IL
TRENO DELLA SPERANZA.
Il
lungo convoglio, costituito da vecchie carrozze di legno e carri bestiame, con
in testa la vecchia locomotiva a carbone, residuato bellico, che continuava a
sbuffare quel fumo acre di carbone fossile che si diffondeva per le grandi
vallate, come se fosse una ciminiera di uno stabilimento. Quel treno, spesso, si
fermava dentro le lunghe gallerie e l’aria era subito resa irrespirabile. Non
si sapeva cosa fare e come difendersi, si prendeva il tutto con una grande
filosofia, perché d’altronde non c’era altro da fare che attendere
la sua partenza. Quel vecchio treno , che era stato definito, il “treno
della speranza”, a passo lento, a passo di lumaca, continuava a
salire verso le coste della Campania, verso la grande città partenopea.
Quello strano silenzio della campagna nel sole di giugno, era interrotto dal
fischio caratteristico della locomotiva, che si propagava in quel “pianeta
morto”: case, ponti, strade e campagne distrutte, ovunque c’era desolazione.
Nelle case sulla scogliera litoranea avanzava la notte e ridestava i ricordi,
scompigliando i confini tra il reale e il tempo delle ombre e dell’attesa. Ma
qualche voce lontana ed il suono argentino delle campane delle città e dei
borghi attraversati dal convoglio cancellava la desolazione. La vita, seppure
con fatica, ovunque era in ripresa.
Suoni,
rumori e voci, che si snodavano tra un vagone e l’altro del convoglio, che
sembrava una tradotta militare, la tradotta dei disperati del Sud d’Italia, in
cerca di fortuna, fanno emergere dentro di noi un tracciato fonico delle
situazioni, delle popolazioni, dei luoghi che attraversavamo, da cui spiccano
alcuni caratteri peculiari delle vari entità. Il nostro ricordo si apre col
chiasso e il tumulto della folla di meridionali, che, come inconsapevole dei
momenti difficilissimi e direi anche drammatici del sanguinoso conflitto
mondiale che si era appena concluso, si vedevano sui marciapiedi delle stazioni
nell’entroterra napoletana, gente che passeggiavano, che si accalcavano
all’arrivo del convoglio, che ridevano, che affollavano le strade e i caffè
e, infine, suonavano e cantavano in
chiassosi cortei.
Ancora
uno stacco fonico delinea il paesaggio naturale e umano della Calabria che ormai
era alle nostre spalle. Sullo sfondo dello scrosciare della pioggia, del fragore
dei tuoni e del mugghiare degli elementi, si profilavano uomini urlanti e
litigiosi, per conquistarsi un posto sui “vagoni bestiami”, con le valigie
di cartone legate con lo spago, dove erano contenute le povere cose degli
immigrati in cerca di fortuna, si udivano grida inquietanti e a squarciagola,
imprecazioni, minacce, dialoghi concitati e tumultuosi; ma, in discordanza con
tutto ciò, si percepiva il biasciare lamentoso di povera gente sonnolenta, e,
insieme, la magia d’una improvvisa musica notturna, d’un melodico coro
maschile a quattro voci e i suoni dolci e malinconici, con profondi toni minori,
d’una voce femminile che canta una ninna nanna.
Tono
nettamente romantico assumono i suoni emergenti nel corso del viaggio verso la
città di Napoli.
Che
cosa ha significato per me quel
viaggio a Napoli?
Tanto,
tantissimo. E’ stato un capitolo fondamentale della mia vita, che non si è
ancora concluso. Penso che proprio a Napoli, in questa città della Magna Grecia
e Capitale del Mezzogiorno d’Italia, la filosofia resisterà e finirà per
imporsi, perché questa città è la città più filosofica del mondo. Devo
premettere, che io non sono un filosofo, ma un cultore di questa scienza che
studia l’indagine della ragione rivolta alla conoscenza dei problemi
fondamentali della vita per la loro soluzione,
come ha detto il grande filosofo tedesco Han - Georg Gadamer.
