da un lato può invocare nel giudizio civile l’autorità dell’eventuale giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p. (anche quando non abbia partecipato al processo penale) e dall’altro lato, evitando di costituirsi parte civile, può tentare, anche in presenza di un giudicato penale di assoluzione, di far accertare dal giudice civile la colpevolezza del datore di lavoro (ex art. 75, 2° co., e 652, 2° co., c.p.p.). Questa seconda possibilità è garantita perfino in caso di avvenuta costituzione di parte civile, qualora l’assoluzione sia stata pronunciata ‘sulla base di una prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato dal reato non è stato posto in grado di partecipare (art. 404 c.p.p.)”. Il che rende – secondo Vallebona – “la tutela della posizione del danneggiato, fortissima”.
Prosegue ancora il predetto autore – quasi a ricapitolazione dei concetti innanzi esposti – asserendo che: “ La fondamentale disposizione dell’art. 185, 2° co., c.p., prevede che ‘ ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbano rispondere per il fatto di lui’. Questa azione risarcitoria, come si è visto, può essere esercitata innanzi al giudice civile secondo i principi generali oppure ‘ può essere esercitata nel processo penale’ (art. 74 c.p.p.) ‘mediante la costituzione di parte civile’(art. 76 c.p.p.). Nel caso in cui il danneggiato scelga di agire in sede civile e non intervenga un giudicato penale vincolante, è il giudice civile a dover accertare la sussistenza del reato, ovviamente al solo fine di decidere sulla domanda risarcitoria. In particolare, l’accertamento del reato è indispensabile per il risarcimento del danno morale soggettivo (art. 2059 c.c.; art. 185, 2° co., c.p.), altrimenti non dovuto”.
 
