Una lineare  applicazione, da parte della Cassazione, dello spirito informatore della L. n. 297/’82 sul T.F.R. (tramite l’affermazione del ricorso, per gli accantonamenti annuali, ai criteri della disciplina legale o contrattuale pro-tempore vigente)

 

1. La Corte di Cassazione nella decisione n. 3079 del 2 marzo 2001  ha stabilito, a proposito dei criteri per l’inclusione o meno dello straordinario “non occasionale” nel t.f.r., quale disciplinato innovativamente (rispetto alla vecchia indennità di anzianità ex vecchio testo art. 2120 cod. civ., secondo cui all’atto della cessazione del rapporto di lavoro al prestatore spettava una indennità calcolata sulla base dell’ultima retribuzione per tutti gli anni di servizio prestati nella stessa categoria o qualifica) il principio per cui : “ L’individuazione della retribuzione annua utile al fine del calcolo del t.f.r., per quanto concerne specificamente l’incidenza del lavoro straordinario e degli istituti contrattuali su di esso, deve operarsi, ai sensi del 2° comma dell’art. 2120 cod. civ.,ai fini di un’esigenza di certezza dell’entità degli accantonamenti, con riferimento alla normativa legale o contrattuale in vigore al momento degli accantonamenti stessi e non con riferimento a quella vigente all’atto della cessazione del rapporto.

Qualora si sostenga il carattere retroattivo dell’esclusione dello straordinario ai fini del t.f.r. – pattuita nel ccnl vigente all’epoca di risoluzione del rapporto ma estranea e non rinvenibile nei precedenti ccnl che rimandano ai criteri della fonte legale – si osserva come la pattuizione collettiva sarebbe comunque nulla perché contraria a norma di legge inderogabile, essendo vietato ad un contratto collettivo successivo di peggiorare retroattivamente per un istituto disciplinato ex lege (n. 297/’82 afferente la struttura del t.f.r.,  in fattispecie) i criteri diversi e più favorevoli definiti dai ccnl previgenti, individuati dalla lettera e dalla ratio legis quali fonti, ratione temporis, immodificabili per gli  accantonamenti  annuali.”

L’affermazione di principio merita di essere integralmente condivisa e  spiegheremo di seguito le ragioni della nostra adesione(in senso conforme Corte App. Milano, 25/1/2001, in D&L, Riv, crit. dir. lav. 2001, 476, confermativa di Pret. Monza 24/5/1999; contra, Trib. Cuneo 16/3/2000, in Or. giur. lav. 2000,434).

Essa è stata determinata da una vertenza giudiziaria scaturita dalla richiesta di un dipendente (nella fattispecie “ex operaio”, ma con estensibilità del principio alle altre qualifiche) di un’azienda metalmeccanica, ubicata al Nord, il quale – sostenendo e provando di aver svolto ogni mese lavoro straordinario regolarmente retribuito dall’azienda – lamentava che, all’atto della liquidazione del t.f.r. in occasione della risoluzione del rapporto avvenuta nel 1997, non si era visto includere  nella “sommatoria” degli accantonamenti annuali strutturanti cumulativamente (e previa rivalutazione ex lege) la quota parte  annuale di “lavoro straordinario non occasionale” prestato e retribuito nel periodo anteriore al 7 luglio 1994 (data quest’ultima di stipula del nuovo ccnl in cui le parti, a differenza dei ccnl precedenti, avevano pattuito l’esclusione dello “straordinario” dalla base retributiva utile per il t.f.r.). A sostegno della rivendicazione (di mero principio, in quanto il valore in contestazione superava  di poco le 750 mila lire complessive) il lavoratore sottolineava come tale comportamento omissivo aziendale per il passato (periodo antecedente al ccnl 5.7.1994) si fosse concretizzato  nonostante che il ccnl  metalmeccanici del 14 dicembre 1990 (applicato ed applicabile pro-tempore dall’azienda) stabilisse all’art. 26, Disc. Spec., Parte Prima (afferente agli  “ex operai”) - per quanto atteneva al Trattamento di Fine Rapporto: - che:“All'atto della risoluzione del rapporto l'azienda corrisponderà al lavoratore un  trattamento di fine  rapporto da calcolarsi secondo quanto disposto dall'art.  2120  del Codice civile e dalla legge 29 maggio 1982, n. 297.

