L’attacco
sferrato ai diritti dei lavoratori
S. Ruffolo (1916 - 1989) - Scontro
1. La campagna di screditamento mediatico del sindacato
L’attacco del Governo di centro destra al sindacato ed ai
diritti dei lavoratori è in pieno spiegamento ed è sotto gli occhi di tutti. Si
è concretizzato ed è stato
programmaticamente esplicitato mediante la redazione nell’ottobre 2001 del
c.d.“libro bianco” che, senza dare tempo a riflessioni, è stato frettolosamente
seguito dalla c.d.“legge delega” sulla riforma del mercato del lavoro del 15
novembre successivo. In
quest’operazione di “controriforma” – in cui il ruolo del governo è
talmente appiattito sulle posizioni della Confindustria e delle maggiori associazioni imprenditoriali, da
non consentirci più di distinguere i sollecitatori dai promotori – l’attacco è
stato preceduto dalle abusate campagne mediatiche (iniziate da lontano ma
intensificatesi incisivamente negli ultimi tempi con l’avvento della c.d. new
economy e della globalizzazione) facenti perno sulle usuali metodiche
screditanti l’immagine dell’istituzione
sindacale, con l’effetto sperato di
influenzare l’opinione pubblica, specie dei giovani e dei lavoratori in
cerca di occupazione (ma non gli addetti ai lavori ed i più anziani).
L’attacco al sindacato è strutturato dalle solite
etichettature – evidenziate efficacemente da L. Gallino (nell’ottimo articolo
“Chi vuole spegnere la voce del sindacato”, in “la Repubblica” del 15.1.2002,
16) - tramite cui gli si imputa di
essere un’organizzazione “passatista”,
“un residuo pre-moderno, istituzione demodé, struttura in ritardo
irrimediabile sui tempi. E’ una strategia che sin dagli Anni '80 è stata
attuata con successo in Gran Bretagna e, con altrettanto fragore seppure finora
con minor successo, in Francia, specie ad opera dell'associazione padronale. Il
sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla modernizzazione del
paese. Chi lo sostiene, compresi i
lavoratori che ancora vi credono e ad esso si iscrivono, è un nemico della
libertà e del nuovo che si affaccia prepotentemente nel mondo”. Un recente
epigono di questa impostazione ed utilizzatore di queste tecniche tese ad
opacizzare l’immagine del Sindacato, si rivela un giornalista (tal Masciandaro) che ha commentato lo sciopero del 7
gennaio c.a. dei sindacati bancari, su “Il Sole-24-Ore” dell’8 gennaio 2002,
con il titolo inequivocabilmente screditante “Prigionieri del passato”, e con
l’occhiello “avanza l’innovazione ma i sindacati frenano”. L’estensore
asserisce che le OO.SS. dei bancari
impersonano la figura di don Chiscotte nella loro lotta contro i mulini
a vento (la new economy e la globalizzazione), giacchè si muovono (da
sconfitti) “con strategie e tattiche di un tempo che fu. E’ la banca della
forza lavoro, mentre oggi le nostre imprese bancarie hanno bisogno di capitale
umano (e i dipendenti non sono capitale umano?, n.d.r.)…le banche
italiane sono ancora azzoppate, nella
competizione europea, dal livello e dalla composizione del costo del lavoro,
com’è documentato, da ultimo, dal rapporto Abi sul tema. Quello che preoccupa
di più non è tanto il divario quantitativo ancora da recuperare, ma le qualità del
capitale umano oggi presente in banca (che evidentemente il
giornalista, senza esperienza diretta e
senza alcuna cognizione di causa, presuppone indiscutibilmente scadente, quando
invece – depurato dalla note, solite scorie da assunzione clientelare – non lo
è affatto! n.d.r.). Occorre…aumentare radicalmente la possibilità che la singola
banca possa sceglier il capitale umano più adatto ai propri mercati di
riferimento, effettivo o potenziale. Anche perché in generale, i flussi di
capitale umano necessari non sono rinvenibili negli stock esistenti”. Al riguardo osserviamo innanzitutto come già la terminologia
usata da questo giornalista lasci trasparire un’inaccettabile concezione del
