UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA
FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
CORSO DI DIRITTO DEL LAVORO (Anno Accademico 2003/2004)
 
dispensa della
Prof. Mariella Magnani
 
 
 
 
LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO E DELLE
TIPOLOGIE CONTRATTUALI
 
Indice - Sommario
    1.            Introduzione
    2.            I servizi per l’impiego
    3.            Le esternalizzazioni
    3.1.     La somministrazione di manodopera
    3.2.     Il comando o distacco del lavoratore
    3.3.     Il trasferimento d’azienda
     4.    Le tipologie contrattuali
4.    4.1.  Il lavoro a tempo parziale
4.    4.2.  I contratti a finalità formativa
4.    4.3.  Le altre tipologie contrattuali (lavoro intermittente, ripartito, accessorio, occasionale)
        5.     Le c.d. collaborazioni coordinate e continuative (il lavoro a progetto)
6.    6.    La certificazione
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1. Introduzione.
 
Quella che va sotto il nome di legge Biagi (l. 14 febbraio 2003, n. 30 e correlato d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) ha un periodo di gestazione alle spalle inusitatamente breve, se si considerano i tempi medi di gestazione di una legge di un qualche significato – e forse anche quelle di minor significato – in Italia.
Prima c’è stato – nell’ottobre 2001 – il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, che contiene le linee di politica del lavoro cui vuole ispirarsi il Governo; in esso manca, è vero, il capitolo sulla previdenza, ma tale materia è oggetto del rapporto della commissione Brambilla del settembre 2001. Poi c’è stato l’assassinio di Marco Biagi che del Libro bianco è stato uno degli ispiratori. Da quel momento viene impressa una notevole accelerazione all’iniziativa parlamentare. Presentato dal Governo alla Camera, nel novembre 2001, un disegno di legge delega per la riforma del mercato del lavoro e delle tipologie contrattuali, questo diviene legge nel febbraio del 2003. La c.d. legge Biagi era composta di soli 10 articoli e delegava il Governo a rivedere la disciplina dei servizi per l’impiego e dell’intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro (art.1), a riordinare i contratti a contenuto formativo e di tirocinio (art. 2), a riformare la disciplina del lavoro a tempo parziale (art. 3), a disciplinare e/o razionalizzare le tipologie del lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite (art. 4), a disciplinare la certificazione dei rapporti di lavoro al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro (art. 5), oltreché a razionalizzare le funzioni ispettive in materia di lavoro e di previdenza sociale (art. 8) 1.
La delega è stata esercitata con il decreto legislativo n. 276/2003 (v. in appendice normativa) entrato in vigore il 24 ottobre, ben prima dunque dell’anno che era riservato al Governo. Si tratta di un decreto corposissimo, composto di ben 86 articoli.
La legge delega non solo conteneva, conformemente alla sua natura, unicamente i principi, ma presentava, per alcuni aspetti, contenuti generici, che avevano fatto dubitare qualcuno della sua legittimità costituzionale.
Comunque sia, proprio per questi motivi – sul piano politico o della politica legislativa – era stato possibile fornire della legge delega letture contrastanti: vi è stata una lettura improntata ad una visione per così dire trionfalistica (si tratterebbe di una legge decisiva per la modernizzazione del nostro mercato del lavoro); una lettura improntata ad una visione catastrofista (la legge recherebbe una marcata impronta liberistica che tenderebbe a distruggere il diritto del lavoro tradizionale e l’insieme delle garanzie dei prestatori di lavoro); e infine una lettura minimizzatrice (la legge delega apporterebbe correttivi minimali, mentre ben altre sarebbero le riforme di cui il nostro mercato del lavoro necessiterebbe).
Si trattava di valutazioni sopra le righe, in mancanza di specificazione dei suoi contenuti da parte dei decreti legislativi. L’emanazione del decreto consente ora valutazioni più ponderate. Si tratta di un decreto composto da ben 86 articoli , pari a quelli dedicati dal Codice Civile alle obbligazioni in generale.
Sarà necessario un tempo non breve per metabolizzare la riforma. E ciò sia per le incertezze interpretative, sia perché in molti punti essa non è “autoapplicativa”, nel senso che necessita per la sua attuazione di “norme secondarie”, in particolare di contratti collettivi2 ovvero, spesso in funzione sostitutiva, di un decreto del ministro del lavoro.
Di ciò è consapevole lo stesso legislatore delegato. Con una singolare norma-annuncio, il comma 13 dell’art. 86 dispone che, entro i cinque giorni successivi alla entrata in vigore del decreto, il “Ministro del lavoro convoca le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale al fine di verificare la possibilità di affidare a uno o più accordi interconfederali la gestione della messa a regime del decreto, anche con riferimento al regime transitorio e alla attuazione dei rinvii contenuti nella contrattazione collettiva”.
 
2. I servizi per l’impiego. (art. 1, legge delega; artt. 3-19, decreto legislativo)
 
Una parte della riforma riguarda l’organizzazione del mercato del lavoro (il “vecchio” collocamento) che, normalmente pretermessa nell’analisi dei meriti e dei demeriti della medesima, è invece di capitale importanza per la modernizzazione del mercato e dello stesso rapporto di lavoro. Il buon funzionamento dei servizi per l’impiego è una precondizione affinché si possa procedere ad una riduzione delle asperità garantistiche della disciplina del rapporto di lavoro.
Le ragioni della riforma.
Obiettivo della riforma è quello di innalzare la quota di incroci tra domanda ed offerta di lavoro, realizzati in forma organizzata e non spontanea, come richiede un mercato del lavoro sempre più complesso e sofisticato.
In proposito, il quadro a livello europeo ci segnala che l’incrocio domanda-offerta in forma organizzata raggiunge, nei casi migliori, tra il 20 ed il 25 per cento del totale degli incontri.
In Italia si stima che le strutture pubbliche attualmente medino circa il 10 per cento degli incontri tra domanda ed offerta di lavoro, a cui va aggiunto qualche punto percentuale, tra l’uno ed il due per cento, realizzato da soggetti privati.
L’obiettivo è dunque quello di superare il divario che ci separa da realtà più avanzate e quindi di recuperare alla mediazione organizzata circa un dieci per cento di incroci. L’importanza di questo traguardo non può sfuggire: esso interessa sia i datori di lavoro, che potrebbero così essere aiutati in tempi rapidi ed in forma puntuale nel reperimento della manodopera necessaria; sia i lavoratori, in quanto buoni servizi per l’impiego rendono trasparente il mercato del lavoro e sono dunque fondamentali per far funzionare in modo efficace ed equo l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.
 
La tutela nel mercato del lavoro.
Più in generale possiamo dire che il tema è quello della tutela nel mercato dei lavoratori; detto in altri termini, si tratta del modo di assicurare un intervento pronto, efficace ed efficiente delle amministrazioni locali per agevolare i giovani lavoratori che devono inserirsi nel mondo del lavoro o i lavoratori adulti in difficoltà occupazionale od ormai disoccupati e in cerca di un nuovo lavoro. Si noti che costruire un buon sistema locale di politiche attive del lavoro, di formazione professionale e di servizi per l’impiego è compito fondamentale per la tutela dei lavoratori: infatti, quanto più si va allentando la tutela nel rapporto di lavoro (mediante le più svariate forme di flessibilità), tanto più assume rilievo la tutela nel mercato del lavoro.
In proposito è possibile svolgere anche una riflessione più “raffinata”: tutela nel mercato e tutela nel rapporto non devono essere concepite come separate (o, peggio, in contrapposizione). Esiste un legame stretto tra i due tipi di tutela (si pensi ad es. ai lavori a termine o comunque caratterizzati da instabilità: in un mercato con quote ridotte di lavoro a termine ed in grado di assicurare una rapida e qualificata ricollocazione potrebbe in astratto essere pressoché indifferente la stabilità o meno del rapporto di lavoro; al contrario in un mercato con alte quote di lavoro precario ed in cui non si attuano politiche idonee alla rapida e qualificata ricollocazione di tali lavoratori, vi sarà una naturale tendenza del sindacato a favorire la stabilizzazione del lavoratore presso lo stesso datore di lavoro).
In sintesi, la protezione nel mercato e la flessibilità/rigidità dei rapporti di lavoro sono in parte collegate tra loro: costruire il buon sistema di politiche attive del lavoro di cui si è detto, non è dunque fare “altro” rispetto alla regolazione dei rapporti di lavoro, ma è creare le condizioni per una diversa regolazione dei rapporti di lavoro. Quindi, l’istituzione pubblica che si preoccupa di assicurare buone tutele sul mercato, incide, indirettamente, anche sui livelli e sulla modalità di protezione nel rapporto.
 
Il sistema di servizi per l’impiego delineato dalla riforma
La legge delega n. 30/2003, all'articolo 1, ci offre due preziose indicazioni per cogliere la volontà del legislatore rispetto alla nuova organizzazione del mercato del lavoro che si intende costruire: - da un lato, dichiara di perseguire la modernizzazione e razionalizzazione dell'intervento pubblico con riconferma alle Province delle funzioni amministrative già attribuite dal d.lgs. n. 469/97; - dall'altro lato, mira all'ampliamento dei soggetti pubblici e privati che possono svolgere le diverse attività riconducibili ai servizi per l'impiego, con la precisazione che vi deve essere un unico regime di autorizzazione o accreditamento.
Il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, non si occupa delle strutture pubbliche competenti all’esercizio delle funzioni in esame (non si occupa quindi delle Province e dei Centri per l’impiego, considerando evidentemente sufficiente la disciplina vigente), ma, agendo sui requisiti per l’autorizzazione allo svolgimento dei servizi per l’impiego, tende a favorire l’ingresso nella fornitura di servizi per l’impiego di nuovi soggetti, pubblici e privati.
Per quanto riguarda i soggetti pubblici, il decreto ammette allo svolgimento di attività di intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro, a condizione del possesso soltanto di alcuni requisiti (c.d. autorizzazione a requisiti ridotti), anche i Comuni, le Università pubbliche e private, gli istituti di scuola secondaria di secondo grado e le Camere di commercio. Per quanto riguarda i soggetti del c.d. privato-sociale il decreto indica esplicitamente le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative, gli enti bilaterali (composti da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro) ed i patronati, ai quali sono richiesti requisiti ridotti, ma più ampi rispetto ai soggetti pubblici sopra citati, per la concessione dell’autorizzazione. In questo gruppo può essere considerato anche l’Ordine nazionale dei consulenti del lavoro.
Per quanto riguarda i soggetti privati si ricorda, innanzitutto, che le agenzie di somministrazione di lavoro (le vecchie agenzie di lavoro interinale), se abilitate a tale funzione, saranno da considerarsi automaticamente autorizzate anche a svolgere tutti i tipi di servizi per l’impiego considerati dalla legge (mediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale).
Oltre a queste agenzie, possono chiedere l’autorizzazione a svolgere servizi per l’impiego anche le società di capitali ovvero le cooperative o i consorzi di cooperative in possesso di alcuni requisiti economici, organizzativi e di affidabilità.
Si punta in questo modo ad ampliare in massima misura la tipologia dei soggetti che svolgono servizi per l’impiego.
Alla luce di queste indicazioni sembra ragionevole una lettura della riforma secondo la quale si vuol costruire un sistema misto e multipolare, finalizzato all'erogazione di un'ampia gamma di servizi ed interventi: a) anagrafe dei lavoratori; b) gestione pubblica di quote del mercato del lavoro (ad es. i disabili); c) servizi per l'impiego; d) formazione professionale; e) politiche attive. Il sistema in generale, dunque, può essere così descritto:
- vi sono funzioni pubbliche (quelle di cui al d.lgs. n. 469/1997) che si intendono comunque mantenere in capo alle strutture pubbliche deputate (Province e Centri per l'impiego): anagrafe del lavoro e gestione di alcune quote del mercato del lavoro;
- vi sono servizi di interesse pubblico che potrebbero (in relazione alle scelte insindacabili di ciascuna Regione) essere gestiti direttamente dalle Province, oppure che possono essere affidati in convenzione a soggetti del c.d. privato-sociale (ad es., associazioni dei datori di lavoro o enti bilaterali) o a privati, nonché ad enti locali diversi dalle Province, purché autorizzati dal Ministero e/o accreditati dalle Regioni, così come a Università e scuole superiori (ad es., i colloqui di orientamento da effettuarsi entro 3 mesi dall'inizio della disoccupazione o le proposte di inserimento lavorativo possono essere affidati a questi soggetti, dietro pagamento da parte della Provincia di un corrispettivo per ciascun intervento);
Se un soggetto, diverso dalla Provincia e dai Centri per l'Impiego, intende svolgere Servizi per l'Impiego a prescindere dal quadro programmatorio pubblico deve chiedere l'autorizzazione ministeriale; mentre se lo stesso soggetto intende invece svolgere alcuni servizi per l'impiego come affidatario della Provincia deve essere autorizzato e, inoltre, accreditato dalla Regione. Nell’intento di censire tutti i compiti assegnati agli enti locali in materia di lavoro si segnala infine che il decreto di attuazione della legge n. 30/2003 include le Province tra i soggetti che possono istituire commissioni di certificazione dei rapporti di lavoro.
 
Le questioni aperte.
Questo impianto normativo offre alla nostra attenzione almeno tre profili di rilievo:
i) l’individuazione delle modalità di integrazione dell’intervento dei diversi soggetti pubblici;
ii) la capacità di questo sistema di elevare la quota di incontri tra domanda ed offerta di lavoro in forma strutturata;
iii) la ricerca di eventuali forme di presenza pubblica diverse dall’amministrazione ordinaria in grado di garantire maggiore tempestività, efficienza ed efficacia.
 
i) Quanto al primo punto possono essere segnalate due questioni: la prima di ordine strettamente giuridico, la seconda invece di tipo organizzativo.
Sotto il profilo giuridico, l'autorizzazione a requisiti ridotti di soggetti pubblici, quali gli enti locali, gli istituti di scuola secondaria superiore e le Università pubbliche, solleva, secondo alcuni interpreti, un delicato problema: tra le funzioni ed i compiti amministrativi conferiti alle Regioni e attribuiti alle Province dal d.lgs. n. 469/97 vi sono la "preselezione e l'incontro tra domanda e offerta di lavoro" (norma mai abrogata e che il decreto non sopprime); ed allora sul piano giuridico ci si chiede se lo Stato può, nel ribadire tale competenza, autorizzare altri soggetti pubblici a svolgere le stesse attività, al di fuori di ogni potere programmatorio delle Regioni e delle Province. Sembra privo della necessaria coerenza interna un provvedimento che, da un lato, riconosce alle Province le funzioni ed i compiti amministrativi in materia di servizi per l’impiego e, dall’altro, autorizza direttamente altri soggetti pubblici (ed in particolare i comuni) a erogare gli stessi servizi, anche al di fuori di qualunque disegno di programmazione.
La seconda questione, si è detto, è di tipo organizzativo. Il rischio che si può intravedere sul piano organizzativo è la frammentazione dell’intervento pubblico, disperso in mille rivoli (ogni piccolo Comune con i suoi servizi per l’impiego scollegati dal resto del sistema provinciale). Ovviamente non è in discussione l’importanza del contributo che i Comuni possono dare per il buon funzionamento della rete dei servizi per l’impiego (si tratta di un punto fermo, condiviso da tutti). Ciò a cui si fa riferimento è la necessità che vi sia, per quanto riguarda la parte pubblica, un “padrone del processo”. In altri termini, se un limite è rinvenibile nel decreto, è quello di rendere debole l’individuazione del soggetto istituzionale che presiede all’esercizio della funzione. Chi, tra i vari soggetti pubblici, ha la responsabilità nei confronti dei cittadini di garantire che la quantità e la qualità dei servizi erogati siano adeguate al bisogno esistente sul territorio? La risposta dovrebbe essere: la Provincia. Ma se altri soggetti pubblici (come le Università, le Camere di commercio, i Comuni) possono, con risorse proprie o comunque acquisite, decidere autonomamente di svolgere servizi per l’impiego, in che consiste il potere di governo della Provincia?
 
ii) Abbiamo detto in precedenza che obiettivo della riforma dei servizi per l’impiego è quello di innalzare la quota di incroci tra domanda ed offerta di lavoro realizzati in forma organizzata. Su questo punto i commenti al decreto legislativo n. 276 del 2003 sono generalmente improntati all’ottimismo, sulla base del seguente ragionamento: quanto più numerosi sono i soggetti ammessi a svolgere questo tipo di servizio, tanto più numerosi saranno gli incroci tra domanda ed offerta in forma organizzata.
In realtà, il risultato non è automatico. E’ necessario infatti che i soggetti chiamati in causa dal legislatore siano effettivamente interessati. E invero non depone a favore dell’esistenza di un vivo interesse il fatto che già in precedenza, ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 469, molti dei nuovi soggetti avrebbero potuto svolgere attività di mediazione tra domanda ed offerta di lavoro e non lo hanno fatto.
 
iii) In questo sistema misto, qual è il rapporto tra pubblico e privato? La legge sembra orientata ad una “cooperazione forzosa”, giustificata da una implicita valutazione negativa del pubblico (considerato sempre inefficiente) e positiva del privato (considerato sempre efficiente). Consapevole del fatto che la multipolarità può tradursi in confusione, il legislatore ha comunque disposto che, al fine di favorire la circolazione delle informazioni relative all’incontro tra domanda ed offerta di lavoro tra tutti i soggetti coinvolti nel sistema di servizi per l’impiego, è istituita la Borsa continua del lavoro.
Il decreto legislativo n. 276 del 2003 offre certamente interessanti opportunità di raccordo pubblico­privato. Bisogna però evidenziare che quella offerta dal decreto legislativo n. 276 del 2003 non è l’unica prospettiva possibile. Accanto a queste forme ne possono esistere altre, già sperimentate, in cui pubblico e privato si uniscono per lo svolgimento di servizi per l’impiego ed attività di formazione professionale, adottando agili forme di tipo privatistico, mediante la costituzione di società, in grado di assicurare la necessaria efficienza.
 
