Cultura, culturalismo e "ambiente" rivoluzionario
La Federazione Giovanile del PSI rappresentava, nel 1911-12, la parte viva e in fermento del partito. Il suo giornale nazionale, L'Avanguardia, veniva distribuito in quindicimila copie, un numero enorme per l'epoca. Altri periodici locali l'affiancavano. Si trattava di un potenziale notevole per la propaganda del partito, era quindi naturale che questo cercasse di influenzarne l'indirizzo.
Il partito vedeva la Federazione Giovanile più come scuola dei futuri militanti, sindacalisti, deputati, funzionari, che non come strumento rivoluzionario tutt'uno con l'organizzazione.
Bordiga si scaglia appassionatamente contro questa concezione "scolastica". In polemica con Angelo Tasca, il maggior sostenitore della funzione "culturale" della FIGS, egli afferma che il successo della rivoluzione non dipende dalla "cultura" bensì dall'ambiente sociale, dalla fede rivoluzionaria e dal "sentimento" socialista.
Tasca esprime bene il concetto culturalista che era proprio di tutto il partito e che diverrà un elemento portante del futuro ordinovismo gramsciano: l'influenza del partito sulla società è vista come una "evangelizzazione" (usa proprio questo termine se pur tra virgolette), e la cultura deve essere lo strumento che mette in grado il proletariato di produrre in modo non alienato e di "gestire" la produzione stessa scalzando la funzione del capitalista, fino a renderlo superfluo con la rivoluzione.
Bordiga denuncia l'abisso che separa questa posizione volontarista e gradualista dalla dialettica di un determinismo non meccanicistico e anticipa negli articoli di questo periodo le posizioni che sosterrà sia contro l'Internazionale, sia nella ricostruzione teorica del secondo dopoguerra.
La questione fondamentale da capire nel contesto della battaglia anticulturalista è ben riassunta da una frase bordighiana classica quanto lapidaria: "Le rivoluzioni non si fanno, si dirigono". La rivoluzione, come l'estensione dell'influenza del partito, non dipendono dalla volontà degli uomini, ma dalla convergenza materiale di molti fattori. La cultura è necessaria, ma non può essere portata nelle sezioni del partito e tra le masse con un'opera di tipo missionario. La cultura è un fatto individuale che diventa generale quando una necessità storica lo impone. Non si diventa capi rivoluzionari solo perché si sa leggere e scrivere, perché si conosce la filosofia, la storia, la fisica, la matematica... basta fare l'elenco delle materie scolastiche dalle elementari all'università, per avvertire istintivamente che la rivoluzione non c'entra con il catalogo dello scibile umano. Bordiga si beffa dei capi che pretendono di insegnare ai giovani mentre, attraverso le loro azioni politiche quotidiane, dimostrano di non aver capito nulla del marxismo. L'elenco del sapere mette in luce tutto il ridicolo della posizione culturalista, ma rimette anche le cose a posto per quanto riguarda la corretta via da seguire. Il sapere rivoluzionario consiste nel sapere dove dirigersi mentre la rivoluzione matura. In piena controrivoluzione l'immagine bordighiana per definire la mancanza di orientamento teorico sarà quella delle "bussole impazzite".
La "cultura" rivoluzionaria non è il punto di partenza ma il risultato dell'azione finalizzata delle masse e del partito. Le grandi rivoluzioni non sono scoppiate perché volute da capi geniali, ma sono scoppiate per una somma di fattori oggettivi e poi, nell'esplosione, hanno elevato capi politici e militari alla loro testa o ne hanno creati di nuovi e sconosciuti.
Paradossalmente l'anti-attivista, anti-Bernstein Bordiga, rivendica al movimento il compito educatore e lascia il fine ad un determinismo che potrebbe sembrare del tutto astratto proprio ai cultori del movimento. "No, perdio, la via della propaganda non è la teoria ma il sentimento, in quanto questo è il riflesso spontaneo dei bisogni materiali nel sistema nervoso degli uomini" , dice con una rivalutazione dell'istinto di classe. Il fine sarà realizzato se il partito non tradisce il movimento reale.
Compiono un errore madornale gli interessati biografi che cercano una contraddizione fra il Bordiga trascinatore di giovani e quello presunto "attendista" per dimostrare che egli sarebbe ottimo analizzatore teorico ma pessimo realizzatore di politica rivoluzionaria.
La vera questione non è il rapporto fra cultura e azione bensì fra teoria e prassi, e si risolve anzitutto ponendo nei giusti termini il materialismo storico e dialettico. Sono gli uomini che fanno la storia, ma non come essi pensano di farla; non è la coscienza che stabilisce il loro essere, ma al contrario il loro essere che produce la loro coscienza; queste risapute formule marxiste significano semplicemente che il pensiero e la coscienza vengono dopo ai fatti. La cultura (o il pensiero, o la coscienza) rivoluzionaria, è il prodotto e non il fattore della rivoluzione. Così l'organizzazione, il partito. Solo quando il processo rivoluzionario è maturo e travolge le resistenze dovute all'ideologia dominante, la coscienza, il pensiero, la volontà si fanno valere. Ma anche qui si tratta di un fenomeno storico e non individuale. Coscienza e volontà non appartengono ai singoli cervelli ma al cervello sociale. Nella rivoluzione proletaria il cervello sociale è rappresentato dal partito. E per partito si intende qualcosa di molto, molto diverso da quanto si intendeva nella Seconda e Terza Internazionale, per non parlare dell'oggi, dove la parola è così screditata da suscitare nei più reazioni di rigetto.