Per il computo dell'indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982, valgono le norme di cui all'art.  26,  Disciplina speciale, Parte prima, del Ccnl 16 luglio 1979 “ e, per l’anzianità antecedente, vale la previgente disciplina contrattuale di liquidazione dell’indennità di anzianità a scaglioni.

La norma  contrattuale del 1990 è inequivoca nel rinviare alla L. n. 297/’82 per le modalità di calcolo del T.F.R., dopo la novella del 1982.

E l’art. 2120, comma 1° e 2° rispettivamente  - nel testo novellato dalla L. n. 297/82 – stabilisce:

In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore alla retribuzione dovuta per l’anno divisa per 13,5  - omissis – (1° comma).

Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”(2° comma).

La dottrina ha correttamente e pacificamente rilevato come “ La differenza tra il nuovo t.f.r. rispetto all’indennità di anzianità è radicale. Rispetto all’indennità, come moltiplicazione  di un quid dell’ultima retribuzione rispetto all’intera anzianità di servizio in senso generico, il t.f.r. si risolve in una “ addizione”. Al termine del rapporto si sommano i trattamenti determinati annualmente e poi periodicamente rivalutati ad ogni fine d’anno; ogni trattamento annuale viene determinato sommandosi le spettanze del lavoratore nell’anno e dividendosi il coacervo per 13,5. (omissis). In tal modo il t.f.r. rispecchia fedelmente lo sviluppo economico della carriera del lavoratore senza artifizi finali” (cosi Pera, in  Trattamento di fine rapporto, in Foro it., maggio 1986, 189, p. 21 dell’estratto  e conf. Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il trattamento di fine rapporto, Padova 1984, 49, secondo i quali il nuovo t.f.r. “riflette fedelmente la storia retributiva di ciascun lavoratore impedendo manovre o effetti sperequanti a vantaggio di chi presentava dei picchi di carriera nella fase terminale del rapporto”). “I passaggi di qualifica e soprattutto di categoria, prima così tormentati, diventano relativamente indolori;la corsa all’ultima promozione non ha più l’incentivo di poter ottenere, per questa via, l’incremento del trattamento finale” (così ancora Pera, in  Trattamento di fine rapporto,  cit., p. 21 dell’estratto).

E va espressamente sottolineato come questa sommatoria di accantonamenti annuali strutturante il T.F.R. deve– a mente dell’art. 2120, comma 1° - essere composta da quote della “retribuzione dovuta per l’anno” divisa per 13,5. Ove per “retribuzione dovuta nell’anno” non può che intendersi quella spettante a norma delle fonti regolamentari del rapporto vigenti all’epoca e nell’arco annuale di corresponsione della medesima. Nello stesso senso depone Cass. 5.6.2000 n. 7488 (in MGL 2000, 1079, 82 m.) secondo cui: " Poichè ai sensi dell'art. 2120 c.c. (testo vigente) il trattamento di fine rapporto si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5, e la retribuzione annua, a tali fini, comprende tutte le somme, incluso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale, ne consegue che il giudizio di non occasionalità va in primo luogo effettuato con riferimento a ciascun anno (anche se è possibile che la corresponsione di una somma ritenuta occasionale in un singolo anno possa invece rivelarsi non occasionale, se riferita ad un arco temporale maggiore)".

