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CAMMINANDO SUL PO IN AGONIA

 “ MAI VISTA UNA SICCITÀ' COSÌ”

6 febbraio.

Questi sono i giorni della merla, ma sono  anche i giorni di grandi siccità non solo per il grande fiume. Non è la prima volta che il livello scende così in basso. Ma nessuno ricorda una magra lunga: dura da quaranta giorni. Oggi, siamo qui a Boretto, lungo l’argine del grande fiume, da dove possiamo ammirare un grande orizzonte, oltre il quale si distende il lungo serpentone  in agonia. Nella presentazione del libro di Umberto Eco: “Il nome della rosa”, leggiamo: “ Pensa a un fiume, denso e maestoso, che corre per miglia e miglia entro argini robusti, e tu sai dove sia il fiume, dove l’argine, dove la terra ferma. A un certo punto il fiume per stanchezza, perché ha corso per troppo tempo e troppo spazio, perché si avvicina al mare, che annulla in sé tutti i fiumi, non sai più cosa sia. Diventa il proprio delta. Rimane forse un ramo maggiore, ma molti se ne diramano, in ogni direzione e alcuni riconfluiscono gli uni negli altri, e non sai più cosa sia origine di cosa, e talora non sai cosa sia fiume ancora, e cosa già mare”. Il grande fiume si è annullato, ha perso la sua vigorosità, la sua bellezza, il suo fascino da sempre.  Al suo posto sono emerse le dune e le piccole pozzanghere, ove vediamo molti trampolieri che cercano di pesca il loro pranzo. Guardando queste  dune, queste spiagge di sabbia bianca, mi sembra di essere sulla spiaggia di Cattolica, dove l’orizzonte annulla ogni senso di riferimento. Ma a Cattolica, oltre alla grande distesa di sabbia, vi é il mare che da allegria e gioia: qui c’è soltanto tristezza. A fianco ai cumuli di sabbia, emergono i grossi barconi, i relitti arrugginiti dal tempo.

Quindici mesi fa qui il fiume crebbe come una casa di quattro piani: ora é un ruscello dove le barche si incagliano in venti centimetri d’acqua. Nell’ammirare questo cimitero di cose morte, ho provato una grande tristezza: quella scena mi ha toccato il cuore e mi ha commosso.

Paolo Rutiz, il corrispondente di “ Repubblica”, in un suo articolo così scrive: “ Se prosegui scarpinando sull’argine,  entri nell’inverno degli Hobbit. Fantasmi di dune  bruciate dal gelo, pioppeti sotto vetro, pezzi di banchisa tra i campi gialli gelati. L’acqua é al minimo,  ma la cosa eccezionale non é quest’aorta semivuota. Il Po così basso s’è visto altre volte: “ Quello che  non s’era mai visto - spiega l’ingegnere Ivano Galvani che da Boretto Po sorveglia la navigabilità su tutto il fiume - era una simile durata della magra: quasi quaranta giorni. E non s’era mai vista, nemmeno, una temperatura così a lungo sotto zero”. Di notte fa meno otto, anche nove. Freddo boia. Roba da tabarri, come nel libro “ L’albero degli zoccoli”. Nei boschi e sugli argini c’è ancora la neve di metà di dicembre, la brina disegna fiori di ghiaccio sulla sabbia. Un gelo tale che fino a tre giorni fa' sé mangiato anche la nebbia”.

“A valle riemerge di tutto dai fondali. I ruderi della chiesa di San  Vito e Modesto, inghiottita secoli fa dal fiume che mutò direzione; gli scheletri di vecchi barconi; persino le palafitte di un ponte spagnolo, roba del seicento. Ma è cosa modesta rispetto a quello che segue qui a monte. Il bello viene dopo il ponte in ferro a Cremona. Qui la Padania diventa uno stoccafisso - una bassura secca e fredda come la Piszta ungherese - e il Bengodi del culatello si veste di Quaresima. Qui, dove il Po diventa il dio - serpente, si attorciglia in meandri, sbanda come un ubriaco e ti depista nella nebbia per attirarti nella sua trappola invernale.

Primo imbroglio: sei sul letto maggiore del Po, eppure quell’acqua bassa non gli appartiene. Cosa accade? Quel rigagnolo é dell’Adda. Infatti é lui che sbuca dietro il curvone a monte con i suoi ottanta, striminziti metri cubi al secondo. Un esproprio, e la conferma arriva oltre la confluenza. Lì il fiume di Gianni Brera muore del tutto. La poca acqua che c’è rallenta, si ferma, fuma tra i pioppeti coperti di “ verglas”.

