La forza espansiva dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori

 

 Sommario:

1.      L'interpretazione formalistica delle ipotesi per le quali ricorre la "reintegrazione" ex art. 18 Stat .lav.

2.      Opposizioni dottrinali

3.      L'orientamento giurisprudenziale più recente ed appagante in ordine al rimedio della reintegrazione ex art. 18 Stat. lav.

3.1.  La reintegrazione per il licenziamento disciplinare invalido e per quello nullo per discriminazione fra i sessi

3.2.  La reintegrazione per i licenziamenti affetti da nullità (in ipotesi diverse da quelle codificate nell'art. 18)

3.3.  La reintegrazione per il licenziamento nullo della lavoratrice madre

4.      Altre ipotesi di estensione applicativa del rimedio reintegratorio – Conclusioni

 

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1.     L'interpretazione formalistica delle ipotesi per le quali ricorre la "reintegrazione" ex art. 18 Stat. lav.

La più importante innovazione connessa all'entrata in vigore dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori è stata la sostituzione della c.d. "stabilità obbligatoria" con la c.d. "stabilità reale" cioè a dire la sostituzione della "monetizzazione" o "indennizzo", stabilito dalla previgente L. n. 604/1996 per il licenziamento ingiustificato, con la reintegrazione nel rapporto introdotta dall'art. 18, L. n. 300/'70.

L'art. 18 dispone, infatti, che: "il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'art. 2 della legge predetta (n.d.r. n. 604/'66) o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro".

Si è posto subito, in dottrina ed in giurisprudenza, il problema in ordine alle ipotesi in cui scattava il provvedimento di reintegrazione nel rapporto, tenuto conto che la dizione dell'art. 18 sembrava limitarlo a ipotesi specifiche e non a tutti i casi in cui, nella pratica, il licenziamento fosse ingiustificato, inefficace o nullo.

I primi interpreti e la prima giurisprudenza di Cassazione giunsero ad asserire che la reintegrazione competeva  esclusivamente al lavoratore il cui licenziamento fosse dichiarato giudizialmente:

a)      inefficace perché disposto in violazione dell'art. 2 della L. n. 604/'6, cioè a dire perché "non comunicato per iscritto" o i cui "motivi determinativi del recesso, espressamente richiesti dal lavoratore entro 8 giorni dalla comunicazione del licenziamento, non fossero stati comunicati per iscritto entro i 5 giorni dalla richiesta";

b)      annullabile, per insussistenza di "giusta causa" o di "giustificato motivo"(in senso soggettivo ed obiettivo). Ove per giusta causa si intende, ai sensi dell'art. 2119 c.c. "una causa che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", mentre il "giustificato motivo" viene definito dall'art. 3 L. n. 604/'66 come quello che rende legittimo il licenziamento con preavviso per essere "determinato da un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti  all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa";

c)      nullo, in quanto "determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali" (secondo la dizione di cui all'art. 4 L. n. 604/'66 – cui l'art.18 letteralmente si riferiva -  molto più restrittiva di quella introdotta successivamente dalla L. n. 903 del 9.12.1977 (in tema di parità uomo-donna), modificativa dell'art. 15 L. n. 300/'70, che ha addizionato tra i motivi-causa di nullità gli "atti o patti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso".

In situazioni pratiche di licenziamento ingiustificato (rectius, viziato o invalido) perché adottato per discriminazione sessuale ovvero perché non rispettoso delle procedure garantiste per il lavoratore sancite dall'art. 7 Stat. lav. (contestazione scritta degli addebiti e audizione a difesa onde realizzare il principio del contraddittorio, ecc) ovvero per sopravvenuta incapacità al lavoro del prestatore o per superamento del periodo di comporto per malattia (addebitabile all'assenza di misure protettive facenti carico al datore di lavoro, ex art. 2087 c.c.), la prima giurisprudenza di merito e di Cassazione  è giunta a negare – sulla base di una lettura del tutto "formale" dell'art. 18 Stat. lav. – che il rimedio per il licenziamento invalido fosse costituito dalla reintegrazione nel rapporto. Considerato che tali ipotizzate fattispecie di invalidità dell'atto di recesso non erano espressamente contemplate né riconducibili a quelle  espressamente codificate nell'art. 18 Stat. lav., la magistratura ha, pertanto, riconosciuto al lavoratore licenziato ingiustamente il solo diritto al risarcimento del danno (1), ferma l'estromissione dall'azienda per effetto dell'estinzione del rapporto.

