L'antimilitarismo
Tra i primissimi interventi politici di Bordiga vi sono le azioni contro quella che allora veniva chiamata "l'avventura tripolina", cioè la guerra in Libia. La guerra non procede secondo le previsioni dei generali che non riescono ad occupare Tripoli e quindi la sua eco si riversa amplificata sulla società italiana.
Se la guerra proietta all'esterno le contraddizioni sociali del capitalismo cercando di coinvolgere il "popolo" al fine di ottenere l'unificazione sociale, la classe operaia dimostra di non essere sensibile a simili diversivi, di non far parte della cosiddetta opinione pubblica istigata dai giornali di regime. Essa non legge, non vota, non "partecipa" alla vita politica, ma è contraria per istinto ai massacri sul suolo africano. Bordiga sceglie due testi significativi per documentare il primo volume della Storia della Sinistra. I testi citati sono brevissimi, ma sono importanti perché contengono "la consegna dello sciopero generale, che però il Partito e le organizzazioni operaie non proclamarono, o per meglio dire lasciarono fallire mentre in tutta l'Emilia e la Romagna era scoppiato con manifestazioni e scontri sanguinosi di piazza".
La questione della guerra libica è essenziale anche per la lotta all'interno del socialismo napoletano, dal quale nascerà la Sinistra. "L'equivoco socialismo della sezione napoletana non prese per nulla una posizione contraria alla guerra" afferma Bordiga. Nella polemica con i sindacalisti egli dimostra che la campagna antitripolina "è servita purtroppo a celare le vere magagne del popolarismo napoletano. La situazione politica creata dalla guerra non fu avvertita dai sindacalisti di Napoli che seguitarono ad affiancare nel blocco i fautori più accaniti della guerra stessa". La questione della pace o della guerra è posta da Bordiga negli stessi termini di Lenin. Per i democratici il soggetto della questione è lo Stato. Deve o non deve partecipare alla guerra? La domanda, dice Bordiga, presuppone che noi ne facciamo parte, come credono coloro che partecipano alla sua vita parlamentare. Ma i comunisti sono per l'abbattimento dello Stato borghese, esso è il nemico da combattere. In nessun caso possiamo allearci in un blocco politico per scongiurare la guerra del "nostro" Stato, per "chiedere" la neutralità, per avere una pace che sarebbe una pace borghese.
Alla vigilia della I Guerra Mondiale, mentre la socialdemocrazia europea precipita nella catastrofe, la Sinistra italiana si differenzia dal Partito Socialista di cui ancora fa parte dichiarandosi contro la neutralità e contro qualsiasi accordo di potere con i partiti borghesi che la volevano (Giolitti e parte dei cattolici). Costoro erano per la pace e la legalità, avrebbero fatto la guerra contro il proletariato se questo avesse cercato di risolvere il problema dell'intervento con i propri metodi di classe. Giolitti in effetti formò un governo borghese dopo la guerra e mandò l'esercito a circondare le fabbriche occupate dagli operai.
Quando nel partito si forma una posizione interventista a favore della Francia, non nascono particolari discussioni, essa è isolata e alla fine espulsa. È la posizione di Mussolini. Egli scrive in una lettera che è assalito dai sentimenti e dalla corrispondenza di chi gli chiede di non lasciar sgozzare la Francia, ma che non cederà. Il 18 ottobre del 1914 si rimangia la parola in un articolo sul giornale di partito e va a fondare, con i soldi francesi portati da Cachin, il quotidiano interventista Il popolo d'Italia.
Nel partito nessuna sezione lo segue, non si forma la minima frazione. Ricorda Bordiga che "vi furono compagni e compagne che si offrirono di andarlo a revolverare".
Nel 1915 l'Italia entra in guerra. Di fronte al fatto compiuto si moltiplicano le pressioni sul Partito Socialista. Mentre al suo interno viene messo in discussione il termine neutralisti in seguito all'avanzata tedesca fino alle porte di Parigi (la Francia ha appena spostato il governo a Bordeaux) e ad Oriente, Bordiga ribadisce che i rivoluzionari non sono né neutralisti né pacifisti, ma interventisti della guerra di classe. "Noi siamo di quei socialisti che nel loro convinto internazionalismo non lasciano posto per la superstizione della patria... [di fronte all'appello per la concordia nazionale rimaniamo] tenaci assertori della discordia di classe".