Oltre alla confluenza dell’Adda, la nebbia si dirama - con l’acqua ferma - il ghiaccio aumenta. E’ così, proprio dove diventa un  dio minore, il Po si nobilita, si trasforma in un reame di cristallo. Sulla scarpata dell’Isola Sarafini il vapore cristallizza generando fantastiche concrezioni. Il ghiaccio scricchiola sotto le scarpe; in certe conche poi anche passare sull’acqua a piedi. Barconi con la rete a bilanciere sono incastrati nella  banchisa. Non c’è anima viva, il silenzio é assoluto, senti solo un jet ad alta quota e un cane che abbaia sull’altra riva. Intanto, col sole, i colori sbucano dal grigio del mattino. Sono il bianco e il giallo, il folle vestito dell’inverno 2002: un abbinamento di sabbia e brina, deserto e pack, bruma umida e campi bruciati.

“E’ un momento eccezionale, irripetibile”. Neanche Annibale Volpi, che sorveglia il fiume per conto dell’Arni, ha mai visto una Siberia simile. E’ eccitatissimo, sa che già domani il gelo potrebbe mollare. Nella sua postazione accanto alla diga idroelettrica, c’è la stufetta, una piccola biblioteca e la foto di un pesce - siluro record. Un mostro onnivoro di due metri e venti, pescato da queste parti. Da qui il fiume pere un quadro di Peter Brhueghel il vecchio, l’Olanda d’inverno con i pattinatori; ma sopra, la luce é desertica, quasi medio - orientale. Volpi butta un sasso e “ toc”, il sasso rimbalza, il ghiaccio non cede. Oltre, accanto alla diga, nella corrente, decine di cormorani vorticano per acchiappare i pesci bloccati.” Mangiano come jene”, ride, e spiega come si dividono il territorio a branchi.

“ Il canale navigabile che aggira la diga pare un’autostrada bianca, compatta, immobile. Il ghiaccio avrà dieci centimetri , un barcaiolo deve farsi strada a picconate per avvicinarsi a un grosso  motoscafo Sui pioppi, tredici metri più in alto, pendono sacchi di plastica abbandonati dall’ultima piena. Dicono che quindici mesi fa il Po crebbe come una casa di quattro piani. Oltre l’argine destro, un pavone bianco é fermo in un boschetto di olmi, e nella neve pare una memorabile scena di “ Amarcord”. E sullo sfondo la nebbia che si dirada rivela il tradimento delle montagne. Senza neve, desertiche anche loro.

Annotta, si torna a  Viadana, il ponte sul Po é statico, immobile, mentre il traffico stradale é aumentato. Dal finestrino dell’auto, diamo un ultimo sguardo al vecchio fiume, anzi che dito, al vecchio ruscello: si perché, ha  assunto proprio l’aspetto di un ruscello, mentre tutt’intorno la spiaggia si fa sempre più grande, per l’effetto prospettiva. Ci rimane soltanto il ricordo dei piloni di cemento del grande ponte che mostrano le tacche delle ultime piene, dicono che appena l’altro ieri il Po allagò, strade, campetti, palestre, ristoranti, rimesse delle barche. Intanto, al bar del porto la gente rumina notizie sul clima impazzito. Dieci sotto zero ad Amendolara, mondo  boia. Meno sei a Monticelli, roba da matti. La nebbia che finalmente ricomincia dopo troppe notti stellate.

Qualcuno dice nel nostro Bar Sport di Campitello: “ Ci avete rotto le palle col vostro effetto serra” sbotta un nonnetto, e mostra sul giornale le foto dei finocchi, dei porri , dei cavoli e dei carciofi striminziti da quaranta giorni di temperature artiche. Ride: “ Vi pare che faccia caldo?”. I padani minimizzano sempre, sanno che il freddo e le magre sono sempre esistiti e che il nostro allarmismo ecologico é spesso figlio della memoria perduta”.  “Paragoni col passato sono impossibili”, protesta Luigi Mattioli, un altro che lavora al controllo del fiume Oglio. E spiega: il fondale si é abbassato, tutte le misure sono falsate.

La spiaggia dei tesori.

 Nei giorni che seguirono la nostra passeggiata sulle piagge deserte di Boretto, e fra le dune  e i vecchi relitti  arrugginiti, emerseci dai fondali dopo la grande siccità di questo inverno, ci siamo ritornati.