lavoro e dei lavoratori come “merce” (stivata assieme alla materia prima negli
“stock” di magazzino); in secondo luogo quale diretta esperienza sul campo gli conferisce la cognizione, spacciata per certezza, che il
personale attualmente in organico nelle aziende di credito è così obsoleto da
dover essere espulso, neppure senza
sforzi di riconversione eventuale, per consentire poi alla “banca di potersi
scegliere il capitale umano più adatto” alle proprie esigenze? La new
economy - sempre secondo questo
giornalista, e nessuno per la verità ha mai sostenuto il contrario - richiede
assunzione di responsabilità da parte delle banche e dei dipendenti ed “è
evidente che regole del gioco che responsabilizzano la singola azienda ed il
singolo individuo, di fronte agli eventi imprevedibili e quindi rischiosi
dell’innovazione, possono disturbare tutti quei soggetti che godono di
posizioni di rendita, esaltate dai meccanismi della contrattazione collettiva, rafforzati da contratti
integrativi aziendali sganciati dalle effettive performance economiche. Si
rischia così di avvantaggiare le forme più miopi di sindacato, i lavoratori
relativamente più inefficienti o inadatti, i manager più obsoleti o ignavi, gli
azionisti non interessati alla redditività, quelle istituzioni pubbliche
concentrate sulla massimizzazione del consenso elettorale”. Riemerge
l’accusa di non essere al passo con i tempi, di obsolescenza, di
vetero-conservatorismo. A parte la
notazione che in questo quadro tanto
desolato quanto disancorato dalla realtà attuale - giacché perlomeno tutti i protagonisti del lavoro e della
rappresentanza dei lavoratori si sono da tempo
adeguati al “nuovo”con
tempestività, capacità di adattamento e senso di responsabilità – nessuno si salva
(dal dipendente, al sindacato, al manager, agli azionisti, alle istituzioni),
va detto che il “fosco quadro”
rappresentato e prospettato ai lettori fa parte integrante di quella
“scenografia” e/o “strategia” secondo la quale i soggetti che oppongono resistenza alla “sottrazione”delle
conquiste di libertà e di dignità debbono essere considerati nemici da
eliminare, con tecniche di innovazione legislativa apparentemente presentate
come legittime dal punto di vista giuridico-formale, ma inaccettabili dal punto
di vista etico, proprio perché carenti dell’eticità che sola discende dal senso
di giustizia e di eguaglianza e dall’oramai diffusa esigenza di rispetto
dell’uomo e dei suoi valori portanti.
Nella concezione degli aggressori del sindacato e dei ceti
economici che li supportano, si punta alla sostituzione delle forme di
solidarietà e delle istituzioni di rappresentanza degli interessi (qual è
primariamente il sindacato) con la “individualizzazione dei rapporti di
lavoro. Sul mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e
sentirsi solo. Con le sue competenze professionali, la sua voglia di fare, la
sua disponibilità ad accettare - se disoccupato - qualsiasi lavoro e salario
gli venga offerto. Messo di fronte dalla legge ad una varietà di tipologie di
lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a chiamata, temporaneo,
coordinato e continuativo, occasionale, accessorio, intermittente, a
prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od orizzontale, oppure con
contratto a tempo determinato che diventa indeterminato se l'impresa - grazie
alle modifiche dell'art. 18 - acquista il diritto di porvi termine quando
crede. Però un individuo sospinto sempre più lontano dalle tutele sindacali,
grazie anche alla prevista riduzione della portata dei contratti nazionali a
favore di quelli aziendali” (così efficacemente Gallino, cit.) o
addirittura individuali. “Resta in prima fila, ad impedire che i messaggi
del capo arrivino direttamente alla mente e al cuore degli individui, il
sindacato. Dunque è necessario ridurlo all'impotenza.” (ancora Gallino,
cit.).