 

2.     Opposizioni dottrinali

Nel 1980, G. Pera (2) – prendendo atto di tale giurisprudenza e contrapponendosi alla sua impostazione "formalistica"- osservava: "E' dubbio…che l'area del licenziamento illegittimo ex art. 18, coincida del tutto, almeno in teoria, con l'area del licenziamento viziato. A parte la sopravvenienza della normativa speciale per il licenziamento della donna a causa di matrimonio, l'art.18 non fa riferimento alla nullità in generale, ma alla nullità ai sensi dell'art.4 della legge del 1966, ora allargata con l'art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, cioè a dire alla nullità per ragioni di rappresaglia o simili. Il licenziamento nullo per altra ragione non sta, alla lettera, in questa previsione; di guisa che, ad es., e contrariamente a quanto si è detto (3) il recesso per motivo illecito ai sensi delle disposizioni generali del codice civile (poniamo del lavoratore che non vuol prestarsi ad attività delittuosa o della donna che rifugge dalle brame lussuriose del principale) si risolverebbe in una nullità il cui trattamento sarebbe quello più rigoroso del diritto comune, potendosi rivendicare, in caso di esito positivo dell'impugnazione, le retribuzioni perdute dal momento del licenziamento"(oltre al ripristino del rapporto non già però ax art. 18 Stat. lav. ma in quanto il provvedimento nullo viene giudicato dal magistrato tamquam non esset, in base ai principi generali, n.d.r.). "La questione può anche farsi per il licenziamento viziato perché disposto nell'inosservanza del previo procedimento di irrogazione previsto per le sanzioni disciplinari; ove, naturalmente, si segua la tesi dell'applicabilità dell'art. 7 statuto. Infatti abbiamo a suo tempo visto che in alcune pronunce si esclude che in ogni caso  possa invocarsi, nell'ipotesi, l'art. 18, posto che le conseguenze dovrebbero essere diverse, ai sensi del diritto comune. In realtà parrebbe del tutto ragionevole pervenire alla conclusione, se tecnicamente suffragabile, della generale applicabilità dell'art. 18 in tutte le situazioni di licenziamento viziato (e, naturalmente, nella zona di applicabilità ex se di codesta norma). Si potrebbe sostenere che l'art. 18 è espressione della peculiarità del trattamento del licenziamento viziato, nella situazione specificamente considerata dal legislatore; detto altrimenti, che il regime del licenziamento viziato è quello che la legge ha formalmente dettato per le situazioni di gran lunga più ricorrenti, come regime statisticamente generale, non essendovi ragione per distinguere altre situazioni di minor frequenza".

 

3.      L'orientamento giurisprudenziale più recente ed appagante in ordine al rimedio della reintegrazione ex art. 18 Stat. lav