Un vecchio pescatore, che era seduto su di una piccola una di sabbia a fumare tranquillamente la sua pipa, mentre con gli occhi tristi scrutava l’orizzonte, fatto di sabbia bianca, di relitti e di alberi spogli. Ad una nostra domanda sul grande fiume, egli ci ha detto: “Il Po restituisce sempre quello che prende .A volte passano anni, a volte secoli, tempi che sorpassano la vita degli uomini. Ma il fiume non ruba, nemmeno le terre. Se le divora con l’impeto della corrente durante le piene autunnali, ma d’inverno, quando ritorna nel suo letto di magra, le riconsegna, lasciando le tracce del suo passaggio sulla sabbia. Così, durante le secche, emergono le cose perdute negli anni. Barche, ormeggi, a volte reperti storici o preistorici. Quando il grande fiume si ritira esce di tutto: é come se si aprisse un  grande forziere. Quello che oggi voi state osservando, é il frutto della sua azione a volte silenziosa e a volte tragica. Egli, aveva ragione di affermare tutto questo, perché  i vecchio e grande fiume é così, a volte generoso che da la vita. C’è un posto fra le anse del fiume dove si spegna la malinconia come il sole nel mare e ti senti libero perché  ti senti ritornato, ragazzo, a giocare fra le cose perdute nel tempo. C’è un posto fra gli argini, l’orizzonte dei pioppi nella geometria della pianura da non scordare mai, perché tra i filari spogli di questi pioppi vi é l’aria della sera, ritrovi sempre il dolce incanto di una felicità perduta. Forse, per noi, che non siamo nati in questi luoghi, ma nella parte estrema della nostra penisola, essi ci invitano ad amare la natura, sfiorano il dolce incanto della poesia e di quella felicità ritrovata: il fiume della vita.

Dopo le rive spoglie e sabbiose di Boretto, il nostro viaggio esplorativo prosegue verso Guastalla, e attraversando il lungo, lunghissimo ponte, incontriamo Dosolo. Un ricordo di questo borgo antico, ci riporta indietro nel tempo,  e ci va rivivere le serate allegre, fra gente di diversa estrazione sociale nel piccolo ristorante di Nizzoli, dove, per la prima volta, abbiamo cenato a base di lumache . Prima di allora, non avevo mai mangiato le lumache, ma come vengono cucinate da Nizzoli, non li cucina nessuno, e tu non puoi fare a meno di non assaggiarle. E’ un piatto veramente squisito. Quella sera, parlo di molti anni fa, avevo invitato alcuni amici in quel ristorante, per festeggiare la riuscita di una mia mostra personale a Gazzuolo. Si, perché, in quel tempo, oltre ad essere il maresciallo comandante la stazione dei Carabinieri  di Gazzuolo, trovavo anche il tempo per dipingere. Siamo ritornati più volte in quei luoghi di riviera, per osservare e dipingere il grande fiume della vita.

Ricordo, che in una delle mie passeggiate lungo i sentieri del vecchio fiume, ho colto un piccolo fiore su una siepe sparuta, un fiore azzurro come il cielo e profumato di aria. Un piccolo saluto in questo mondo, in quel tempo incontaminato, mentre oggi non si può dire la stessa cosa, e lontano dal traffico delle grandi città.

Durante le nostre  escursioni sulle montagne dolomitiche e delle meravigliose Alpi, più di una volto incontrai tanti fiori gialli come quelli del fiume, nati tra i  boschi e le vallate. Quella visione mi ricorda una bellissima e significativa poesia di Romano Battaglia:

“C’è  un posto in cima al monte, fra   fiori

Gialli e bianchi blocchi di marmo,   dove   

Si vede il mare brillare nella sera che

muore . Fra odore di erbe selvatiche, dolci

Ricordi sciolgono il nodo alla gola che hai

Avuto nel giorno. C’è un posto in cima  al

Monte dove si       spegne la     malinconia 

Come il sole nel mare e ti senti libero perché

Sei tornato, ragazzo, a giocare fra le  cose

Perdute nel tempo”.

  In questa nostra nuova escursione, abbiamo compreso che camminare lungo la riva del fiume il tempo passa più lentamente. Si, é vero, il tempo sembra che si sia fermato fra la nebbia silenziosa che avvolge ogni cosa.

A Dosolo la spiaggia dei tesori.

Ritmando al piccolo villaggio di Dosolo, e ricordando  le avventure del vecchio fiume, ci vengono in mente moltissimi racconti fatti da pescatori,  barcaioli e raccoglitori di radici e di altri oggetti, quando il fiume é in secca come é successo quest’anno.  Le correnti e la secca mettono in luce numerosi reperti: da quelli bellici alle monete antiche.

