IL TAR DEL LAZIO ANNULLA LA CIRCOLARE n.71/2003 DELL'INAIL SUL MOBBING
Com’è noto, la parola mobbing, oramai utilizzata in modo (invero
anche troppo) frequente, ha la sua derivazione dal verbo inglese to mob che,
tradotto nella lingua corrente, può significare «fare ressa o affollarsi
intorno a», «assalire in massa o in modo tumultuoso», «accerchiare,
circondare, assediare, attaccare». In proposito il TAR Lazio si è pronunciato
di recente, annullando una circolare emanata precedentemente dall’Istituto
assicuratore.
Volendo traslare la parola in questione
nell'ambito dell'organizzazione aziendale, la stessa porta necessariamente ad
individuare l'insieme delle pratiche vessatorie e/o persecutorie, degli
atteggiamenti di ritorsione o anche di violenza psicologica che, in modo
deliberato e ripetitivo, vengono posti in atto dal datore di lavoro, dai
superiori, da colleghi o anche (a volte) da subalterni, nei riguardi di un
soggetto, con il conseguire il risultato di provocare al medesimo uno stato di
profondo disagio.
Da qui, pertanto, l'altra parallela
definizione del fenomeno, quella di «terrorismo psicologico». Per la corretta
qualificazione del mobbing è necessaria la sistematicità dell'azione (id
est, la sua reiterata messa in atto, così come chiarito dalla prevalente
giurisprudenza) nonché la presenza di una condotta protratta per un certo
periodo di tempo, con la reiterazione di tutto un insieme di condotte
vessatorie.
Nel nostro ordinamento positivo, la
salute rappresenta tanto un bene giuridico primario protetto quanto un diritto
inviolabile (artt. 2 e 32 Cost.), la cui tutela, in ambito lavorativo, è di
fatto resa attuativa grazie al’art. 2087 c.c. Sempre in ambito lavorativo,
mancando una legislazione specifica, il mobbing (recte, la
prevenzione del rischio da) trova spazio nel D.Lgs. n. 626/1994 e, nell'ambito
del più ampio danno biologico, nell'art. 13 del D.Lgs. n. 38/2000.
IL MOBBING
NELLA TUTELA INAIL
Con la sentenza 18 febbraio 1988, n. 179,
È però il lavoratore che (in queste
ipotesi "non tabellate") deve fornire la prova dell'esistenza della
malattia, sia delle caratteristiche (morbigene) della lavorazione espletata, che
del necessario nesso eziologico tra quest'ultima e la tecnopatia denunciata. Con
il D.Lgs. n. 38/2000 il legislatore all'uopo delegato ha poi stabilito:
-
da un lato (art. 10), che sono da ritenersi malattie professionali anche
quelle non ricomprese nelle apposite tabelle, purché il lavoratore ne dimostri
l'origine lavorativa,
—
dall'altro (art. 13), ha per la prima
volta regolamentato l’ indennizzabilità del danno biologico derivante
dall'attività lavorativa.
Ai fini della tutela assicurativa contro
gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico è
definito come la lesione dell'integrità psico-fisica, suscettibile di
valutazione medico legale, della persona. Le prestazioni per il ristoro del
danno biologico sono determinate in misura indipendente dalla capacità di
produzione di reddito da parte del danneggiato. Sulla scorta delle prime
valutazioni che andavano mano a mano formandosi in tema di, l'INAIL è
intervenuto con la lettera 12 settembre 2001, che ha fatto seguito alla delibera
del proprio c.d.a. 26 luglio 2001, n. 473.
Passata una (sorta di) fase sperimentale,
l’INAIL torna ad affrontare il fenomeno mobbing e lo fa con la
circolare 17 dicembre 2003, n. 71, avente quale oggetto i disturbi psichici da
costrittività organizzativa sul lavoro, il rischio tutelato e la diagnosi di
malattia professionale, sicuramente in via casuale quasi coincidente con la
sentenza n. 359/2003 della Corte Costituzionale.
Ad avviso dell'istituto assicuratore,
secondo un’ interpretazione aderente all'evoluzione delle forme di
organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione agli aspetti
di sicurezza e salute sul lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di
ricomprendere:
—
non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo
produttivo aziendale (siano le lavorazioni «tabellate» o meno),
-
ma anche quella riconducibile all'organizzazione aziendale delle attività
lavorative.
Conseguentemente, i disturbi psichici
possono essere considerati di origine professionale solamente se causati ovvero
concausati in modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni
dell'attività e della organizzazione del lavoro. Secondo la circolare in esame,
tali condizioni ricorrono esclusivamente in presenza di situazioni di
incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili,
appunto, di costrittività.