3.     L’autonomia del giudice del lavoro nel riscontro del reato, in fattispecie di molestie sessuali e di pregiudizio alla salute psicofisica, ai fini del risarcimento del danno morale ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.
Ancora  conferme sulla pacifica sussistenza di una autonoma facoltà del giudice civile di  riscontro del reato (ai fini della risarcibilità del danno in sede civile), provengono da tutte le sentenze civili che hanno deciso, in presenza di "molestie sessuali sul luogo di lavoro", la spettanza -  in capo alle lavoratrici vittime - del risarcimento del danno biologico e separatamente (in ragione del requisito delittuoso ex art. 2059 c.c.) del risarcimento del danno morale. In tal senso si citano, Pret. Trento 22.2.1993 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 610 c.p. e/o di quello ex art. 56 e 521 c.p. (14) ; Pret. Milano  14.8.1991 (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 521 c.p. o ex art. 56-519 c.p. (15), confermata da Trib. Milano 19.6.1993 (16); Trib. Milano 21.4.1998  (riscontro da parte del pretore del lavoro del reato ex art. 660 c.p., (17). Incisiva, relativamente all'affermazione di tale autonomia del giudice civile nel riscontro del reato penale, la già citata Pret. Milano  14.8.1991, la quale ha rivendicato tale autonomia in concorrenza di un'azione penale conclusasi con l'archiviazione. Ha, al riguardo, asserito il Pretore: "spetta inoltre (cioè addizionalmente al risarcimento del danno biologico, n.d.r.) alla Neposteri il risarcimento del danno morale, dal momento che la condotta messa in atto nei suoi confronti dall'Azienda, oltre che un inadempimento contrattuale, integra anche l'ipotesi delittuosa (ed, in particolare, il reato p. e p. dall'art. 521 c.p., se non già quello p.e p. dagli artt. 56-519 c.p.). Può incidentalmente osservarsi che tale configurazione giuridica dei fatti compiuti dall'Azzali in danno della Neposteri mal si concilia con il provvedimento di archiviazione, emesso dal giudice penale – a quanto risulta senza l'espletamento di alcuna attività istruttoria – e prodotto dalla difesa della ricorrente alla prima udienza. Ma tale discrepanza non può produrre alcun immediato effetto  sull'esito della presente causa, sia perché il giudice civile conserva pur sempre la sua autonomia e possibilità di valutare anche diversamente da quello penale i fatti delittuosi sottoposti al suo esame per la decisione sugli aspetti e conseguenze civili del fatto-reato; sia perché nel caso di specie la valutazione dei fatti di causa è giustificata da un'attività istruttoria, che è –invece – mancata in sede penale , sia perché – infine – il diverso andamento dei due procedimenti trova, ad avviso di questo pretore, una possibile spiegazione nel diverso e maggiore interesse manifestato dalla parte lesa a trovare soddisfazione in sede civile, piuttosto che penale, per i torti subiti ".
A favore della libertà per il giudice civile di procedere all'accertamento delle responsabilità penali datoriali a fini di risarcimento del danno morale, si è recentemente espresso anche Trib. Milano 12 dicembre 1998 (18) secondo cui: "Per il riconoscimento del danno morale non occorre un accertamento penale che il fatto costituisce reato e non occorre neppure che le parti che lo chiedono specifichino di volere un accertamento incidentale di tale tipo. E' sufficiente – secondo il noto principio che il giudice deve interpretare la domanda -  che sia chiaro che le parti assumono nel  fatto il carattere di reato al fine di ottenere il danno morale . E così è nella specie".
Conformemente si è espressa Cass. 20 aprile 1998, n. 4012 (19) attinente alla fattispecie di un lavoratore bancario colpito da grave malattia nervosa per essere rimasto coinvolto in tre rapine nel luogo di lavoro, successivamente licenziato per superamento del periodo di comporto per malattia o comunque per sopravvenuta inidoneità all’espletamento delle mansioni.
Tale decisione atteneva e perveniva  al riscontro di omissione da parte datoriale delle misure a tutela della salute rinvenibili nell’ampia norma tutoria dell’art. 2087 c.c. (nella specie costituite dalla presenza alla porta d’ingresso dell’agenzia bancaria della “vigilanza armata”, a fini di scoraggiamento della criminalità, in luogo della sola “doppia porta con metal detector” approntata dalla Banca).
Merita sottolineare come oltre al riconoscimento del danno biologico e del danno patrimoniale – conseguente alla grave malattia nervosa contratta dal ricorrente in conseguenza delle rapine subite dall’agenzia -  la predetta decisione della Cassazione,  confermando la decisione del Tribunale, ha riconosciuto al ricorrente anche il danno morale da reato. Al riguardo ha ritenuto infondata l’eccezione della difesa della Banca – secondo cui tale richiesta costituiva  un nuovo petitum avanzato in sede di appello – in quanto, come correttamente  ha rilevato la Corte di Cassazione, il ricorrente aveva fin dall’inizio richiesto nel ricorso “l’affermazione della responsabilità della Banca Popolare Pugliese per tutti i danni patrimoniali e morali derivanti dalla dedotta violazione dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c.”
Ha quindi concluso la Suprema Corte sul punto,  che “su tale indiscutibile presupposto si è conseguentemente determinato a condannare la stessa banca a risarcire i danni morali subiti dal lavoratore, osservando (correttamente e coerentemente con principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza, puntualmente richiamati nella decisione ora gravata) che non può escludersi ‘il rilievo anche penale della colpa per mancata adozione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c., colpa posta a fondamento della responsabilità civile riconosciuta in sentenza (v. Cass. pen. sez IV 8 marzo 1988, Corbetta; Cass. pen. sez. IV 13 gennaio 1989, Marocco)’. E da siffatta premessa, lo stesso giudice di appello è pervenuto all’esatta conclusione che le lesioni colpose costituiscono proprio quella fattispecie criminosa tipica, procedibile d’ufficio, (art. 590 c.p.), che giustifica il risarcimento dei danni morali (art. 2059 c.c. e 185 c.p.)”.
E la stessa Corte di Cassazione, nella successiva decisione n. 10405 del 20 ottobre 1998  (Pres. Sommella, Rel. Coletti, inedita a quanto consta) ha statuito, con innegabile chiarezza, che: “Ai fini del risarcimento del danno morale, il giudice civile ha il potere di accertare autonomamente se il fatto dannoso, dal quale trae origine la pretesa risarcitoria, integri gli estremi di un reato, nonostante non sia stata promossa l’azione penale nei confronti dell’autore materiale di esso, ovvero il procedimento penale sia stato definito con una declaratoria di estinzione del reato ovvero sia stato emesso un provvedimento di archiviazione della notizia di reato o di proscioglimento istruttorio”.
Nello stesso senso più di recente, Cass. 6 novembre 2000, n. 14443 (20), secondo cui: “ai fini del risarcimento del danno patrimoniale (art. 2059 c.c., l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli artt.651 e 652 c.p.p., comporta che il giudice civile possa accertare ‘incidenter tantum’ l’esistenza del reato – nel caso di ingiuria, riscontrato insussistente in sede di merito n.d.r.) – nei suoi elementi obiettivi e soggettivi, individuando l’autore, procedendo al relativo accertamento nel rispetto dei canoni della legge penale (cfr. ex multis, Cass. 14 2.2000, n. 1643)”.
 