3. Le esternalizzazioni.
 
Con il termine “esternalizzazione” (ovvero anche outsourcing) si indica quel fenomeno attuale attraverso cui determinate attività aziendali, fondamentali per l’impresa e tradizionalmente esercitate internamente alla stessa, vengono affidate all’esterno attraverso la stipulazione di contratti d’appalto o di altro tipo. In questo modo l’azienda mira a migliorare la propria efficienza, mediante un contenimento di tempo e di costi. Affidando a soggetti esterni tali attività, l’azienda si mette in condizione di concentrare interamente le proprie risorse sull’attività principale (liberando costi ed energie profuse per attività collaterali) e di migliorare in questo modo la propria competitività sul mercato.
 
I caratteri generali della nuova disciplina
Tra i punti più significativi del d. lgs. n. 276 del 2003 vi è la nuova disciplina degli appalti di opere e servizi e di quella che viene definita somministrazione di lavoro (il “vecchio” lavoro interinale, oltre a quello che viene chiamato staff leasing o somministrazione a tempo indeterminato). Se poi si considera che il decreto contiene una riforma della disciplina del trasferimento del ramo di azienda, nonché del comando o distacco, possiamo dire che viene completamente innovato il quadro giuridico in cui si collocano i fenomeni di outsourcing e di esternalizzazione, fenomeni apparentemente inarrestabili nel modo attuale di organizzazione delle imprese ed anche dei pubblici servizi.
Occorre fissare subito i criteri attorno a cui viene organizzata la revisione degli istituti che insistono sull’outsourcing, perché essi non sono di immediata rilevazione. Il decreto legislativo abroga espressamente la vetusta legge n. 1369 del 1960 sul divieto di interposizione e, nello stesso tempo, gli artt. 1-11 della legge n. 196/1997 che aveva legalizzato il lavoro interinale, il quale assumeva nel sistema il ruolo di vera e propria eccezione al divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro. La abrogazione di queste due leggi non è funzionale ad una sostanziale deregolazione – né questo sarebbe stato possibile alla luce della legge-delega – ma rappresenta unicamente la condizione per una revisione normativa dell’intera materia.
Infatti la legge n. 1369 del 1960, sul divieto di interposizione, è formalmente abrogata, ma sostanzialmente riscritta dalle norme del d. lgs. n. 276/2003 di cui si dirà. Solo che la sistematica viene rovesciata. Prima si muoveva da un generale divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro, contenuto appunto nella legge n. 1369/1960. Poi, a partire dal 1997, si è sottratto da tale divieto il lavoro interinale. Oggi si muove dalla disciplina di quella che viene chiamata somministrazione di manodopera sia a tempo determinato (il vecchio lavoro interinale) sia a tempo indeterminato (il nuovo staff leasing) per prevederne la liceità solo in caso di esercizio autorizzato e nei casi espressamente previsti.
Oltre alla previsione di sanzioni penali, in caso di esercizio non autorizzato (art. 18 del d. lgs. n. 276/2003), si sanziona la somministrazione al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 20 e 21 (cd. somministrazione irregolare), attraverso l’imputazione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore. In aggiunta si costruisce la nuova, e per la verità di incerta identificazione, fattispecie della somministrazione fraudolenta, per le ipotesi in cui essa sia posta in essere “con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore” (art. 28).
Dunque, resta un generale divieto di interposizione o somministrazione di lavoro. Del resto la conferma esplicita dello stesso termine “interposizione” – qui aggettivata come illecita – si ha nella rubrica dell’art. 84, che consente di fare ricorso all’istituto della certificazione (cfr. infra, § 6) ai fini della distinzione tra somministrazione di lavoro e appalto.
Il decreto poi ridisciplina gli effetti lavoristici dell’appalto di opere e servizi (espungendo l’obbligo, già contenuto nell’art. 3 della legge n. 1369/1960, della c.d. parità di trattamento) e, coerentemente con la sopravvivenza del divieto di interposizione, si preoccupa del problema fondamentale, che ha sempre afflitto l’applicazione della l. n. 1369, vale a dire quello dei suoi tratti distintivi rispetto a quest’ultima.
E, sempre coerentemente con la persistenza nell’ordinamento del divieto di interposizione, affronta la questione dei limiti del distacco; istituto, quest’ultimo, di origine giurisprudenziale, che si è sempre considerato in potenziale rotta di collisione col divieto di interposizione.
 
Alle origini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro
Al fine di comprendere meglio la portata delle innovazioni introdotte e di darne una valutazione maggiormente consapevole, è opportuno ritornare alle origini del divieto di interposizione contenuto nella l. n. 1369 e ai mutamenti che ne hanno reso l’impianto vetusto e non più adeguato alle caratteristiche dell’odierno mercato del lavoro.
Nonostante l’apparenza, poche disposizioni hanno per la verità origini così confuse e riposano su giustificazioni vischiose, di diverso segno e pregnanza. La ratio più immediata che presiedeva alla l. n. 1369 era quella di evitare che l’imprenditore, ponendo un diaframma tra sé e i lavoratori, ovvero interponendo un soggetto che si limita ad assumere, dirigere e retribuire la manodopera, senza impiego di propri capitali ed attrezzature, potesse sfuggire alle obbligazioni che conseguirebbero alla diretta utilizzazione delle energie lavorative dei prestatori d’opere: dunque una ragione antifraudolenta.
Prima della legge del 1960 qualcuno aveva anzi teorizzato che la dissociazione tra titolare del rapporto di lavoro ed effettivo fruitore della prestazione lavorativa fosse già interdetta dall’ordinamento. E ciò perché, se è lavoratore subordinato, in base all’art. 2094 c.c., chi si obbliga a prestare il proprio lavoro “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”, è impossibile sussumere nel tipo legale lavoro subordinato il contratto tra datore e prestatore avente ad oggetto un’attività lavorativa destinata ad essere utilizzata da un soggetto terzo. Quest’ultimo contratto si configurerebbe come un contratto atipico e là dove fosse utilizzato per eludere o vanificare norme imperative di tutela del lavoratore, quindi in funzione di interessi non meritevoli di tutela, esso dovrebbe essere escluso dal novero dei contratti cui l’ordinamento riconnette gli effetti voluti dalle parti.
Per la verità è quanto meno dubbio che nella formulazione dell’art. 2094 vi siano argomenti univoci a sostegno dell’incompatibilità tra schema del lavoro subordinato e somministrazione di manodopera. Ma ad ogni buon conto si può tralasciare ora questo aspetto, anche perché esso è stato superato dalla legge del 1960.
Il punto è che, se il divieto di interposizione si giustificava con ragioni antifraudolente, la legge ha poi finito per oggettivarlo, svincolandolo dall’accertamento della frode. Non era infatti essenziale, nel sistema della l. n. 1369, ai fini dell’applicazione del divieto e dell’applicazione dell’apparato sanzionatorio, che l’interponente avesse inteso eludere obblighi retributivi e contributivi, e neppure che il trattamento riservato ai lavoratori interessati fosse inferiore a quello cui essi avrebbero avuto diritto se assunti direttamente alle dipendenze dello stesso utilizzatore. La legge, mentre poneva il divieto di interposizione, disciplinava altresì gli effetti lavoristici degli appalti di opere e servizi, ex art. 1655 c.c., inerenti al ciclo produttivo dell’impresa, sancendo un principio di parità di trattamento tra i dipendenti del committente e quelli dell’appaltatore, e prevedendo un’ipotesi di responsabilità solidale in capo a committente ed appaltatore per i crediti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore, nonché degli istituti previdenziali. Queste regole erano invero costellate di eccezioni, mediante la menzione di singole attività cui questa normativa garantistica non andava applicata; e ciò al fine, o comunque con l’effetto, di sottrarre al divieto di interposizione tipologie di lavori che altrimenti vi sarebbero ricaduti (si pensi ad es. ai lavori di facchinaggio, pulizia e manutenzione ordinaria degli impianti). Il vero è che la “storica” legge n. 1369 nasce in una fase in cui decentramento voleva dire soprattutto sfruttamento aggiuntivo dei lavoratori e lucro parassitario da parte di pseudo-appaltatori di mera manodopera. Si muoveva, dunque, in un’ottica marcatamente proibizionista e si tendeva a disincentivare nel loro complesso i processi di esternalizzazione, senza eccessive distinzioni. Approccio ben diverso da quello seguito in altri paesi che, meno preoccupati di demonizzare i processi di decentramento, mirano solo a creare una forte condivisione di responsabilità tra committente ed appaltatore.
Soprattutto, la legge n. 1369/60 nasce in una fase economica in cui l’organizzazione di impresa è caratterizzata da un’integrazione verticale dei fattori produttivi. Per un secolo questa è stata la tendenza. Ma ora il processo di integrazione industriale realizzato in verticale dentro l’impresa ha preso la direzione opposta e si sta realizzando in orizzontale tra le imprese. Senza pronunciarsi sulla definitività della tendenza, una parte di quello che viene chiamato post-fordismo sta proprio in ciò: per competere l’impresa si concentra sul core business e compra tutto il resto. Non solo: la legge n. 1369 nasce in un contesto e in una fase economica caratterizzati da un’accentuata materializzazione dei processi produttivi. Oggi la rivoluzione elettronica sta segnando una nuova era in cui alla centralità dell’apparato strumentale del lavoro e delle materie prime si è sostituito il primato dell’intelligenza, dell’informazione computerizzata e più in generale dei servizi. E’ il fenomeno che si indica come smaterializzazione dell’impresa: sempre più la funzione imprenditoriale si realizza attraverso l’impiego di beni immateriali o mediante attività puramente organizzative della forza-lavoro, con il relativo ridimensionamento di quegli elementi (attrezzature, impianti etc.) che erano tradizionalmente ritenuti i soli idonei a identificare l’azienda.
 
La progressiva erosione del divieto di interposizione.
Proprio questa evoluzione delle strutture organizzative dell’impresa aveva del resto indotto la giurisprudenza ad un aggiornamento interpretativo della legge n. 1369. Per la verità la legge nasce con un vizio di origine: quello di non avere definito il fenomeno interpositorio, di cui si è costretti a dare una definizione a contrario, ovvero in negativo: è interposizione ciò che non è appalto di opere o servizi. In un contesto organizzativo tendenzialmente stabile questo poteva non causare grandi problemi: un po’ come per la subordinazione, anche per l’interposizione il fenomeno, o meglio il suo contrario, non era difficilmente individuabile nella realtà.
Si spiega così che – non diversamente dalla vicenda analoga della subordinazione – la giurisprudenza si sia sempre rifatta ad indici presuntivi. Ebbene, tra gli indici rivelatori dell’esistenza dell’appalto, utilizzati dai giudici, vi è sicuramente la gestione dei rapporti di lavoro da parte dell’appaltatore, in completa autonomia, attraverso l’esercizio del potere direttivo e disciplinare sui lavoratori. La direzione e il coordinamento della forza lavoro da parte dell’appaltatore è anzi un indice in ascesa nella giurisprudenza, a fronte dell’appannamento dell’efficienza scriminante e del valore sintomatico del profilo “attrezzistico e impiantistico”. Il dibattito dottrinale va ancora più in là perché, attenuato il valore scriminante di mezzi e attrezzature, si finisce per dover rilevare che, sul piano civilistico della nozione di appalto, non vi è nulla che impedisca di ricomprendervi il contratto avente per oggetto una prestazione realizzata prevalentemente o anche esclusivamente mediante l’impiego di forza-lavoro. Ma un’altra breccia nell’impianto della l. n. 1369 è stata rappresentata dalla legalizzazione del lavoro interinale. Certo, il lavoro interinale è giustamente rappresentato come un’eccezione al generale divieto di interposizione che viene mantenuto in vita. Sul piano sistematico, però, e dei principi, essa mette in crisi il postulato – si potrebbe dire il “dogma” – della necessaria corrispondenza tra titolarità formale del rapporto di lavoro e utilizzazione della prestazione lavorativa che sta dietro alla l. n. 1369.
 
Interposizione, appalto di servizi e somministrazione di lavoro nella nuova normativa
Questo è il quadro che si presenta al legislatore delegante e delegato: un quadro propizio ad interventi sullo scricchiolante impianto della storica legge del 1960. La legge, come detto, appare vetusta a fronte di un’impresa esternalizzata e smaterializzata, con conseguente difficoltà di tracciare il discrimine tra appalto e interposizione, al cui divieto ha inferto un colpo decisivo la legalizzazione del lavoro interinale.
Da quel che si è prima detto, risulta che la materia ha subito sconvolgimenti sistematici minori di quelli temuti da qualcuno ovvero auspicati da altri. Alla legalizzazione del lavoro interinale si aggiunge quella dello staff leasing, oggi denominati somministrazione a tempo determinato e a tempo indeterminato, che possono continuare ad essere rappresentati come eccezioni al divieto di interposizione di manodopera.
Il punto indubbiamente più innovativo - e denso di interrogativi in relazione al suo rapporto con l’appalto - è rappresentato dalla legittimazione dello staff leasing: diversamente da quanto previsto per la somministrazione a tempo determinato, vi è nel decreto delegato un’elencazione di ipotesi tassative in cui è ammissibile la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Questo elenco menziona innanzitutto attività che erano considerate (o qualificate) dalla stessa legge n. 1369 o dalla giurisprudenza come oggetto di appalto lecito. Ma menziona anche tipi di attività particolarmente innovative a sostegno del sistema produttivo e delle imprese (v. ad es. attività specialistiche di consulenza direzionale, assistenza alla certificazione, programmazione delle risorse etc.). Qualcuno ha detto che lo staff leasing può ben essere in concorrenza con il regime dell’appalto di servizi (poiché il maggior costo dei servizi offerti dalle agenzie di somministrazione sarebbe bilanciato da una maggiore qualità).
Ma uno degli aspetti più problematici della riforma è proprio rappresentato dalla distinzione tra somministrazione di lavoro e appalto. A questo proposito non vi è nel decreto delegato che la sommaria riproduzione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza. Stando alla lettera dell’art. 29, l’appalto si distingue dalla somministrazione “per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare (…) dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo, del rischio di impresa”.
Se, come qualcuno ha detto, i mezzi possono anche essere immateriali, l’enfasi finisce per essere posta sull’esercizio del potere direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. Questo dovrebbe allora rappresentare il criterio discretivo rispetto alla somministrazione di manodopera per la quale, infatti, l’art. 20, 2° co., dispone che, per tutta la durata della somministrazione, i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore.
Se questa è la conclusione, può però risultare discutibile affidare ad un elemento di così difficile identificazione, quale l’esercizio del potere direttivo, il discrimine fra due regimi di tutela del lavoratore (quello dell’appalto e quello della somministrazione) assai differenti quanto ad intensità.
 
