LATEMAR - PASSO DI LAVAZE’ E PALA DI SANTA.

Dopo una breve pausa sulla natura e l’arte, ritorniamo al nostro primo amore: la Montagna. L'alpinista Gian Carlo Grassi, scomparso a 44 anni il 1^ aprile 1991, ha detto: “Un sentiero può essere un’occasione più che sufficiente per scoprire, tutti insieme, le meraviglie della montagna”. Egli aveva veramente ragione. In tutti questi anni che pratichiamo l’escursionismo, perché noi non siamo alpinisti ma modesti escursionisti, abbiamo avuto modo di poterlo constatare. A noi interessa soltanto camminare, osservare e godere della montagna  ed essere sui monti, con gli amici “caini”, che ci portano sempre su  sentieri nuovi, non su punte famose raggiunte da tanti, ma su percorsi dove possiamo cercare sempre nuove emozioni.

 Questa del Passo di Lavazé, dopo il Parco dolomitico  di Tessa, è la seconda uscita estiva di quest’anno che abbiamo effettuato con il gruppo degli amici del CAI di Mantova.

Appena lasciato la Valle Rutiliana, con le sue meravigliose geometrie dei vigneti e dei frutteti, viste dall’alto del promontorio del contrafforte di Ora, si presenta come il paradiso terrestre: una visione che sembra un fondale di un quadro bellissimo dei pittori del Settecento. Dopo i vigneti e i campi prativi che degradano verso le valli, ci immergiamo nel silenzio dei boschi  alti e maestosi illuminati da un pallido sole, si, perché oggi, il sole fa capolino tra una nuvola  e l’altra.

Lavazé - Joch, con i suoi verdi prati, circondato da boschi di alte abetaie, lo abbiamo definito un balcone panoramico che sorge nel cuore delle Dolomiti, dal quale lo sguardo spazia fra le cime  più belle, come il Corno Bianco, il Corno Nero, la  Pala di Santa e il massiccio e misterioso Latemar, che  spicca per l’originale varietà d’aspetti. Come quasi tutti i gruppi dolomitici  e i due versanti di questo complesso montuoso, appaiono assai diversi. Ad oriente, anche se dirupato, il Latemar manifesta con i suoi brulli gruppi di un aspetto dolce e di indole buona. Nella parte occidentale la sua mole, quella che abbiamo ammirato noi, che siamo transitati proprio sotto le sue propaggini, si può definire selvaggia ed elegante per la ricchezza di turriti pareti che segnate da aspri canaloni, scendono a picco nel vuoto. Fatta eccezione per alcune vie di salita facili e meritevoli, come ci ha spiegato il nostro amico alpinista Sandro Zanellini, ex presidente del CAI: “Il generale aspetto impervio del Latemar e la fragilità delle sue conformazioni rocciose, ha tenuto sempre un po' lontano gli escursionisti e gli alpinisti”. Peccato, che le sue superbe cime erano avvolte da una fitta nuvolaglia biancastra, togliendoci così il piacere di ammirarlo nella sua superba e meravigliosa bellezza.

Quello che abbiamo ammirato è un paesaggio particolare, un paesaggio immerso nella natura e non brutalizzato dal cemento e dalla mano dell’uomo. Il poeta Andrea Zanzotto, si è espresso in questo senso: “L’intervento brutale dell’uomo sulla natura é alla deriva nel mondo di plastica”. In una intervista al “Corriere della Sera”, ha così commentato questo nostro tempo tecnologico e consumistico: L’Arcadia che ispirò Tiziano e Giorgione sembra oggi un presepe di plastica. La campagna, sterilizzata dalla chimica e pettinata nelle geometrie dei vigneti industriali, ha perso ogni angolo selvatico. Qualche collina la ritrovi spostata dai bulldozer e ricostruita in faccia al sole per ottimizzare i raccolti. I fiumi, con i loro strani gorghi lattiginosi, li hanno arginati nel cemento. E i paesi sono legati da un labirinto di ville, palazzi, capannoni tirati su in un gioco febbrile”.

Nel 1951 queste prealpi venete erano ancora incontaminate, e Andrea Zanzotto ne esaltava le luci in “Dietro il paesaggio”, il libro che lo rese noto. Adesso alla vigilia degli ottant’anni, torna ad esplorare andando “ dentro” la replica corrotta di quel paesaggio, per cogliere nella sua semiologia  gli indizi di un mondo che cambia. Segni che lui ti fa notare uno a uno e che gli ricordano “ le sentenze tatuate sui detenuti della colonia penitenziaria di Kafka”: delle dolorose sovrimpressioni, e guarda caso questo è anche il titolo della sua ultima raccolta di poesia. Sono versi “ alla deriva”, che tendono a connettersi in una serie di nuclei in cui non mancano innovazioni che portano quasi all’interno del laboratorio del poeta, a cogliere la poesia, “nel suo farsi” I temi forti sono “ la devastazione del paesaggio e lo spaesamento”, e “ il senso d’oppressione che viene dall’essere assediati da troppo - di -  tutto, dell’effetto pletora universale, da cui si alimenta anche qui ogni degenerazione”.