3.1. La reintegrazione per il licenziamento disciplinare invalido e per quello nullo per discriminazione fra i sessi

La tesi "formalistica" seguita dalla prima giurisprudenza ha cominciato a cedere sotto i colpi della Corte costituzionale, dopo la  sentenza n. 204 del 29 novembre 1982 (4) tramite cui la Corte, con sentenza interpretativa di accoglimento, aderì alla tesi secondo cui il  licenziamento per mancanze era "ontologicamente" disciplinare (a prescindere dalla configurazione contrattuale come tale o meno) e dichiarò applicabili al "licenziamento per mancanze" del lavoratore – idoneo a coprire l'area del licenziamento per giustificato motivo soggettivo ed, in parte, della giusta causa – i primi tre commi dell'art. 7 dello Statuto, per ragioni di civiltà giuridica tali da imporre di riservare a colui che è destinatario della massima sanzione disciplinare (quella espulsiva) la garanzia della contestazione degli addebiti e del contraddittorio o auscultazione a difesa (audiatur et altera pars). In quell''occasione la Corte ebbe a statuire che "una volta estesi i commi 1°, 2° e 3° ai licenziamenti disciplinari  per i quali la normativa (contrattuale, n.d.r.) si limiti ad includerli tra le sanzioni disciplinari senza l'espresso richiamo dei ripetuti commi, la forza espansiva, di cui sono muniti testi suscettibili di esprimere più ampia norma, estende l'art.18, comma 1°, alla fattispecie consecutiva alla pronuncia d'incostituzionalità che si sta per emanare…". In conseguenza della decisione soprariferita - condivisa dalla successiva giurisprudenza  di Cassazione - veniva, conseguentemente, ad essere applicabile al licenziamento invalido, per mancato rispetto delle garanzie procedimentali dell'art. 7 Stat. lav. (ripetesi, contestazione scritta degli addebiti e audizione a difesa, se del caso con l'assistenza sindacale), il rimedio della reintegrazione nel rapporto ex art. 18 Stat.lav., surrogabile (a richiesta del lavoratore, dopo l'entrata in vigore della L. n. 108/1990), dalla corresponsione indennitaria di 15 mensilità di retribuzione globale di fatto (in aggiunta al risarcimento danni da licenziamento illegittimo previsti in misura non inferiore a 5 mensilità). Decisiva non fu tanto l'estensione del principio della reintegrazione alla specifica ipotesi di licenziamento invalido non contemplato originariamente nell'art. 18 Stat. lav., quanto l'affermazione della forza espansiva dell'art. 18 dello Statuto, il che importava l'effetto di relegare a ruolo meramente "esemplificativo" le tre ipotesi di  "inefficacia, annullabilità e nullità" previste dal legislatore del 1970 nel testo letterale del 1° comma dell'art. 18 L. n. 300.

Successivamente ancora la Corte costituzionale – con decisione n. 17 del 22 gennaio 1987 (5)-  ha ribadito che l'art. 18 Stat. lav. non si pone, nell'ambito della disciplina del rapporto di lavoro, come norma speciale o eccezionale, ma è dotato di una forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso espressamente contemplati "purché assimilabili sotto il profilo dell'identità di ratio": ipotesi questa che la Corte ha dichiarato ricorrere nel caso di licenziamento per ragioni unicamente fondate sulla diversità di sesso. Conseguentemente la Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all'art. 3,24,36 e 37 Cost. e relativa all'art. 18 Stat. lav., nella parte in cui, limitando la tutela reintegratoria (e risarcitoria) ai casi di nullità del licenziamento contemplati dall'art. 4, legge n. 604/'66, escluderebbe da tale tutela gli ulteriori casi di nullità configurabili ex art. 15 Stat. lav. – come sostituito, nell'ultimo comma, dall'art.13 legge n. 903 del 1977 – tra cui quello del licenziamento implicante discriminazione fra lavoratori e lavoratrici in base al sesso.

Ancora una riaffermazione della "forza espansiva" dell'art. 18 Stat. lav. proveniva – nell'esame di una fattispecie di licenziamento invalido per disapplicazione delle garanzie di cui all'art. 7 Stat. lav. – dalle Sezioni unite della Cassazione nella decisione n. 4823 del 1 giugno 1987 (6), la quale, correggendo in parte l'affermazione di principio dell'indefettibilità dell'applicazione anche del 1° comma dell'art. 7 (concernente l'onere della pubblicità del codice disciplinare) come condizione di esercizio del potere disciplinare  - considerato da Pera (7)"un clamoroso infortunio" di Corte cost. n. 204/1982 - ha riaffermato la tutela reintegratoria per il licenziamento disciplinare  (o per colpa o mancanze del lavoratore) irrogato senza l'osservanza delle tutele ax art. 7, effettuando l'importante affermazione di principio secondo cui, in ragione della sua forza espansiva (asserita dalla Corte costituzionale), "l'art. 18 l. n. 300 del 1970 si applica a tutte le ipotesi di invalidità di recesso del datore, qualora non assoggettate ad una diversa, specifica disciplina".

 

3.2.      La reintegrazione per i licenziamenti affetti da nullità (in ipotesi diverse da quelle codificate nell'art. 18)

In occasione della riproposizione della questione di costituzionalità dell'inciso dell'art. 18, secondo il quale la misura reintegratoria sarebbe limitata ai casi di nullità previsti "a norma della legge stessa" (quivi intendendosi esclusivamente l'art. 4 della L. n. 604/1966) – così da escludere la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro e del risarcimento del danno nei casi di nullità  del licenziamento diversi da quelli previsti dalla legge 15 luglio 1966 n. 604 – la Corte costituzionale (8) ha rigettato l'eccezione in quanto l'ordinanza di rimessione non prospettava profili nuovi da indurre a differenti conclusioni, atteso che"questione identica, pur se riferita all'intero testo dell'art. 18" era stata già esaminata  da Corte cost. n. 204/1982 e da Corte cost. n. 17/1987, assertrici che "secondo l'oramai costante indirizzo giurisprudenziale, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito del rapporto di lavoro, non è né speciale né eccezionale ma dotato di forza espansiva che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo dell'identità di ratio". Orientamento da cui la Corte non intendeva affatto discostarsi e che, all'opposto, ribadiva doversi ritenere confermato.