3.1. La somministrazione di manodopera. (art. 1, legge delega; artt. 20-28, decreto legislativo)
 
Introduzione.
Come si è detto, nel corso degli ultimi quarant’anni, uno dei cardini della disciplina del mercato del lavoro è stato il generale divieto di interposizione di manodopera introdotto dalla legge n. 1369/1960. In particolare, l’art. 1 di quest’ultima stabiliva: “è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma […] l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”. Una prima consistente deroga al generale divieto di interposizione è stata introdotta dalla legge n. 196/97 (c.d. “Pacchetto Treu”), la quale ha disciplinato la fornitura di lavoro temporaneo (o lavoro interinale).
Come detto, la legge delega n. 30/2003 (attuata dal d.lgs. n. 276/2003) ha portato alla sostanziale liberalizzazione della somministrazione di manodopera. La nuova figura della “somministrazione” prevista dalla riforma è, quindi, destinata ad assorbire al suo interno sia il lavoro temporaneo, o interinale, disciplinato dal c.d. pacchetto Treu, sia il c.d. staff-leasing, sino ad oggi vietato dal nostro ordinamento.
 
La nozione di somministrazione.
Il decreto definisce la somministrazione come la “fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine”. Staff-leasing e lavoro temporaneo, dunque, divengono articolazioni, modi di essere, di una più generale fattispecie denominata somministrazione.
Schematizzando, si instaura una relazione trilaterale in virtù della quale i lavoratori, assunti da un’agenzia di somministrazione (d’ora innanzi “agenzia”), sono chiamati a svolgere un’attività lavorativa presso un soggetto (“utilizzatore”) con il quale l’agenzia abbia concluso un contratto di fornitura di manodopera. Per tutta la durata della somministrazione, come dispone l’art. 20, “i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore”.
Il vantaggio del ricorso a tale schema negoziale può essere duplice:
i) attraverso la somministrazione è possibile avvalersi delle prestazioni di manodopera assunta da altri soggetti (le agenzie di somministrazione), cui è imputata la titolarità del rapporto di lavoro. In altre parole, la somministrazione consente all’imprenditore di utilizzare le prestazioni di un certo numero di lavoratori senza sobbarcarsi degli oneri che solitamente gravano sul datore di lavoro; ii) inoltre, la somministrazione a tempo determinato consentirà, così come è accaduto in passato al lavoro temporaneo, di selezionare il personale da assumere stabilmente, svolgendo nella sostanza una funzione di “prova”.
 
La struttura del rapporto.
Quando si parla di somministrazione vengono dunque in considerazione due rapporti distinti:
i) da un lato, il rapporto di lavoro che lega il lavoratore all’agenzia, che è un rapporto di lavoro subordinato nel quale l’assunzione del lavoratore può avvenire a tempo indeterminato o a termine; ii) dall’altro lato, il rapporto che si instaura in seguito alla conclusione del c.d. “contratto di somministrazione” tra l’agenzia e l’utilizzatore della prestazione; tale contratto può prevedere che la somministrazione avvenga per un tempo definito – ossia a termine – oppure a tempo indeterminato. La somministrazione realizza la dissociazione tra titolarità del rapporto con il prestatore di lavoro, che resta in capo all’agenzia intermediatrice, ed effettiva utilizzazione della prestazione lavorativa, svolta presso un terzo soggetto. Tra lavoratore ed utilizzatore, perciò, non intercorre un rapporto di lavoro, ma una relazione di fatto, ancorché connotata dall’esercizio del potere direttivo da parte dell’utilizzatore. Si prevede infatti che “per tutta la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la loro attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore”.
 
I requisiti per lo svolgimento dell’attività di somministrazione.
Per poter svolgere l’attività di somministrazione, l’agenzia deve iscriversi ad un apposito Albo delle agenzie per il lavoro, tenuto presso il Ministero del lavoro e delle Politiche sociali. La domanda di iscrizione all’Albo va inoltrata al Ministero, il quale, entro sessanta giorni, accertata la sussistenza dei requisiti di legge, rilascia un’autorizzazione provvisoria all’esercizio dell’attività di somministrazione. I requisiti di legge sono di carattere giuridico (ad es., costituzione nella forma di società di capitali o cooperativa) e finanziario (ad es., la sussistenza di un capitale minimo determinato).
 
Il contratto di somministrazione.
Il contratto di somministrazione può essere definito come il contratto con il quale un soggetto (l’agenzia) si obbliga a fornire manodopera, a tempo determinato o indeterminato, ad un altro soggetto (l’utilizzatore) verso il pagamento di un corrispettivo.
 
La somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff-leasing).
La prima forma di somministrazione presa in considerazione dal decreto è quella a tempo indeterminato (c.d. staff-leasing).
La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato è ammessa solo in presenza di causali obiettive tassativamente previste dalla legge. In ogni caso i contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative potranno introdurre ulteriori ipotesi. Quindi, anche in considerazione di tale potere assegnato ai contraenti collettivi, lo spettro delle possibilità di ricorso a tale strumento pare piuttosto ampio.
 
La somministrazione a termine.
La somministrazione di lavoro a tempo determinato, nel disegno del legislatore, è destinata ad occupare il posto precedentemente assegnato al lavoro interinale: la nuova disciplina della somministrazione a termine si sostituisce, abrogandola, a quella prevista dalla legge n. 196/1997. A differenza dello staff-leasing, per il quale sono richieste causali obiettive tassativamente previste, essa è consentita, più genericamente, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, analogamente a quanto previsto in materia di contratti a termine ai sensi del d.lgs. n. 368/2001.
Memore del dibattito seguito all’emanazione del decreto legislativo sui contratti a termine, il legislatore, questa volta, si è premurato di precisare che le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo possono anche essere riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore. Questa precisazione permette di affermare che ai fini del ricorso alla somministrazione a termine – a differenza di quanto avveniva per il lavoro interinale – non è più richiesto il requisito del soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo dell’utilizzatore. Lo strumento della somministrazione a tempo determinato, dunque, si rende fruibile in un numero potenzialmente più ampio di casi.
Quanto alla valutazione delle causali obiettive che giustificano il ricorso alla somministrazione, il decreto stabilisce che “il controllo giudiziale é limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all'utilizzatore”.
In caso di somministrazione di lavoro a tempo determinato – la quale sostituisce il vecchio lavoro interinale – “è nulla ogni clausola diretta a limitare, anche indirettamente, la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto di somministrazione”. Rispetto alla previgente disciplina, però, c’è una differenza importante. Mentre prima il divieto era assoluto, ora è prevista una possibilità di deroga: la norma, infatti, “non trova applicazione nel caso in cui al lavoratore sia corrisposta un’adeguata indennità, secondo quanto stabilito dal contratto collettivo applicabile al somministratore”. In mancanza di disciplina collettiva, nel silenzio della norma, è da ritenersi che la deroga non sia consentita.
 
Divieti di ricorso alla somministrazione.
La stipulazione del contratto di somministrazione, sia essa a tempo determinato o indeterminato, è vietata in tre casi:
i) per la sostituzione di lavoratori che esercitino il diritto di sciopero;
ii) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione; ovvero presso unità produttive in cui sia in corso una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione;
iii) da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del d.lgs. n. 626/1994.
 
Forma e contenuto del contratto di somministrazione.
Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta. La mancanza di forma scritta comporta la nullità del contratto di somministrazione: in tal caso i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. Esso deve obbligatoriamente contenere una serie di elementi, nell’indicare i quali le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi. È quindi espressamente esclusa la possibilità per le parti individuali di derogare a quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva.
 
Il rapporto di lavoro tra l’agenzia e il lavoratore.
Per quanto riguarda la relazione che intercorre tra il lavoratore e l’agenzia, si è detto che le due parti stipulano un contratto di lavoro. L’assunzione può essere a tempo determinato o indeterminato.
 
L’assunzione a tempo indeterminato.
L’assunzione del lavoratore da parte dall’agenzia avviene a tempo indeterminato in due casi:
i) nel caso di somministrazione a tempo indeterminato (staff-leasing). In tal caso, il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore è soggetto alla “disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali”;
ii) anche nel caso di somministrazione a termine, l’agenzia può assumere il lavoratore a tempo indeterminato: in questo caso, si alterneranno periodi in cui il lavoratore svolge la prestazione di lavoro presso l’utilizzatore e periodi in cui il lavoratore rimane a disposizione dell’agenzia, in attesa di nuova assegnazione. Durante il periodo in cui il lavoratore resta a disposizione, l’agenzia è tenuta a corrispondergli un’indennità di disponibilità, la cui entità è stabilita dai contratti collettivi. In caso di assegnazione del lavoratore ad attività lavorativa part-time (che può essere prestata sia presso un soggetto utilizzatore, sia presso lo stesso somministratore), l’indennità di disponibilità è proporzionalmente ridotta.
Quando, come in questo caso, il lavoratore sia assunto dall’agenzia a tempo indeterminato, ma somministrato a tempo determinato, il rapporto di lavoro è soggetto alla disciplina prevista dal d.lgs. n. 368/2001 sul lavoro a termine, in quanto compatibile.
 
L’assunzione a tempo determinato.
L’assunzione a termine da parte dell’agenzia è compatibile unicamente con lo schema della somministrazione a tempo determinato. Il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore è soggetto alla disciplina prevista per i contratti a termine (cfr. d.lgs. n. 368/2001), in quanto compatibile. È in ogni caso esclusa l'applicazione dell'art. 5, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 368/2001, per cui potrà essere stipulato un secondo contratto, diverso dal primo, senza peraltro incorrere nelle limitazioni previste in materia di successione di contratti a termine.
Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro può essere prorogato, purché siano rispettate alcune condizioni, ossia:
i) che vi sia il consenso del lavoratore;
ii) che la proroga sia oggetto di una pattuizione scritta;
iii) che il termine sia prorogato “nei casi e per la durata prevista dai contratti collettivi applicati dal somministratore”.
 
L’esercizio del potere disciplinare.
Data la dissociazione tra titolarità del rapporto ed utilizzazione della prestazione, una serie di poteri datoriali resta in capo al somministratore. Tra questi, vi è il potere disciplinare. Infatti viene affermato che l’esercizio del potere disciplinare “è riservato al somministratore”. Ai fini dell’esercizio di tale potere, si prevede che l’utilizzatore comunichi al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori. Quindi, nel caso in cui il lavoratore si renda responsabile di un inadempimento nell’esecuzione della prestazione, l’utilizzatore non potrà sanzionarlo direttamente, ma dovrà informare il datore di lavoro (cioè l’agenzia), in modo che sia questo ad esercitare il potere disciplinare.
 
Il trattamento economico e normativo.
Quale che sia la natura della somministrazione, nel corso della medesima i lavoratori hanno diritto ad un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte.
Qualora il lavoratore sia assegnato a mansioni superiori o, comunque, non equivalenti a quelle dedotte in contratto, l’utilizzatore è tenuto a darne comunicazione al somministratore, in modo che questi possa tenerne conto nell’erogazione della retribuzione spettante al lavoratore. In caso di omissione di comunicazione, “l’utilizzatore risponde in via esclusiva per le differenze retributive spettanti al lavoratore occupato in mansioni superiori e per l’eventuale risarcimento del danno derivante dall’assegnazione a mansioni inferiori”.
Ciò che il decreto non prevede, attuando così una deviazione rispetto al principio sancito dall’art. 2103 c.c., è il diritto alla promozione automatica a seguito dell’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori per più di tre mesi (ovvero per il periodo inferiore eventualmente stabilito dai contratti collettivi).
 
L’esercizio dei diritti sindacali.
Ai lavoratori delle società o imprese di somministrazione si applicano i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori.
Per impedire che la dislocazione dei dipendenti dell'agenzia presso diversi utilizzatori possa pregiudicare l'esercizio dei loro diritti sindacali nei confronti dell'agenzia medesima, ai prestatori di lavoro che dipendono da uno stesso somministratore e che operano presso diversi utilizzatori compete uno specifico diritto di riunione secondo la normativa vigente e con le modalità specifiche determinate dalla contrattazione collettiva.
 
L’estinzione del rapporto.
Per quanto riguarda l’estinzione del rapporto, essa può aversi, in primo luogo, in seguito a dimissioni del lavoratore. Altra ipotesi è quella del licenziamento. A questo proposito, occorre distinguere fra tre situazioni diverse:
i) nel caso di staff-leasing, come si è visto, trova applicazione la “disciplina generale dei rapporti di lavoro subordinato”. Di conseguenza, il datore di lavoro potrà recedere in presenza di una giusta causa oppure di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo);
ii) nel caso di somministrazione a tempo determinato, con assunzione a termine del lavoratore da parte dell'agenzia, il rapporto di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001, in quanto compatibile (art. 22, comma 5°). Ne consegue che, il recesso ante tempus dovrebbe essere consentito solo per giusta causa;
iii) anche nel caso di somministrazione a termine, ma con assunzione del lavoratore a tempo indeterminato, è applicabile la disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001, in quanto compatibile (art. 22, comma 5°). Sennonché nell'ipotesi in cui i lavoratori vengano assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, essi rimangono a disposizione del somministratore per i periodi in cui non svolgono la prestazione lavorativa presso un utilizzatore, salvo che esista una giusta causa o un giustificato motivo di risoluzione del contratto di lavoro. Le due disposizioni potrebbero essere coordinate tra loro in questo modo: a) durante il periodo di somministrazione, il recesso dovrebbe essere consentito solo per giusta causa, come accade per i contratti a termine, di cui è richiamata la disciplina; b) dal momento della cessazione del periodo di somministrazione – dunque, durante il periodo di disponibilità presso l'Agenzia – il recesso sarebbe possibile non solo in presenza di una giusta causa, ma anche un di giustificato motivo.
 
L’esecuzione della prestazione di lavoro.
Per quanto riguarda la relazione tra lavoratore ed utilizzatore, si è già detto che tra questi due soggetti non intercorre un rapporto di lavoro, ma solo una relazione di fatto. Tuttavia, anche tra lavoratore ed utilizzatore sorgono diritti e obblighi reciproci.
In primo luogo “per tutta la durata della somministrazione, i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto il controllo e la direzione dell’utilizzatore”. Quindi, da un lato, all’utilizzatore compete l’esercizio del potere direttivo; dall’altro lato, il lavoratore dovrà eseguire la prestazione di lavoro attenendosi alle indicazioni dell’utilizzatore e rispettando gli obblighi di cui agli artt. 2104-2105 del codice civile.
Per quanto attiene all’esercizio dei diritti sindacali il prestatore di lavoro ha diritto ad esercitare presso l’utilizzatore, per tutta la durata della somministrazione, “i diritti di libertà e di attività sindacale nonché a partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici”. In caso di contratto di somministrazione, il prestatore di lavoro non é computato nell'organico dell'utilizzatore ai fini della applicazione di normative di legge o di contratto collettivo. Questa norma può avere una certa rilevanza soprattutto per il fatto che consente all’utilizzatore di mantenersi al di sotto della soglia dimensionale richiesta per l’applicazione dell’art. 18 o del Titolo III dello Statuto dei lavoratori, pur disponendo, nei fatti, di un organico superiore.
 
Le patologie del rapporto.
i) Parlando della forma del contratto di somministrazione, è già stato affrontato il problema della sanzione prevista per i vizi di forma: "il contratto di somministrazione è nullo e i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore".
ii) Nel caso in cui la somministrazione sia irregolare, quando cioè la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni previsti, il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione.
iii) Nel caso invece di somministrazione fraudolenta, che ricorre ogni qual volta la somministrazione sia utilizzata "con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore", al somministratore e all'utilizzatore è irrogata "un'ammenda di 20 € per ciascun lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di somministrazione".
 
3.2 Il comando o distacco del lavoratore. (art. 1 legge delega; art. 30, decreto legislativo)
 
La fattispecie.
Il d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che si ha distacco quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. Istituto di origine giurisprudenziale, esso trova ora specifica disciplina nell’art. 30, che individua espressamente i requisiti necessari per la legittimità della prestazione lavorativa mediante distacco, onde distinguerlo dalla interposizione, tuttora vietata.
 