Spogliando una ad una le pagine della Gazzetta di Mantova, inserite nel sito di Internet, di mercoledì 6 febbraio, alla pagina 17, leggiamo un articolo del corrispondente Francesco Romani, che ci da lo spunto per continuare il nostro racconto sul grande fiume della Vita: Il Po.

“ Dosolo é uno dei punti “magici” dove la corrente più spesso porta sulla spiaggia i reperti. “ La colpa é dei lavori a Guastalla” dice Gino Azzi, vecchio lupo di fiume. “ Prima della guerra costruirono il pannello, la massicciata sotto il pelo d’acqua che difende le sponde a fiume correggendo le curve,. Ma così facendo é cambiato il flusso a valle e adesso l’acqua spinge contro la sponda di Dosolo”. E proprio la corrente deposita ogni anno, durante le piene, decine di reperti che nei periodi di secca, come quello eccezionale di adesso emergono.

Le tracce della guerra.

“ Nemmeno due settimane fa, passeggiando sulla sabbia, Carlo Azzi, ha trovato un elmetto tedesco dell’ultima guerra mondiale: “ Aveva un foro di proiettile su un lato” spiega lo scopritore. “ L’ho portato a casa, ma é in cattive condizioni e arrugginito. Qui, durante la grande ritirata, i tedeschi passavano il Po come potevano. Ma non conoscevano la forza del fiume e la sua pericolosità e molti sono annegati”. Qualcun altro ha trovato anche un teschio ma é stato nuovamente sepolto sotto la sabbia. Nel vicino parmigiano, un barcaiolo scorto sotto l’acqua la torretta di un carro armato, ma come già sperimentato in passato ad Ostiglia, il recupero in ogni caso sarebbe estremamente complesso e necessiterebbe un grande dispendio di mezzi e denaro.

Il ponte medioevale.

“Pochi giorni fa, al culmine della secca, quando il Po si é ridotto ad un rigagnolo, sono emersi dalle sabbie i piloni di sostegno di un ponte, proprio di fronte al pontile degli Amici del Po. Si tratterebbe di un’opera medioevale, della quale si possono vedere i pali infissi riuniti a mazzo da un cerchio in ferro. Forse si tratta della testata di un ponte, visto che si sa che esattamente di fronte sorgeva il castello di Dosolo, una costruzione massiccia le  cui pietre sono servite da cava per l’edificazione del mastio di San Giorgio a Mantova.

La barca - museo del pittore.

“Poche decine di metri più a monte del ponte medioevale é l’Isola del peccato. Si tratta di un sabbione a forma di mandorla il cui nome si perde nella notte dei tempi e rimanda all’uso del luogo selvaggio, al riparo da occhi indiscreti, che ne avrebbero fatto i vicini guastallesi. Qui la magra ha messo in luce le parti del “ Ferrante Gonzaga”. Si tratta dell’imbarcazione in legno varata negli anni Trenta e trasformata in casa - museo galleggiante del pittore guastallese Giovanni Miglioli. La furia della iena dell’ottobre 2000 la disancorò dal Lido Po di Guastalla trascinandola a valle. Parte della struttura fu ritrovata a Riva di Suzzara ed ora il rimanente é emerso a Dosolo. Il problema del recupero si preannuncia difficoltoso in quanto le piene primaverili dovrebbero por termine alla secca. La corsa contro il tempo é già iniziata.

L’albero dell’età di Cristo.

“Nel borgo di Dosolo, abbiamo appreso dell’albero dell’età di Cristo,  del quale ne abbiamo trovato corrispondenza nel sito della Gazzetta di Mantova. Ma ne abbiamo voluto sapere di più. Lasciato il borgo di Dosolo, ci siamo immessi in una strada bianca che ci accompagna verso l’infinito, verso  le sponde del Po. Abbiamo trovato il vecchio albero. “ Ora fa bella mostra di sé sulla riva del fiume. Ma come una sorta di mummia di Similaun, prima di emergere dalle acque del Po nella primavera del 98, l’enorme tronco é rimasto a mollo circa 1800 anni. La datazione l’ha fatta l’Enea con il radiocarbonio situando il “decesso” fra il 130 ed il 430 dopo Cristo. Calcolando che l’albero aveva 250 anni alla morte, si può considerare contemporaneo dell’era cristiana. Pesante 230 quintali, per oltre 16 metri, il tronco non ha ancora una collocazione stabile. “Siamo disponibili a darlo alle istituzioni che lo vorranno conservare” dice Gino Azzi, uno dei primi ad averlo avvistato nel 98. “ Se rimane all’aria il legno rischia di marcire. Ricordo la fatica che abbiamo fatto per recuperarlo: tre giorni con 5 trattori per smuoverlo. La notte la corrente ce lo spostava sempre. Alla fine abbiamo dovuto fare un buco nella sabbia e infilarci sotto i carri da trasporto perché il tronco era troppo pesante da alzare. Sembravamo gli egiziani con gli obelischi” conclude ridendo. Ora il secolare  tronco é all’ombra della cattedrale dei pioppi, in attesa del risveglio della primavera. Ma lungo la riva del fiume, il tempo passa più lentamente che altrove.