Nuovamente, in sede di legittimità esaminandosi il caso del licenziamento invalido per "mancata affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti, sostituito da mezzi indebitamente considerati equipollenti in quanto aventi quali destinatari i singoli individualmente considerati, in luogo dei lavoratori considerati come componenti di una collettività indeterminata e variabile", Cass. n. 4072 dell'11 maggio 1990 (9) ha ripetuto il principio inizialmente statuito da Corte cost. n. 204/1982,  secondo cui:"in virtù della forza espansiva di cui sono dotate le disposizioni di cui all'art. 18 della l. n. 300 del 1970, le stesse si applicano a tutte le ipotesi di invalidità del recesso del datore di lavoro, qualora non assoggettate ad una diversa, specifica disciplina e quindi anche nel caso di nullità per inosservanza delle norme di cui ai primi tre commi dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970".

 

3.3.      La reintegrazione per il licenziamento nullo della lavoratrice madre

Altra ipotesi di nullità del licenziamento cui  è estensibile il rimedio "reintegratorio e risarcitorio" di cui all'art. 18, in ragione della sua  asserita forza espansiva e della sua  riferibilità ad ipotesi dotate di identità di ratio, è quello del licenziamento della lavoratrice madre – viziato da motivo illecito e quindi che non sia riconducibile a giusta causa, nel qual caso è pienamente valido -  intimato nel periodo di divieto legale di esercizio del potere di recesso (dall'inizio della gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino), dopo che la Corte costituzionale (10) ha dichiarato l'incostituzionalità – per contrasto con l'art. 3 e 37, 1° comma, Cost. – dell'art. 2 L. n. 1204/1971 nella parte in cui in luogo della nullità del licenziamento  in questione ne sanciva la temporanea inefficacia, con effetti contraddittori e differenziali rispetto alla nullità (stabilita dalla legge  n. 7 del 9 gennaio 1963) per l'ipotesi del licenziamento per causa di matrimonio, il cui divieto è sorretto dalla stessa ratio. La sola "inefficacia" del licenziamento è stata, nella fattispecie, ritenuta sanzione insufficiente – in ragione della transitorietà del divieto – ad "evitare che nel periodo di gravidanza e di puerperio intervengano, in relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possono turbare ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio psico-fisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del bambino" e, pertanto, al suo posto è stata introdotta la "nullità".

Non sono state esaminate in giurisprudenza altre fattispecie pratiche di nullità tali da richiamare, per relationem, il trattamento reintegratorio di cui all'art.18.

 

4.      Altre ipotesi di estensione applicativa del rimedio reintegratorio – Conclusioni

Ci viene tuttavia in mente la fattispecie del licenziamento intimato in malattia – che la giurisprudenza di legittimità continua a considerare temporaneamente "inefficace" e non "nullo" (11) – licenziamento che, come è stato osservato (12), stante il parallelismo in termini di esigenze di tutela con l'ipotesi del licenziamento della donna in periodo di gravidanza e puerperio, dovrebbe essere legittimato a fruire delle stesse misure di tutela ex art. 18 Stat. lav. (intuitivamente più risarcitoria che reintegratoria nella specie in cui alla malattia si accompagna la conservazione del posto, semprechè non venga superato il periodo di comporto).