I requisiti del distacco.
Il legislatore della riforma indica due condizioni necessarie affinché il distacco possa dirsi legittimo:
i) l’interesse del datore di lavoro a distaccare il lavoratore;
ii) la temporaneità del distacco.
Per quanto attiene al primo requisito, in assenza di ulteriori specificazioni, è sufficiente anche il solo interesse del datore a sgravarsi temporaneamente del costo del personale distaccato, che resta comunque legato all’impresa in vista di un suo pronto riutilizzo, ad esempio al termine di una fase di contrazione produttiva. Un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene altresì l’interesse del soggetto distaccante e del soggetto fruitore della prestazione in re ipsa qualora il distacco avvenga presso una società collegata, in considerazione dell’appartenenza ad un medesimo gruppo. Per quanto riguarda il requisito della temporaneità, quest’ultimo deve essere inteso in senso potenziale o teorico, ovvero, secondo l’orientamento consolidato in giurisprudenza, non come brevità ma come non definitività, correlata alla persistenza dell’interesse al distacco. Ne consegue che il distaccante ed il distaccatario non devono accordarsi per una durata predefinita del distacco.
 
Il distacco comportante un mutamento di mansioni o uno spostamento oltre i 50 Km.
Il legislatore, con una disciplina invero di non facile interpretazione, regola l’ipotesi in cui al distacco si accompagni un mutamento di mansioni, per sancire che in tal caso lo spostamento non potrà avvenire se non con il consenso del lavoratore. E’ difficile coordinare questa disposizione con la disciplina del c.d. ius variandi di cui all’art. 2103.
La norma sembra introdurre una regolamentazione speciale della variabilità delle mansioni del lavoratore distaccato, rendendola sempre legittima in caso di consenso del lavoratore, in deroga alla regola generale contenuta nell’art. 2103 cod. civ. che limita la variabilità sia unilaterale che consensuale all’equivalenza economica e professionale delle mansioni di origine e di destinazione. Il legislatore disciplina anche l’ipotesi in cui il distacco avvenga ad una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella presso cui il lavoratore opera, per stabilire che esso è ammissibile solo in presenza di un interesse qualificato da comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive. Non si capisce in che cosa possano tradursi queste ragioni e soprattutto in che cosa questo interesse qualificato si distingua da quell’interesse del distaccante che è condizione di legittimità del distacco.
 
Il trattamento economico e normativo del lavoratore.
“Il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo del lavoratore distaccato, nonché di tutti gli adempimenti amministrativi e previdenziali”, sancisce il 2° comma dell’art. 30. Per il resto continueranno a trovare applicazione le regole frutto dell’elaborazione giurisprudenziale.
Il distaccatario potrà esercitare il potere direttivo, affinché la prestazione venga integrata nella propria organizzazione produttiva. L’esercizio del potere disciplinare dovrebbe rimanere in capo al distaccante, salvo che nell’accordo tra le imprese sia prevista la delega al distaccatario. Il lavoratore, dal canto suo, dovrà rispettare l’obbligo di fedeltà e diligenza sia verso il distaccatario che verso il distaccante.
 
3.3. Il trasferimento d’azienda. (art. 1 legge delega; art. 32, decreto legislativo)
 
Introduzione.
Il trasferimento d’azienda è disciplinato dall’art. 2112 cod. civ. e dall’art. 47 della legge n. 428 del 1990, così come modificati dal d.lgs. n. 18/2001 e, da ultimo, dal d.lgs. 276/2003. Anche in relazione all’istituto del trasferimento d’azienda è possibile registrare un significativo intervento del legislatore della riforma. Quest’ultimo, senza incidere sugli altri profili di disciplina della materia (per i quali si rinvia al manuale), riforma il 5° comma dell’art. 2112 nella parte avente ad oggetto la definizione della fattispecie “trasferimento di un ramo dell’azienda”.
Secondo la nuova versione del 5° comma dell’art. 2112, deve intendersi per ramo dell’azienda “l’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento”.
L’individuazione dei contorni della fattispecie costituisce un’operazione di fondamentale importanza essendo rivolta a circoscrivere l’ambito di applicazione di una normativa inderogabile. In altre parole, gli effetti previsti dalla norma, la continuità del rapporto di lavoro, la solidarietà dell’alienante e dell’acquirente, nonché la stessa procedura sindacale, si attivano soltanto in presenza di un trasferimento di azienda. Solo in tal caso la cessione del rapporto di lavoro non richiede il consenso del lavoratore, a differenza di quanto accadrebbe nel caso in cui venissero ceduti dall’alienante beni e rapporti che non formano l’azienda; in tale ultima ipotesi, infatti, il trasferimento del rapporto lavorativo si configurerebbe come cessione del contratto, per cui risulterebbe indispensabile il consenso del lavoratore ai sensi dell’art. 1406 cod. civ. La versione originaria dell’art. 2112 – da ultimo modificata nel 2001 - individuava come ramo d’azienda “l’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata ai sensi del presente comma, preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”.
La definizione confermava l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in assenza di un’esplicita previsione legislativa, la disciplina del trasferimento d’azienda doveva essere applicata anche alle cessioni di una singola parte dell’azienda, purché si trattasse di un complesso di beni autonomamente suscettibile di costituire idoneo e compiuto strumento di impresa. L’articolazione ceduta doveva essere cioè in grado di produrre in modo autosufficiente un servizio, realizzato in funzione delle esigenze dell’azienda, ma idoneo ad essere di per sé oggetto anche di valutazioni economiche, prescindendo dalla funzione che è chiamato ad assolvere all’interno dell’organizzazione di impresa.
 
La nuova nozione di ramo d’azienda.
Il faticoso equilibrio tra esigenze di tutela dei lavoratori e libertà di scelta dell’imprenditore raggiunto con la definizione di “ramo d’azienda” elaborata dal d.lgs. n. 18/2001 viene messo in pericolo dal d.lgs. n. 276/2003, che dispone la eliminazione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo di azienda preesistente al trasferimento.
Eliminando il requisito della preesistenza dell’autonomia funzionale, la riforma sembra avvalorare un criterio soggettivo di identificazione della parte di impresa da trasferire, rimettendo alla volontà del cedente e del cessionario l’individuazione del c.d. ramo d’azienda e della sua autonomia funzionale.
La direttiva comunitaria 98/50/Ce, di cui il d.lgs. n. 18/2001 è attuazione, nel definire la fattispecie del trasferimento di un ramo d’azienda non contiene invero alcun riferimento al concetto di “autonomia funzionale preesistente al trasferimento”, richiedendo invece che l’entità trasferita “conservi la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere attività economica sia essa essenziale o accessoria”. Nella nozione comunitaria ciò che viene richiesto, dunque, è solo un residuo di organizzazione che dimostri l’attitudine all’esercizio potenziale all’esercizio dell’attività di impresa, implicitamente ammettendo il trasferimento anche di attività non compiutamente delimitate od indipendenti presso l’impresa cedente. Da questo punto di vista, la riscrittura dell’art. 2112 contribuirebbe a rendere la disciplina interna in linea con la tecnica normativa utilizzata dalla direttiva comunitaria 98/50/Ce. Pur alla luce della ratio dell’intervento riformatore, la disposizione non manca tuttavia di suscitare perplessità.
E’ già stato sostenuto che il venir meno del requisito della preesistente autonomia funzionale del ramo di azienda eliminerebbe una disposizione a tutela dei lavoratori, facendo del trasferimento del ramo di una azienda uno strumento atto ad eludere la disciplina in materia di licenziamenti collettivi.
Il requisito era stato indubbiamente introdotto in chiave antifraudolenta.
Utilizzando questa chiave antifraudolenta, ancora oggi si può ritenere che il trasferimento del ramo d’azienda debba poggiare comunque, pur in assenza di esplicita previsione normativa, su un criterio di reale autonomia, anche se potenziale, dell’attività trasferita.
 
4. Le tipologie contrattuali.
Tra le finalità perseguite dal decreto legislativo n. 276/2003, vi è certamente quella di sedare la continua espansione – registratasi a partire dal 1995 – dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Onde evitare la stipulazione di contratti di lavoro asseritamente autonomo che, per le modalità esecutive con cui hanno svolgimento, celano in realtà vere e proprie situazioni di subordinazione, il legislatore del 2003 ha ritenuto opportuno muoversi in due direzioni.
Da un lato, il decreto legislativo n. 276/2003 definisce e disciplina la fattispecie del c.d. lavoro a progetto (artt. 61 ss.), introducendo più rigorosi elementi nella qualificazione della fattispecie “lavoro coordinato e continuativo”.
Dall’altro, al fine di incentivare la stipulazione di contratti di lavoro riconducibili, a pieno titolo, nella più tutelata area della subordinazione, lo stesso provvedimento legislativo contempla un ampio ventaglio di tipologie e schemi contrattuali, nell’intento di apprestare modelli negoziali idonei a soddisfare le esigenze di uno svolgimento flessibile del rapporto di lavoro. All’interno del decreto legislativo si rinviene dunque un’articolata disciplina relativa ad una serie di differenti schemi contrattuali, attraverso i quali può avere svolgimento il rapporto di lavoro.
Fatta eccezione per la fattispecie della somministrazione, che presenta uno schema negoziale trilaterale, le rimanenti tipologie contrattuali regolate dal d.lgs. n. 276/2003 (lavoro intermittente, a tempo parziale, ripartito) sono riconducibili allo schema sinallagmatico-bilaterale del contratto di lavoro subordinato.
In relazione ad alcune delle fattispecie contemplate dal legislatore, la disciplina legale assolve soltanto il compito di introdurre una regolamentazione più compiuta di rapporti contrattuali già ammessi dall’ordinamento. Ciò vale per quei rapporti che, pur non essendo corredati da norme legali ad hoc, dovevano ritenersi legittima espressione dell’autonomia negoziale delle parti: è questo il caso, come si vedrà, del contratto di lavoro ripartito (c.d. job-sharing), in cui l’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa è assunto in solido da parte di due o più soggetti. In altre ipotesi, invece, il d.lgs. n. 276/2003, introduce schemi contrattuali più radicalmente innovativi, come nel caso del lavoro intermittente (c.d. job on call) e del lavoro accessorio.
 
4.1. Il lavoro a tempo parziale. (art. 3, legge delega; art. 46, decreto legislativo)
 
Introduzione.
Si definisce “tempo parziale”, o part-time, il tempo di lavoro inferiore al “tempo pieno”. La misura della prestazione di lavoro a tempo pieno si definisce più precisamente come “orario normale di lavoro”. L’orario normale di lavoro è fissato dalla legge in 40 ore settimanali, salvo che esso sia stabilito in una misura inferiore dai contratti collettivi (cfr. d.lgs. n. 66/2003). Dunque, il tempo parziale consiste in una durata del tempo di lavoro inferiore alle 40 ore settimanali o all’eventuale minore orario fissato dai contratti collettivi.
Va da sé, quindi, che con l’espressione “rapporto di lavoro a tempo parziale” (o rapporto di lavoro part-time) ci riferiamo a una prestazione lavorativa di durata inferiore all’orario normale di lavoro. Il lavoro a tempo parziale è oggetto di disciplina normativa a diversi livelli: i) a livello internazionale, è oggetto di una convenzione dell’OIL (n. 175/1994); ii) a livello comunitario, di una direttiva del Consiglio dell’Unione europea (n. 97/81); iii) a livello nazionale, è disciplinato dal d.lgs. n. 61/2000, modificato più volte (da ultimo, dal d.lgs. n. 276/2003).
Nel nostro Paese il lavoro a tempo parziale è stato per molto tempo osteggiato dal legislatore e da parte del mondo sindacale, principalmente per il fatto che la prestazione a orario ridotto (e quindi a retribuzione ridotta) pone il lavoratore in una condizione socio-economica di ulteriore debolezza, rispetto a quella che caratterizza normalmente il lavoro subordinato.
Per questo motivo, la normativa in materia (sia quella interna, sia quella internazionale) ha posto un principio di “non-discriminazione” del lavoratore a tempo parziale rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile (quello, cioè, svolgente le stesse o analoghe mansioni). Questo principio comporta che il lavoratore a tempo parziale non debba essere assoggettato a un trattamento economico-normativo inferiore in virtù della prestazione a orario ridotto (pertanto, ad es., l’importo della retribuzione “oraria” dovrà essere lo stesso di un lavoratore a tempo pieno). Lo stesso principio implica, invece, che determinati trattamenti siano riproporzionati, in base all’orario di lavoro prestato, rispetto a quelli dovuti per il caso di un lavoratore a tempo pieno (ad es., importo
3 Il d.l.gs. 8 aprile 2003, n. 66 introduce la nuova disciplina dell’orario di lavoro, che si applica, a mente dell'art. 2, a "tutti i settori di attività pubblici e privati". Il legislatore si è anzitutto preoccupato di definire l'orario di lavoro come "qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni" (art. 1), con ciò superando ed ampliando la nozione di "lavoro effettivo" fatta propria dalla normativa del 1923.
L'orario normale di lavoro è di fissato, come già nella legge del 1997, in 40 ore settimanali, ma i contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, potranno individuare una durata inferiore e "riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno" (art. 3). Qualora venga scelta quest'ultima opzione, le ore di lavoro che eccedano il limite massimo non saranno computate come straordinario, ma saranno compensate da altrettante ore di riposo nel restante periodo di riferimento. E' comunque previsto un limite massimo invalicabile di durata della prestazione lavorativa settimanale: l'art. 4 prevede che esso sia stabilito dai contratti collettivi cui si è più sopra fatto cenno, con l'avvertenza che non potrà peraltro superare le 48 ore settimanali, comprese le ore di lavoro straordinario. Come nel caso dell'orario normale, anche il limite massimo di durata potrà essere riferita ad una media della retribuzione “globale”). Il principio di proporzionalità rispetto all’orario svolto si applica anche ai fini del computo dei lavoratori a tempo parziale, quando per disposizione di legge o di contratto collettivo sia necessario accertare la consistenza dell’organico dell’impresa (per cui, se l’orario normale è di 40 ore settimanali, il lavoratore part-time a 20 ore settimanali sarà computato come “mezzo” dipendente).
Nei Paesi occidentali il ricorso al lavoro a tempo parziale è fortemente cresciuto negli ultimi anni, per diversi motivi. Gli Stati, in primo luogo, hanno incoraggiato l’utilizzo di questa tipologia contrattuale, ritenendo che la riduzione dell’orario di lavoro fosse strumento idoneo a creare nuovi posti di lavoro (questo nesso tra riduzione d’orario e benefici occupazionali è in verità da molti contestato). Più specificamente, si ritiene che il part-time possa favorire l’ingresso (o il reingresso) nel mercato del lavoro di fasce deboli della popolazione (donne, giovani, anziani). E’ possibile peraltro che il lavoro a tempo parziale rappresenti una scelta consapevole da parte del lavoratore, poiché consente di utilizzare il tempo di non-lavoro al fine di occuparsi della famiglia, di svolgere una seconda attività lavorativa (magari di carattere autonomo), di curare la propria formazione, ecc.
Esistono tre tipologie di lavoro part-time: i) part-time “orizzontale”, per cui la riduzione dell’orario è effettuata in base ad ogni singola giornata lavorativa; ii) part-time “verticale”, nel quale la prestazione lavorativa è svolta a tempo pieno, ma limitatamente a predeterminati periodi nel corso della settimana, del mese o dell’anno; iii) part-time “misto”, risultante di una combinazione del part-time orizzontale e di quello verticale.
Inoltre, il contratto di lavoro a tempo parziale si può combinare con il contratto a termine, per cui è consentito stipulare un contratto di lavoro a tempo parziale e determinato.
 
Forma, contenuti del contratto e sanzioni.
Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta. Tuttavia, questa non è richiesta ad substantiam ma ad probationem. Ne consegue che la sua mancanza non comporta la nullità del contratto di lavoro. E’ dunque possibile provare la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo parziale mediante la prova testimoniale, nei limiti di cui all’art. 2725 cod. civ. (cioè nel caso in cui il contraente abbia senza colpa perduto il documento che gli forniva la prova scritta). In difetto di prova, su richiesta del lavoratore, potrà essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo “pieno” a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata. In altre parole, la “sanzione” per la mancanza della forma prescritta consiste nella prosecuzione del rapporto di lavoro con modalità a tempo pieno, con effetti ex nunc.
E’ poi prescritto (art. 2) che nel contratto a tempo parziale siano indicate la “durata” della prestazione e la sua “collocazione temporale” nel giorno, nella settimana, nel mese e nell’anno (in altre parole, è necessario indicare il quantum di ore di lavoro e la sua distribuzione). La mancata indicazione di questi elementi comporta delle conseguenze sul piano sanzionatorio. Se non è indicata la durata della prestazione, su richiesta del lavoratore potrà essere dichiarata la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale. Se difetta invece la sola collocazione temporale, sarà il giudice a determinarla: i) facendo riferimento alla eventuale disciplina del part-time contenuta nei contratti collettivi; ii) in mancanza di detta disciplina, con valutazione equitativa, tenuto conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro.
In entrambi i casi, in cui manchino l’indicazione della durata o della collocazione temporale, il lavoratore ha diritto a una somma, liquidata dal giudice in via equitativa, a titolo di risarcimento del danno.
 