E’ stato anche giustamente notato (Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il trattamento di fine rapporto, cit., 51) come non a caso il legislatore abbia usato la formula “retribuzione dovuta” per l’anno, giustappunto per cautelare il lavoratore da inadempienze datoriali determinanti scostamenti  tra  la retribuzione legalmente e contrattualmente “dovuta”e quella effettivamente percepita per  ipotetica decurtazione o errato conteggio in busta paga.  Con tale dizione, il t.f.r. – sganciandosi da una nozione di “cassa” per correlarsi ad una  nozione di “competenza” o “debenza”-  dovrà essere sottoposto, pertanto, alle  necessarie implementazioni (conguagli) conseguenti a rivendicazioni giudiziali o sindacali del prestatore di lavoro, positivamente fondate ed accolte.

Tornando alla vicenda giudiziaria occasionante l’affermazione di principio in tema di straordinario “non occasionale”,  va detto che con il successivo ccnl del 5.7.1994 gli agenti negoziali stipulanti il ccnl metalmeccanici  - avvalendosi della facoltà di cui al 2° comma dell’art. 2120, codificata nella dizione “salvo diversa previsione dei contratti collettivi”e per motivi di riduzione del costo del lavoro – convennero (necessariamente per l’arco di vigenza del nuovo ccnl, a partire dalla data di stipulazione in poi) – l’esclusione dello straordinario, occasionale o meno, ai fini del computo del T.F.R.

A tal fine la Dichiarazione a verbale in calce all’art. 26 Disc. Spec., Parte Prima (“ex operai”, e corrispondenti articoli per le altre qualifiche, integralmente riproposti nella versione precedente contemplante il rinvio per il calcolo del T.F.R. all’art. 2120 cod. civ.. e alla L. n. 297/82) dispose che: “Le parti in attuazione di quanto previsto dal 2° comma dell’art. 2120  codice civile, convengono che la retribuzione, comprensiva delle relative maggiorazioni, afferente alle prestazioni di lavoro effettuate oltre il normale orario di lavoro, è esclusa dalla base di calcolo del trattamento di fine rapporto.

Quanto sopra senza pregiudizio per le eventuali controversie giudiziarie attualmente in corso”.

Si trattò, pertanto, di una intesa – realizzatasi tra gli agenti negoziali in un determinato contesto temporale (a far data dal 5.7.1994, di stipula del nuovo ccnl) senza pretese, concessioni o spazi di supposta ed inespressa retroattività – con le quali gli agenti negoziali esercitarono la facoltà di circoscrivere, per motivi di opportunità, di scambio di  contropartite negoziali o di adesione sindacale alle lamentazioni aziendali sull’eccesso di costo del lavoro,  la base utile del trattamento di fine rapporto, del tutto pacificamente per il futuro non reperendosi traccia di “retroattività” convenzionale (peraltro nulla, se convenuta, in quanto non è giuridicamente ammissibile che un ccnl successivo possa peggiorare per il passato e retroattivamente, per istituti economici a consistenza certa legislativamente configurati e a sola corresponsione o esigibilità differita, qual è il t.f.r., i criteri di computo di “accantonamenti già maturati” e disciplinati da un precedente contratto collettivo).

Le OO.ss. poi si premurarono di puntualizzare – con quella propensione al superfluo finalizzata a tranquillizzare di fatto i lavoratori meno giuridicizzati -  che il nuovo e più circoscritto criterio di calcolo non avrebbe potuto determinare alcun riflesso sulle controversie giudiziarie pendenti (come pacificamente non poteva, stricto iure, averlo per pacifica carenza di valenza retroattiva della convenzione realizzata per l’arco di vigenza del ccnl decorrente dal 5.7.1994 in poi, anche se successivamente proseguita).

 

2. Il lavoratore soccombeva in primo e secondo grado, dinanzi al Tribunale di Lecco, ma otteneva accoglimento del ricorso in Cassazione, nell’annotata sentenza n. 3079/2001.

