L’attacco sferrato ai diritti dei lavoratori

 

 

S. Ruffolo (1916 - 1989) - Scontro

 

1. La campagna di screditamento mediatico del sindacato

 

L’attacco del Governo di centro destra al sindacato ed ai diritti dei lavoratori è in pieno spiegamento ed è sotto gli occhi di tutti. Si è concretizzato ed è stato  programmaticamente esplicitato mediante la redazione nell’ottobre 2001 del c.d.“libro bianco” che, senza dare tempo a riflessioni, è stato frettolosamente seguito dalla c.d.“legge delega” sulla riforma del mercato del lavoro del 15 novembre  successivo. In quest’operazione di “controriforma” – in cui il ruolo del  governo è  talmente appiattito sulle posizioni della Confindustria e delle  maggiori associazioni imprenditoriali, da non consentirci più di distinguere i sollecitatori dai promotori – l’attacco è stato preceduto dalle abusate campagne mediatiche (iniziate da lontano ma intensificatesi incisivamente negli ultimi tempi con l’avvento della c.d. new economy e della globalizzazione) facenti perno sulle usuali metodiche screditanti  l’immagine dell’istituzione sindacale, con l’effetto sperato di  influenzare l’opinione pubblica, specie dei giovani e dei lavoratori in cerca di occupazione (ma non gli addetti ai lavori ed i più anziani).

L’attacco al sindacato è strutturato dalle solite etichettature – evidenziate efficacemente da L. Gallino (nell’ottimo articolo “Chi vuole spegnere la voce del sindacato”, in “la Repubblica” del 15.1.2002, 16) -  tramite cui gli si imputa di essere un’organizzazione “passatista”,  un residuo pre-moderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. E’ una strategia che sin dagli Anni '80 è stata attuata con successo in Gran Bretagna e, con altrettanto fragore seppure finora con minor successo, in Francia, specie ad opera dell'associazione padronale. Il sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla modernizzazione del paese.  Chi lo sostiene, compresi i lavoratori che ancora vi credono e ad esso si iscrivono, è un nemico della libertà e del nuovo che si affaccia prepotentemente nel mondo”. Un recente epigono di questa impostazione ed utilizzatore di queste tecniche tese ad opacizzare l’immagine del Sindacato, si rivela un  giornalista (tal Masciandaro) che ha commentato lo sciopero del 7 gennaio c.a. dei sindacati bancari, su “Il Sole-24-Ore” dell’8 gennaio 2002, con il titolo inequivocabilmente screditante “Prigionieri del passato”, e con l’occhiello “avanza l’innovazione ma i sindacati frenano”. L’estensore asserisce che le OO.SS. dei bancari  impersonano la figura di don Chiscotte nella loro lotta contro i mulini a vento (la new economy e la globalizzazione), giacchè si muovono (da sconfitti) “con strategie e tattiche di un tempo che fu. E’ la banca della forza lavoro, mentre oggi le nostre imprese bancarie hanno bisogno di capitale umano (e i dipendenti non sono capitale umano?, n.d.r.)