M. Meucci
 
(pubblicato in Notiziario del lavoro e previdenza, n. 33 del 25 novembre 2000, p. 2710, ed. de lillo)
 
NOTE
 
(1)                Così App. Genova 27.4.1981, in Foro it., Rep.1981, voce Prescriz. e dec., n. 165; Cass. 6.2.1978, n. 551, ibidem,  Rep. 1978, voce cit. n. 155.
(2)     Così Cass. 15.2.1980, n. 1147, in Foro it., Rep. 1980, voce Prescriz. e dec.., n. 162; Corte Cost. 19.6.1981, n. 102,  in Giur. cost. 1981, 1, I, 864 ed ivi 878.
(3)     Corte cost. 30 aprile 1986, n. 118, in Foro it. 1986, I, 383 e in Or. giur. lav. 1986, 1105.
(4)     In Riv. giur. lav. 1991, 3, III, 144.
(5)     In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1993, 644.
(6)     In Riv. giur. lav. 1991, III, 143 ed ivi 150.
(7)     In Foro it. 1997, I, 1758.
(8)     In  Foro it. 1997, I, 1757 con nota di Trisorio Liuzzi.
(9)     Così Trisorio Liuzzi, Sulla abrogazione della sospensione del processo per pregiudizialità penale, in Foro it. 1997, I,1762; conf. Cordero, Codice di procedura penale, Torino 1990, 90; Amodio e Dominioni, Commentario del codice di procedura penale, Milano 1989, I, 436.
(10)   Giovagnoli, Giudizio civile per il licenziamento e giudicato penale, in Mass. giur. lav. 1999,554 e ss.
(11)   Così ancora Trisorio Liuzzi, cit., 1762.
(12)   Corte cost. 31 maggio 1996, n. 182, in Foro it. 1997, I, 1023.
(13)   Vallebona,  Rapporti tra processo penale e processo civile per il risarcimento del danno alla persona, in Riv. it. dir. lav. 2000, I, 241 e ss.
(14)   In Giust. civ. 1994, I, 555.
(15)   In Riv. it. dir. lav. 1992, II, 403
(16)   In  D&L, Riv. crit. dir. lav. 1994, 130.
(17)   In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1998, 957.
(18)   In D&L, Riv. crit. dir. lav. 1999, 183
(19)   Singolarmente ignorata da tutte le Riviste delle Organizzazioni ed Enti che si auto-accreditano “obiettività d’informazione” e solo presente in Riv. it. dir. lav. 1999, 326 con nota di Mautone dal titolo “Sul contenuto dell’obbligo di prevenzione delle rapine a carico dell’istituto di credito e sulle conseguenze del suo inadempimento”.
(20)   In Lav. prev. Oggi 2000, 2287 ed ivi 2192 con nota di M. Meucci, Immanenza del danno da demansionamento: riconferma di vecchie certezze.
 

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