I motivi del non accoglimento in sede di merito risiedevano eminentemente nella convinzione dei magistrati che :

a) l’atto di cessazione del rapporto era un elemento costitutivo del diritto al T.F.R., non mero momento di esigibilità;

b) gli accantonamenti in corso di rapporto avrebbero mera natura virtuale o contabile (oggetto solo di  eventuali azioni di accertamento non idonee a far sorgere alcun diritto);

e, poiché il ccnl vigente all’atto della risoluzione del rapporto, escludeva il calcolo del lavoro straordinario, la pretesa del prestatore di lavoro era infondata.

Non può non sfuggire la scarsa pregnanza delle argomentazioni dei giudici  del merito che hanno incontrato un netto ribaltamento in sede di Cassazione (con le conclusioni conformi del P.M.).

Solo nel vecchio sistema di liquidazione dell’indennità di anzianità – di cui al superato art. 2120  cod. civ. – si può sostenere e condividere la datata affermazione della Cassazione, secondo cui: “Una cosa è il diritto all’ ”an” che è il diritto alla percezione delle indennità e che matura in ciascun istante dell’intero arco del tempo lavorativo,…altro è il diritto al “quantum” che diviene liquido ed esigibile soltanto al momento dell’effettiva estinzione del rapporto e nella quantità di cui alla disciplina vigente in tale stesso momento” (cfr. Cass. 6 marzo 1973, n. 625, Enel c. Franzante, in MGL 1973, (S), 156 m.).

Nel nuovo sistema  va subito detto che è saltata per volontà legislativa la correlazione tra “quantità” del t.f.r. e “disciplina vigente al momento della cessazione del rapporto”.

Anche se non mancano autorevoli opinioni contrarie (di cui diremo successivamente),  ed anche ipotizzando per mere finalità argomentative  che il momento costitutivo del diritto al t.f.r. è in via di normalità l’epoca di cessazione del rapporto (anche se in via di altrettanta normalità e diffusività è sancito il diritto alle anticipazioni in corso di rapporto per causali socialmente meritevoli e con superamento delle limitazioni ed angustie di legge, per “patti individuali e collettivi” cioè per condizioni di miglior favore espressamente legittimate ex art. 1, co.11,  L. n. 297),  da questo evento non può assolutamente inferirsi che l’epoca di acquisizione del diritto condizioni la sua configurazione strutturale e quantitativa e gli proietti, come un’ombra immanente ed incombente, la disciplina legale e contrattuale dell’epoca di cessazione del rapporto come unico metro o parametro di applicabilità e di utilizzo per l’intero rapporto di lavoro.

Affermare ciò significa non aver compreso l’innovazione dell’istituto di cui alla L. n. 297/82, ma ragionare condizionati da una normativa superata che è quella che regolava l’indennità di anzianità. Infatti non va dimenticato che nella legge n. 297/82  - legge imperfetta e disarmonica per esigenze di mediazione di interessi - esiste una dicotomia tra la fase di costituzione o esigibilità del diritto e la fase di strutturazione e concretizzazione quantitativa del medesimo. Quest’ultima fase – che è quella di cui ci occupiamo nella fattispecie -  è espressamente prevista e regolata dal legislatore della L. n. 297 laddove impone che il t.f.r. è strutturato da ”accantonamenti annuali” (cfr. art. 2, co. 9°) sulla base della “retribuzione dovuta nell’anno” divisa per il coefficiente 13,5;  laddove designa al 4° comma (ai fini della rivalutazione annuale) come “maturata” la quota dell’anno corrente, ove il termine “maturata” depone inequivocabilmente per un diritto già acquisito; laddove impone che  dei “dati relativi all’accantonamento effettuato nell’anno precedente ed all’accantonamento complessivo risultante a credito del lavoratore” (cfr. art. 2, co. 9°, L. n. 297) sia data notifica dal datore di lavoro al lavoratore che, per tale titolo conoscitivo, vanta un vero e proprio diritto soggettivo, per il rinvio espresso all’art. 4, co. 4° della L. n.467/78 “con la conseguenza che acquista ben altra credibilità la tesi favorevole a riconoscere l’ammissibilità di azioni di accertamento e cautelari  a tutela del trattamento di fine rapporto” (così Giugni, De Luca Tamajo, Ferraro, Il trattamento di fine rapporto, cit., 146).