“Non bastasse la
poderosa offensiva del berlusconismo – afferma ancora Gallino - le difficoltà per il sindacato italiano
sono accresciute dal fatto che l'ideologia della modernità ha fatto presa anche
su una parte significativa della sinistra”. Tutti ricordano come al Congresso
dei Ds l’unica mozione che si occupava dei problemi concreti del lavoro e
dell’occupazione fosse quella di Berlinguer, ma essa non passò perché fu
presentata dai funzionari del partito come vecchia e superata di fronte
all’avanzare dell’innovazione tecnologica che presupponeva modernità di vedute
(quale “modernità”, in sostituzione dei vecchi inossidabili valori, si dovesse
condividere non è dato di sapere!). Tutti ricordano, poi, come ancor prima
D’Alema (malamente consigliato da alcuni
noti giuslavoristi) abbia - quando era al governo il centro sinistra –
tentato di allentare i c.d. “lacci e lacciuoli” dello Statuto dei lavoratori in
tema di licenziamenti e come ora (nel Congresso della Cgil a Rimini) il
segretario generale Cofferati gli abbia direttamente mandato a dire, con
memoria da elefante e quale inequivoca
risposta alla distanza, che: “Osteggiamo l’idea, che pure ha fatto male alla
sinistra, che per dare diritti a chi non ne ha, ai nuovi lavori, sia necessario
diminuire quelli degli altri” (così da “la Repubblica” del 7 febbraio
2002), che era giustappunto l’idea del “premier” d’allora e dei suoi
“consiglieri”. Ed ha detto una cosa condivisibilissima: le garanzie vanno
estese a chi non le ha, non sottratte a chi
le detiene non già per liberale lascito ereditario ma per effetto di
lotte e conquiste sindacali proprie e dei padri, raccolte poi con lungimiranza,
dal legislatore che le ha tradotte in atti formali di legge (tra gli anni ‘60 e
’70 del secolo scorso).
2. Le “idee guida” per una opposizione di segno democratico e progressista
Vanno poi fatte talune considerazioni, ancora di carattere
generale o meglio di principio, per le quali ci avvarremo di recenti opinioni
dottrinali, da noi condivise (si veda l’articolo di Mariucci, Dieci tesi sul
diritto del lavoro. Riforma o restaurazione?, nel sito www.clik.to/dirittolavoro,
sezione Articoli, n. 93). Come giustamente dice questo giuslavorista, si pone il problema definitorio di ciò che
queste iniziative governative (“libro bianco” e “legge delega” di riforma del mercato del lavoro) rappresentano.
Non sono certamente una “riforma” – che possiede una connotazione di segno
positivo – semmai una “restaurazione” che significa un puro e semplice regredire
o ritorno all’indietro. O, come si è detto, potrebbero essere qualificate
“rivoluzione”, terminologia “ripetutamente usata dal governo in carica, con
cui si allude, a quanto si intende, a un rovesciamento integrale della
situazione data” (Mariucci, cit.). La scelta del metodo poi è di segno
autoritario o dirigistico in quanto si fa fuori la pratica sperimentata della
“concertazione” con le controparti sindacali e ad essa si sostituisce il
metodo (vuoto di ruolo per le OO.SS.) del
c.d.“dialogo sociale”, inteso -
e lo sanno bene i sindacati del credito
giacché il loro ccnl è
l’antesignano di questa metodologia – come “notifica” con termine di scadenza,
delle “determinazioni” governative, adottabili discrezionalmente dopo averle
rassegnate in “incontri meramente
informativi” nel corso dei quali ricevere
le eventuali valutazioni,
dissensi o indicazioni correttive delle parti sociali, indicazioni liberamente ed anche
immotivatamente ricusabili, per dar immediatamente corso (dopo l’alibi
liberatorio della informativa “democratica”) alla messa in esecuzione della
decisione premeditata. Com’è stato detto: “La concertazione, vale a dire la ricerca di un accordo
di fondo tra grandi rappresentanze di interessi e governo politico, per
l’Italia costituisce un valore e uno strumento essenziale. Liquidare questo
metodo costituisce una scelta avventurista”(Mariucci, cit.).
Ed ancora va confutato quel
modello di lettura dell’appartenenza alla UE che obbligherebbe il nostro Paese
ad appiattirsi sulle legislazioni meno evolute e meno garantiste. Sul punto si
condivide l’opinione di chi ha detto che: “In particolare è inaccettabile
una declinazione dell’Europa al fine di abbassare il minimo comune denominatore
della garanzia dei diritti e delle protezioni sociali. Questa è l’operazione
inaccettabile svolta per l’appunto dal “libro bianco del lavoro” del governo
Berlusconi. Quella tesi va rovesciata, nei seguenti termini: ‘il modello
sociale europeo costituisce un elemento essenziale di identità del progetto di
Unione europea; il modello sociale europeo è complesso e non univoco; esso si
fonda tuttavia su un principio di fondo, che ne segna il tratto differenziale
indeclinabile rispetto al modello americano: le garanzie, la protezione sociale
e le strategie di inclusione sociale sono un elemento strutturale dei sistemi
pubblici europei: questo modello va aggiornato, e non liquidato’ (Mariucci,
cit.).