L'elenco predisposto dall'INAIL
·
Marginalizzazione
della attività lavorativa
·
Svuotamento
delle mansioni
·
Mancata
assegnazione dei
compiti lavorativi, con inattività forzata
·
Mancata
assegnazione degli strumenti di lavoro
·
Ripetuti
trasferimenti ingiustificati
·
Prolungata
attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale
posseduto
·
Prolungata
attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali
condizioni di handicap psico-fisici
·
Impedimento
sistematico e strutturale all'accesso a notizie
·
Inadeguatezza
strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l'ordinaria attività di
lavoro
·
Esclusione
reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e
aggiornamento professionale
·
Esercizio
esasperato ed eccessivo di forme di controllo
Nel rischio così tutelato, secondo
l'INAIL va ricompreso anche il c.d. mobbing strategico, specificamente
ricollegabile a finalità lavorative.
Le azioni finalizzate ad allontanare o
emarginare il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solamente se si
concretizzano in una delle situazioni citate in precedenza.
Inoltre, le incongruenze organizzative
devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, quindi,
verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non
suscettibili di discrezionalità interpretativa.
Ad avviso dell'INAIL devono al contrario
essere esclusi dal rischio tutelato:
—
i fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento
del rapporto di lavoro (ad esempio, una nuova assegnazione, il trasferimento, il
licenziamento, ecc);
—
le situazioni indotte dalle dinamiche
psicologico-relazionali, comuni sia agli ambienti di lavoro che a quelli
di vita (ad esempio, conflittualità
inter-personali, difficoltà relazionali o condotte comunque riconducibili a
comportamenti puramente soggettivi che, come tali, si prestano inevitabilmente a
discrezionalità interpretative).
Dopo aver indicato le (necessarie)
modalità di trattazione delle pratiche da parte delle strutture periferiche
dell'istituto, la circolare n. 71/2003 passa ad evidenziare l’iter diagnostico
della malattia professionale da costrittività organizzativa. Una sorta di
decalogo operativo, quindi, da seguire ai fini di una uniforme trattazione
medico-legale dei casi denunciati all'INAIL.
L'iter
diagnostico
· Anamnesi lavorativa pregressa e attuale
·
Anamnesi fisiologica
·
Anamnesi patologica remota
·
Anamnesi patologica prossima
·
Esame
obiettivo completo
·
Indagini
neuropsichiatriche
·
Test
psicodiagnostici
·
Diagnosi
medico-legale
·
Valutazione
del danno biologico permanente
Con il successivo D.M. 27 aprile 2004, ai
fini della denuncia obbligatoria ex art. 139 del D.P.R. n. 1124/1965, nella
lista II) è stato inserito il gruppo 7) «Malattie psichiche e psicosomatiche
da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro», (in sostanza, quelle
generatrici del mobbing).
L'INTERVENTO
DEL TAR DEL LAZIO
Tanto avverso la citata circolare del
2003 quanto avverso il decreto ministeriale del 2004, Confindustria ed altre
associazioni datoriali hanno presentato ricorso al TAR del Lazio.
In particolare, con riferimento alla circolare n. 71/2003 i ricorrenti mettevano in risalto come quest'ultima avesse inteso regolare l'approccio dei propri organismi accertatori ai disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro (il cd. mobbing, appunto) ed al relativo rischio e diagnosi di queste come malattia professionale, stabilendo inoltre le modalità di trattamento delle relative pratiche.
Sempre ad avviso dei ricorrenti, inoltre, la medesima circolare, al di là del suo nomen iuris, non faceva altro che dettare prescrizioni, sulla definizione e la diagnosi del mobbing, elevandolo di fatto a vera e propria malattia professionale tipicizzata.
A ben vedere, quindi, la circolare n.
71/2003 esulerebbe dalla natura meramente ricognitiva ed esplicativa (propria
delle circolari), assumendo statuizioni confermative, ad effetto immediato, nei
confronti dei poteri degli ispettori dell’INAIL e contro la sfera giuridica
degli imprenditori, così da renderla immediatamente impugnabile. Il ricorso di
che trattasi era stato presentato prima dell'emanazione del D.M. 27 aprile 2004
e, quindi, i ricorrenti solo successivamente hanno impugnato anche quest'ultimo.
Ritualmente invitato, nel giudizio presso
il TAR del Lazio si è costituto anche il Ministero del lavoro. I giudici
amministrativi laziali, con sentenza 4 luglio 2005, n. 5454 (vedi
http://dirittolavoro.altervista.org/annullamento_circolare_inail_mobbing.html)
accogliendo in parte qua il ricorso, hanno annullato la circolare INAIL 17
dicembre 2003, n. 71.