Per
me è stato il primo viaggio della mia vita, e quella volta sono approdato a
Napoli, così senza volerlo, tanto per fare qualcosa, perché, come i giovani
del piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, mi annoiavo moltissimo, e volevo
conoscere il resto del nostro meraviglioso Paese. Alcuni anni più tardi, e
precisamente nel 1972, quando, con tanti sacrifici mi ero conquistato un posto
nella società e prestavo servizio nell’Arma Benemerita, con il grado di
Maresciallo comandante di stazione distaccata e vivevo con la mia famiglia nella
grande città di Genova, nella grande e stupenda città di Napoli, sbarcava il
grande filosofo Han - Georg Gadamer, il quale in una intervista ha detto: “ La
prima volta che sono sbarcato a Napoli per caso. E’ stato nel 1972. Tornavo da
un viaggio negli Stati Uniti. La nave italiana era diretta a Genova, ma fece
sosta a Napoli perché era la domenica di Pasqua”. Egli fece come avevo fatto
io molti anni prima, ha cominciai a girare intorno al porto e poi nei vicoli dei
quartieri spagnoli. “Dai balconi
le donne lasciavano scivolare giù con una corda dei cesti, per poi tirarli
d’un tratto su. Mai vista tanta umanità! Non sapevo che fare. Vidi un
barbiere aperto, e decisi - perché no? - di tagliarmi i capelli. Cominciai a
chiacchierare con il mio italiano balbettante. Raccontai di me. Sono un
filosofo. Un filosofo? Il vecchio barbiere era al settimo cielo. Era stato per
anni il barbiere di Croce e da allora non aveva più avuto occasione di tagliare
i capelli a un filosofo. Per lui fu una festa. Ma anche per me. Intuii già
allora il significato della filosofia per quella città. Ma poi l’ho compreso
davvero quando nel 1978, ho conosciuto Gerardo Marotta. Con lui ho incominciato
a lavorare all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Vivere
e lavorare a Napoli è stata una esperienza straordinaria! Vico e i
giacobini, gli hengeliani e Croce: Napoli è una città filosofica”.
Quando
prestavo servizio nel Nord’Italia, si, perché, mi arruolai nell’Arma un
anno dopo la mia esperienza in
questa caotica, ma simpatica e caratteristica città Partenopea. Tutte le volte,
che facevo ritorno al piccolo borgo di Cosoleto, per fare visita ai miei
familiari, mi fermavo sempre a Napoli. Ormai, era diventata un’abitudine
fermarmi due o tre giorni, per godermi le bellezze paesaggistiche della città
più bella del mondo.
“Prendere
le cose con filosofia è per i napoletani una tradizione, oltre che una necessità.
A Napoli la filosofia è dappertutto, come nelle città dell’antica Grecia,
dove si filosofava passeggiando. Non c’è dunque ragione di stupirsi se
Luciano De Crescenzo, concittadino di Giambattista Vico, di Benedetto Croce e di
Gennaro Bellavista, ha scritto
numerosi libri su Napoli e la sua filosofia. L’ultimo libro di De Crescenzo
che abbiamo letto, infatti, è intitolato - “ La Storia della Filosofia
Greca”. Qui Talete e Anassimandro, Permedite e Democrito, Zenone e Leocippo,
persino l’aristocratico Pitagora e l'oscuro Eraclito tornano a parlare nei
vicoli e nei mercati delle loro città mediterranee, tra la folla curiosa di
un’eterna Partenope; qui la speculazione si mescola al “fattariello”, e il
riso ai discorsi intorno al mondo e alla vita. Frutto amabilissimo di una civiltà
greco - partenopea a cui appartengono i Savi della più remota antichità
mediterranea e i filosofi spontanei della Napoli d’oggi.
Luciano
De Crescenzo, parlando con Salvatore, il “vice - sostituto - portiere” di
Via Petrarca 58, di Napoli, dove risiede il prof. Gennaro Bellavista, così gli
dice: “ Tu, caro Salvatore, sei un filosofo e non lo sai. Sei un filosofo
perché hai un modo del tutto personale di affrontare i problemi della vita. Ciò
premesso, io credo che possa esserti utile conoscere la Storia della Filosofia
Greca, ed è per questo motivo che ho deciso di scrivere a tuo uso e consumo. Il
mio tentativo sarà quello di raccontare con parole semplici il pensiero e la
vita dei primi filosofi.
Perché
i greci? Cominciamo col dire, caro Salvatore, che tu non sei italiano, ma greco.
Sissignore, ripeto greco e sarei tentato di aggiungere “ateniese”. La
Grecia, se intesa come modo di trascorrere la vita, è un grandissimo paese
mediterraneo, fatto di sole e di conversazione, che, per quanto riguarda la
nostra penisola, si estende più o meno fino alle rive del Volturno. Oltre
questo confine, geografico e di comportamento, vivono i romani, gli etruschi e i
mitteleuropei, tutta gente alquanto diversa da noi e con la quale non sempre é
possibile instaurare un dialogo. Per capire meglio l’essenza di questa
diversità, t’invito a riflettere su un verbo, esistente nella lingua greca,
che, non avendo corrispettivi in nessuna altra lingua, é di fatto
intraducibile, a meno che non si voglia ricorrere a delle frasi complesse.
Questo
verbo é “agorozein”.