Tornando ad opinioni dottrinali – quantunque prospettate problematicamente – che si discostano dall’orientamento (fatto proprio dalla magistratura di Lecco, in fattispecie), secondo cui sarebbe rimasto inalterato, per effetto della spettanza in via di normalità, il momento costitutivo del diritto al t.f.r., merita riportare quanto prospettano in dottrina Ghera e G. Santoro Passarelli (Il nuovo trattamento di fine rapporto, Milano 1982, 14-16): “Orbene si tratta di accertare se la nuova disciplina abbia mutato o meno la struttura della fattispecie, rispetto all’indennità di anzianità. Com’è noto, secondo la disciplina previgente nell’interpretazione della dottrina prevalente, il diritto all’indennità sorgeva nel momento della cessazione del rapporto, quando per l’appunto il quantum era determinato o determinabile. Durante lo svolgimento del rapporto di lavoro il prestatore di lavoro si trovava in una situazione di giuridica aspettativa di diritto e perciò poteva limitarsi ad esperire azioni conservative a tutela della sua situazione soggettiva. A meno di ritenere, come pure è stato sostenuto, che in realtà il diritto sorgeva con la costituzione e maturava con lo svolgimento del rapporto o meglio che si trattava di un credito del lavoratore esistente ma non esigibile o di un credito a termine incerto (cfr. autori in nt. 13). Queste ultime tesi interpretative, minoritarie e invero non molto persuasive sotto il dominio della precedente disciplina (dell’indennità di anzianità, n.d.r.) potrebbero essere utilizzate per spiegare la struttura della fattispecie del trattamento  di fine rapporto se si considera che secondo la disciplina attuale, gli accantonamenti annuali non subiscono, salva l’indicizzazione, ulteriori variazioni durante lo svolgimento del rapporto. Si tratterebbe insomma di accantonamenti determinati definitivamente nel quantum, a differenza del regime precedente alla stregua del quale la quantificazione poteva essere effettuata solo alla cessazione del rapporto fondandosi sull’ultima retribuzione. Il mutamento del criterio di calcolo dell’indennità di fine rapporto potrebbe perciò indurre l’interprete a ritenere che il diritto al trattamento non sorge più al momento della cessazione del rapporto, ma è un credito a termine incerto del lavoratore che matura durante lo svolgimento del rapporto. Tale termine, in questo caso, non atterrebbe alla sospensione dell’efficacia del negozio, ma riguarderebbe il tempo della prestazione. Il termine sarebbe una modalità dell’adempimento.

Certamente secondo questa interpretazione il termine, individuando il momento dell’adempimento dell’obbligazione del datore di lavoro e non avendo riguardo alla sospensione dell’efficacia del rapporto, identifica nella cessazione del rapporto il momento di esigibilità e di determinazione del credito costituito, in questa prospettiva, dalla somma di tante rate diverse per entità, quanti sono gli anni di servizio prestati. Questa interpretazione potrebbe essere avvalorata dal disposto del penultimo comma dell’art. 2 che menziona a certi fini l’accantonamento effettuato e…l’accantonamento complessivo a credito del lavoratore.”