La res
controversa era chiaramente incentrata sull'opposizione acché il mobbing,
attraverso vari mezzi, potesse assurgere a malattia (professionale) tipicizzata,
indennizzabile in assenza di definizioni scientifiche certe. Preliminarmente il
TAR del Lazio evidenzia come il gravame proposto avverso la circolare n. 71/2003
dell'INAIL sia, nei fatti, afferente ad un atto che, di per sé, non sarebbe
idoneo o, comunque, deputato a recare statuizioni ma, nella specie ed a onta del
suo nomen iuris, lo stesso tende nella
realtà alla modificazione dell'assetto delle malattie indennizzabili,
attraverso la considerazione ed il trattamento del mobbing. Muovendo da questa
premessa, è stata disattesa l'eccezione presentata dall'INAIL secondo cui la
citata circolare aveva valore di mero atto interno, destinato solamente ad
uniformare la prassi amministrativa degli uffici destinatari dello stesso.
Orbene, ad avviso dei giudici amministrativi laziali detta circolare,
—
nella parte in cui muove dalla considerazione che, tra le cause di
malattie professionali, occorra oggi annoverare «secondo un’interpretazione
aderente all'evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi
(...) anche i fattori di nocività legati all'organizzazione delle attività
lavorative ... (che)... ricorrono esclusivamente in presenza di situazioni di
incongruenza delle scelte in ambito organizzativo...»,
—
non ha un effetto conformativo di potestà accertatrici in capo agli
uffici ispettivi del’INAIL e, correlativamente, delle soggette posizioni
datoriali.
A ben vedere, però, al di là delle malattie ed. tabellate ai sensi degli artt. 3 e 211 del D.P.R. n. 1124/1965 (e per le quali, com'è noto, vige la presunzione relativa di derivazione eziologica della patologia dell'attività lavorativa), sono indennizzabili anche le malattie diverse da queste, qualora ne sia accertata, con rigore, la causa di lavoro. Sulla scorta di questo ragionamento, ad avviso della sentenza n. 5454/2005, è facile dedurre che, ferma sempre rimanendo la possibilità di integrare le tabelle delle patologie con le modalità di cui all'art. 10 del D.Lgs. n. 38/2000, una malattia non tabellata non può essere legittimamente trattata dall'INAIL come se godesse di detta presunzione relativa. In altre parole «non può (…) l’ente invertire sua sponte e discrezionalmente l’onere della prova spettante al prestatore d’opera in ordine al nesso eziologico, ma si deve limitare ad indicare soltanto gli elementi essenziali della patologia in base a definizioni scientifiche serie e rigorose».
Secondo i giudici amministrativi laziali,
ciò non è accaduto nella specie, atteso il fatto che la circolare in esame non
si è limitata ad offrire agli uffici destinatari solamente un complesso di
elementi identificativi del mobbing (quali, ad esempio, un elenco di
esemplificativo di condotte illecite o no), ma ha fatto di più. In particolare,
la stessa indica:
—
l'obbligo di accertare i presupposti oggettivi della cd. costrittività
organizzativa, non solamente per riscontrare quanto dichiarato dall'interessato,
ma soprattutto per integrare gli elementi probatori recati dal medesimo in
ordine all'esistenza delle condizioni indicate quali forme di detta costrittività;
—
che, ferma la rimessione al medico legale della valutatone della
malattia psichica da costrittività organizzativa, la patologia in tanto è
indennizzabile dall’INAIL in quanto sia esclusivamente riconducibile alla
sindrome da disadattamento cronico o a quella post-traumatica o da stress
cronico;
— che
la trattazione delle pratiche da mobbing sia effettuata a livello locale e non,
come in precedenza, presso
Muovendo da questi profili, può
chiaramente apparire un approccio dell’INAIL alle vicende di mobbing
fortemente legato alla struttura logica dell'accertamento della malattie
professionali cd. tabellate.
A ben vedere, infatti, la circolare in
esame individua un complesso di determinati e specifici fattori di nocività già
di per sé soli in grado di indurre malattie psichiche o psicosomatiche ed un
elenco di queste ultime che ritiene che possano derivare da tali fattori, senza
peraltro che sul punto vi sia quella (effettivamente) consolidata e seria
letteratura che è necessario sussista per supportare una tale relazione
biunivoca.