Dopo questa premessa, veniamo alla nostra escursione. Appena giunti nella tranquilla località del Passo di Lavazé, da dove l’occhio spazia in un panorama bellissimo, il nostro gruppo si è diviso in due tronconi: il primo, si è diretto verso La Pala di Santa (mt.2488), che è la più alta fra le cime che si innalzano dall’altopiano di Lavazè. Elegante e slanciata è la sua cresta che si eleva dal versante SO, ben visibile dalla media Val di Fiemme; imponente è il NO (altopiano di Lavazè), da dove noi ci siamo fermati un momento per ammirare le sue bellezze, mentre degrada con pendenza variabile sul versante NE ( Passo di Pampeago) . Vastissimo il panorama che offre la sua cima: dalle dolomiti ampezzane ( Antelao, Pelmo) all’Adamello, Ortles- Cevedale, Alpi Venoste e Pusteresi. Diversi i colori dell’area circostante, le varie tonalità di verde dei boschi e dei prati, dove è incastonato il laghetto di Lavazè, il rosa pallido dolomitico del limitrofo Latemar, il Bianco ed il Nero dei “corni” omonimi, rispettivamente calcare e roccia vulcanica ( porfido) come la Pala di Santa.

Il secondo gruppo, al quale facevamo parte io ed Adriana mia moglie, oltre ai nostri amici Fabio e Marisa ed un nutrito gruppetto di “caini” anch’essi nostri amici da sempre, capeggiati dalla nostra guida Sandro Zanellini e l’amico Poldo Araldi, dal Passo di Lavazè (mt.1805) poco oltre il laghetto, ci siamo diretti in direzione “E”, da dove abbiamo imboccato il sentiero nr. 9 che attraverso  il bosco e le pendici “ N” della Pala di Santa, dove abbiamo lasciato i nostri amici che erano diretti  verso la vetta della Pala di Santa fino al Passo di Pampeago (m.1996), con qualche breve saliscendi. Il sentiero n.9, è un sentiero che sale dolcemente, tagliando la montagna obliquamente, che procede a sghembo rispetto alla direzione di marcia. E’ un sentiero che potremmo definirlo un tunnel, ove non filtrano neppure i raggi del sole, tanto sono alte e fitte le meravigliose abetaie, che s’innalzano con prepotenza  verso la luce, mentre le radici stringono ai lati il piccolo sentiero. Durante il nostro percorso, abbiamo incontrato moltissimi  queruli ruscelli che più in basso vanno a formare piccoli e chiassosi torrenti. Spesso, siamo stati costretti a guadare questi piccoli corsi d’acqua, ma sempre senza alcuna difficoltà. Attraversando questa grande montagna fitta di boschi altissimi, abbiamo potuto constatare che, durante l’autunno scorso, un  vento impetuoso con grande fragore, ha abbattuto e sdraiato moltissime piante d’alto fusto, che ci dava l’impressione di vedere tanti giganti abbattuti da uno strano fenomeno della natura, facendo uno scempio, una strage, uno sterminio di meravigliose piante, non solo nel bosco che stavamo attraversando, ma in tutta la vallata del Passo di Lavazé. Lo strano silenzio della montagna nel sole pallido di giugno è quello di un “pianeta morto”. Ma qualche voce lontana su per il sentiero solcato dai ruscelli cancella la desolazione. Ma il silenzio di quel sentiero ridesta i ricordi, scompigliando il confine tra il reale e il tempo delle ombre e dell’attesa. Per un momento, ci ha dato la sensazione che fosse passato un vero e proprio uragano, uno di quei cicloni frequente nei mari della Cina o dell’America centrale, che dove passa distrugge ogni cosa, lasciando dietro di se soltanto desolazione. Ci è stato riferito che è stata una vera tromba d’aria, una tempesta violentissima, a forma di nube a imbuto che si avvolge vorticosamente su se stessa e si scatena in un’area piuttosto limitata. Infatti, è stato proprio così, ha interessato soltanto una lunga striscia di quella località, provocando ingentissimi danni. Uno scempio di vuoto assoluto, fatto di “ spazio vuoto e di luce”. e  alberi morti e  abbattuti in mezzo alla montagna ferita.  Molto è stato fatto dagli uomini della forestale e molto rimane ancora da fare, per bonificate e risanare quella grande ferita dei  luoghi che hanno interessato la tempesta. Ovunque, si vedono montagne di tronchi accatastati e pronti da essere trasportati alla numerose segherie della zona, per essere trasformati in legname e tavole d’opera per l’industria.

Il sentiero continua a salire dolcemente fino a quota 1950,  dove ha termine il grande bosco. In quel punto la montagna diventa brulla e prativa e la sua pendenza si fa sempre più ripida fino al Passo di Pampeago, che raggiunge i 2000 metri.   Al posto degli alberi, vi sono i grandi tralicci metallici della seggiovia, che collega le due vallate, e che durante il periodo invernale ne beneficiano migliaia e migliaia di sciatori. Quest’ultimo tratto, è stato al quanto faticoso. Sentivi soltanto il  muggire del vento e l’aria fredda, sferzante e pungente che ti scudisciava il volto e le mani. Ogni pochi passi, era necessaria un piccola sosta, mentre la palpitazione aveva assunto un ritmo più rapido. Ma tutto questo è normale, quando si raggiungono quelle quote. Non dico che fosse una quota eccessivamente elevata, ma a 2000 metri, l’ossigeno incomincia a diradarsi e la fatica si incominciava a farsi sentire, e poi, alla nostra età, ogni piccola variazione si nota subito. In una di queste breve soste, mi è venuta in mente una frase ormai storica di Quintono Sella (1827 - 1884), matematico e uomo politico tra le figure più rappresentative della Destra storica  del nostro Paese. Fu tra i fondatori del Club Alpino Italiano, al quale ci onoriamo di fare parte, egli così ha scritto: “ Nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza e la previdenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, il che non vuol dire imprudenti. Ha un gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pur esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele”. Parole sagge le sue, che oltre alla prudenza, ci  fanno comprendere il valore e il pericolo della montagna.

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