…le banche italiane  sono ancora azzoppate, nella competizione europea, dal livello e dalla composizione del costo del lavoro, com’è documentato, da ultimo, dal rapporto Abi sul tema. Quello che preoccupa di più non è tanto il divario quantitativo ancora da recuperare, ma le qualità del capitale umano oggi presente in banca (che evidentemente il giornalista,  senza esperienza diretta e senza alcuna cognizione di causa, presuppone indiscutibilmente scadente, quando invece – depurato dalla note, solite scorie da assunzione clientelare – non lo è affatto!  n.d.r.). Occorre…aumentare radicalmente la possibilità che la singola banca possa sceglier il capitale umano più adatto ai propri mercati di riferimento, effettivo o potenziale. Anche perché in generale, i flussi di capitale umano necessari non sono rinvenibili negli stock esistenti”. Al riguardo osserviamo innanzitutto come già la terminologia usata da questo giornalista lasci trasparire un’inaccettabile concezione del lavoro e dei lavoratori come “merce” (stivata assieme alla materia prima negli “stock” di magazzino); in secondo luogo quale diretta esperienza  sul campo gli conferisce la  cognizione, spacciata per certezza, che il personale attualmente in organico nelle aziende di credito è così obsoleto da dover essere espulso,  neppure senza sforzi di riconversione eventuale, per consentire poi alla “banca di potersi scegliere il capitale umano più adatto” alle proprie esigenze? La new economy  - sempre secondo questo giornalista, e nessuno per la verità ha mai sostenuto il contrario - richiede assunzione di responsabilità da parte delle banche e dei dipendenti ed “è evidente che regole del gioco che responsabilizzano la singola azienda ed il singolo individuo, di fronte agli eventi imprevedibili e quindi rischiosi dell’innovazione, possono disturbare tutti quei soggetti che godono di posizioni di rendita, esaltate dai meccanismi della contrattazione  collettiva, rafforzati da contratti integrativi aziendali sganciati dalle effettive performance economiche. Si rischia così di avvantaggiare le forme più miopi di sindacato, i lavoratori relativamente più inefficienti o inadatti, i manager più obsoleti o ignavi, gli azionisti non interessati alla redditività, quelle istituzioni pubbliche concentrate sulla massimizzazione del consenso elettorale”. Riemerge l’accusa di non essere al passo con i tempi, di obsolescenza, di vetero-conservatorismo.  A parte la notazione che  in questo quadro tanto desolato quanto disancorato dalla realtà attuale  - giacché perlomeno tutti i protagonisti del lavoro e della rappresentanza dei lavoratori si sono da tempo  adeguati  al “nuovo”con tempestività, capacità di  adattamento  e senso di responsabilità – nessuno si salva (dal dipendente, al sindacato, al manager, agli azionisti, alle istituzioni), va detto che  il “fosco quadro” rappresentato e prospettato ai lettori fa parte integrante di quella “scenografia”  e/o “strategia”  secondo la quale i soggetti che  oppongono resistenza alla “sottrazione”delle conquiste di libertà e di dignità debbono essere considerati nemici da eliminare, con tecniche di innovazione legislativa apparentemente presentate come legittime dal punto di vista giuridico-formale, ma inaccettabili dal punto di vista etico, proprio perché carenti dell’eticità che sola discende dal senso di giustizia e di eguaglianza e dall’oramai diffusa esigenza di rispetto dell’uomo e dei suoi valori portanti.