Ad avviso del collegio giudicante,
indizio di quanto appena indicato si rinviene proprio in quella parte della
circolare che si occupa delle modalità di trattazione delle pratiche, nella
parte in cui approfondisce le questioni sull'accertamento della sussistenza dei
fattori di nocività e sulla diagnostica delle patologie che da questi
potrebbero derivare, senza però nulla dire sul nesso di causalità, di per sé
invece sempre necessario ed il cui onere probatorio è e rimane addossato in
capo al solo lavoratore. Queste lacune, fortemente stigmatizzate dai ricorrenti,
appaiono quindi solamente un «tentativo
dell'ente, al fine di eludere la questione del nesso di causalità, la
dimostrazione dell'origine lavorativa di alcune patologie ad origine
multifattoriale - quali quelle riscontrabili in genere nei casi di mobbing -,
per concentrarsi su quei soli comportamenti la cui capacità di produrre
malattie psichiche sia, con alta probabilità, oggettivamente univoca e, quindi,
facilmente deducibile in presunzione». Una volta quindi assodato che la
circolare n. 71/2003 non è che un vero e proprio provvedimento mirante ad
integrare surrettiziamente il complesso delle malattie cd. tabellate, essa,
viola palam et aperte l'art. 10, comma
1, del D.Lgs. n. 38/2000, nella misura in cui detta integrazione deriva
- non già dal rigoroso accertamento da
parte della commissione scientifica per l'elaborazione e la revisione periodica
delle tabelle ex artt. 3 e 211, D.P.R. n. 1124/1965,
-
né dall'espressa volizione dei ministeri a ciò competenti,
-
ma da un comitato interno all'INAIL e senza le garanzie, pure
partecipative, recate dallo stesso D.Lgs. n. 38/2000.
A ben vedere, inoltre, la stessa
circolare è stata emanata senza tener conto delle direttive all'uopo emanate
dal C.i.v. dell’ INAIL in data 26 novembre 2001, segnatamente nella parte in
cui gli organi di gestione dell'istituto venivano incaricati di integrare il
citato comitato con medici di fiducia delle parti sociali e di svolgere uno
studio e l'esame sugli orientamenti della giurisprudenza sulla complessa
tematica del mobbing. Ad avviso della sentenza che si annota, ad una serena
lettura della circolare n. 71/2003 e, più nel dettaglio, della parte relativa
alla necessità di adeguarsi alle nuove forme di organizzazione dei processi
produttivi, la stessa si fonda «su un'erronea lettura del sistema cd. "misto" della tutela del
lavoratore dagli infortuni e dalle malattie professionali».
Detto sistema, infatti,
— si
basa sull'indennizzo sia delle malattie cd. tabellate, sia delle patologie non
predefinite (solamente nel senso che la malattia professionale è indennizzata,
indipendentemente dalla sua inclusione nelle tabelle allegate al D.P.R. n.
1124/1965),
— ma
se ne sia accertata la sua derivazione causale dall'esercizio di una delle
lavorazioni di cui al precedente art. 1.
Conseguentemente, non vi è indennizzo se
non per il rischio lavorativo specifico.
Non basta quindi affermare la rilevanza
in sé delle malattie non tabellate, occorrendo invece verificare se esse diano
luogo all'esposizione del lavoratore ad una specifica lavorazione morbigena
(ovverosia assunta come in sé pericolosa direttamente dal legislatore).
A ben vedere, infatti, come correttamente
viene fatto rilevare dai giudici amministrativi laziali, il limite legislativo
dell'assicurazione sociale contro gli infortuni sul lavoro si basa proprio
sull'equilibrio tra requisiti soggettivi ed oggettivi ai fini della concessione
dell'indennizzo, senza possibilità di forzature, quale quella invece
rinvenibile nella circolare n. 71/2003, del sistema cd. misto dell'assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro.
Un'ulteriore censura accolta nella
sentenza n. 5454/2005 è quella sull'irrigidimento della definizione di
costrittività organizzativa, quale pratica morbigena indennizzabile, in assenza
non solo di una esatta definizione normativa della stessa e di univoci indirizzi
della giurisprudenza, ma (soprattutto) del doveroso approfondimento
medico-scientifico al riguardo. Orbene, non appare legittimo, né possibile
ricondurre tutte le dinamiche delle relazioni di lavoro all'interno di
un'impresa alla cd. costrittività organizzativa, atteso il fatto che essa «non
è certamente la garanzia del diritto del lavoratore ad operare in un ambiente
professionale asettico, irenico e, comunque, cordiale, al più potendosi
pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del rapporto di lavoro,
indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei singoli attori di quest'ultimo».
La circolare n. 71/2003, sul punto, tende
a confondere, attraverso il predetto irrigidimento definitorio, il mobbing
quale fonte di risarcimento con vicende illecite che già l'ordinamento reprime
a favore della dignità del lavoratore, in particolare in base all'art. 2087 ex.
ed all’art. 9 della legge n. 300/1970, nonché contro le condotte
discriminatorie, di cui al successivo art. 15, comma 1, lett. b).
