SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del
lavoro, X.Y. chiedeva che fosse dichiarata la nullità/illegittimità
del licenziamento intimato da Patentverwag Italia srlcon lettera del 21/3/2000, nonché
delle sanzioni disciplinari
dell’8/2/2000 e del 29/2(2000, con le conseguenti pronunce di condanna;
chiedeva inoltre la condanna della Patentverwag Italia Srl a risarcire il danno alla persona
per essere stata discriminata e vessata a causa del suo essere donna, al centro
di attenzioni di natura sessuale da parte dei suoi superiori e
dell’Amministratore Unico della Società. Con vittoria di spese.
Si costituiva in giudizio Patentverwag italia Srl chiedendo il rigetto del
ricorso.
All’odierna udienza la causa veniva discussa e decisa come da separato dispositivo di cui veniva data lettura pubblicamente.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’oggetto della presente causa è duplice. Da una parte vi è la
valutazione della legittimità delle
sanzioni disciplinari e del licenziamento disposti dalla Società.
Dall’altra vi sono le attenzioni di cui la lavoratrice asserisce di essere
stata oggetto sul luogo di lavoro, che hanno prodotto una situazione di
compromissione psichica qualificata con danno alla persona e/o mobbing, secondo
la vulgata attuale. Su entrambi gli oggetti è stata svolta ampia istruttoria
testimoniale.
La ricorrente è una giovane lavoratrice di ventitré anni addetta a
mansioni impiegatizie presso l’ufficio vendite della Società. E’ stata
licenziata sulla base di una lettera di contestazione di cui si riportano i
punti essenziali: "sono emersi collegamenti internet giornalieri di durata lunghissima, due da circa due ore
ciascuno, uno solo da tre o quattro ore, se non di più, in coincidenza con la
Sua presenza al lavoro. Il suddetto utilizzo, verso siti di interesse estraneo
alla normale attività dell’azienda, si è interrotto in concomitanza col periodo
di permesso matrimoniale […], durante il quale sono stati registrati soltanto
tre collegamenti in diciassette giorni […] Dal suo rientro i collegamenti
lunghi sono ripresi con ritmo giornaliero […] Durante il suo periodo di ferie,
ma ad azienda aperta con personale ridotto, il traffico su internet è risultato
irrisorio […] Al rientro dalle Sue ferie i collegamenti hanno riassunto le
caratteristiche inizialmente descritte […] Normalmente il traffico internet
termina verso le 17,30, quando Lei timbra il cartellino".
L’ìstruttoria esperita ha consentito di accertare i seguenti fatti
essenziali:
le mansioni
a) le mansioni della ricorrente richiedevano il ricorso a
collegamenti internet limitati e
sporadici;
b) i collegamenti contestati sono avvenuti effettivamente dal
computer della ricorrente, come risulta inconfutabilmente provato per il
periodo successivo alla richiesta dell’azienda di personalizzare le singole
postazioni presenti nell’ufficio in modo da rendere riconoscibili, presso il
provider, i singoli utenti (vedi doc.6 conv.);
c) la ricorrente rimaneva connessa anche durante gli intervalli di
lavoro;
d) alcuni colleghi hanno potuto notare sul computer della
ricorrente visualizzazioni non congrue con l’attività di ufficio della stessa.
In relazione a questi fatti non è plausibile la difesa della
ricorrente, secondo la quale i collegamenti sarebbero stati determinati da
necessità di lavoro, dal momento che le connessioni scompaiono quasi del tutto
nei periodi in cui la ricorrente è assente ma l’attività aziendale prosegue.
Possono dirsi, dunque, provati i fatti posti alla base del licenziamento. La
condotta della lavoratrice non solo e non tanto ha provocato costi aziendali
non necessari (si badi che nel caso in esame le connessioni non sono state sporadiche,
e quindi comprensibili o giustificabili, ma cospicue e regolari). Data la sua
entità ha integrato gli estremi di un rilevante inadempimento degli obblighi
contrattuali di lavoro: in altri termini, quale che fosse la ragione (internet
o qualsiasi altra cosa), per tutte quelle ore la lavoratrice non ha effettuato
la prestazione per la quale era retribuita.
Ritenuta pertanto sussistente la giusta causa posta a fondamento
del recesso e ritenuta la non censurabilità formale della procedura seguita (il
fax contenente la richiesta di diversa data per le giustificazioni è stato
inviato a un numero che non corrisponde a quello dell’azienda: vedi produzione
della stessa ricorrente), la domanda relativa al licenziamento è infondata e va
rigettata.