Nella concezione degli aggressori del sindacato e dei ceti economici che li supportano, si punta alla sostituzione delle forme di solidarietà e delle istituzioni di rappresentanza degli interessi (qual è primariamente il sindacato) con la “individualizzazione dei rapporti di lavoro. Sul mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e sentirsi solo. Con le sue competenze professionali, la sua voglia di fare, la sua disponibilità ad accettare - se disoccupato - qualsiasi lavoro e salario gli venga offerto. Messo di fronte dalla legge ad una varietà di tipologie di lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio, intermittente, a prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od orizzontale, oppure con contratto a tempo determinato che diventa indeterminato se l'impresa - grazie alle modifiche dell'art. 18 - acquista il diritto di porvi termine quando crede. Però un individuo sospinto sempre più lontano dalle tutele sindacali, grazie anche alla prevista riduzione della portata dei contratti nazionali a favore di quelli aziendali” (così efficacemente Gallino, cit.) o addirittura individuali. “Resta in prima fila, ad impedire che i messaggi del capo arrivino direttamente alla mente e al cuore degli individui, il sindacato. Dunque è necessario ridurlo all'impotenza.” (ancora Gallino, cit.).

Non  bastasse la poderosa offensiva del berlusconismo – afferma ancora Gallino -  le difficoltà per il sindacato italiano sono accresciute dal fatto che l'ideologia della modernità ha fatto presa anche su una parte significativa della sinistra”. Tutti ricordano come al Congresso dei Ds l’unica mozione che si occupava dei problemi concreti del lavoro e dell’occupazione fosse quella di Berlinguer, ma essa non passò perché fu presentata dai funzionari del partito come vecchia e superata di fronte all’avanzare dell’innovazione tecnologica che presupponeva modernità di vedute (quale “modernità”, in sostituzione dei vecchi inossidabili valori, si dovesse condividere non è dato di sapere!). Tutti ricordano, poi, come ancor prima D’Alema (malamente consigliato da alcuni  noti giuslavoristi) abbia - quando era al governo il centro sinistra – tentato di allentare i c.d. “lacci e lacciuoli” dello Statuto dei lavoratori in tema di licenziamenti e come ora (nel Congresso della Cgil a Rimini) il segretario generale Cofferati gli abbia direttamente mandato a dire, con memoria da elefante e  quale inequivoca risposta alla distanza, che: “Osteggiamo l’idea, che pure ha fatto male alla sinistra, che per dare diritti a chi non ne ha, ai nuovi lavori, sia necessario diminuire quelli degli altri” (così da “la Repubblica” del 7 febbraio 2002), che era giustappunto l’idea del “premier” d’allora e dei suoi “consiglieri”. Ed ha detto una cosa condivisibilissima: le garanzie vanno estese a chi non le ha, non sottratte a chi  le detiene non già per liberale lascito ereditario ma per effetto di lotte e conquiste sindacali proprie e dei padri, raccolte poi con lungimiranza, dal legislatore che le ha tradotte in atti formali di legge (tra gli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso).

 

2. Le “idee guida” per  una opposizione di segno democratico e progressista

 

Vanno poi fatte talune considerazioni, ancora di carattere generale o meglio di principio, per le quali ci avvarremo di recenti opinioni dottrinali, da noi condivise (si veda l’articolo di Mariucci, Dieci tesi sul diritto del lavoro. Riforma o restaurazione?, nel sito www.clik.to/dirittolavoro, sezione Articoli, n. 93). Come giustamente dice questo giuslavorista,  si pone il problema definitorio di ciò che queste iniziative governative (“libro bianco” e  “legge delega” di riforma del mercato del lavoro) rappresentano. Non sono certamente una “riforma” – che possiede una connotazione di segno positivo – semmai una “restaurazione” che significa un puro e semplice regredire o ritorno all’indietro. O, come si è detto, potrebbero essere qualificate “rivoluzione”, terminologia “ripetutamente usata dal governo in carica, con cui si allude, a quanto si intende, a un rovesciamento integrale della situazione data” (Mariucci, cit.). La scelta del metodo poi è di segno autoritario o dirigistico in quanto si fa fuori la pratica sperimentata della “concertazione” con le controparti sindacali e ad essa si sostituisce il metodo (vuoto di ruolo per le OO.SS.) del  c.d.“dialogo sociale”, inteso  - e lo sanno bene i sindacati del credito  giacché il loro ccnl  è l’antesignano di questa metodologia – come “notifica” con termine di scadenza, delle “determinazioni” governative, adottabili discrezionalmente dopo averle rassegnate  in “incontri meramente informativi” nel corso dei quali ricevere  le  eventuali valutazioni, dissensi o indicazioni correttive delle parti sociali,  indicazioni liberamente ed anche immotivatamente ricusabili, per dar immediatamente corso (dopo l’alibi liberatorio della informativa “democratica”) alla messa in esecuzione della decisione premeditata. Com’è stato detto: La concertazione, vale a dire la ricerca di un accordo di fondo tra grandi rappresentanze di interessi e governo politico, per l’Italia costituisce un valore e uno strumento essenziale. Liquidare questo metodo costituisce una scelta avventurista”(Mariucci, cit.).