Come detto in precedenza, nelle more del
ricorso avverso la circolare dell'INAIL n. 71/2003, è stato emanato il D.M. 27
aprile 2004, nei cui confronti i medesimi ricorrenti hanno presentato analogo
gravame.
Sul punto, la sentenza n. 5454 del 2005
giunge però ad una radicalmente diversa conclusione. Preliminarmente i giudici
amministrativi laziali fanno rilevare che, ai sensi dell'art. 139 del D.P.R. n.
1124/1965, è obbligatoria per ogni medico, che riconosca l'esistenza, la
denuncia delle malattie professionali, come indicate nell'elenco approvato con
decreto del Ministro del Lavoro di concerto con quello della Salute. In
applicazione dell'alt. 10, comma 3, del D.Lgs. n. 38/2000, l'elenco di cui
all’art. 139 può contenere anche liste di malattie di probabile o di
possibile origine lavorativa, da tenere sotto osservazione ai fini della
revisione delle tabelle di cui agli artt. 3 e 211 del D.P.R. n. 1124/1965.
La lista II) del decreto ministeriale di
cui trattasi (emanato in virtù dell'art. 10 del D.Lgs. n. 38/2000), come
premesso, indica le malattie psichiche o psicosomatiche da costrittività
organizzativa tra quelle a limitata probabilità di origine lavorativa.
Ad avviso del collegio giudicante appare
di tutta evidenza che il D.M. 27 aprile 2004
—
non solo non legittima a posteriori la circolare n. 71/2003
dell'INAIL (poiché lo stesso afferisce solamente ai casi di cui all'art. 139
del D.P.R. n. 1124/1965 e
non consente quindi
l'indennizzo automatico per i casi di mobbing contemplati, tanto meno in via
generale),
—
ma soprattutto non ha altra funzione che quella della raccolta del dato
epidemiologico, per verificare l'eventuale modificazione o integrazione di dette
tabelle.
Del resto, «la circostanza che le malattie de
quibus siano state indicate tra quelle a bassa probabilità, ben lungi dall'appalesarsi
un intervento inopportuno o intempestivo, in realtà attua nella specie il
principio di precauzione in una vicenda, quale quella del mobbing, ove l'assenza
di norme nazionali definite, la complessità degli accertamenti e fattuali e la
probabile regolazione da parte dell'UE devono indurre a trattare i casi
patologici emergenti con estrema prudenza e con i dovuti serietà e rigore
d'approccio».
CONCLUSIONI
Come visto in precedenza, con la
circolare n. 71/2003 l'INAIL aveva indicato l'obbligo di accertare i presupposti
oggettivi della cd. costrittività organizzativa,
- non
solamente per riscontrare e verificare quanto dichiarato dal lavoratore
interessato,
- ma
principalmente per integrare gli elementi probatori allegati dal lavoratore
stesso, con riguardo all'esistenza delle condizioni individuate quali
fattispecie da tutelare (ricondotte poi al fenomeno del mobbing).
Appariva quindi evidente la violazione
dell'art. 10 del D.Lgs. n. 38/2000, atteso l’inevitabile inquinamento
dell'onere probatorio posto in capo al lavoratore.
A ben vedere, quindi, il principio
contenuto nella sentenza n. 5454/03 del 4 luglio 2005 del TAR del Lazio,
limitatamente alla censurata circolare n. 71/2003 dell'INAIL, potrebbe essere il
seguente:
il mobbing non può essere considerato in via
automatica e presuntiva come una malattia professionale e in quanto tale
indennizzabile dall’ INAIL, dovendo essere sempre provata, con rigore,
l'esistenza della causa di lavoro.
Risulterà ora più difficile ottenere il
risarcimento del danno biologico derivante da mobbing. Tenuto conto di quanto
statuito dal TAR del Lazio, a meno che l'istituto assicuratore non proponga
gravame dinanzi al Consiglio di Stato, indipendentemente dal fatto che il
medesimo TAR abbia fatto salvo il D.M. 27 aprile 2004, la circolare n. 71/2003
oltre a non godere di ultrattività è anche non riproponibile.
Per concludere un'ultima annotazione.
In Parlamento è pendente un disegno di
legge (segnatamente il n. 122), teso proprio a regolamentare il fenomeno del mobbing.
L'auspicio è che venga approvato quanto
prima.
Luigi Pelliccia - Consulente aziendale in Roma
(fonte:
Consulenza n. 29/2005 del 2.8.2005 - Buffetti ed.)
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