La piroga del Po .

“ La scorsa estate, lo sconvolgimento rappresentato dalla piena di pochi mesi prima, aveva fatto emergere a Boretto (RE), di fronte a Viadana, un’antica piroga. Un tronco scavato, la cui datazione é ancora incerta. Recenti studi attribuirebbero il reperto, lungo una decina di metri, all’Alto Medioevo. Si tratterebbe o di un’imbarcazione oppure della parte di una zattera per trasporto merci o ancora un pezzo di pontile. Nulla di certo, insomma, tranne che il lungo tronco scavato ora si trova nella sede del Museo del Po, a Boretto, in attesa dell’apertura dopo i lavori di ripristino.

I cercatori di tesori.

“Al sabato e la domenica soprattutto decine di privati, alcuni con il metal - detector, affollano le spiagge della zona alla ricerca di qualche ritrovamento. Dalla sponda cremonese - mantovana a quella  parmigiana gli appassionati setacciano la sabbia alla ricerca di ogni indizio che possa portare alla “ scoperta”. Pezzi di anfore romane, vasellame medioevale e rinascimentale, monete non sono rare da trovare lungo il corso del fiume che attraversa la pianura più ricca ed abitata d’Italia. E diversi privati in casa hanno piccole collezioni di antichità o curiosità. Chi non partecipa a queste “cacce al tesoro” sono gli archeologi. Lo spiega Antonio Anghinelli, di Viadana, cercatore da decenni:  “ Le nostre ricerche avvengono solo in luoghi fissi. Solo così si può studiare la stratigrafia e quindi capire la collocazione storica. Non ha senso indagare un reperto trasportato dall’acqua”. I fratelli Anghinelli, li abbiamo conosciuti molti anni fa, é precisamente negli anni Ottanta, quando noi eravamo di stanza  a Gazzuolo, quali comandante di quella stazione Carabinieri. Ricordo di averli conosciuti nella periferia di Belforte, sulle rive dell’ex lago Gerundo, dove per centinaia di anni, hanno abitato delle tribù di pastori scesi dalle Arobbie. In quella località, negli scavi da loro praticati, sono emersi diversi focolai, dove quelle popolazioni primitive, cuocevano le loro vivande. Lì, hanno  rinvenuto molto materiale archeologico, che oggi si trova nel Museo di Mantova.

Quindi? Avanti con i cercatori. A San Daniele Po, nel Cremonese hanno trovato due femori di bisonte e poco più su una mandibola di “elephans primigenitus”, cioè il primo discendente dei mammuth. Buona fortuna.

Il nostro viaggio, alla scoperta delle spiagge del grande fiume, finisce qui, vicino ad un cascinale abbandonato lungo la riva della memoria. Ma un filo sottile di nebbia bassa e silenziosa sembra avvolgere ogni cosa, ma la storia del grande fiume della vita, rimane sepolta sotto una soffice coltre bianca di sabbia  che attutisce e addormenta la madre Terra.

Il grande scrittore tedesco Hermann Hesse, così scrive del fiume ..... “Serenamente contemplava la corrente del fiume; mai un’acqua gli era tanto piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il significato dell’acqua che passa. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirli, qualcosa ch’egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui”.

Anche a noi, il grande fiume della vita, ha dato la stessa sensazione che ha provato il grande scrittore Hermann Esse. Guardando lo scorrere perenne del  grande fiume, ci pareva che avesse qualcosa di speciale da dirci, qualcosa che noi non sapevamo ancora, qualcosa che da tempo cercavamo ed aspettavamo di conoscere  proprio da lui. Ci sono momenti nella vita di ognuno di noi che ci sembrano carichi di significati: messaggi che ci sarebbero difficili comunicare agli altri, definire, tradurre in parole, ma che appunto ci si presentano decisivi. Sono annunci e presagi che riguardano noi stessi e il mondo insieme: e di me  non gli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d’essere generale di tutto. Comprenderete dunque la mia difficoltà a parlare, a scrivere, a raccontare, se non  per accenni.