Il “diritto al part-time”.
Nel nostro ordinamento non esiste in linea generale un diritto del lavoratore ad essere assunto a tempo parziale, né un diritto a vedere trasformato il rapporto a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale. L’unica eccezione concerne i lavoratori affetti da patologie oncologiche, i quali hanno diritto di trasformare il rapporto di lavoro dal tempo pieno al tempo parziale, nonché di riconvertirlo successivamente in rapporto a tempo pieno. La trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale è ovviamente possibile in presenza di un accordo scritto delle parti, convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro.
La legge tenta comunque di favorire l’aspirazione di un lavoratore a trasformare il rapporto da tempo pieno a tempo parziale. Nell’art. 5 del d.lgs. n. 61/2000 si dispone infatti che, qualora il datore di lavoro intenda assumere personale a tempo parziale, debba: i) darne tempestiva informazione al personale già dipendente con rapporto a tempo pieno occupato in unità produttive site nello stesso ambito comunale, anche mediante comunicazione scritta in luogo accessibile a tutti nei locali dell’impresa; ii) prendere in considerazione le eventuali domande di trasformazione a tempo parziale del rapporto dei dipendenti a tempo pieno.
Con riferimento al caso inverso, della trasformazione del rapporto part-time in rapporto a tempo pieno, la normativa prevede che il contratto individuale possa assegnare ai dipendenti part-time un diritto di precedenza nelle future assunzioni a tempo pieno, relativamente alle stesse mansioni o a mansioni equivalenti.
Dovendo intercorrere un accordo tra le parti al fine di modificare, in un senso o nell’altro, l’orario di lavoro, la legge precisa che il rifiuto di trasformare il rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
 
La disciplina del rapporto a tempo parziale.
Come visto nel precedente paragrafo, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale determinano nel testo contrattuale la durata della prestazione e la sua collocazione temporale. Da questo punto di vista, si è da più parti ritenuto che la disciplina del part-time, prima della recente modifica ad opera del d.lgs. n. 276/2003, fosse eccessivamente “rigida”, consentendo variazioni della durata e della collocazione temporale solo in presenza di requisiti assai rigorosi. E ciò è stato visto come una delle cause dello scarso ricorso al lavoro part-time da parte dei datori di lavoro. La riforma ha inciso notevolmente su questo punto, modificando, da una parte, la disciplina del lavoro “supplementare” e “straordinario”, nonché delle clausole “elastiche” (strumenti, questi, che consentono di variare in aumento la durata della prestazione lavorativa); dall’altra, la disciplina delle clausole “flessibili” (che permettono di variare la collocazione della durata della prestazione lavorativa).
 
Lavoro supplementare e straordinario.
Per lavoro supplementare si intende il lavoro prestato in misura superiore all’orario concordato nel contratto individuale, ma comunque inferiore al tempo pieno. Esso dunque consente di modificare (in aumento) la durata del lavoro a tempo parziale nel corso dello svolgimento del rapporto. Mentre la precedente disciplina era molto restrittiva, rendendo piuttosto difficoltoso il ricorso al lavoro supplementare, la recente riforma attenua alcune rigidità.
In via preliminare, va precisato che il lavoro supplementare ricorre unicamente nel caso di part-time di tipo orizzontale (anche a tempo determinato), dove, come detto, la prestazione si effettua a orario ridotto rispetto all’orario normale giornaliero di lavoro.
La legge (art. 3) rinvia, per la disciplina del lavoro supplementare (numero massimo di ore, conseguenze del superamento del numero massimo di ore, causali in presenza delle quali è ammesso il lavoro supplementare) ai contratti collettivi stipulati a livello nazionale e territoriale dai sindacati comparativamente più rappresentativi o, a livello aziendale, da datore di lavoro e RSA o RSU.
In presenza di una disciplina collettiva applicabile e nei limiti da essa fissati il lavoratore sarà tenuto a prestazioni di lavoro supplementare, senza che sia necessario il suo consenso individuale. Questa disposizione è stata criticata, poiché si ritiene che impedisca al singolo lavoratore di programmare con certezza il tempo di lavoro. L’obbligo di prestare lavoro supplementare ogni volta che il datore lo richieda potrebbe pregiudicare lo svolgimento di una seconda prestazione lavorativa o la cura di altri interessi, in vista dei quali il lavoratore si è determinato alla scelta di un lavoro a tempo parziale.
Solo nel caso in cui i contratti collettivi non prevedano e non regolamentino il lavoro supplementare, e manchi dunque una disciplina collettiva, il datore di lavoro dovrà necessariamente ottenere il consenso individuale del lavoratore al fine della prestazione di lavoro supplementare. ii) Il lavoro straordinario è invece il lavoro prestato in sovrappiù rispetto all’orario a tempo pieno (che, come detto, è di 40 ore settimanali salva riduzione da parte dei contratti collettivi). Esso è consentito, nell’ambito del part-time, solo per le tipologie “verticale” e “misto”, anche a tempo determinato. Al lavoro straordinario si applica la disciplina generale, di cui al d.lgs. n. 66/2003.
 
Clausole elastiche e flessibili.
Le c.d. clausole elastiche e quelle flessibili hanno due funzioni diverse.
Le prime comportano la variazione in aumento della “durata” della prestazione; le seconde, la variazione della sua “collocazione temporale”, rispetto a quella concordata (con riferimento al giorno, alla settimana, al mese, all’anno) nel contratto individuale. La trattazione è però unificata in questo paragrafo per la sostanziale coincidenza della loro disciplina.
La variabilità della durata della prestazione ovvero della sua collocazione temporale può essere prevista nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi. Questi ultimi devono determinare: i) condizioni e modalità in relazione alle quali il datore di lavoro può modificare la collocazione della prestazione lavorativa o la sua estensione temporale in aumento; ii) i limiti massimi di variabilità in aumento della prestazione lavorativa.
In mancanza di una disciplina collettiva (o nel caso in cui questa sia incompleta), le parti individuali possono accordarsi direttamente.
L’inserimento di queste clausole nel contratto comporta per il lavoratore la disponibilità alle variazioni dette. Consapevole della gravosità di tale obbligo, il legislatore prevede che tale disponibilità richieda il consenso del lavoratore formalizzato in uno specifico patto scritto. Una volta che le clausole flessibili o elastiche siano inserite nel contratto individuale, il datore di lavoro potrà esercitare lo ius variandi. Nel fare ciò, dovrà dare però un preavviso di almeno due giorni (fatte salve diverse intese tra le parti) e dovrà corrispondere “specifiche compensazioni” a favore del lavoratore, secondo quanto stabilito dai contratti collettivi.
La effettuazione di prestazioni di lavoro in regime di flessibilità (della durata e della collocazione) in violazione della disciplina sulle clausole elastiche e flessibili comporta la corresponsione a favore del lavoratore, oltre che della retribuzione, di una somma a titolo di risarcimento del danno. Le clausole elastiche e flessibili possono essere apposte anche ad un contratto part-time a termine.
 
4.2. I contratti con finalità formativa. (art. 2, legge delega; artt. 47-60, decreto legislativo)
 
Introduzione.
I contratti di lavoro con finalità formativa disciplinati dal d.lgs. n. 276/2003 sono due: i) il contratto di apprendistato e ii) il contratto di inserimento (ex contratto di formazione e lavoro). Tali contratti vengono altresì denominati contratti a causa mista in quanto lo scambio lavoro contro retribuzione viene arricchito dal profilo dell’addestramento del prestatore di lavoro.
 
Le disfunzioni della disciplina previgente.
Il legislatore della riforma non introduce ex novo le due tipologie contrattuali, limitandosi a modificare, anche se profondamente, la disciplina dei contratti a contenuto formativo (apprendistato e formazione lavoro) da tempo presenti nel nostro ordinamento.
La ratio dell’intervento governativo in materia è riassumibile nel tentativo di porre fine alle ambiguità e agli equivoci che ne hanno contraddistinto l’utilizzo e lo sviluppo. Le assunzioni di personale con contratto di formazione si sono fatte via via sempre più massicce, sino al punto che le imprese hanno iniziato a coprire con tale tipologia contrattuale tutto il loro turn over. Grazie agli incentivi legislativi e contrattuali ad esso connessi, le aziende acquisivano manodopera necessaria a costo considerevolmente ridotto.
Il fenomeno dell’eccessivo ricorso al contratto di formazione e lavoro ha finito per oscurare l’altro contratto formativo, l’apprendistato, che, a sua volta, è stato oggetto di manovre legislative volte ad incentivarne l’utilizzo. Ne è conseguita una parziale sovrapposizione dei due contratti che ne ha determinato la disfunzione.
La componente più genuinamente formativa del sinallagma contrattuale è stata per di più mortificata. Accanto ai tradizionali obiettivi formativi si sono progressivamente affiancate, fino ad assumere un ruolo preponderante, funzioni ulteriori ed improprie delle due tipologie contrattuali, quali la riduzione del costo del lavoro e il sostegno del reddito di fasce sempre più estese di giovani disoccupati.
 
Le linee di riforma dal Libro Bianco al d.lgs. n. 276/2003.
La revisione dei contratti a contenuto formativo è stata propugnata già dal Libro Bianco sul mercato del lavoro. Secondo quest’ultimo, il riordino dei contratti con finalità formativa avrebbe dovuto attuare una maggiore distinzione tra le funzioni proprie dell’apprendistato e quelle del contratto di formazione e lavoro (d’ora in poi CFL): il primo avrebbe dovuto essere valorizzato come strumento formativo per il mercato, mentre il secondo avrebbe dovuto essere concepito come veicolo di inserimento mirato del lavoratore in azienda.
Un’impostazione del genere mirava a fare dell’apprendistato una tipologia contrattuale funzionale alle esigenze effettive del mercato, e del CFL il mezzo per adeguare la professionalità posseduta dal lavoratore alle concrete esigenze dell’impresa che lo assume.
Con la riforma, l’apprendistato diventa uno strumento di formazione vera e propria per il mercato, mentre il CFL viene meno ed al suo posto il legislatore tipizza un nuovo schema contrattuale flessibile, denominato contratto di inserimento, in cui il profilo della formazione è del tutto eventuale rispetto all’obiettivo primario di inserire o reinserire nel mercato del lavoro particolari categorie di persone.
 
Il nuovo apprendistato.
L’art. 47 del d.lgs. n. 276/2003 identifica tre tipologie di contratti di apprendistato, che, con diversa gradualità, coniugano la formazione con il lavoro, nell’ottica della preparazione del giovane non tanto per la singola attività quanto per il mercato del lavoro.
i) Il contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione;
ii) Il contratto di apprendistato professionalizzante per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale;
iii) Il contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione.
 
Il contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione.
Finalità prima di questa tipologia contrattuale è far conseguire al lavoratore una qualifica professionale.
Possono essere assunti con contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione, i giovani e gli adolescenti che abbiano compiuto quindici anni, ovvero, anche soggetti di età superiore ai diciotto che non abbiano ancora completato il percorso di istruzione e formazione iniziale.
Con l’entrata a regime della c.d. riforma Moratti, che prevede dodici anni di istruzione obbligatoria, questo tipo di contratto di apprendistato risulta l’unica forma di rapporto di lavoro possibile tra i quindici e i diciotto anni.
La durata del contratto non può essere superiore ai 3 anni.
La regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione è rimandata alle Regioni. In particolare, alle Regioni spetterà disciplinare il monte ore di formazione interna ed esterna alla azienda idoneo al conseguimento della qualifica professionale; il riconoscimento, sulla base dei risultati conseguiti all’interno del percorso di formazione esterna ed interna all’impresa, della qualifica professionale ai fini contrattuali; la registrazione della formazione effettuata nel libretto formativo; la presenza di un tutore aziendale con formazione e competenze adeguate.
In particolare questi ultimi due requisiti, libretto formativo in cui vengono registrate le competenze acquisite durante la formazione del lavoratore in tutto l’arco della vita lavorativa e tutore aziendale con formazione e competenze adeguate, dovrebbero scongiurare la possibilità di un abuso dell’istituto.
 
Il contratto di apprendistato professionalizzante.
Questo contratto consente al lavoratore l’acquisizione di competenze di base trasversali e tecnico-professionali.
Possono essere assunti con contratto di apprendistato professionalizzante i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni.
La durata del contratto non può essere inferiore a 2 e superiore a 6 anni. La regolamentazione dei profili formativi dell’apprendistato professionalizzante è rimandata alle Regioni. Saranno poi i contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a determinare le modalità di erogazione ed articolazione della formazione interna ed esterna all’azienda.
 
Il contratto di apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione. L’obiettivo di questo contratto è quello di consentire al lavoratore il conseguimento di un titolo di studio di livello secondario, universitario e di alta formazione.
Possono essere assunti con questa tipologia contrattuale i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni.
Le Regioni saranno responsabili della regolamentazione dei profili che attengono alla formazione.
 
Le regole comuni ai tre percorsi e gli incentivi.
Il contratto di apprendistato, nelle sue tre varianti, costituisce una forma di assunzione particolarmente vantaggiosa per i datori di lavoro per via dei consistenti incentivi normativi, retributivi e contributivi ad esso connessi.
Durante il rapporto di apprendistato, la categoria di inquadramento del lavoratore potrà essere inferiore di due livelli alla categoria spettante, in applicazione del CCNL, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto.
I lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti per l’applicazione di particolari normative ed istituti, fatte salve specifiche previsioni di legge o di contratto collettivo.
Restano confermati, in attesa della riforma degli incentivi all’occupazione, gli attuali sistemi di incentivazione economica: retribuzione ridotta, contribuzione minima e fissa settimanale, la cui erogazione è soggetta all’effettiva verifica della formazione svolta secondo modalità che saranno fissate con apposito decreto ministeriale.
L’eventuale inadempimento formativo è punito con il versamento della quota di contributi agevolati e con la maggiorazione del 100% della quota agevolata.
 
Il contratto di inserimento.
La seconda tipologia contrattuale a contenuto formativo è il contratto di inserimento (ex contratto di formazione e lavoro).
Preso atto della quasi totale inesistenza di una componente formativa nel contratto di formazione e lavoro, fin dalla stesura del Libro Bianco, si è auspicata la rivisitazione di quest’ultimo come strumento “per realizzare un inserimento mirato del lavoratore nell’azienda”. Il legislatore della riforma ridisegna dunque la figura del CFL, denominandolo contratto di inserimento, con finalità di inserimento appunto, e, soprattutto, di reinserimento nel mercato del lavoro di particolari gruppi di lavoratori attraverso un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali a un determinato contesto lavorativo.
La durata del contratto di inserimento non può essere inferiore a nove mesi né superiore a diciotto.
Il contratto di inserimento viene equiparato quanto a disciplina applicabile al contratto di lavoro a tempo determinato, da cui si differenzia per la presenza di un progetto di inserimento e per il fatto che il contratto non è rinnovabile tra le parti ed eventuali proroghe sono ammesse entro il limite massimo di durata.
Possono essere soggetti di un contratto di inserimento:
-i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni;
-disoccupati di lunga durata da ventinove fino a trentadue anni;
-lavoratori con più di cinquant’anni di età privi di occupazione;
-lavoratori che desiderino riprendere un’attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni;
-persone affette da un grave handicap fisico mentale o psichico;
-donne di qualsiasi età residenti in aree geografiche a basso tasso di occupazione femminile. Elemento centrale del contratto di inserimento è la messa a punto da parte dei contraenti del cd. piano di inserimento professionale. Spetta ai contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale, territoriale od aziendale da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentativi determinarne le modalità di definizione.
 
Gli incentivi.
Per quanto riguarda gli incentivi, apprendistato e contratto di inserimento non differiscono in relazione a quelli di tipo normativo e retributivo. Destinato profondamente a mutare è invece il regime degli incentivi di tipo economico. In attesa della riforma del sistema degli incentivi all’occupazione, in caso di contratto di inserimento troveranno applicazione gli attuali incentivi economici previsti per il cfl ma solo con riferimento all’assunzione di lavoratori svantaggiati così come definiti dalla direttiva n. 2204/2002/Ce.
In caso di gravi inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di inserimento il datore è tenuto a versare la quota di contributi agevolati maggiorati del 100%.
 