Ed ancora va confutato quel modello di lettura dell’appartenenza alla UE che obbligherebbe il nostro Paese ad appiattirsi sulle legislazioni meno evolute e meno garantiste. Sul punto si condivide l’opinione di chi ha detto che: “In particolare è inaccettabile una declinazione dell’Europa al fine di abbassare il minimo comune denominatore della garanzia dei diritti e delle protezioni sociali. Questa è l’operazione inaccettabile svolta per l’appunto dal “libro bianco del lavoro” del governo Berlusconi. Quella tesi va rovesciata, nei seguenti termini: ‘il modello sociale europeo costituisce un elemento essenziale di identità del progetto di Unione europea; il modello sociale europeo è complesso e non univoco; esso si fonda tuttavia su un principio di fondo, che ne segna il tratto differenziale indeclinabile rispetto al modello americano: le garanzie, la protezione sociale e le strategie di inclusione sociale sono un elemento strutturale dei sistemi pubblici europei: questo modello va aggiornato, e non liquidato’ (Mariucci, cit.).

Circa la rivoluzione cui si intenderebbe sottoporre, poi, il nostro diritto del lavoro, nel senso che si dovrebbe modellare sulla falsariga e nel segno di una “americanizzazione senza radici”, va detto che ancora si condividono le opinioni di chi ha asserito che:Il diritto (individuale) del lavoro italiano va ri-formato in coerenza con i suoi principi fondativi e con la sua storica tradizione, e non de-stabilizzato attraverso una innovazione dissennata e senza principi” (Mariucci, cit.). Quanto poi allo stravolgimento cui lo si vorrebbe assoggettare, ancora conviene meditare ed esprimere concordanza con quelle affermazioni secondo cui: “Il diritto del lavoro è una disciplina che nasce nel ‘mercato’, e si è persino sviluppata ‘in funzione del mercato’. Ma essa è anche una disciplina costituita ‘contro il mercato’. Il diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad affermare i diritti della persona che lavora anche contro i vincoli della economia data. Nel diritto del lavoro è iscritta quindi una istanza di liberazione indeclinabile, che durerà quanto la storia dell’uomo’ (Mariucci, cit.).

Infine sul “refrain” della flessibilità – intesa non già come eliminazione della rigidità dannosa ma attribuzione della ‘precarietà’ alla nuova tipologia dei rapporti di lavoro -  appare condivisibile l’analisi secondo la quale: “L’idea che il problema in Italia oggi consista nell’incrementare e addirittura inflazionare le forme flessibili di accesso all’impiego è sbagliata in radice. Si tratta di fare esattamente l’inverso, agli antipodi di ciò che propongono il “libro bianco del lavoro” e la legge delega del governo Berlusconi. Tutti gli indicatori mostrano infatti che il problema oggi, per il mercato del lavoro italiano, non consiste in un deficit di forme flessibili dell’impiego, quanto esattamente nel contrario. Almeno per gli italiani (altra cosa è naturalmente il discorso per i lavoratori extracomunitari, che sono il vero corpo “vile” della più brutale flessibilità) tutte le ricerche indicano la necessità di puntare a un lavoro di qualità, a contenuto formativo e orientato alla stabilizzazione. La retorica della flessibilità va quindi rovesciata, almeno per i giovani italiani, a vantaggio di ciò che è stato definito “elogio della stabilità” (Mario Napoli). “Bisogna porre termine alla retorica della flessibilità. La flessibilità non è un valore in sé, salvo il caso – rarissimo - che possa essere governata discrezionalmente dal singolo individuo. La stabilità è invece un valore: chi ha un lavoro stabile può programmare i tempi della sua vita, e ciò è quanto basta. Va perciò promossa una ri-stabilizzazione dei lavori flessibili, riducendo i lavori flessibili ad alcune essenziali figure (lavoro a tempo determinato, lavoro a part-time, lavoro in formazione), lasciando inalterato il nucleo definitorio e normativo del lavoro subordinato classico e promovendo una tutela selettiva per i rapporti di lavoro semi-autonomi o para-subordinati: si deve lavorare a un nuovo statuto di “tutti i lavoratori”, centrato sulla essenzialità della dimensione soggettiva del lavoro, e non a uno “statuto dei nuovi lavori” inteso come proiezione formale della oggettivazione delle forme di lavoro in chiave vetero-corporativa” (Mariucci, cit.).