Circa la rivoluzione cui si intenderebbe sottoporre, poi, il
nostro diritto del lavoro, nel senso che si dovrebbe modellare sulla falsariga
e nel segno di una “americanizzazione senza radici”, va detto che ancora
si condividono le opinioni di chi ha asserito che:“Il diritto (individuale) del
lavoro italiano va ri-formato in coerenza con i suoi principi fondativi e con
la sua storica tradizione, e non de-stabilizzato attraverso una innovazione
dissennata e senza principi” (Mariucci, cit.). Quanto poi allo
stravolgimento cui lo si vorrebbe assoggettare, ancora conviene meditare ed
esprimere concordanza con quelle affermazioni secondo cui: “Il diritto del
lavoro è una disciplina che nasce nel ‘mercato’, e si è persino sviluppata ‘in
funzione del mercato’. Ma essa è anche una disciplina costituita ‘contro il
mercato’. …‘Il diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad
affermare i diritti della persona che lavora anche contro i vincoli della
economia data. Nel diritto del lavoro è iscritta quindi una istanza di
liberazione indeclinabile, che durerà quanto la storia dell’uomo’
(Mariucci, cit.).
Infine sul “refrain” della
flessibilità – intesa non già come eliminazione della rigidità dannosa ma
attribuzione della ‘precarietà’ alla nuova tipologia dei rapporti di lavoro
- appare condivisibile l’analisi
secondo la quale: “L’idea che il problema in Italia oggi consista
nell’incrementare e addirittura inflazionare le forme flessibili di accesso
all’impiego è sbagliata in radice. Si tratta di fare esattamente l’inverso,
agli antipodi di ciò che propongono il “libro bianco del lavoro” e la legge
delega del governo Berlusconi. Tutti gli
indicatori mostrano infatti che il problema oggi, per il mercato del lavoro
italiano, non consiste in un deficit di forme flessibili dell’impiego, quanto
esattamente nel contrario. Almeno per gli italiani (altra cosa è naturalmente
il discorso per i lavoratori extracomunitari, che sono il vero corpo “vile”
della più brutale flessibilità) tutte le ricerche indicano la necessità di
puntare a un lavoro di qualità, a contenuto formativo e orientato alla
stabilizzazione. La retorica della flessibilità va quindi rovesciata, almeno
per i giovani italiani, a vantaggio di ciò che è stato definito “elogio della
stabilità” (Mario Napoli). “Bisogna porre termine alla retorica della
flessibilità. La flessibilità non è un valore in sé, salvo il caso – rarissimo
- che possa essere governata discrezionalmente dal singolo individuo. La
stabilità è invece un valore: chi ha un lavoro stabile può programmare i tempi
della sua vita, e ciò è quanto basta. Va perciò promossa una ri-stabilizzazione
dei lavori flessibili, riducendo i lavori flessibili ad alcune essenziali
figure (lavoro a tempo determinato, lavoro a part-time, lavoro in formazione),
lasciando inalterato il nucleo definitorio e normativo del lavoro subordinato
classico e promovendo una tutela selettiva per i rapporti di lavoro
semi-autonomi o para-subordinati: si deve lavorare a un nuovo statuto di “tutti
i lavoratori”, centrato sulla essenzialità della dimensione soggettiva del
lavoro, e non a uno “statuto dei nuovi lavori” inteso come proiezione formale
della oggettivazione delle forme di lavoro in chiave vetero-corporativa” (Mariucci, cit.).