“
Agorozein” vuol dire “ recarsi in piazza per vedere che si dice” e quindi
parlare, comprare, vendere e incontrare gli amici; significa però anche uscire
di casa senza un’idea precisa, gironzolare al sole in attesa che si faccia ora
di pranzo, in altre parole “ intalliarsi”, come si dice dalle nostre parti,
ovvero attardarsi fino a diventare parte integrante di un magma umano fatto di
gesti, di sguardi e di rumori. “Agorazonta”, in particolare, è il
participio di questo verbo e descrive il modo di camminare di colui che pratica
l’ “agorazein”, e cioè il procedere lento, con le mani dietro la schiena
e su un percorso quasi quasi mai rettilineo. Lo straniero che, per motivi di
lavoro o di turismo, si trovasse di passaggio in un paese greco, sia esso
Corinto o Pozzuoli, sarebbe molto stupito nel vedere un così folto numero di
cittadini camminare su e giù per la strada, fermarsi ogni tre passi, discutere
ad alta voce e ripartire per poi fermarsi di nuovo. Egli sarebbe portato a
credere di essere capitato in un particolare giorno di festa, laddove invece
assiste a una comune scena di “aragozein”. Ebbene, la filosofia greca deve
molto a questa abitudine peripatetica dei meridionali.
“Caro
Fedro, “ dice Socrate “dove vai e da dove vieni?”
“Ero
con Lisia, il figlio di Cefalo, o Socrate, “ risponde Fedro “ e ora me ne
vado a spasso fuori le mura. Così, su consiglio dell’amico comune Acumeno,
faccio i miei quattro passi all’aria aperta, perché, dice, rinvigoriscono più
che passeggiare sotto i portici”.
Forse,
allo stesso modo pensava il grande filosofo tedesco Han - Georg Gadamer, quando
per “intalliarsi”, si mise a girare attorno al porto e poi nei vicoli
dei quartieri spagnoli. Osservando le persone, specialmente le donne che dai
balconi filosofavano con le
dirimpettaie e nello stesso tempo, lasciavano scivolare giù con una corda i
cesti, per poi tirarli d’un tratto su, colmi di derrate alimentari. Egli
con quel suo procedere lento, con le mani dietro la schiena e sul quel
percorso quasi mai rettilineo dei quartieri spagnoli. Parlando con la gente,
aveva capito, che prendere le cose con filosofia è per i napoletani una
tradizione, oltre che una necessità. E’
proprio vero che a Napoli la filosofia è dappertutto, come nelle città
dell’antica Grecia, dove si filosofava passeggiando. Tutto questo per un
filosofo come Gadamer, era una fonte di conoscenze fondamentali che
rispecchiavano e rispecchiano tutt’oggi la vera filosofia.
Sono
sempre stato innamorato di quella città, tant'è vero, che nel mese di
settembre del 1957, nel proseguimento del nostro viaggio di nozze per la Old
Calabria e Taormina, ci siamo fermati alcuni giorni, per visitarla a fondo, dai
quartieri caratteristici della vecchia Napoli, al centro storico e
all’isola di Capri. L’anno scorso, nel mese di maggio, ci siamo
fermati brevemente ed in attesa della partenza della nave traghetto per le isole
Eolie, abbiamo rivisitato, in un giro panoramico, le piazze e i monumenti più
belli di questa meravigliosa città.
Oggi,
siamo qui, per rievocare un’esperienza di vita lontana che è successa ieri, o
forse un secolo fa. Non lo so di preciso, perché il tempo sembra si sia fermato
nei primi anni della mia giovinezza. Solo i giovani hanno di questi momenti. Non
parlo dei giovanissimi dell’ultima generazione. No. I giovanissimi, quelli che
domani ci dovrebbero sostituire, per essere esatti, non hanno momenti.
Come ha scritto Joseph Conrad: “ E’ privilegio della prima gioventù
di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella continuità di
esperienze che non conosce pause né introspezioni”.
“Uno
chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza ed entra in un
giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del
sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene
che tutta l’umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti
dell’incanto dell’esperienza universale da cui ci si attende di trovare una
sensazione singolare o personale: un po' di sé stessi.
Questo
é il periodo della vita che può portare ai momenti ai quali ho sopra
accennato. Quali momenti? Momenti di evasione, di scontento di una giovinezza
senza prospettive, senza un domani certo e sicuro, senza sbocco di un’avvenire
migliore. Ma soprattutto momenti d’irriflessione.
Noi
della terza età, rievochiamo spesso questi momenti, perché fanno parte del
nostro passato prossimo, perché, come ha scritto Enzo Biagi, in un
dei suoi tanti libri: “ Noi camminiamo sopra un cimitero di foglie
morte, dove è sepolta la storia del nostro passato prossimo”. Ma io continuo
nei miei scritti a rievocare il passato e a sognare perché voglio continuare a
vivere. Non so se si avvereranno i miei sogni. Ma i sogni non si avverano. O
meglio, si avverano in se stessi. Questa è la forza della filosofia. Anche
se ignoro che cos’è la vera filosofia, ritengo che finché resta
l’uomo, resta anche la filosofia. Ogni bambino,
al più tardi a sei anni, come lo sono stato io e milioni di altri individui, si
chiede che cos’è la morte. E’ questa, come afferma il grande filosofo
Gadamer, è la forza enigmatica della filosofia.