Ciò riproposto per togliere una eccesso di  sicumera che abbiamo avuto modo di riscontrare nelle sunteggiate conclusioni della magistratura di Lecco, va detto che riteniamo sufficientemente fuorviante e sterile ai fini della problematica in decisione – come ha detto la stessa Cassazione -  la ricognizione o la condivisione (o meno) della natura costitutiva o di mera esigibilità per l’epoca di cessazione del rapporto  del diritto al t.f.r. (da intendersi quale sommatoria di quote certe di retribuzione a sola corresponsione differita, per effetto di risparmio forzoso onde non lasciare le aziende finanziariamente col “fiato corto”), ai fini e per gli effetti della individuazione della fonte legale o contrattuale per la strutturazione del quantum del t.f.r., che pacificamente avviene in corso di rapporto, secondo le regole legislativamente fissate (ripetesi, “accantonamenti” pro-quota della “retribuzione dovuta nell’anno”). Regole disposte per esigenze di certezza per i bilanci delle imprese  e per altro verso per gli stessi lavoratori, che lumeggiano l’infondatezza della tesi che tende a configurare  gli accantonamenti quali “dati virtuali o meramente contabili”, in luogo di somme certe ed acquisite al patrimonio creditorio del lavoratore e solo differite a fine rapporto nella loro esigibilità. Se così non fosse non si comprende a quale esigenza corrisponda ed assolva l’obbligo datoriale ex lege di comunicazione annuale dell’accantonamento per t.f.r. maturato al 31 dicembre dell’anno precedente. Non è assolutamente ammissibile che chi abbia ricevuto la comunicazione dell’accantonamento “maturato” per ciascun anno oltrechè dell’accantonamento complessivo a credito (ex art. 2, penultimo comma, L. n. 297/82) ed abbia, ipoteticamente, azionato il proprio diritto all’anticipazione del t.f.r., possa – per effetto di una eventuale normativa pattuita sindacalmente a fine rapporto, limitativa (come in fattispecie) della base di calcolo e delle componenti del t.f.r. rispetto a quelle contemplate nei ccnl previgenti ed utilizzate per gli accantonamenti annuali –  vedersi ridimensionato il proprio credito per t.f.r. in epoca di esigibilità differita, sottostando così ad effetti di incertezza e di labilità giuridica dell’istituto del t.f.r., con ipotetici pregiudizi su impegni economici assunti o assumibili. Invero l’istituto del t.f.r. – pur disciplinato da una legge imperfetta che non ha portato a conclusione gli obbiettivi che si era riproposta – è comunque sorto e connotato da esigenze di certezza giuridica bilaterale (dal lato delle aziende e dei lavoratori), in contrapposizione con l’indeterminatezza in corso di rapporto della precedente indennità di anzianità quantificabile solo all’atto dell’estinzione, tant’è che tutta la dottrina innanzi sopra citata conferisce agli accantonamenti annuali carattere di certezza e quantificazione insuscettibile di modificazione, se non incrementativa per effetto del meccanismo di rivalutazione annuale ex lege. A fronte di un panorama così pacifico, l’opposta tesi sostenuta dall’azienda sarebbe stata quella di ipotizzare una variabilità in negativo ed in decremento della misura ed entità gia definita (e contabilizzata e comunicata al lavoratore creditore) degli accantonamenti annuali. Per analogia – in campo previdenziale – il t.f.r. ha trovato una emulazione nella “pensione contributiva” (che sta sostituendosi alla “pensione retributiva” modellata sul criterio della vecchia indennità di anzianità valorizzante gli anni di retribuzione finali), strutturata per rispecchiare la “vita retributivo/contributiva” del prestatore di lavoro, finalizzata a dotare il lavoratore all’atto della quiescenza un trattamento rispecchiante e valorizzante le varie  misure della contribuzione versata periodicamente dal datore di lavoro, in veste di sostituto, al Fondo di previdenza.