Parimenti infondate sono le lagnanze sulle sanzioni disciplinari.
La prima è stata irrogata per ritardi documentalmente provati (cartellini): le
giustificazioni non sono adeguate, dal momento che le difficoltà di traffico
sono agevolmente superabili con minime precauzioni, la sanzione del rimprovero
scritto è lieve e, quindi, proporzionata. La seconda si riferisce alla mancata
cura della ricorrente nel mettere a disposizione di colleghi di lavoro, e
comunque consentire di reperire, importante materiale da consegnare a terzi
(diapositive), pur in sua assenza. L’episodio, che è stato provato, ha
obiettivamente procurato un significativo intralcio alla attività aziendale in
attività che rientravano nel campo di attività della lavoratrice: la sanzione
di due giorni di sospensione è da ritenere giustificata e proporzionata.
Sul secondo punto, quello delle attenzioni di cui è stata oggetto
la lavoratrice, è necessario riportare i punti salienti emersi
dall’istruttoria. Una teste ha dichiarato che l’Amministratore Unico (AU) usava
verso la lavoratrice espressioni offensive […] di contenuto misogino; che il
Direttore commerciale diceva alla ricorrente che aveva delle belle forme
soprattutto dietro. Usava termini diversi che non voglio ripetere. Ho assistito
a ciò direttamente più volte […] nell’open space. Un altro teste ha dichiarato
di aver sentito più volte il Direttore commerciale fare apprezzamenti sulla
ricorrente dicendo che bel culo e ha riferito inoltre della propria reazione di
assenso. Un altro teste ha dichiarato di aver sentito in più occasioni l’AU
sbraitare nei corridoi nei confronti della ricorrente. Altre volte, parlando
con me, mi ha detto che la ricorrente era una testa di cazzo o una puttana.
Questi comportamenti erano indirizzati principalmente nei confronti della
ricorrente […] Il direttore commerciale faceva apprezzamenti di carattere
fisico sulla ricorrente. Capitava che dicesse sia alla lavoratrice direttamente
sia in pubblico a altri colleghi che la ricorrente aveva un bel culo o altri
apprezzamenti del genere […]. La ricorrente è venuta diverse volte in ufficio
da me a sfogarsi piangendo e con tremori per come era stata trattata e per le
parole che le erano state dette. Altra testimone ha dichiarato: mi è capitato
di sentire il Direttore commerciale fare degli apprezzamenti sulla ricorrente
dal punto di vista fisico, parlando in pubblico. Apprezzamenti del genere li
faceva anche nei miei confronti. Non mi è capitato di sentirli nei confronti di
colleghi maschi.
Un quadro di questo genere si commenta da sé. Ci si può solo
chiedere cosa ne sia stato, in quel luogo di
lavoro e per quella lavoratrice (e anche per altre), di quel dovere di
adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro, dovere che il legislatore del codice civile
(art. 2087 c.c. ) poneva, in epoca non sospetta (il 1942!) a carico del
titolare dell’impresa. Nel caso in esame la violazione della personalità morale
della lavoratrice è presente è ha raggiunto frequenza e entità tali da incidere
anche sulla integrità fisica, come provano le crisi di pianto e i tremori sul
luogo di lavoro e la documentazione in
atti (doc. 13 ric.). La ricorrente, lavoratrice di giovane età e probabilmente
inesperta , aveva il diritto di essere rispettata pienamente come persona e
come donna, quali che fossero le sue capacità professionali, capacità che, se
avevano una possibilità di svilupparsi, richiedevano certo un ambiente corretto
e sereno.
Il danno lamentato, di natura intrinsecamente temporanea, è danno alla
persona, il cui fondamento si trova negli artt. 3 e 32 della Costituzione. La
responsabilità del datore di lavoro, sia diretta sia per l’obbligo di vigilare
sugli altri dipendenti è inconfutabile. La quantificazione del risarcimento non
può che essere equitativa nella misura di cui al dispositivo.
La parte convenuta va pertanto condannata al pagamento delle somme
di cui al dispositivo.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
- condanna la convenuta a pagare alla ricorrente la somma di Lit.
20.000.000 a titolo di risarcimento del danno alla persona;
- rigetta le restanti domande;
- compensa per metà le spese di lite e condanna la convenuta a
rifondere alla ricorrente la restante metà liquidata in Lit. 3.000.000 complessive.
Depositato in Cancelleria in data 14 giugno 2001
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