Romano Battaglia, così scriveva: “Addio fiume, io mi fermo qui, al confine tra terra e  mare”, mentre noi diremo, ci fermeremo qui, lungo la riva sabbiosa del fiume, dove é sepolta la storia dei popoli e del tempo, dove il tempo passa più lentamente che altrove, quasi come lo scorrere delle sue acque.

“Il tuo ricordo sarà sempre con me:

Passerà il tempo e del fiume rimarrà solo

Un segno o una voce che giunge dall’infinito.

Quando non si udranno più le sue

Parole a guidare il nostro cammino, allora

Anche noi diventeremo un sogno, il

Grande sogno del fiume della vita”.

 

 

 

 

 

L’ALTOPIANO DI ASIAGO:

DA QUI E’ PASSATA LA GRANDE GUERRA.

10 febbraio .

Spesso, noi escursionisti, siamo come le tartarughe, ritorniamo sempre nei luoghi che ci hanno in qualche modo impressionati. Questi rettili di mare, hanno registrato  nel loro  DNA il viaggio, che una volta all’anno, effettuano nei luoghi prestabiliti, per depositare le uova e dare continuazione alla loro specie. Noi, invece, possiamo variare la stagione del nostro ritorno, ma loro no. Ritornano sempre nello stesso luogo e nello stesso periodo o addirittura nello stesso giorno.

In genere, nelle nostre escursioni, cerchiamo sempre località nuove e diverse, ma molto spesso si verifica, per motivi diversi, che ritorniamo nella stessa località, come é successo oggi. Oggi, siamo qui ad Asiago, una località storica a noi molto cara, perché da qui é passata la grande guerra, dove sono sepolte le radici del nostro passato. E’ una località a noi molto nota per esserci venuti diverse volte, ma ogni volta, ci sembra sempre la prima volta, per le sue meravigliose bellezze e per la sua particolare storia. E poi, Asiago, non é un luogo qualunque, é un luogo storico sito nelle Prealpi Vicentine, dove tra i forti Astico e Brenta, Cima Dodici ed il Monte Ortigara, vi si combatterono aspre battaglie nella guerra 1915 - 18.

Una guerra totale che coinvolse direttamente anche l’Altopiano di Asiago che, come noto, divenne teatro di alcune delle più sanguinose battaglie combattute sul fronte italiano: la così detta Strafexpedition (maggio - giugno 1916) che nelle intenzioni del Comando Supremo Austriaco doveva consentire alle truppe imperiali di raggiungere la pianura veneta attraverso il saliente trentino oppure l’Azione K, meglio nota come la Battaglia dell’Ortigara, con il suo altissimo tributo di sangue; e ancora la Battaglia di Natale 1917 e la Battaglia del silenzio ( giugno 1918) che, in particolare sui Tre Monti, segnarono la ripresa capacità offensiva dell’esercito italiano dopo a rotta di Caporetto.

Combattimenti che provocarono la morte di migliaia di soldati e che portarono alla devastazione pressoché totale dei boschi e delle colture, alla distruzione di paesi e contrade e con essi il prolungamento che costrinse le popolazioni ad abbandonare la propria terra e cercare conforto con la sola speranza di poter ritornare presto a ricominciare una nuova vita.

I segni di quell’immane conflitto, pur ad ottant’anni di distanza, appaiono ancor oggi in tutta la loro evidenza: dai resti delle trincee, dei ricoveri, dei centri logistici, ai ruderi degli impianti idrici, delle stazioni delle teleferiche; dalle rovine delle fortezze, all’estesa rete viaria e, ancora, ai cimiteri, alle lapidi ed ai monumenti che ricordano le migliaia di soldati caduti sull’Altopiano. Un patrimonio che proprio sull’Altopiano assume un rilievo del tutto eccezionale e che, pur ad ottant’anni di distanza, manifesta ancora una straordinaria forza evocativa.

E’ in questo contesto che é nata l’idea di predisporre una carta turistica espressamente dedicata ai “ luoghi della Grande  guerra” con l’obiettivo di evidenziare e rendere leggibili quei segni che risultano in gran parte incomprensibili anche a causa della mancanza di una adeguata segnaletica. Ma noi del gruppo CAI di Mantova, seguendo  la  segnaletica nota a tutti gli alpinisti, tracciata sulle rocce dei sentieri,  con i colori rosso - blu, riusciamo sempre a raggiungere  la meta.

