Articolo 18: un diritto da difendere

 

Il lavoro è una merce. Se non si parte da questa constatazione davvero diventa difficile comprendere il senso e la portata del duro scontro oggi in atto sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Certo, una simile definizione per un'attività così connaturata alla vita dell'uomo può apparire sconveniente e brutale: forse anche lo è.

Tuttavia, sul piano della logica concettuale, il termine di merce risulta il più adatto a descrivere l'opera che il lavoratore offre al suo datore d'impiego per ricevere in cambio un compenso monetario. E non importa che si stia pulendo una strada, battendo una lastra, operando con una macchina sofisticata ovvero scrivendo un articolo di giornale: sempre di merce si tratta.

Per molti secoli i modi e i termini dell'utilizzo della merce-lavoro hanno indotto (e ancora oggi talora inducono) un processo di mercificazione dell'individuo che offriva la sua opera manuale o intellettuale. Nel senso che le regole del mondo produttivo hanno così a lungo sovrastato i diritti del lavoratore, da imporgli nei fatti un'identificazione con il suo lavoro così stretta da farli considerare entrambi una cosa sola: una merce, appunto. Poi, con la rivoluzione industriale e la conseguente nascita dei movimenti sindacali, è iniziata una lunga marcia di emancipazione da questo connubio mostruoso.

Il primo passo importante è stato la conquista del diritto di negoziare le condizioni del proprio lavoro attraverso una rappresentanza sindacale liberamente scelta.

Da allora - soprattutto nell'ambito delle società più ricche e democratiche dell'Occidente -  è stato un susseguirsi di lotte più o meno fortunate che, comunque, hanno allargato in misura considerevole gli spazi di autonomia del lavoratore rispetto alla merce che è il suo lavoro. Sotto questo aspetto, in Italia, l'approvazione del pur tanto discusso Statuto voluto dal socialista Giacomo Brodolini ha segnato una tappa storica nel processo di emancipazione del mondo dei lavoratori. Tappa storica perché una legge dello Stato è intervenuta in un ambito, fino a quel momento determinato quasi soltanto dal rapporto di forze fra domanda e offerta di lavoro, per stabilire diritti e doveri delle parti - ma sarebbe meglio dire, cittadini- in causa.

In particolare, proprio il controverso articolo 18 di quello Statuto ha tirato una netta linea di demarcazione fra la merce-lavoro e il lavoratore.

Che cosa stabilisce, infatti, quell'articolo? Innanzi tutto, afferma che un lavoratore non può essere licenziato in mancanza di una giusta causa: insomma, solo se la merce che egli offre è scadente. Ma poi aggiunge che il lavoratore eventualmente licenziato può adire la giustizia e, dimostrata la mancanza di una giusta causa, riottenere il posto di lavoro perduto: ovvero quella che un orribile neologismo si chiama la “reintegra”. Il senso profondo di questa normativa è di una chiarezza cristallina: il lavoratore è un soggetto di diritti, cosa che una merce non potrà mai essere. Ciò spiega perché l'articolo 18 appare così prezioso e intangibile agli occhi del movimento sindacale e di una parte consistente della società: esso alza una difesa giuridica contro il pericolo che il lavoratore venga trattato come una merce, cioè sia fungibile con un prodotto equivalente.

Poiché una norma del genere rappresenta un caso quasi unico in Europa, sul versante opposto, oggi governo e Confindustria ne hanno fatto una sorta di pregiudiziale alla riforma del mercato del lavoro. E, prima di ogni altro più utile intervento, pongono con forza la necessità di superare o comunque aggirare i termini dell'articolo 18 per porre le imprese italiane sullo stesso piano delle loro concorrenti europee e per aiutare una grande campagna di assunzioni che - assicurano sempre Confindustria e governo Berlusconi - gli imprenditori nostrani sarebbero pronti a realizzare non appena allentati i vincoli sui licenziamenti dei nuovi assunti. Più o meno consapevolmente, quel che così si afferma è che la civile distinzione tra merce-lavoro e lavoratore presidiata dall'articola 18 costituisce un deterrente contro una maggiore efficienza e una migliore capacità competitiva del sistema produttivo italiano. Dubito che quest'ultimo si meriti un giudizio così negativo, per giunta dai suoi alfieri.

Un'altra obiezione che viene avanzata dai sedicenti riformatori riguarda il fatto che già ora le guarentigie dell'articolo 18 riguardano in fondo solo otto milioni di lavoratori su un totale di oltre ventuno. E con ciò? Oggi - ventunesimo secolo dell'era volgare - alcuni miliardi di essere umani sono privi dei più elementari diritti civili in diverse parti del mondo. Non sembra questo un buon argomento per sostenere, in nome di un'eguaglianza a ritroso, che si debba fare tutti un passo indietro. E chi lo progetta, mascherandosi dietro chissà quali buone regole dell'economia, in realtà intende praticare proprio la peggiore delle leggi economiche: quella secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona.

Ecco perché è motivo di particolare amarezza dover constatare come le ragioni dello sviluppo - come oggi le rappresentano sia la Confindustria sia il governo di Silvio Berlusconi - siano collocate in netta contraddizione con la salvaguardia di principi che attengono alla dignità personale e sociale dei cittadini-lavoratori. Ma forse è non meno amaro dover prendere nota che la scriteriata offensiva contro l'articolo 18 ha già di fatto devastato quel clima di coesione politico-sociale al quale si deve la sconfitta dell'inflazione, il risanamento dei conti pubblici, la forte ripresa dell'occupazione, il fondamentale ingresso nella moneta unica europea: obiettivi tutti raggiunti - guarda caso - con un articolo 18 pienamente vigente.

Massimo Riva

(pubblicato su “la Repubblica” del 15.4.2002, p.1 e 26)

 

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