A conforto della nostra tesi assertiva (in consonanza con l’opinione della Cassazione) della natura certa ed immodificabile degli accantonamenti annuali risultanti dall’applicazione della disciplina pro-tempore vigente – insensibile a quella di cessazione del rapporto -  militano poi decisive considerazioni  ed affidamenti rivenienti dalla legislazione in tema di previdenza complementare, costituite dal D.Lgs. n. 124 del 23 aprile 1993 (con le modifiche introdotte dalla L. n. 335 dell’8 agosto 1995 di riforma del sistema pensionistico), illuminanti – a fini ermeneutici  - di come il legislatore posteriore abbia inteso la struttura degli accantonamenti annuali e dell’integrale t.f.r. (inequivocamente come retribuzione a consistenza annuale certa, tramite la sommatoria dei singoli accantonamenti annuali, ed a sola esigibilità differita nell’ammontare complessivo a credito semprechè gli uni e l’altro non fuoriescano in precedenza per obblighi di legge, come vedremo, dalla stessa spettanza del prestatore di lavoro).

Il legislatore disciplinante i “Fondi di previdenza complementare” – istituiti anche nel settore metalmeccanico, con la denominazione di Cometa – ha previsto all’art. 8 (“Finanziamento”) che per i lavoratori in servizio anteriormente alla data del 28.4.1993 di entrata in vigore del D.Lgs. n. 124/93  le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari su base contrattuale collettiva possono prevedere la destinazione al finanziamento anche di una quota dell’accantonamento annuale al TFR…” (comma 2°); e “per i lavoratori di prima occupazione, successiva alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo (28.4.1993, n.d.r.) le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari su base contrattuale collettiva prevedono la integrale destinazione ai fondi pensione degli accantonamenti annuali al TFR…”(comma 3°).

E’ pacifico che se  gli accantonamenti non fossero dotati, anno per anno, di consistenza certa ed non modificabile (da una futura disciplina vigente all’epoca di fine rapporto, suppostamente dotata – secondo l’errata tesi aziendale – di efficacia retroattiva con effetti riduttivi), il Fondo di previdenza complementare (Cometa, per il settore metalmeccanico), soggetto terzo con propria identità , personalità giuridica, bilanci,  obblighi di investimento delle risorse, ecc., si troverebbe a ricevere degli accantonamenti “virtuali” del TFR, incerti fino all’epoca di risoluzione del rapporto di lavoro di ciascun lavoratore iscritto al Fondo, con tutte le intuibili, inevitabili e paradossali conseguenze di tipo gestionale ed amministrativo. E’ quindi scontato che il legislatore “previdenziale”  posteriore (di 11 anni) a quello della L. n. 297/82  ha -  per ragioni di certezza giuridica, di affidamento del  soggetto terzo (il Fondo) – dato per scontato, con una interpretazione che non si può affatto obliterare, che gli accantonamenti annuali di TFR hanno una consistenza certa ed immodificabile, essendo un’assurdità la pretesa di principio datoriale (come sostenuto nell’attuale controversia dall’azienda soccombente)  di  dover attendere per acquisire certezza  di ammontare, la normativa contrattuale vigente all’atto della cessazione del rapporto, per ridefinire  somme determinate di anno in anno sulla base della disciplina contrattuale vigente ratione temporis, contestualmente contabilizzate, comunicate al lavoratore e fuoriuscite (in parte o in tutto) dalla disponibilità dello stesso per confluenza nelle casse ed a costituzione del patrimonio finanziario di soggetti terzi, quali i Fondi di previdenza complementare di categoria.

 

3. A conclusione va detto che, pertanto,  non si possono che condividere le argomentazioni di supporto della Cassazione per negare alla convenzione o accordo raggiunto nel ccnl 5.7.1994 (vigente all’epoca di cessazione del rapporto) idoneità alla “rimodulazione” o “reformatio” (in peius per l’occasione) dell’entità o quote di accantonamento di t.f.r. afferenti a periodi antecedenti, regolati da una diversa normativa, nei quali era assente quella successivamente convenuta.