Nell’autunno di due anni fa, nel mese di settembre, siamo saliti fin sopra la cima del Monte Ortigara, ripercorrendo il sentiero scavato nella rocciosa montagna dai nostri valorosi Alpini, per combattere il nemico di sempre: quello austriaco. Abbiamo visto sventolare al vento il tricolore sull’alto pennone del Monte Lozze,  dove una squadra di vecchi alpini, ogni giorno, effettuano l’alzo bandiera , per ricordare e non  dimenticare mai il valore dei nostri soldati. Sulla rupe del Monte, sorge una cappella votiva, dove l’escursionista si ferma e piega il ginocchio e recita una breve preghiera in suffragio dei caduti. Se si dovessero analizzare quelle rocce, su  di ognuna di esse, sebbene sono trascorsi ottant’anni, vi troverebbero ancora il DNA dei nostri eroi caduti, perché quelle rocce sono state irrorate con il loro  sangue generoso, come pure le zolle dell’aspra e pietrosa montagna d’Ortigara.  Camminando fra i camminamenti, i fortini, i ridottini, le gallerie, i sentieri e i campi di mughi, possiamo trovare sepolta la nostra storia ed i ricordi lontani della Grande guerra. Ovunque, si possono trovare ancora cimeli e oggetti appartenuti ai nostri soldati. Incontrare questi luoghi e come incontrare l’Italia. Ed é incontrare l’Italia significa penetrare nella cultura, nella tradizione, nel modo di vedere e intendere la vita e il mondo propri di ciascuna zona di questa composita realtà socio - culturale che la nostra Italia presenta. Ma soprattutto significa riuscire ad eliminare più che il divario economico, la sostanzialmente assai scarsa comprensione e, quindi, la fondamentale difficoltà di un dialogo aperto e fecondo fra il Sud ed il Nord dell’Europa Unita, come pure quella del  Nord ed il Mezzogiorno della nostra penisola. Perché lassù, quando si combatteva, non c’erano soltanto uomini del Nord, ma anche ragazzi del Mezzogiorno e del Sud del nostro meraviglioso Paese.

Abbiamo fatto ogni sforzo per realizzare l’Europa  unita, stiamo facendo, e questa é già una  realtà, di tutto per realizzare quella economica con la nuova moneta: l’Euro, ma adesso dobbiamo fare un ulteriore sforzo  per realizzare l’Europa politica; si fa di tutto - e ben a ragione - per sensibilizzare soprattutto i giovani ad “ incontrare l’Italia e la nuova Europa”, quell’Europa senza confini, senza le disastrose guerre che ci hanno dissanguato e martoriato. Sono incisi in ognuno di noi i nomi di questi luoghi  che furono teatro di grande battaglie - Val Sugana, l’Altopiano di Asiago, Pasubio, Cima Dodici, Monte Ortigara - essi evocano le aspre battaglie combattute durante la prima guerra mondiale.

 Transitando per questi luoghi, ovunque, abbiamo visto un ossario, una lapide, un piccolo cimitero, una croce su un sasso ricordano l’immenso sacrificio di vite umane.

Scoprire e capire le più profonde radici della tradizione e della storia, é fondamentale sia per il Nord - onde possa comprendere e quindi, amare il Mezzogiorno -, sia per il Mezzogiorno stesso, onde possa “ritrovare se stesso”, la coscienza della propria natura, che é, in fin dei conti, la coscienza della propria storia. Gli storici e i politici si pongono ancora questi problemi, tra Sud e Nord, ma lo scrivente, che ebbi i natali nella Old Calabria, e che per oltre 40 anni, ha servito il nostro Paese, quale tutore della Legge,. non ha mai avuto di questi tentennamenti. Ha trattato tutti sullo stesso livello, perché sia nel bene che nel male, siamo tutti dello stesso Paese.

CENNI  STORICI.

Da un pieghevole che ci é stato fornito dall’Ente del Turismo di Asiago, leggiamo la storia dell’Altopiano dei Sette comuni, nel quale lo storico Patrizio Rigoni, così scrive: “ L’uomo sull’Altopiano: le selci e i graffiti della Valdossa sono le “ fonti mute” che parlano di una preistorica presenza umana sull’Altopiano, di una presenza comunque temporanea. Un afflusso probabilmente stagionale, dovuto alla caccia e al prelievo della selce ( quassù abbondantissima), buona per ottenerne raschiatoi, lame, grattatoi. La scoperta del villaggio del Bostel di Torzo ( 1781, Dal Pozzo) portò alla luce le tracce di un popolo stabilitosi ( forse per primo) su questi monti: casette interrate ed avanzi di stoviglie, manufatti di ferro e di bronzo, monete d’argento ( di conio romano), ossa di animali ecc. Altri segni di insediamenti precristiani sono stati trovati a Luisiana ( Corgnon) e ad Enego, con richiami frequenti alla civiltà romana.