4.3. Le altre tipologie contrattuali (lavoro intermittente, ripartito, accessorio, occasionale).
 
Il contratto di lavoro intermittente. (art. 4, legge delega; art. 33-40, decreto legislativo)
Mediante il contratto di lavoro intermittente “un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa”. Stando alla definizione legale, dunque, la principale obbligazione gravante sul lavoratore è costituita non tanto dall’esecuzione della prestazione di lavoro, quanto dalla propria disponibilità al lavoro.
Tale schema contrattuale intende rispondere all’esigenza imprenditoriale di disporre in modo flessibile della forza-lavoro, per periodi tendenzialmente brevi ed in modo discontinuo, se e quando se ne manifestasse la necessità. Le parti, al momento della stipulazione, non determinano con esattezza l’estensione temporale della prestazione di lavoro né la sua collocazione temporale, rimanendo perciò incerti sia il quando sia l’an della prestazione lavorativa. Proprio tale stato di incertezza, connaturato alla fattispecie, mostra chiaramente la sussistenza di speciali esigenze di tutela del lavoratore, perseguite dal legislatore del 2003 sotto diversi profili. Innanzitutto, il ricorso al contratto di lavoro intermittente va annoverato tra i casi, già conosciuti dall’ordinamento, di c.d. flessibilità contrattata. Il decreto legislativo rimette infatti ai contratti collettivi, stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale o territoriale, il compito di individuare le ipotesi ed i casi in cui sarà consentita la conclusione di tale contratto. Saranno dunque i contraenti collettivi a determinare, con riferimento alle peculiarità ed alle esigenze di ciascun settore merceologico, le situazioni che giustificano la stipulazione di contratti individuali di lavoro intermittente.
Sul piano delle fonti di disciplina della fattispecie, esce invece dai più collaudati schemi normativi del nostro ordinamento la previsione che attribuisce al Ministro del lavoro il compito di sostituirsi provvisoriamente alle parti sociali, attraverso un proprio decreto, ove gli accordi collettivi di cui si è appena detto non vengano conclusi.
In ogni caso, sino alla stipulazione dei succitati contratti collettivi (o, in assenza di questi, sino all’emanazione del menzionato decreto ministeriale), la conclusione di contratti di lavoro intermittente è consentita soltanto in ipotesi residuali (definite “sperimentali”), individuate secondo un criterio selettivo soggettivo. I contratti in esame possono essere sin d’ora stipulati solo da particolari categorie di soggetti svantaggiati (lavoratori infraventicinquenni disoccupati ovvero ultraquarantacinquenni espulsi dal ciclo produttivo o iscritti alle liste di mobilità e di collocamento); soggetti, questi, di cui si intende, per tale via, promuovere l’assunzione, seppur con un contratto che non garantisce continuità nello svolgimento del lavoro.
Ciò posto in ordine alla esatta delimitazione dei possibili contraenti, va detto che il più rilevante problema giuridico posto dal contratto di lavoro intermittente è indubbiamente costituito dalla remunerazione, non tanto delle prestazioni svolte, quanto della disponibilità offerta dal lavoratore. Nel momento in cui si obbliga a rispondere alla chiamata del datore di lavoro, secondo le necessità di quest’ultimo, il lavoratore si trova infatti nell’impossibilità di destinare il proprio tempo di non­lavoro allo svolgimento di altre attività produttive di reddito. In questa prospettiva va perciò letta la norma (art. 36 del d.lgs. n. 276/2003) che sancisce il diritto del lavoratore a percepire un’indennità di disponibilità, fissata dalla contrattazione collettiva in una misura comunque non inferiore a quella stabilita da un decreto del Ministro del lavoro.
La disciplina legale relativa all’indennità di disponibilità va ritenuta costituzionalmente necessaria, poiché discende direttamente dal principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36, 1° comma, Cost..
A tale proposito va del resto ricordato che la Corte costituzionale è già stata chiamata a pronunciarsi sull’apponibilità di clausole c.d. elastiche nel part-time (quelle clausole, cioè, con cui viene prevista dalle parti una facoltà datoriale di mutare la collocazione temporale della prestazione: sul punto, in tema di contratto a tempo parziale, v. sub 3.1.); e con la sentenza n. 210/1992 ha affermato la necessità, a pena di incostituzionalità ex art. 36 Cost., di una specifica remunerazione della disponibilità offerta dal lavoratore, il quale si trova nell’impossibilità di programmare ed utilizzare il proprio tempo al fine di svolgere altre attività lavorative.
Pertanto, la previsione di un obbligo datoriale di compensare economicamente la disponibilità del lavoratore è essenziale ai fini della legittimità costituzionale della disciplina legale del lavoro intermittente, giacché tale fattispecie limita, per sua stessa natura, la programmabilità del tempo in cui il lavoratore non è impegnato nell’esecuzione della prestazione.
Va in verità evidenziato che la disciplina voluta dal legislatore del 2003 non risulta del tutto perspicua, laddove introduce una poco chiara distinzione tra due tipologie di lavoro intermittente. Nell’una, il lavoratore assumerebbe contrattualmente l’obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro, se e quando ciò avvenisse; il che determinerebbe l’insorgenza del diritto all’indennità di disponibilità.
Nell’altra, il lavoratore rimarrebbe libero di rifiutare l’eventuale chiamata del datore di lavoro; ed in tal caso non gli sarebbe perciò dovuta alcuna indennità, a fronte di una disponibilità che nel contratto non viene nemmeno pattuita.
A ben vedere, tuttavia, la fattispecie da ultimo descritta non sembra nemmeno definibile come contratto di lavoro, se è vero che predispone soltanto una generica base per eventuali futuri accordi, senza determinare però alcun vincolo o impegno in capo alle parti. Il lavoratore si obbligherebbe in sostanza a prestare il suo lavoro “se vorrà”, come il datore di lavoro si obbligherebbe a convocare il lavoratore ed a pagarlo “se vorrà”; il che non fa sorgere, in definitiva, alcun obbligo contrattuale. L’unica fattispecie giuridicamente rilevante di lavoro intermittente appare dunque quella in cui le parti prevedano l’obbligo del lavoratore di rispondere all’eventuale convocazione, a fronte della corresponsione di un’indennità di disponibilità.
 
Il lavoro ripartito. (art. 4, legge delega; artt. 41-45, decreto legislativo)
Il lavoro ripartito (meglio conosciuto come job-sharing) è una tipologia contrattuale sorta negli Stati Uniti, ma ormai diffusa anche nel nostro continente.
In Italia il lavoro ripartito, prima della disciplina del d.lgs. n. 276/2003, era già di fatto utilizzato nella prassi. Pur in mancanza di una apposita disciplina legale, i contratti collettivi avevano già dettato alcune regole ed il Ministero del lavoro (cfr. Circolare del Ministero del Lavoro, n. 43/1998) aveva fornito alcune indicazioni di principio.
Pertanto, non si può dire che il d.lgs. n. 276/2003 abbia “introdotto” nel nostro ordinamento il lavoro ripartito, ma semplicemente che gli abbia conferito quella maggiore certezza e stabilità di disciplina che deriva dalla fonte legislativa. Peraltro, tale disciplina riprende ampiamente quella contrattual-collettiva e, quasi letteralmente, il testo della menzionata Circolare del Ministero del lavoro.
Il job-sharing è un contratto di lavoro che ha come parti, da un lato, il datore di lavoro e, dall’altro, due lavoratori obbligati in solido per un’unica e identica prestazione lavorativa. Riprendendo la nozione civilistica della solidarietà (v. art. 1292 c.c.) il decreto stabilisce che “ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa”. Salvi i tratti di specialità, di cui si dirà, al lavoro ripartito si applica, in quanto compatibile, la normativa generale in tema di rapporto di lavoro subordinato e quella eventualmente prevista specificamente dai contratti collettivi.
L’utilità di questa tipologia contrattuale consiste in ciò: il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere l’adempimento della prestazione lavorativa all’uno come all’altro lavoratore e, in questo senso, ha una maggiore garanzia di soddisfazione del credito. I lavoratori, d’altro canto, hanno la possibilità in ogni momento di sostituirsi tra loro e di modificare consensualmente la distribuzione oraria dei rispettivi turni lavorativi, concordati inizialmente nel contratto di lavoro con la controparte datoriale. Si tratta pertanto di una tipologia contrattuale flessibile che, potenzialmente, può offrire vantaggi a entrambe le parti contrattuali. Certamente, però, il lavoro ripartito richiede una buona intesa tra i due lavoratori coobbligati, i quali tempestivamente devono comunicarsi eventuali impedimenti (ad es. in caso di malattia), affinché, attraverso una pronta sostituzione, la prestazione lavorativa possa comunque essere adempiuta da uno dei due. Analogamente a quanto previsto in materia di part-time, ogni lavoratore percepisce un trattamento economico e normativo proporzionale all’attività lavorativa effettivamente prestata (la retribuzione, dunque, sarà commisurata per ciascun lavoratore in base all’orario di lavoro concretamente prestato). Inoltre, sempre in riferimento al trattamento economico-normativo, il legislatore ha avvertito l’esigenza di affermare anche per i lavoratori in job-sharing il principio di non­discriminazione rispetto ai lavoratori, di pari livello e di pari mansioni, assunti con altre tipologie contrattuali.
L’estinzione del rapporto di lavoro nei confronti di un lavoratore comporta l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, a meno che, su richiesta del datore di lavoro, l’altro lavoratore si renda disponibile ad adempiere integralmente o parzialmente l’intera prestazione lavorativa.
 
Il lavoro accessorio. (art. 4, legge delega; artt. 70-74, decreto legislativo)
Gli artt. 70 ss. del decreto legislativo n. 276/2003 sono dedicati alla disciplina del “lavoro accessorio”, che contempla una singolare ed innovativa modalità di remunerazione di talune attività lavorative saltuarie.
Si tratta di uno schema contrattuale assai particolare, improntato alla massima semplificazione degli adempimenti fiscali e previdenziali, ed al quale le parti possono accedere soltanto ove ricorra una duplice condizione.
Una prima delimitazione, di natura oggettiva, restringe l’area del lavoro accessorio ad una serie predeterminata di prestazioni “meramente occasionali”, indicate dall’art. 70, svolte in favore di famiglie, enti pubblici ed organizzazioni non-profit. Si tratta, per citare solo le figure emergenti, di prestazioni di assistenza domiciliare e di lavori domestici a carattere straordinario, di piccoli lavori di giardinaggio e pulizia, di collaborazione alla realizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritatevoli.
Una seconda delimitazione, di natura soggettiva, circoscrive l’ambito del lavoro accessorio a determinate categorie di lavoratori: la disciplina indica (con elenco da ritenersi tassativo) taluni soggetti deboli del mercato del lavoro, quali disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti, pensionati, disabili, lavoratori extracomunitari regolarmente soggiornanti nei sei mesi successivi alla perdita del posto di lavoro.
Altresì rilevante, in chiave antifraudolenta, appare la norma che determina secondo criteri oggettivi la natura “occasionale e accessoria” di tali rapporti. Con una presunzione iuris et de iure, infatti, si restringe lo schema del lavoro accessorio alle sole attività che comportino un impegno del lavoratore non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare e che non diano luogo a compensi superiori a cinquemila euro nel corso dello stesso anno solare.
Ciò che caratterizza il lavoro accessorio, sino a renderlo un unicum nel panorama dei contratti di lavoro contemplati dall’ordinamento, è, come detto, la peculiare modalità di corresponsione della retribuzione, oltre che di assolvimento degli obblighi previdenziali.
Infatti, il beneficiario di tali prestazioni potrà retribuire il lavoratore per mezzo di speciali “buoni”, da acquistarsi preventivamente presso apposite rivendite indicate da un emanando decreto ministeriale (presumibilmente, tabaccherie, edicole, uffici postali). Il valore di ciascun “buono” è pari all’importo di un’ora di lavoro ed è comprensivo di una somma destinata a copertura degli oneri previdenziali. Il lavoratore potrà utilizzare il buono come un titolo di credito, ponendolo all’incasso presso concessionari abilitati (presumibilmente, banche ed uffici postali), i quali provvederanno a trattenere una porzione del valore del buono onde versarla agli enti previdenziali. In tal modo, il legislatore ottiene l’effetto di semplificare (ed anzi, di eliminare) l’insieme degli adempimenti formali normalmente connessi all’instaurazione di un rapporto di lavoro (obbligo di iscrizione presso gli enti previdenziali, comunicazione dell’avvenuta assunzione al competente centro per l’impiego, tenuta di libri e scritture, obbligo di operare ritenute fiscali in qualità di sostituto d’imposta provvedendo poi al relativo versamento, obbligo di calcolare e quindi versare i contributi previdenziali, etc.).
Scopo primario della disciplina legale è perciò quello di propiziare l’emersione e la regolarizzazione di attività lavorative “minori”, che oggi hanno svolgimento in uno stato di quasi generalizzata irregolarità fiscale e previdenziale. È infatti di comune percezione che nel mercato del lavoro esistano occasioni di impiego saltuario - aventi svolgimento fuori dal contesto dell’impresa e per lo più riconducibili all’ambito lato sensu familiare (attività di baby-sitter, operazioni di pulizia, giardinaggio, tinteggiatura, etc.) - che sono oggi soddisfatte con il ricorso al lavoro c.d. nero. Attraverso la descritta semplificazione, la disciplina legale in questione vuole facilitare e regolarizzare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro in questo limitato segmento del mercato, privilegiando le menzionate categorie soggettive. In tale logica, intendendosi promuovere una convenienza di entrambe le parti alla regolarizzazione del rapporto, si spiega anche la norma che sancisce la sottrazione del compenso così erogato a qualunque imposizione fiscale.
 
Il lavoro occasionale. (art. 4, legge delega; art. 61, decreto legislativo)
Il campo di applicazione della disciplina del lavoro a progetto (cfr. infra, § 5) è delimitato in negativo da una serie di esclusioni. Prima fra tutte va ricordata quella di cui all'art. 61, comma 2°, relativa ai rapporti di lavoro occasionale, "intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila Euro".
Per la prima volta la prestazione occasionale ottiene una definizione legislativa di tipo quantitativo, in una duplice dimensione: temporale e pecuniaria. Secondo il tempo, sono considerate prestazioni occasionali quelle con durata complessiva non superiore a trenta giorni nell’anno solare con lo stesso committente; secondo il compenso, sono tali quelle che nel medesimo anno solare non superano i 5.000 euro.
Lo scopo del duplice limite è quello di evitare che le parti, con una indicazione formale nel contratto di poche giornate di lavoro, ma con la previsione di un compenso elevato, da "spalmare" su un numero effettivo di giornate di lavoro ben superiore a quello indicato, riescano ad eludere la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative e del lavoro a progetto. Qualora però si scopra che la prestazione non possiede le caratteristiche richieste dalla disposizione legale non è chiaro come possa essere qualificata.
Il secondo comma dell’art. 61 prevede che, in caso di superamento del tetto dei 5.000 euro, “trovano applicazione le disposizioni contenute nel presente capo”. Come prima si dovrebbe allora sostenere che la prestazione nata come occasionale diventa lavoro a progetto: in tal caso, per essere ritenuto valido, il contratto dovrà però integrare tutti i requisiti formali e sostanziali previsti dalla legge.
 