“Nella
mia vita ho cercato e cerco di evitare medici e medicine, ma purtroppo non è
sempre possibile. Sono convinto che si possa e si debba sopportare il dolore,
sia quello del corpo, sia quello dell’anima. E’ la follia dei nostri giorni
pretende di eliminare il dolore dalla vita. D’altra parte, io ho un grande
vantaggio: non soffro d’insonnia. E anzi riesco a dormire la mattina anche
fino alle nove. Certe volte finisce addirittura che mi riaddormento, ma poi
sento i passi felpati di Adriana mia moglie, quando in punta di piede entra
nella camera, e solo allora mi sveglio. La giornata comincia lentamente, con il
giornale e una tazza di caffè, seduto ad un tavolo del Bar Sport di Campitello,
a volte solo e a volte con gli amici, ma spesso mi incontro con l’amico Maurizio Marcheselli, con il quale
commentiamo le notizie del giorno. Alla mia scrivania, di fronte al computer,
si consuma l’avventura infinita di ricercare invano quello che vorrei
trovare e non trovo, ma anche di trovare, con grande sorpresa, quello che non
cercavo, per poi continuare a scrive sulla pagina bianca
di questa infernale macchina, fredda e distaccata
ma con una grande memoria.
Più
guardo questa macchina, figlia della tecnica moderna, e più mi accorgo che è
una forma di schiavitù. Tutta l’informatica è una catena intelligente di
schiavi. In un modo o nell’altro,
siamo tutti schiavi, dei media e dei nuovi media. Schiavi, però, non come
nell’antichità, ma in un modo ben più raffinato: siamo schiavi pensando di
essere padroni. Tante informazioni non danno il tempo di pensare. E allora
l’augurio: che non ci lasciamo
irretire troppo nella rete di Internate, che cerchiamo di imparare sempre di più
a riconoscere i limiti, di noi stessi, del nostro proprio sapere.
L’Internet,
questa nuova tecnica informatica, secondo il mio modesto parere, dovrebbe essere
adoperata con moderazione ,e solo per fini culturali e non per altri scopi, come
la podofilia. Questa tendenza sessuale è caratterizzata dall’attrazione di
adulti versi i bambini. Questi individui depravati, con il loro comportamento
subdolo e violento con il quale ottengono prestazioni sessuali dai bambini
innocenti, rendendoli schiavi della perversità. Questa categoria di delinquenti
depravati e viziosi, come ha suggerito il Ministro della Sanità Veronesi,
andrebbero curati con i farmaci, ma io aggiungerei che andrebbero curati con i
bisturi, per la castrazione. Solo così, un giorno, potremmo dire di aver
debellato questa piaga dalla nostra società.
I
nostri bambini devono continuare a giocare e sognare, perché hanno il
sacrosanto diritto di crescere, di vivere e di diventare uomini. Anche noi siamo
stati piccoli, ma sognavamo soltanto di evadere, per conoscere un mondo diverso,
un mondo migliore, un po' di noi stessi.
Ho
cercato di raccontare una piccola storia, una storia di altri tempi, una storia
di ieri o forse di cento anni fa, ma quello che conta è lo spirito con il quale
ho cercato di raccontare me stesso. Perché il tempo non scorre sempre allo
stesso ritmo. Ci sono delle lunghe sere d’estate o d’autunno in cui sembra
quasi immobile. Ci sono degli istanti di felicità che svaniscono così in
fretta che sembrano appena sfiorati dalla sua corsa ansimante. In questi ultimi
anni, mi sono accorto che il tempo
passa veloce come un sogno. Ma il tempo passa e cancella molto in fretta il
ricordo delle gioie e dei drammi della guerra, che quelli della mia generazione
hanno vissuto. Che cosa sia stata la
Grande Guerra 15/18, il massacro più formidabile dopo il diluvio e la grande
peste, dopo la carestia della Cina e dell’India e le campagne di Napoleone,
che cosa sia stata quella guerra, prova generale molto puntuale di ciò che
sarebbe accaduto, per completare l’opera, appena
ventidue anni dopo, non ho bisogno di raccontarvelo. Lo sapete tutti a
menadito.
La
città di Napoli, dove sono sbarcato da quel treno che sapeva di tradotta
militare, mi ha fatto vedere che cosa è stata e che cosa ha prodotto la guerra:
macerie, fame, prostituzione e desolazione. Ma i napoletani, con la loro
filosofia, hanno sopravvissuto a quella tragedia con dignità e spesso con
allegria. Questa è la grande forza filosofica
della meravigliosa città Partenopea.