3. La sospensione applicativa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori
Fatte queste premesse politico-sociologiche e
indubitabilmente di principio, conviene ora focalizzare l’attenzione su due
strumenti giuridici (solo due, e solo per economia di spazio, non già perché
altri punti della “legge delega” non meritino incisive critiche) tramite i quali gli “sherpa” estensori della “legge delega” si sono riproposti di
sovvertire – in peggio per i lavoratori ed il sindacato – e anche subdolamente,
come evidenzieremo, l’attuale assetto istituzionale, legislativo e regolamentare dei rapporti di lavoro: a) l’uno riguardante la sospensione
dell’applicazione dell’art. 18 Statuto dei lavoratori (con sostituzione alla
reintegra dell’alternativa della monetizzazione del licenziamento
ingiustificato), e, b) l’altro afferente alla nuova disciplina dell’arbitrato
nelle controversie di lavoro.
La sospensione dall’applicazione della tutela reintegratoria
nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato – sostituibile con
una indennità risarcitoria di ammontare ancora indeterminato (ma suppostamente
ispirato alle “incongrue” misure di cui alla l. n. 108/1991 per le imprese al
disotto dei 15 dipendenti) – indicata
nel precedente punto a) è prefigurata dall’art. 10, lett. c) della c.d. “legge delega”, per tre ipotesi e nella
dichiarata finalità “di sostegno e incentivazione della occupazione regolare
e delle assunzioni a tempo indeterminato”, nonché “in via sperimentale
per la durata di 4 anni…fatta salva la possibilità di proroga in relazione agli
effetti registrati sul piano dell’occupazione”.
La prima ipotesi – riconducibile agli incentivi o “misure
di emersione” delle aziende in nero, in modo da indurle, tentativamente ed
auspicabilmente, a regolarizzare la
propria posizione alla luce della normativa legale – così come la terza,
riconducibile alle “politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale
delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le
unità lavorative assunte per il primo biennio” il cui computo
determinerebbe, invece, il superamento della soglia dei 15 dipendenti (tale da
implicare l’applicabilità dell’art. 18 stat. lav. su cui aveva fatto,
sconsideratamente, una “apertura” lo stesso governo D’Alema, poi ritornato sui
suoi passi), non meritano soverchia attenzione, sia per economia di spazio sia
perché sono basate su mere aspettative
(di difficile realizzazione pratica). Comunque, se per ipotesi si realizzassero, possiederebbero il vizio
“premiante” delle forme di illegalità a
danno dei datori di lavoro che si sono sempre mantenuti nella legalità, oltre
al difetto per cui l’agevolazione introdurrebbe comunque un effetto di
“concorrenza sleale” – in ordine al costo del lavoro - all’interno della varietà delle imprese (già
irregolari e regolari), effetto pagato soprattutto dai lavoratori con la
privazione della tutela reale.
La nostra attenzione (e quella dei lettori) deve invece
focalizzarsi sul “cavallo di Troia” della terza ipotesi, quella delle
assunzioni a tempo determinato che, una
volta trasformate a tempo indeterminato –nell’ottica della “stabilizzazione
dei rapporti di lavoro” come dice la legge delega-, verrebbero esentate perciò stesso
dall’assoggettamento all’art. 18 stat. lav.
Si tratta invero di una misura
preoccupantissima e subdola (una vera polpetta avvelenata). Infatti , dopo
l’approvazione, in attuazione delle direttive comunitarie, del d.lgs. n. 368
del 6 settembre 2001 - esaltato come misura di liberalizzazione (dai precedenti
“lacci e lacciuoli”) della “nuova” disciplina del contratto a termine - il contratto a tempo determinato diviene ora
attivabile, per effetto dell’abrogazione delle causali di cui alla l. n.
230/1962, in via diffusa e generalizzata al ricorrere di sole esigenze
aziendali “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”
aziendali (e con forte limitazione per la contrattazione collettiva della
facoltà di circoscriverne la diffusione tramite la fissazione di misure
quantitative in percentuale dei lavoratori stabili), cosicché la soluzione dell’assunzione a tempo
determinato diventerà la via maestra (se non la sola, in futuro) per le nuove
assunzioni da parte delle imprese, e , conseguentemente, per effetto di turn
over generazionale si realizzerà la silente abrogazione dell’art. 18 stat.