Giustamente  pertanto la Cassazione sostiene il proprio convincimento di principio affermando che: “Questo meccanismo a ‘maturazione progressiva’ espressamente voluta dal legislatore per assicurare certezza nella misura del diritto, postula che le regole per determinare la misura dell’accantonamento siano quelle vigenti al momento in cui esso è effettuato”. Ed ancora del tutto condivisibilmente asserisce che: “le questioni del momento in cui sorge il diritto al t.f.r., se esso sorga al momento della cessazione del rapporto, ovvero se la cessazione del rapporto sia solo una condizione di esigibilità, e quella meramente contabile dell’accantonamento, non rilevano necessariamente ai fini della decisione della presente causa. Infatti  anche ritenendo che il diritto sorga alla cessazione del rapporto e che l’accantonamento sia  virtuale, queste opinioni non comportano che il calcolo dell’accantonamento vada fatto secondo l’area della retribuzione individuata dalla contrattazione collettiva del momento della liquidazione e non debba essere fatto, così come per la misura di essa, da quella vigente al momento dell’accantonamento”, secondo i ccnl  pro-tempore vigenti.

Ne deriva  la corretta  e conseguenziale affermazione  - da parte della Cassazione - che l’interpretazione seguita dal Tribunale di Lecco:

a)      è in contrasto con il meccanismo di accumulazione previsto dall’art. 2120 c.c. e, soprattutto, con la natura di retribuzione differita dell’istituto” del t.f.r.;

b)      contrasta inoltre con l’esigenza  di certezza  dell’entità del trattamento, per le imprese e per i lavoratori, che costituisce la ratio della norma. Infatti poiché la contrattazione collettiva potrebbe raddoppiare o dimezzare la retribuzione utile per il t.f.r., se a tale contrattazione si riconoscesse, come fa il Tribunale, effetto retroattivo non vi sarebbe alcuna possibilità di prevederne o contabilizzarne l’ammontare, sarebbero vanificate le descritte finalità della riforma, diverrebbe rischiosa per le imprese l’anticipazione della indennità ed inutile l’accertamento giudiziale dell’accantonamento. Questo rilievo esclude anche che la contrattazione collettiva possa attribuire effetto retroattivo alla individuazione della retribuzione utile per il t.f.r., in quanto tale pattuizione sarebbe nulla perché si porrebbe in contrasto con i principi di norma di legge inderogabile” ed incontrerebbe la caducazione ex art. 1418 cod. civ. Giacché se può ammettersi – come pacifica giurisprudenza ammette – la modificazione peggiorativa per il futuro da parte di un nuovo contratto collettivo delle previsioni economico/normative di uno precedente, non può giuridicamente legittimarsi che la modifica peggiorativa possa estendersi retroattivamente nel passato per rimodulare “in peius” – come sostenuto infruttuosamente dall’azienda nella fattispecie - trattamenti economico-normativi già diversamente disciplinati, attualizzati, maturati ed acquisiti (o acquisibili successivamente) ovvero destinati a confluire ex lege o per accordi collettivi istitutivi di Fondi di previdenza complementare, nella casse e nei bilanci di organismi ed enti terzi rispetto al lavoratore ed al datore di lavoro, che debbono necessariamente poter fare affidamento, sin dall’epoca del versamento a loro favore, su contribuzioni (quote o integrale t.f.r. maturato) certe e definite nel loro ammontare.

La modifica, con effetto retroattivo, è inammissibile giustappunto  in quanto la lettera e la ratio della legge n. 297/82 (e poi il D.Lgs, n. 124/93 sulla previdenza complementare) presuppongono ed individuano – per le sopra riferite ragioni di certezza giuridica che ispirano l’intera normativa del t.f.r. - nella disciplina legale o contrattuale vigente ratione temporis la fonte immodificabile cui far ricorso per la determinazione  e la contabilizzazione degli accantonamenti annuali.

Per le considerazioni innanzi svolte la decisione incontra il nostro pieno e disinteressato consenso e va esente da censure di sorta.

Mario Meucci

Roma, 19 luglio 2001

(pubblicata su "Lavoro e previdenza Oggi", n. 8-9/2001, p. 1198)

 

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