Altra ipotesi di nullità tutelabile con la reintegra ex art. 18 Stat. lav. – con la facoltà surrogatoria indennitaria ex lege n. 108/'91 - è rinvenibile nel licenziamento invalido adottato dall'azienda per superamento del periodo di conservazione del posto ex art. 2110 c.c. per malattia o infortunio, ricollegabile – con nesso di causalità -  alla carenza di misure di prevenzione aziendali o comunque a colpa del datore di lavoro, in violazione dell'art. 2087 cod. civ. E' noto e condivisibile infatti l'orientamento giurisprudenziale secondo cui: "qualora la malattia del lavoratore derivi da condizioni morbigene esistenti nell'ambiente di lavoro e di tali condizioni sia responsabile l'imprenditore per inosservanza dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del dipendente (art. 2087 c.c.), deve escludersi che l'imprenditore medesimo, in relazione al protrarsi di detta malattia oltre il cosiddetto periodo di comporto, abbia diritto di recedere dal contratto (art. 2110 c.c.), essendo a lui imputabile l'impossibilità della prestazione lavorativa" (13).

Di recente, nello stesso senso, si è espressa Cass. n.6601 del 12 giugno 1995 (14), secondo cui: "La malattia o le malattie del lavoratore non giustificano il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ove l'infermità abbia avuto causa,  in tutto o in parte, nella nocività insita nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque esistente nell'ambiente di lavoro, della quale il datore di lavoro sia responsabile per aver omesso le misure atte a prevenirla o ad eliminarne l'incidenza, in adempimento dell'obbligo di protezione ed eventualmente anche delle specifiche norme di legge connesse alla concretizzazione di esso, incombendo peraltro al lavoratore di dare la prova del collegamento causale fra la malattia che ha determinato l'assenza ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate".

Concludendo si può dire che rispondeva ad indubbia correttezza, oltrechè ad apprezzabile lungimiranza, l'affermazione fatta nel 1971 dal primo Commento allo Statuto dei lavoratori (a cura di Freni e Giugni ) quando imbattendosi ed esaminando le tre sole e specifiche ipotesi (di inefficacia, annullabilità e nullità ricollegabili alla legge n. 604/'66) cui l'art. 18 coniugava la tutela reintegratoria, i due curatori affermarono: "Se si considera però  che la ratio della norma è comune a tutte le ipotesi di licenziamento inefficace o invalido e che manca qualsiasi ragione per un trattamento diverso di fattispecie rispetto alle quali l'ordinamento reagisca allo stesso modo che per quelle considerate, può ritenersi che la legge abbia proceduto per esemplificazione e che quindi la disciplina in esame trovi applicazione a tutte le ipotesi che non siano diversamente regolate…".

 

M. Meucci

(pubblicato in Lav. prev. Oggi 1999, 6, p.1131)

 

NOTE

 

(1) Così, Cass. 26.4.1976, n. 1475, in Foro it. 1976, I, 1127.

(2) In La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980,176-177.

(3) Da Freni e Giugni, in Lo Statuto dei lavoratori, Milano 1971, sub. art. 18.

(4) In Foro it. 1982, I, 2981 e in Not. giurisp. lav. 1982, 442.

(5) In Foro it. 1987, I, 1003; in Riv.it.dir.lav. 1987, II, 431; in Not. giurisp. lav. 1987,205.

(6) In Not. giurisp. lav. 1987, 181; in Foro it. 1987, I, 2031, con nota di M. .De Luca, cui adde Cass. 24 marrzo 1988, n. 2563, in Riv. giur. lav. 1989, II, 125.

(7) In "Le novità  nella disciplina dei licenziamenti", Padova 1993, 49.

(8) Con decisione n. 338 del 24 marzo 1988, in Dir. lav. 1988, II, 244 e in Giur. cost. 1988, I, 1446.

(9) In Not. giurisp. lav. 1990, 684.

(10) Con decisione n. 61 dell'8 febbraio 1991, in Foro it. 1991, I, 697 e in Not. giurisp. lav. 1991,67.

(11) Cfr. da ultimo Cass. 26 febbario 1990, n. 1459 e Cass. 2 luglio 1988, n. 4394, in Not. giurisp. lav. 1988, 524.

(12) Da Amoroso e Di Cerbo, Commentario dello statuto dei lavoratori e della normativa sui licenziamenti, Milano 1992, 289.

(13) Cass. 14 giugno 1984, n. 3559, in Mass. giur. lav. 1984, 455; conf.  Pret. Roma, 22 luglio 1985, in Giust. civ. 1986, I, 908; Cass. 14 maggio 1994, n. 4723, in Mass. giur. lav. 1994, 597;  Cass. 1 febbraio 1995, n. 1169, ibidem 1995, 66.

(14) In Mass. giur. lav., Mass. Cass. 1995, n. 139, p.47.

 

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