lav. Infatti la trasformazione dell’originario contratto a termine in contratto
a tempo indeterminato sarà premiata per il datore di lavoro col non
assoggettamento all’art. 18 stat. lav., e sarà tale da innescare un fenomeno di tipo diffusivo tra
le imprese al fine di giovarsi di tale agevolazione (limitata inizialmente per
4 anni, ma prorogabile). Ne sortirà quale conseguenza che i nuovi assunti
(sempre a termine) – dopo un periodo di convivenza in azienda con vecchi assunti, stabilizzati a tempo indeterminato
e dotati della tutela dell’art. 18
- si troveranno titolari, per
conversione da parte datoriale, di un
contratto a tempo indeterminato di tipo “precario”, in quanto non assistito
dalla tutela reintegratoria per il caso di licenziamento ingiustificato.
Naturalmente la tutela, ex art. 18 stat. lav., scatta nel caso di licenziamento
discriminatorio ex art. 15 della l. n.
300/’70 (per motivi di sesso, lingua, religione, ritorsione sindacale, e simili) o per licenziamento datoriale fondato sull’insofferenza nei
confronti della malattia , infortunio
del lavoratore o maternità della
lavoratrice, ex art. 2110 c.c.. Ma se il lavoratore è zelante nel pretendere il
pagamento degli straordinari (in
precedenza non retribuiti o solo parzialmente)
o non è disponibile o ossequiente od
omertoso come l’impresa o il capo di
turno si aspetta, ovvero (benché competente professionalmente) non è più nel
gradimento all’azienda per un motivo qualsiasi, è certamente esposto al rischio
della perdita del posto di lavoro ed in cambio riceverà un “obolo”
risarcitorio. Poiché in linea generale
i “licenziati” non sono pacificamente
“apprezzati” o “candidabili” per una riassunzione da parte di altra azienda (il
datore di lavoro successivo è indotto a pensare che se uno è stato licenziato
da un suo collega imprenditore qualcosa di sgradito, disturbante e ripetibile
sotto di lui, ci sarà pure nel carattere e nella personalità del lavoratore!),
lo stato di disoccupazione dell’indennizzato tende a trasformarsi, anche in
presenza di una forte offerta di manodopera (costituita dai “non ancora
occupati”), da temporaneo in permanente. Era addirittura preferibile – o più
vantaggiosa - per il lavoratore, la
situazione dell’essere titolare di un contratto a tempo determinato, perché
(non applicandosi al contratto a termine la l. n. 604 del 1966 introduttiva del
“giustificato motivo” accanto alla “giusta causa” ex art. 2119 c.c., per la
risoluzione del contratto a tempo indeterminato) la legittimità del licenziamento
per il contratto a termine è correlata esclusivamente alla sussistenza
della “giusta causa” ex art. 2119 c.c.
(e non anche, come per il contratto a tempo indeterminato, al giustificato
motivo oggettivo e soggettivo). In ultima sintesi, la legge delega - grazie
“all’effetto combinato” di essa con la recentissima nuova disciplina del
contratto a termine di cui al d.lgs. n. 368/2001 - prefigura una soluzione di
assunzione generalizzata tramite il contratto a termine (trasformabile a tempo
indeterminato con il salvacondotto dell’esenzione dalla reintegrazione) e si
ripropone di introdurre, quindi – in plateale contraddizione con l’intento
dichiarato della “stabilizzazione” – un modello di contratto a tempo
indeterminato del tutto precario (in tal senso Bellavista, Il disegno di
legge delega in materia di mercato del lavoro e la riforma della disciplina del
licenziamento individuale, nel sito www.clik.to/dirittolavoro,
sezione Articoli, n. 93). Non v’è, poi,
chi non veda come il rischio del licenziamento ingiustificato
(monetizzato) inibisca nel lavoratore, in corso di rapporto, i diritti di
opinione e di libera manifestazione del pensiero, quelli di associazionismo
sindacale, le legittime pretese di rispetto della normativa legale del lavoro e
delle misure di sicurezza e tutela della salute e così via, ridotto ad essere
tollerante e a “chiudere occhi ed orecchi” per non rientrare nella lista degli
“sgraditi” e discrezionalmente licenziabili (conf. Fezzi, La legge delega
sul mercato del lavoro, nel sito www.clik.to/dirittolavoro, sezione Articoli, n.