 

3. La sospensione  applicativa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori

 

Fatte queste premesse politico-sociologiche e indubitabilmente di principio, conviene ora focalizzare l’attenzione su due strumenti giuridici (solo due, e solo per economia di spazio, non già perché altri punti della “legge delega” non meritino incisive critiche) tramite  i quali gli “sherpa” estensori  della “legge delega” si sono riproposti di sovvertire – in peggio per i lavoratori ed il sindacato – e anche subdolamente, come evidenzieremo, l’attuale assetto istituzionale, legislativo e  regolamentare  dei rapporti di lavoro: a) l’uno riguardante la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 Statuto dei lavoratori (con sostituzione alla reintegra dell’alternativa della monetizzazione del licenziamento ingiustificato), e, b) l’altro afferente alla nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro.

La sospensione dall’applicazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato – sostituibile con una indennità risarcitoria di ammontare ancora indeterminato (ma suppostamente ispirato alle “incongrue” misure di cui alla l. n. 108/1991 per le imprese al disotto dei 15 dipendenti) –  indicata nel precedente punto a) è prefigurata dall’art. 10, lett. c) della  c.d. “legge delega”, per tre ipotesi e nella dichiarata finalità “di sostegno e incentivazione della occupazione regolare e delle assunzioni a tempo indeterminato”, nonché “in via sperimentale per la durata di 4 anni…fatta salva la possibilità di proroga in relazione agli effetti registrati sul piano dell’occupazione”.

La prima ipotesi – riconducibile agli incentivi o “misure di emersione” delle aziende in nero, in modo da indurle, tentativamente ed auspicabilmente, a  regolarizzare la propria posizione alla luce della normativa legale – così come la terza, riconducibile alle “politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio” il cui computo determinerebbe, invece, il superamento della soglia dei 15 dipendenti (tale da implicare l’applicabilità dell’art. 18 stat. lav. su cui aveva fatto, sconsideratamente, una “apertura” lo stesso governo D’Alema, poi ritornato sui suoi passi), non meritano soverchia attenzione, sia per economia di spazio sia perché sono  basate su mere aspettative (di difficile realizzazione pratica). Comunque, se  per ipotesi si realizzassero, possiederebbero il vizio “premiante” delle forme di illegalità  a danno dei datori di lavoro che si sono sempre mantenuti nella legalità, oltre al difetto per cui l’agevolazione introdurrebbe comunque un effetto di “concorrenza sleale” – in ordine al costo del lavoro -  all’interno della varietà delle imprese (già irregolari e regolari), effetto pagato soprattutto dai lavoratori con la privazione della tutela reale.