L'analisi condotta con metodo distaccato, da rivoluzionario che guarda agli avvenimenti borghesi come ad una serie storica da troncare, porta Bordiga a considerare gli Stati belligeranti come un solo blocco nemico. Le disfatte russe dimostrano che si parlava a vanvera quando si parlava della barbarie teutonica che avanzava contro la civiltà; ora la civiltà si fa difendere da orde più barbariche ancora, se è lecita questa espressione imbecille. Ma "la moderna tecnica militare tedesca ha avuto ragione sulla forza bruta del numero, la strategia scientifica dei marescialli germanici ha paralizzato l'urto travolgente delle cavallerie cosacche" perché la democratizzazione indotta dalla tecnica e dall'organizzazione del capitalismo moderno non ha nulla a che fare con l'apparenza del tipo di governo: "Bisogna riconoscere che il successo della Germania è dovuto in massima parte alla perfetta coesione ugualitaria e democratica delle varie classi realizzata prima e durante la guerra, agli stessi fattori, cioè, grazie ai quali resiste la Francia". Questa tesi, che riscontra un "invariante" decisivo tra Stati apparentemente diversi come struttura sociale (democrazia/totalitarismo), sarà alla base dell'analisi successiva alla II Guerra Mondiale e di quella sulla natura del "fascismo" che sarà la struttura di governo reale in Italia, Germania, Stati Uniti, Giappone e, fatte le debite differenze per via dell'origine, Russia staliniana.
Quando intervengono gli Stati Uniti Bordiga non applaude affatto all'avvenimento come a un fatto positivo che porta alla conclusione della guerra, ma come ad un fatto negativo che anticipa la possibilità di nuove guerre imperialistiche. Il militarismo moderno è un prodotto del capitalismo e, in quanto tale, è completamente diverso dal militarismo delle epoche passate. La guerra presente non è un prodotto dello scontro fra militarismo e democrazia, bensì fra militarismi che tendono tutti alla modernissima forma capitalistica sviluppata e ne sono allo stesso tempo il prodotto, indipendentemente dalla forma di governo; anzi, "fanno meglio la guerra gli Stati più moderni, industriali, borghesi, democratici". Ciò non permette ai marxisti autentici di avere preferenze per uno dei gruppi di Stati in conflitto.
L'America nel 1917 entra in guerra e in Russia scoppia la rivoluzione democratica di febbraio. Questi grandi avvenimenti non rettificano per nulla l'impostazione di partenza: gli Stati Uniti hanno calcolato più freddamente di tutti la convenienza della guerra, prima con la neutralità, ora con l'intervento, il loro arrivo è triviale militarismo; la rivoluzione in Russia non avvicina questo immenso paese asiatico alle ipocrite tesi wilsoniane, ma l'allontana, essendo scoppiata con una forte carica contro la guerra. È assurdo leggerli e interpretarli al contrario, cioè come se l'intervento americano fosse davvero wilsonianamente legato alla volontà di pace, come se la rivoluzione democratica russa fosse il preludio di una nuova offensiva militare più coerente con quella degli alleati democratici occidentali.
Invece di scatenarsi in questo esercizio puerile, i socialisti farebbero bene a "sventrare col bisturi della critica marxista i fenomeni importantissimi che caratterizzano l'attuale storia del colosso capitalistico d'oltre Atlantico ed i grandiosi rapporti sociali nella nuova Russia, dove il Terzo Stato rappresenterà ben altra parte che nella Francia dell'89".
Il militarismo americano farà vedere "i sorci verdi" al mondo per quel che rimarrà del secolo e la Rivoluzione di Ottobre porrà fine alla guerra con una sollevazione del Quarto Stato che, per la prima volta nella storia, prenderà il potere.