88). Ecco i motivi per cui è del tutto
menzognera l’affermazione di parte datoriale e governativa secondo la quale l’esenzione
dalla tutela reintegratoria riguarderebbe dopotutto una “fascia marginale o
residuale di lavoratori”. Ci troviamo di fronte, invece ad una “legge-trappola”
di stampo regressivo e “restauratore”, di cui la stessa Confederazione dei
dirigenti d’azienda ha chiesto al Governo il ritiro o lo stralcio (cfr. lettera
aperta del Presidente Carrozza in “Milano Finanza” dell’8.2.2002, inserto
FD, 27).
4. La riforma dell’arbitrato: uno stratagemma di espulsione generalizzata dell’art. 18 Stat.lav.
L’altro pericolo – tutt’altro che di poco conto – è
costituito dalla modifica della disciplina dell’arbitrato, di cui si occupa
l’art. 12 stessa “legge delega”, che sulla materia è inscindibilmente
collegato alla modifica (o sospensione)
della tutela reale (ex art. 18) dal licenziamento ingiustificato. La riforma
che l’art. 12 prevede è radicale. Tramite la lettera d) si prevede il “superamento
del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie aventi ad
oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge
o di contratti collettivi, affermandosi conseguentemente il lodo secondo
equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento”. Com’è stato
detto (Bellavista, cit.), “il rischio è quello che attraverso la possibilità
che l’arbitro decida secondo equità venga del tutto disarticolato il sistema di
tutele e di garanzie attualmente previsto dalle disposizioni delle leggi e dei
contratti collettivi”.
“Ancora più grave è il criterio
indicato dalla lettera f) del citato art. 12
che parla di “alternatività fra risarcimento del danno con
quantificazione interamente rimessa al giudizio arbitrale e reintegrazione nel
posto di lavoro, a discrezione del collegio arbitrale, in deroga a quanto
previsto dall’articolo 18, legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive
modificazioni”. In sostanza, verrebbe consentita l’eventualità che il
collegio arbitrale, davanti cui sia impugnato un licenziamento, opti per la
tutela risarcitoria invece che per quella reale. E questa alternativa
avrebbe una portata generale e non limitata ai tre casi per i quali il
precedente art. 10 ipotizza la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 St.
lav.” (così Bellavista, cit.). Con la conseguenza del tutto sgradita quanto inavvertita - e quindi in sostanza celata per i non addetti ai
lavori (quali l’opinione pubblica ed i lavoratori) - che anche i titolari della
tutela reintegratoria di cui all’art. 18 (i più anziani in organico in azienda)
si potrebbero trovare privati di essa per effetto della discrezionale opzione
di un terzo (il Collegio arbitrale) verso la soluzione monetizzante in luogo di
quella della re-immissione nel posto di lavoro.
“Peraltro, questa nuova procedura arbitrale sarebbe operativa anche nell’area del lavoro
pubblico, posto che l’art. 11 del progetto si limita a stabilire che “le
disposizioni degli articoli da 1 a 10 non si applicano al personale delle
pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate” e quindi
non menziona espressamente il successivo art. 12, dov’è contenuta la riforma
dell’arbitrato, la cui formulazione è tanto generale da ritenere che
l’esercizio concreto della delega ne determinerà l’estensione anche al lavoro
pubblico. Inoltre, nell’art. 12 del progetto l’alternatività della scelta tra
risarcimento e tutela reale è configurata in termini così ampi da potere essere
estesa anche ai casi di licenziamento discriminatorio, per matrimonio, per
malattia e maternità, per i quali il precedente art. 10 mantiene il
tradizionale regime di divieto di licenziamento e di conseguente nullità.
Oppure lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la pronuncia
del lodo secondo equità, la quale disancora da criteri oggettivi lo spazio di
valutazione del collegio arbitrale.
In estrema sintesi, mediante la suggerita riforma del
sistema dell’arbitrato è prefigurabile il rischio che la tutela reale (ex art. 18 Statuto dei
lavoratori, n.d.r.) venga di fatto espunta dall’ordinamento e che il
complesso dei diritti inderogabili dei lavoratori sia reso privo di alcuna
effettività” (così, efficacemente, Bellavista, cit.).
Roma, 9 febbraio 2002
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