La nostra attenzione (e quella dei lettori) deve invece focalizzarsi sul “cavallo di Troia” della terza ipotesi, quella delle assunzioni a tempo determinato che,  una volta trasformate a tempo indeterminato –nell’ottica della “stabilizzazione dei rapporti di lavoro” come dice la legge delega-,  verrebbero esentate perciò stesso dall’assoggettamento all’art. 18 stat. lav.  Si tratta invero  di una misura preoccupantissima e subdola (una vera polpetta avvelenata). Infatti , dopo l’approvazione, in attuazione delle direttive comunitarie, del d.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001 - esaltato come misura di liberalizzazione (dai precedenti “lacci e lacciuoli”) della “nuova” disciplina del contratto a termine -  il contratto a tempo determinato diviene ora attivabile, per effetto dell’abrogazione delle causali di cui alla l. n. 230/1962, in via diffusa e generalizzata al ricorrere di sole esigenze aziendali “di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” aziendali (e con forte limitazione per la contrattazione collettiva della facoltà di circoscriverne la diffusione tramite la fissazione di misure quantitative in percentuale dei lavoratori stabili), cosicché  la soluzione dell’assunzione a tempo determinato diventerà la via maestra (se non la sola, in futuro) per le nuove assunzioni da parte delle imprese, e , conseguentemente, per effetto di turn over generazionale si realizzerà la silente abrogazione dell’art. 18 stat. lav. Infatti la trasformazione dell’originario contratto a termine in contratto a tempo indeterminato sarà premiata per il datore di lavoro col non assoggettamento all’art. 18 stat. lav., e sarà tale da  innescare un fenomeno di tipo diffusivo tra le imprese al fine di giovarsi di tale agevolazione (limitata inizialmente per 4 anni, ma prorogabile). Ne sortirà quale conseguenza che i nuovi assunti (sempre a termine) – dopo un periodo di convivenza  in azienda con vecchi assunti, stabilizzati a tempo indeterminato e dotati  della tutela dell’art. 18 -  si troveranno titolari, per conversione  da parte datoriale, di un contratto a tempo indeterminato di tipo “precario”, in quanto non assistito dalla tutela reintegratoria per il caso di licenziamento ingiustificato. Naturalmente la tutela, ex art. 18 stat. lav., scatta nel caso di licenziamento discriminatorio ex art. 15 della  l. n. 300/’70 (per motivi di sesso, lingua, religione,  ritorsione sindacale, e simili) o  per licenziamento datoriale fondato sull’insofferenza nei confronti della   malattia , infortunio del lavoratore o maternità  della lavoratrice, ex art. 2110 c.c.. Ma se il lavoratore è zelante nel pretendere il pagamento degli  straordinari (in precedenza non retribuiti o  solo parzialmente) o non è disponibile o  ossequiente od omertoso come l’impresa  o il capo di turno si aspetta, ovvero (benché competente professionalmente) non è più nel gradimento all’azienda per un motivo qualsiasi, è certamente esposto al rischio della perdita del posto di lavoro ed in cambio riceverà un “obolo” risarcitorio.  Poiché in linea generale i “licenziati”  non sono pacificamente “apprezzati” o “candidabili” per una riassunzione da parte di altra azienda (il datore di lavoro successivo è indotto a pensare che se uno è stato licenziato da un suo collega imprenditore qualcosa di sgradito, disturbante e ripetibile sotto di lui, ci sarà pure nel carattere e nella personalità del lavoratore!), lo stato di disoccupazione dell’indennizzato tende a trasformarsi, anche in presenza di una forte offerta di manodopera (costituita dai “non ancora occupati”), da temporaneo in permanente. Era addirittura preferibile – o più vantaggiosa -  per il lavoratore, la situazione dell’essere titolare di un contratto a tempo determinato, perché (non applicandosi al contratto a termine la l. n. 604 del 1966 introduttiva del “giustificato motivo” accanto alla “giusta causa” ex art. 2119 c.c., per la risoluzione del contratto a tempo indeterminato) la legittimità del licenziamento per il contratto a termine è correlata esclusivamente alla sussistenza della  “giusta causa” ex art. 2119 c.c. (e non anche, come per il contratto a tempo indeterminato, al giustificato motivo oggettivo e soggettivo). In ultima sintesi, la legge delega - grazie “all’effetto combinato” di essa con la recentissima nuova disciplina del contratto a termine di cui al d.lgs. n. 368/2001 - prefigura una soluzione di assunzione generalizzata tramite il contratto a termine (trasformabile a tempo indeterminato con il salvacondotto dell’esenzione dalla reintegrazione) e si ripropone di introdurre, quindi – in plateale contraddizione con l’intento dichiarato della “stabilizzazione” – un modello di contratto a tempo indeterminato del tutto precario (in tal senso Bellavista, Il disegno di legge delega in materia di mercato del lavoro e la riforma della disciplina del licenziamento individuale, nel sito www.clik.to/dirittolavoro, sezione Articoli, n. 93). Non v’è, poi,  chi non veda come il rischio del licenziamento ingiustificato (monetizzato) inibisca nel lavoratore, in corso di rapporto, i diritti di opinione e di libera manifestazione del pensiero, quelli di associazionismo sindacale, le legittime pretese di rispetto della normativa legale del lavoro e delle misure di sicurezza e tutela della salute e così via, ridotto ad essere tollerante e a “chiudere occhi ed orecchi” per non rientrare nella lista degli “sgraditi” e discrezionalmente licenziabili (conf. Fezzi, La legge delega sul mercato del lavoro, nel sito www.clik.to/dirittolavoro, sezione Articoli, n. 88).  Ecco i motivi per cui è del tutto menzognera l’affermazione di parte datoriale e governativa secondo la quale l’esenzione dalla tutela reintegratoria riguarderebbe dopotutto una “fascia marginale o residuale di lavoratori”. Ci troviamo di fronte, invece ad una “legge-trappola” di stampo regressivo e “restauratore”, di cui la stessa Confederazione dei dirigenti d’azienda ha chiesto al Governo il ritiro o lo stralcio (cfr. lettera aperta  del Presidente Carrozza  in “Milano Finanza” dell’8.2.2002, inserto FD, 27).