5. Le c.d. collaborazioni coordinate e continuative (il lavoro a progetto). (art. 4, legge delega; artt. 61-69, decreto legislativo)
 
Le incertezze del disegno ispiratore della riforma.
Tra le norme fonte di maggior affanno interpretativo nel decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 vi sono indubbiamente quelle sul cd. lavoro a progetto. E questo, non solo per la difficoltà di lettura, non tanto del disegno ispiratore, quanto della sua concretizzazione tecnica, ma anche per l’enorme rilevanza del fenomeno che le norme intendono regolare.
E’ a tutti nota la sua dimensione: l’esplosione delle collaborazioni coordinate e continuative si è consumata a partire dal 1995, con la legge n. 335 che in un certo senso le ha legittimate, per approdare alla ragguardevole cifra di più di due milioni di unità.
Questa esplosione ha alimentato un intenso dibattito circa la reale natura del fenomeno: se ed in che misura, cioè, esso fosse da imputare ad una genuina scelta per l’autonomia, ovvero al tentativo di eludere la normativa sul lavoro subordinato. Si è trattato di un dibattito non conclusivo, anche per la mai sciolta controversia in ordine ai criteri identificativi della subordinazione e, per converso, della autonomia: una controversia probabilmente "ontologicamente" insolubile se a questi criteri vuole essere attribuito l’impari compito di attivare ovvero di escludere l’intero statuto protettivo del diritto del lavoro.
Il disegno ispiratore della nuova disciplina è apparentemente chiaro, essendo enunciato vuoi nel documento preparatore (il cd. Libro bianco sul mercato del lavoro) vuoi nelle relazioni di accompagnamento al disegno di legge-delega e allo schema di decreto legislativo. Si è detto che è solo apparentemente chiaro, dal momento che lo stesso Libro bianco – da cui nasce l’idea del lavoro a progetto – non è su questo punto assolutamente univoco. Anzi, contiene una certa dose di contraddittorietà poiché, apprezzando criticamente, nel metodo e nei contenuti, le proposte discusse nel corso della precedente legislatura, valuta negativamente l’idea di intervenire nel campo della para-subordinazione, che non lascerebbe spazio alle "nascenti esperienze negoziali", e suggerisce di coltivare “un’iniziativa legislativa limitatamente alla identificazione e regolazione di una fattispecie particolarmente diffusa, specialmente ma non esclusivamente nel terziario" (appunto il cd. “lavoro a progetto”). Nello stesso tempo però ritiene che "sia necessario evitare l’utilizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative in funzione elusiva e frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, ricorrendo a questa tipologia contrattuale al fine di realizzare spazi anomali nella gestione flessibile delle risorse umane” . Il che implica di intervenire, e pesantemente, nel campo della cd. para-subordinazione.
La relazione al d.d.l. delega si limitava a riprodurre esattamente il contenuto del Libro bianco – con la conseguente ambiguità – e lo stesso art. 4 della legge n. 30 del 2003 appariva in definitiva anodino perché nulla si prevedeva circa la sorte dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa non rispondenti ai requisiti delineati.
La relazione allo schema di decreto delegato, invece, non contiene oscillazioni: essa qualifica senza mezzi termini la nuova normativa come “riforma delle collaborazioni coordinate e continuative” e la riconduce inequivocabilmente all’intento di superare “la farisaica accettazione di questa pratica elusiva” e riportare “le attuali co.co.co  al lavoro subordinato o al lavoro a progetto, forma di lavoro autonomo che non può dare luogo alle facili elusioni riscontrate pena la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
 
I dati tipizzanti la fattispecie.
In via di prima approssimazione, il legislatore delegato tipizza una figura contrattuale – il lavoro a progetto – che viene a porsi in posizione intermedia, in considerazione dell’intensità e della natura delle tutele accordate, tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato.
Secondo l’art. 61 del d. lgs. n. 276/2003, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3 c.p.c., devono essere "riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente ed indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa”.
Da una parte, dunque, si richiamano la continuatività, la coordinazione, e il carattere prevalentemente personale dell’opera; dall’altra, la riconducibilità ad un progetto, programma o fase di esso che sia gestito autonomamente, in funzione del risultato, e (dunque) prescinda dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa.
Da questo coacervo di elementi, vecchi e nuovi, utilizzati per disegnare la fattispecie emerge chiaramente l’intento di fissare un forte discrimine rispetto alla fattispecie del lavoro subordinato. Così si spiega l’enfasi posta sulla gestione autonoma in funzione del risultato e la predicata irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa (che ne costituisce conseguenza). Sulla correttezza degli indici impiegati (o, meglio, sulla opportunità del loro impiego, dal momento che il legislatore è sovrano), si potrebbe discutere. Sembra però di dover chiarire che il riferimento al risultato (col suo corollario: l'irrilevanza del tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività lavorativa) è operato allo stesso modo con cui esso viene utilizzato dalla giurisprudenza: esso riflette non tanto il discutibile e discusso assunto dogmatico che riconduce la locatio operis all’obbligazione di risultato e la locatio operarum alla obbligazione di mezzi, ma rappresenta – molto più debolmente – il mero criterio indiziario della presenza o meno della subordinazione, più facilmente ipotizzabile qualora, senza che sia necessario un risultato qualsivoglia da raggiungere, il lavoratore abbia impiegato le proprie energie diligentemente per il tempo previsto e secondo gli ordini via via ricevuti.
Ciò che però, innanzitutto, richiama l’attenzione è l’individuazione della nozione di progetto, programma di lavoro, o fase di esso. Poiché il legislatore ha ritenuto di distinguere tra "progetto" e "programma" (e addirittura "fase di esso"), di ciò l'interprete dovrà tenere conto. Se il progetto appare più legato ad un’attività di tipo “creativo”, svolta da professionalità elevate, il termine programma di lavoro – o fase di esso – è idoneo ad allargare la fattispecie anche ad attività meno professionalizzate (ad es. riordinare una biblioteca) . Poiché però, a ben vedere, qualsiasi attività di lavoro potrebbe essere ricondotto ad un programma, ciò che appare determinante in questi casi è l’apposizione del termine, che fa tutt’uno con il programma .
Detto termine, in base all’art. 62, deve essere determinato o comunque determinabile in relazione ad un avvenimento futuro la cui verificazione sia certa, anche se non ne è già conosciuto il momento. Nonostante sia già stato prospettato – con una interpretazione forse prudenziale, alla luce delle conseguenze previste dalla legge – che l’attività oggetto del progetto o del programma debba presentare il carattere della straordinarietà o della eccezionalità, rispetto all’ordinario ciclo produttivo dell’impresa committente, una interpretazione fedele al dato positivo deve partire dalla constatazione che nessuna delle norme in commento fa riferimento a questi requisiti. Tolto di mezzo il carattere della straordinarietà, qualsiasi attività di lavoro, anche quella rientrante nel normale ciclo produttivo, può essere dedotta in un progetto o in un programma, purché quest'ultimo abbia i requisiti indicati dalla legge, primo fra tutti la temporaneità, sulla base del menzionato art. 62, lett. a). Temporaneità, dunque, come dato strutturale, implicando di per sé l'idea di progetto o di programma il momento finale della sua realizzazione. Potranno di conseguenza legittimamente essere dedotte in un contratto di lavoro a progetto le attività direttamente afferenti al ciclo produttivo e che non sono per nulla straordinarie ed occasionali, nel senso che soddisfano esigenze che ciclicamente si ripropongono all'interno della stessa attività economica ordinaria, ed anche ad intervalli di tempo ravvicinati. Superfluo è puntualizzare che nessun problema si pone nel caso in cui il progetto o programma sia finalizzato al soddisfacimento di esigenze solo contingenti.
Parrebbe confermare questa conclusione quanto previsto dal 3° co. dell’art. 69, là dove si prevede che il controllo giudiziale è limitato “all’accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative e produttive che spettano al committente”.
 
Il rilievo sistematico dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa alla luce dei meccanismi sanzionatori.
Dal punto di vista sistematico, assume un assoluto valore baricentrico l’art. 69 del decreto legislativo che porta la rubrica “divieto di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici e conversione del contratto”.
Il primo comma sembra porre una presunzione assoluta di esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in caso di contratto avente ad oggetto una prestazione lavorativa coordinata o continuativa senza che sia preventivamente individuato un progetto o programma di lavoro aventi le caratteristiche di cui sopra . Se questo è vero, le conseguenze sono enormi, non solo da un punto di vista pratico, ma anche da un punto di vista teorico–sistematico. Dal punto di vista teorico potremmo trovarci di fronte alle famose tre parole del legislatore che distruggono un'intera biblioteca. La subordinazione dovrebbe essere identificata nella semplice continuità e coordinazione, a prescindere dalla eterodirezione in senso pregnante che fin qui – almeno secondo l’impostazione dominante – è stata ritenuta costituire il nocciolo della nozione. Dal punto di vista pratico, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, pur caratterizzati da autonomia nelle modalità esecutive, ma privi di un progetto o programma, dovrebbero trasmigrare nelle caselle del lavoro subordinato. Il disegno originario era in effetti proprio questo: bonificare la categoria delle collaborazioni coordinate e continuative dai fenomeni elusivi della disciplina del lavoro subordinato, consentendo però, nello stesso tempo, un alleggerimento dei limiti e degli oneri di quest’ultimo, onde ridurre l’eccessivo divario dei costi del ricorso all’una o all’altra figura contrattuale. Tale disegno appare però incompiuto perché la moltiplicazione delle tipologie contrattuali non comporta necessariamente una flessibilizzazione dei trattamenti. Meno destabilizzante, sia dal punto di vista pratico, sia, soprattutto, dal punto di vista teorico, sarebbe poter qualificare la mancanza del progetto quale presunzione, vincibile dalla prova contraria, dell’esistenza della subordinazione. Si tratta di una tecnica usata in altri ordinamenti, in particolare in quello francese, sia pure non per fattispecie generali, ma per specifiche figure social­tipiche (viaggiatori, piazzisti, etc.).
La tesi della esistenza di una presunzione relativa è stata per la verità già adombrata da qualche autore. Ma essa è basata su dati normativi di per sé fragili, poiché intende far leva sul 2° co. dell’art. 69, cui viene assegnata la funzione di indicare che il giudice dovrà, in primo luogo e senza automatismi, accertare la natura autonoma o subordinata del rapporto (“qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell’art. 61 del presente d.lgs. sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato…").
Il secondo comma dell’art. 69 sembra concernere in realtà il momento dell'esecuzione del rapporto e l’ipotesi dello scostamento tra programma negoziale e sua attuazione, per sancire, probabilmente in modo pleonastico, che il rapporto “si trasforma” in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. In effetti se non vi si attribuisse questo significato, non si comprenderebbe la autonoma rilevanza del 1° comma. Sebbene non si ritengano fondati i dubbi di legittimità costituzionale, da alcune parti ventilati, si conferma comunque l'incongruità della tecnica impiegata.
 
Il regime delle esclusioni.
Gli interrogativi sul rilievo sistematico della nuova disciplina sul lavoro a progetto sono altresì alimentati dalle corpose esclusioni dal suo campo di applicazione. Sopravvivono infatti rapporti di lavoro coordinato e continuativo, da qualificare come autonomi, sebbene non ancorati all'esistenza di un progetto.
Il campo di applicazione della disciplina del lavoro a progetto è delimitato in negativo da una serie di esclusioni espressamente previste. Prima fra tutte va ricordata quella di cui all'art. 61, comma 2°, relativa ai rapporti di lavoro occasionale, "intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso percepito nel medesimo anno solare sia superiore a 5 mila Euro". Come detto, la tipologia del lavoro occasionale è contraddistinta da un limite duplice al fine evidente di evitare che le parti, con l'indicazione nel contratto di poche giornate di lavoro, accompagnata dalla previsione di un compenso elevato da "spalmare" su un numero effettivo di giornate di lavoro ben superiore a quello indicato, riescano ad eludere la disciplina del lavoro a progetto (cfr. § 4.3.)
I rapporti di lavoro autonomo coordinato e continuativo, non assistiti da alcuna presunzione di subordinazione in mancanza di progetto, potranno continuare a riguardare: a) gli agenti e rappresentanti di commercio; b) le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo; c) le attività di collaborazione rese e utilizzate a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali; d) i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società ed i partecipanti a collegi e commissioni; e) i titolari di pensioni di vecchiaia.
Così come la maggior parte del decreto, in base alla previsione generale contenuta nell'art. 1, comma 2°, la disciplina del lavoro a progetto non si applica alle pubbliche amministrazioni. L'art. 86, comma 8°, prefigura tuttavia una omogeneizzazione della disciplina tramite una pratica concertativa e successiva normazione; ed è prevedibile che la relativa armonizzazione riguarderà anche la disciplina del lavoro coordinato e continuativo, considerato il largo uso che ne viene fatto nel settore pubblico.
La corposità delle eterogenee esclusioni dal regime del lavoro a progetto indica quanto meno l’inopportunità di ancorare all’inesistenza di un “progetto” una presunzione invincibile di subordinazione.
Va da sé peraltro che tali esclusioni dovranno passare al vaglio del giudizio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.. Che dire, in particolare, per l'esclusione concernente la p.a.?
 
La disciplina.
La disciplina che correda il lavoro a progetto è in verità “leggera”, ma comunque significativa.
La disposizione relativa al corrispettivo rinvia al criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato. E' evidente, sul piano teorico-dogmatico, lo “scollamento” rispetto ai criteri di cui all’art. 2225 c.c., che fa riferimento al risultato ottenuto, oltreché al lavoro normalmente necessario per ottenerlo. Ed anche rispetto alle previsioni di cui all’art. 36 Cost., pacificamente ritenuto inapplicabile ai rapporti di lavoro parasubordinato, del quale non riproduce il criterio della sufficienza. Sul piano pratico, come è stato notato , il parametro all’uopo individuato – vale a dire “i compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto” – non appare particolarmente costrittivo, non solo perché di detti compensi si deve semplicemente “ tenere conto”, ma anche perché è lo stesso referente ad apparire incerto. E’ evidente la difficoltà di applicazione della norma, per la mancanza di un referente affidabile al fine di individuare quali siano i compensi normalmente corrisposti ai lavoratori autonomi (referente quale è per il lavoro subordinato il contratto collettivo).
Il legislatore disciplina anche i casi di sospensione del rapporto. Alle indennità ed alle tutele già esistenti, si affianca il divieto di estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo, in caso di malattia, infortunio e gravidanza. La sospensione, tuttavia, non comporta una proroga automatica della durata del contratto, in caso di malattia e infortunio, a meno che le parti non lo abbiano espressamente previsto. Viene stabilito un periodo di comporto: il rapporto potrà essere risolto quando la sospensione si protrae per un periodo superiore ad un sesto della durata stabilita del contratto, ovvero dopo trenta giorni per i contratti di durata determinabile. Solo in caso di gravidanza la durata del rapporto è prorogata per un periodo minimo ed inderogabile di 180 giorni, fatta salva una previsione più favorevole del contratto individuale. Altra norma significativa è quella contenuta nell'art. 67 in materia di "estinzione del contratto e preavviso". La norma conferma la natura a termine del contratto in questione, nella parte in cui prevede che "prima della scadenza del termine" le parti possano recedere solo per "giusta causa". Nulla dice la legge sul modo in cui deve intendersi nel caso la giusta causa. Si ritiene tuttavia possa valere la generale definizione di giusta causa come fatto sopravvenuto che, in relazione alla natura del rapporto (continuatività, fiduciarietà), non ne consenta la prosecuzione neppure provvisoria (cfr. art. 2119 c.c.).
Può rilevarsi la mancata previsione di una facoltà di recesso ante tempus per ragioni "inerenti all'attività produttiva", vale a dire in presenza di quelle ipotesi in cui venga obiettivamente meno, nel corso dello svolgimento del rapporto, l'interesse del committente alla prosecuzione e realizzazione del progetto o programma o fase di esso.
La disciplina è però da considerarsi meramente dispositiva, se si tiene presente la possibilità accordata alle parti di concordare "diverse causali e modalità, incluso il preavviso". In sede di contratto individuale le parti potranno prevedere la facoltà di recedere ante tempus anche in mancanza di giusta causa, e, dunque, pure nelle ipotesi in cui il sopravvenuto mutamento delle condizioni di fatto importi il venir meno dell'interesse alla realizzazione del progetto. E non sembra neppure da escludere la previsione di un regime di libera recedibilità acausale (in tal senso potrebbe essere inteso il riferimento alle "modalità"). In materia di estinzione molto viene lasciato all'autonomia delle parti, che rimangono sostanzialmente libere, in base alle esigenze concrete legate al singolo contratto, di rafforzare il nucleo minimo legale di tutela o, al contrario, di renderlo ancora più blando.
L' art. 66, ultimo comma, estende ai lavoratori a progetto le norme fin qui applicate al lavoro parasubordinato, vale a dire le norme processuali e, in una con queste, la disciplina delle rinunce e transazioni di cui all'art. 2113 c.c., le norme sulla sicurezza e igiene del lavoro, quelle relative all'indennità di malattia in caso di degenza ospedaliera, alla tutela della maternità e agli assegni al nucleo familiare.
Per le invenzioni del lavoratore a progetto è prevista l'applicazione della medesima disciplina del lavoro dipendente .
Si comprende perché si è affermato che il nucleo di tutela è “leggero” pur se significativo, in particolare per quanto riguarda la sospensione del rapporto. Soprattutto, compaiono spazi di dispositività, secondo un’idea già contenuta nel Libro bianco, volta a valorizzare la autonomia individuale e non solo secondo lo schema consueto della derogabilità in melius. Al di là di quanto previsto per il recesso, assume in proposito particolare importanza l’interpretazione dell’art. 68 sulle rinunzie e transazioni. Il decreto, sul punto, potrebbe far sorgere l’interrogativo se il legislatore abbia voluto disciplinare la disponibilità dei diritti o la derogabilità delle norme. Attribuendo il loro preciso significato ai termini rinunce e transazioni si dovrebbe intendere che, in sede di certificazione, il collaboratore possa rinunciare o transigere in relazione a diritti già maturati. La norma, cioè, prenderebbe in considerazione l'ipotesi della certificazione di un rapporto di lavoro già in atto. Ma, in tal caso, la previsione dell’art. 68 nulla aggiungerebbe alla disposizione generale in materia di certificazione di cui all’art. 82. Ed in effetti è stato ipotizzato che il legislatore abbia qui inteso riferirsi ad un’ipotesi di certificazione iniziale ed abbia utilizzato del tutto impropriamente i termini "rinunzie" e, soprattutto, "transazioni" per riferirsi ad un’ipotesi di derogabilità assistita. La possibilità di derogare alle disposizioni imperative in sede di certificazione è peraltro già prevista dall’art. 78, 4° co., sia pure limitatamente al nucleo di disposizioni da individuarsi sulla base di un decreto del Ministro del lavoro. Si tratterebbe dunque dell’aggiunta, a questa generale possibilità, di una nuova specifica ipotesi. L’interpretazione è però quanto meno dubbia, sia perché il termine rinunce e transazioni fa riferimento a negozi genuinamente dispositivi, sia perché il nucleo precettivo contenuto nel capo sul lavoro a progetto non è di particolare ampiezza.
 