 

4. La riforma dell’arbitrato: uno stratagemma di espulsione generalizzata dell’art. 18 Stat.lav.

 

L’altro pericolo – tutt’altro che di poco conto – è costituito dalla modifica della disciplina dell’arbitrato, di cui si occupa l’art. 12 stessa “legge delega”, che sulla materia è inscindibilmente collegato  alla modifica (o sospensione) della tutela reale (ex art. 18) dal licenziamento ingiustificato. La riforma che l’art. 12 prevede è radicale. Tramite la lettera d) si prevede il “superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie aventi ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento”. Com’è stato detto (Bellavista, cit.), “il rischio è quello che attraverso la possibilità che l’arbitro decida secondo equità venga del tutto disarticolato il sistema di tutele e di garanzie attualmente previsto dalle disposizioni delle leggi e dei contratti collettivi”.

Ancora più grave è il criterio indicato dalla lettera f) del citato art. 12  che parla di “alternatività fra risarcimento del danno con quantificazione interamente rimessa al giudizio arbitrale e reintegrazione nel posto di lavoro, a discrezione del collegio arbitrale, in deroga a quanto previsto dall’articolo 18, legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”. In sostanza, verrebbe consentita l’eventualità che il collegio arbitrale, davanti cui sia impugnato un licenziamento, opti per la tutela risarcitoria invece che per quella reale. E questa alternativa avrebbe una portata generale e non limitata ai tre casi per i quali il precedente art. 10 ipotizza la sospensione dell’applicazione dell’art. 18 St. lav.” (così Bellavista, cit.). Con la conseguenza del tutto  sgradita quanto  inavvertita - e quindi in sostanza celata per i non addetti ai lavori (quali l’opinione pubblica ed i lavoratori) - che anche i titolari della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 (i più anziani in organico in azienda) si potrebbero trovare privati di essa per effetto della discrezionale opzione di un terzo (il Collegio arbitrale) verso la soluzione monetizzante in luogo di quella della re-immissione nel posto di lavoro.

Peraltro, questa nuova procedura arbitrale  sarebbe operativa anche nell’area del lavoro pubblico, posto che l’art. 11 del progetto si limita a stabilire che “le disposizioni degli articoli da 1 a 10 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate” e quindi non menziona espressamente il successivo art. 12, dov’è contenuta la riforma dell’arbitrato, la cui formulazione è tanto generale da ritenere che l’esercizio concreto della delega ne determinerà l’estensione anche al lavoro pubblico. Inoltre, nell’art. 12 del progetto l’alternatività della scelta tra risarcimento e tutela reale è configurata in termini così ampi da potere essere estesa anche ai casi di licenziamento discriminatorio, per matrimonio, per malattia e maternità, per i quali il precedente art. 10 mantiene il tradizionale regime di divieto di licenziamento e di conseguente nullità. Oppure lo stesso risultato potrebbe essere raggiunto attraverso la pronuncia del lodo secondo equità, la quale disancora da criteri oggettivi lo spazio di valutazione del collegio arbitrale.

In estrema sintesi, mediante la suggerita riforma del sistema dell’arbitrato è prefigurabile il rischio che la tutela reale (ex art. 18 Statuto dei lavoratori, n.d.r.) venga di fatto espunta dall’ordinamento e che il complesso dei diritti inderogabili dei lavoratori sia reso privo di alcuna effettività” (così, efficacemente, Bellavista, cit.).

 

Roma, 9 febbraio 2002

Mario Meucci

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