Le misure di accompagnamento o di transizione.
Il vero è che l’intervento decisivo è stato operato dal lato della fattispecie. E’ su questo piano che, almeno apparentemente, si è intervenuti con radicalità, più o meno congrua, a seconda delle interpretazioni. Tanto è vero che lo stesso legislatore, dopo aver previsto che i contratti di collaborazione coordinata e continuativa attualmente in essere “mantengono efficacia fino alla loro scadenza e comunque non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento”, ha ammesso la possibilità di stipulare, in sede aziendale, e con le “istanze aziendali” dei sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, “accordi di transizione” che prevedano termini diversi, anche superiori all’anno.
Per i nuovi contratti, gli stessi dubbi che circondano la fattispecie renderebbero opportuno – per il perseguimento del valore della certezza dei rapporti – la immediata fruibilità dell’istituto della certificazione (v. sub § 6.) che avrebbe almeno un valore “persuasivo” nei confronti dei giudici e delle parti, nonostante i dubbi e le incertezze che ne circondano la “tenuta”. La certificazione, infatti, prevista al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e a progetto, nonché dei contratti di associazione in partecipazione di cui agli artt. 2549 – 2554 c.c., è demandata a commissioni, istituite presso gli enti bilaterali, le direzioni provinciali del lavoro, le università pubbliche e private, che allo stato non risultano ancora istituite. Il tanto vituperato, dai giuslavoristi, istituto della certificazione finirà per dover essere rivalutato e diventare uno dei baricentri del decreto legislativo a fronte delle incertezze - in alcuni casi volute e, dunque, da qualificarsi più propriamente come incompiutezze - che ne circondano la trama normativa. Qualcuno ha già affermato che la certificazione costituirà l'habitat pressoché obbligato del contratto a progetto. Ma lo stesso potrebbe dirsi pure in relazione agli incerti criteri distintivi tra somministrazione di lavoro e appalto di servizi, cui viene attribuito l'arduo compito di discernere tra due regimi di tutela del lavoratore assolutamente incommensurabili quanto ad intensità.
 
Il lavoro a progetto: un approdo coerente con il dibattito in corso?
La normativa sul lavoro a progetto ha avuto certamente un effetto spiazzante sul ricco dibattito scientifico e politico svoltosi negli anni immediatamente precedenti l'odierna riforma. Tale dibattito aveva individuato nella perdita di centralità della figura social-tipica del lavoratore dipendente della media e grande industria, con rapporto di lavoro esclusivo, a tempo pieno ed indeterminato, chiamato a svolgere la sua prestazione nell'ambito di una rigida integrazione spazio-temporale con l'organizzazione dell'impresa, e nella progressiva e correlata emersione di nuove istanze di tutela, i due principali fattori che rendevano indilazionabile una rimodulazione delle tutele dispensate dal diritto del lavoro.
A livello di prospettazione delle soluzioni, la comune presa di coscienza si è "ramificata" in tre diversi tipi di approcci: il primo prevedeva di estendere alcune delle tutele più significative ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, lasciando inalterato il nucleo forte di tutela del lavoro subordinato; il secondo attribuiva portata risolutiva alla tipizzazione di un tertium genus che, offrendo una casa comune a figure che possono essere ricondotte alternativamente all'autonomia o alla subordinazione, permettesse di rimediare al forte gap di tutele tra lavoro autonomo e lavoro subordinato; il terzo si ispirava all'idea dello Statuto dei lavori (il termine fu utilizzato per la prima volta nel progetto di riforma del 1998 predisposto da Marco Biagi su indicazione dell'allora Ministro Treu) e poneva l'enfasi sulla redistribuzione delle tutele tra autonomia e subordinazione, piuttosto che sulla costruzione di nuove fattispecie.
L'idea di fondo da cui partiva la bozza di Statuto del 1998 era quella di modulare e graduare le tutele applicabili ad ogni fattispecie contrattuale a seconda degli istituti da applicare, lasciandosi in questo modo alle spalle il problema qualificatorio e definitorio. In parole povere, si trattava di decidere di volta in volta, istituto per istituto, a chi applicare una determinata disciplina. L'obiettivo finale era quello di estendere le tutele ad aree "nuove" ed al contempo ritoccare verso il basso il livello di tutela del lavoro subordinato.
Certo, vi era e vi è un'ambiguità di fondo nel porre l'alternativa tra l'affrontare la questione dalla parte della fattispecie ovvero dalla parte delle tutele. Questa linea, come è stato ben detto , è posta solo per un orientamento di fondo, perché ognuno sa che, quando ci si pone nell'ottica dell'applicazione del diritto, la fattispecie va di pari passo con la tutela ad essa imputata e una qualche correlazione fra i due termini deve essere configurata. L'espressione può essere spiegata se le si attribuisce un significato "minore": vale a dire di alternativa tra il partire da ridefinizioni tipizzanti della realtà sociale, per assegnare alle fattispecie così enucleate ex novo misure diversificate di tutela, o invece il partire ponendo innanzitutto l'accento sulla rimodulazione delle tutele, "dando per ferme in sostanza le fattispecie così come sono fissate nell'ordinamento e/o operando semmai riaggregazioni di quanto esso già offre in proposito". La riforma varata con la legge delega n. 30/2003 e con il successivo decreto legislativo rappresenta dunque il primo punto di approdo di un graduale processo di innovazione del diritto del lavoro in gestazione già da qualche anno. L'impressione, come già anticipato, è che i risultati prodotti ne escano in realtà spiazzati.
Il primo, e più evidente, termine di paragone è costituito dall'estensione delle tutele, avvenuta in quantità e qualità minori rispetto a quanto indicato nei vari progetti che si sono succeduti in questi anni. Nell'ottica del decreto delegato, la relativa "leggerezza" della tutela accordata ai lavoratori a progetto si può spiegare con il fatto che si tratterebbe sostanzialmente di lavoro autonomo, essendo stata depurata la categoria delle collaborazioni coordinate e continuative delle ipotesi di lavoro subordinato mascherato. Peraltro, a sua volta, questa interpretazione non può nascondere l'imbarazzo di dover spiegare l'estensione sia pure "moderata" e "leggera" di alcune tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato (si vedano le nuove norme sul corrispettivo, sulla sospensione e sulla cessazione del rapporto) a soggetti che, nella mens legis, sono in tutto e per tutto dei lavoratori autonomi.
Il vero è che, se sul piano della disciplina il legislatore si muove con mano malferma e indecisa, l'intervento decisivo è effettuato sul piano della fattispecie: con il suo ancoraggio all'esistenza di uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso e attraverso la previsione della morte per estinzione di tutte le collaborazioni coordinate e continuative non legate ad un progetto, esso sembra ancora muoversi nella direzione della dicotomizzazione autonomia/subordinazione. La disciplina, ormai definita, posta dalla cd. riforma Biagi in materia di lavoro parasubordinato lascia trasparire un intento chiaramente restrittivo nei confronti di tutto ciò che non è lavoro subordinato in senso stretto. L'avere ancorato la fattispecie del contratto in commento alla presenza di un progetto, programma o fase di esso oblitera una delle principali esigenze di riforma da cui è stato animato tutto il dibattito in questi anni: la necessità, per alcuni di definire, per altri solo di disciplinare, forme di lavoro prestato continuativamente a favore di un altro soggetto che, pur sottratte all'applicazione in blocco del regime vincolistico proprio del lavoro subordinato, assicurassero sufficienti garanzie alla parte debole del rapporto. Quest'unico dato basta già a far comprendere come il legislatore, limitando in maniera patente la possibilità del ricorso al lavoro parasubordinato proprio nel momento in cui ha inteso estendere a quest'ultimo una serie di tutele, più che essere ispirato da un organico disegno riformatore, abbia tamponato l'emergenza dell'esplosione delle co.co.co, rendendone più restrittive le condizioni di utilizzo, e realizzando dell'idea originaria di statuto dei lavori forse solo la pars destruens e non quella construens. L'applicazione e la prassi ci diranno se è vero che, ad ogni modo, una nuova, e più governata, flessibilità è assicurata dalla possibilità di ricorrere alle tipologie contrattuali di nuovo conio. Ma vi è tutto il rischio, a meno di correttivi ed adattamenti, anche interpretativi, che l'effetto complessivo sia di una nuova rigidità, determinata da quella che potrebbe diventare una nuova costrizione alla subordinazione.
 
6. La certificazione. (art. 5, legge delega; artt. 75-84, decreto legislativo)
 
Nozione.
Una novità introdotta dal decreto legislativo è costituita dalle procedure di certificazione dei contratti di lavoro. Nelle intenzioni del legislatore, esse dovrebbero rappresentare una tecnica attraverso cui le parti di un contratto individuale di lavoro pervengono a una precisa qualificazione del contratto di lavoro che tra esse intercorre. Le procedure di certificazione (attivate volontariamente dalle parti) dovrebbero pertanto “rendere certa” tra le stesse la “natura” del contratto di lavoro (subordinato o autonomo) ed eventualmente la “tipologia” dello stesso (intermittente, ripartito, a tempo parziale, a progetto).
 
La ratio della normativa.
Quale è la ratio di questa novità?
Vi sono perlomeno due ordini di ragioni.
i) In primo luogo, v’è una esigenza di certezza. Poiché a contratti diversi si applicano discipline diverse, la certificazione ha innanzitutto la finalità di rendere certo il novero dei diritti e degli obblighi che gravano su ciascuna delle parti. Ciò anche al fine di evitare loro inattese conseguenze patrimoniali che spesso derivano da una sentenza di condanna, per il periodo in cui il rapporto ha già avuto esecuzione sulla base di un contratto poi diversamente qualificato dal giudice (questo accade, ad es., quando il datore di lavoro abbia omesso di corrispondere il trattamento previsto per il lavoratore subordinato, nella convinzione che si trattasse di lavoro autonomo: la sentenza del giudice che qualifica quel rapporto come lavoro subordinato condannerà lo stesso datore alla corresponsione del trattamento retributivo e contributivo per il periodo pregresso). Al di là della questione classica della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, il problema di qualificazione sembra poi accentuato dal proliferare di diverse tipologie contrattuali a seguito dell’emanazione dello stesso decreto legislativo n. 276 del 2003.
ii) La certificazione vorrebbe poi rispondere a un altro problema: l’abnorme contenzioso, pendente dinanzi ai giudici del lavoro, proprio in tema di qualificazione del contratto di lavoro (in particolare, con riferimento alla natura subordinata o autonoma di esso). Gran parte delle controversie in materia di lavoro verte, infatti, sul problema qualificatorio. In tal senso, certificare ex ante natura e tipologia contrattuale dovrebbe avere l’effetto di prevenire il contenzioso successivo (a contratto già in esecuzione o, come spesso accade, a rapporto contrattuale già estinto) di fronte al giudice. La certificazione avrebbe in tal senso una finalità deflattiva del contenzioso nelle cause di lavoro.
 
Disciplina della certificazione.
Il decreto individua i soggetti che possono fungere da organi di certificazione: i soggetti, cioè, ai quali le parti, che intendono certificare un contratto di lavoro, devono rivolgersi. Si dispone che “commissioni di certificazione” possano essere istituite in seno a:
i) enti bilaterali, costituiti dalle parti sociali a livello nazionale o territoriale;
ii) direzioni provinciali del lavoro;
iii) università pubbliche e private.
Il decreto legislativo detta poi le regole in tema di svolgimento delle procedure di certificazione.
 
Gli effetti della certificazione.
La realizzazione delle finalità sopra segnalate dipende dal grado di “tenuta” della certificazione nei confronti delle parti. Si tratta cioè di valutare quale sia l’efficacia della certificazione tra le stesse. In altre parole: la certificazione è in grado di soddisfare quell’esigenza di certezza che ha indotto le parti ad esperire la procedura? Si può sostenere che la qualificazione sia operata, in sede di certificazione, una volta per tutte, talché vincoli le parti e il giudice ad applicare la disciplina corrispondente al tipo certificato?
E’ la legge stessa a fornire la risposta a questi interrogativi, disponendo che le parti e i terzi, nella cui sfera giuridica l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti, possano impugnarlo, sia per erronea qualificazione del contratto, sia per difformità nella sua attuazione, sia per vizi del consenso tra le parti. Non poteva essere diversamente, d’altronde, poiché sarebbe stata incostituzionale una previsione di legge volta a impedire alle parti il ricorso giurisdizionale. Inoltre, la legge prevede che l’accertamento da parte del giudice dell’erroneità della certificazione abbia effetto fin dal momento della stipulazione del contratto: questo comporta che le risultanze della precedente certificazione vengano travolte con effetto retroattivo per effetto del provvedimento giurisdizionale, sicché la certificazione non è in grado di garantire certezza alcuna alle parti (poiché gli effetti derivanti dal contratto certificato possono essere cancellati retroattivamente dalla diversa qualificazione operata dal giudice).
Potrebbe dunque dirsi che, da un punto di vista strettamente giuridico, la certificazione non è in grado di soddisfare pienamente le esigenze per le quali è stata introdotta. Ciò non toglie che, di fatto, la certificazione può sortire effetti non irrilevanti: potrebbe scoraggiare le parti, una volta qualificato un rapporto di lavoro in seguito alla procedura, dal ricorrere al giudice del lavoro. Si tenga presente, a tal proposito, che la certificazione dovrà essere effettuata sulla base degli orientamenti giurisprudenziali prevalenti, contenuti in appositi “moduli o formulari” predisposti dal Ministero del Welfare, nonché sulla base di “codici di buone pratiche” (predisposti dallo stesso Ministero) per l’individuazione delle clausole indisponibili dalle parti in relazione a ogni tipologia contrattuale, e contenenti altre indicazioni fornite dagli accordi interconfederali. Se a ciò si aggiunge che l’organo certificatore può assumere una certa autorevolezza (si pensi a commissioni presiedute da soggetti di chiara fama, competenza ed esperienza nell’ambito del diritto del lavoro e delle relazioni industriali), si evince che una certificazione autorevole, aderente ai prevalenti orientamenti giurisprudenziali, rispondente alle indicazioni dei principali sindacati, è in grado di conseguire, nei fatti, una garanzia di stabilità.
 
Mariella Magnani
Ordinario di diritto del lavoro nell’Un. di Pavia
NOTE
 
1. La legge prevede poi modifiche alla legge n. 142/2001 sui rapporti di lavoro dei soci di cooperative.
2. Si tratta dei contratti collettivi stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi: qualcuno ha contato ben 43 rinvii.  
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