La parlata cimbra é attualmente il documento più evocativo delle origini della gente altopianese. Da chi discende la gente che ancora oggi usa correntemente termini come rach ( muschio), rasetle ( scricciolo), loch (buca), tanna ( abete bianco), pach ( rigagnolo), slenca ( fionda), tal  ( valle),  grabo  (fossa)......? Una lingua simile al tedesco. L’Altopiano, territorio un tempo pressoché impraticabile e selvaggio, é stato certamente luogo di ripiego e di rifugio per frange di tribù e di popoli che negli inquieti secolo post romani, varcarono le Alpi. Immigrazioni tuttavia germaniche e, tra le ultime ( subito dopo il Mille) famiglie di coloni bavaresi, alla ricerca di terre da disboscare, bonificare e da coltivare. Quassù, al sicuro, hanno riordinato la loro vita e mantenuto nel tempo la lingua e i costumi originari. La parlata cimbra é dunque riferibile ad un dialetto tedesco, o meglio, bavarese.

I primi centri a formarsi furono Torzo ad ovest ed Enego ad est, in corrispondenza cioè dell’avanzare della colonizzazione del territorio dai bordi verso il centro. Sorsero via via gli altri, Gallio - Foza - Roana - Lusiana - Asiago, e divennero ben presto Comuni, “ protetti” dapprima dagli Ezzelini, dagli Scaligeri e dai Visconti poi (1400), dai quali ottennero pascoli  e privilegi economici necessari alla sopravvivenza in una zona montana come questa. In tale periodo l’unione fra i Sette Comuni si rafforzò sino al patto della Reggenza ( 1310) che permise l’autonomia politico - amministrativa ed una propria milizia. L’insegna ideale che la sosteneva e guidava, sembra racchiusa nelle parole: “ Dise saint Siben, Alte Komeun, Prudere liben”: Questi sono i Sette  Antichi Comuni, Fratelli Cari.

Nel 1404, la Federazione dei Sette Comuni s’alleò volontariamente alla Repubblica di Venezia, in una fedeltà che durò per quattro secoli ( 1807). Venezia garantiva le esenzioni e i privilegi indispensabili alla Reggenza e le richiedeva la salvaguardia dei confini settentrionali ( (importanti strategicamente), impegno che costò ai Comuni, nel tempo, saccheggi e devastazioni a più riprese (1487), 1508, 1805) eppure episodi di tenace vittoriosa difesa.

Nel 1631 la peste, che desolava l’Alta Italia, raggiunse anche Asiago, cagionando 1500 morti ( Lazzaretto). Con la rivoluzione francese e Napoleone , Venezia decadde ed anche la reggenza. Si passò  poi sotto l’impero austriaco ( 1815) e vennero cancellati di colpo i benefici fino ad allora goduti, sostituiti di contro da tasse ed imposte, che portarono via via l’Altopiano ad un’economia di pura sussistenza. Da qui l’emigrazione verso le regioni più promettenti d’Europa e d’oltre oceano. In una delle piazze di Asiago, nella nostra escursione nella cittadina, abbiamo potuto ammirare un piccolo e significativo monumento in bronzo, dedicato appunto all’emigrazione: una piccola famiglia, padre, madre ed un bambino, ognuno con un piccolo fagotto, che raggiungono  il luogo di partenza.

 Nonostante le difficoltà, apparvero i segni del progresso moderno, con opere pubbliche, i primi alberghi e le banche, nuove vie di comunicazione interne e con il piano. La Legione Cimbrica ( forse 800 soldati) sorta nel fatidico 1848 e che contribuì a contenere l’avanzata degli austriaci, comprova la partecipazione dell’Altopiano al risorgimento. Parecchi volontari inoltre presero parte alla II’ guerra d’indipendenza e alla spedizione dei Mille.

Nel 1866 ci fu l’annessione all’Italia. Ad un maggiore collegamento interno contribuì efficacemente la costruzione del ponte sulla Valdossa (1906) e, con la pianura, la realizzazione dell’ardita ferrovia a cremagliera (1909). L’emigrazione però continuava, anche se cominciavano nuove attività ( estrattive, della distillazione ecc.) La I’ guerra mondiale, con l’Altopiano zona di confine, é stato l’evento più tragico e disastroso della sua storia, per la distruzione totale degli abitanti e del patrimonio forestale e per l’esodo della popolazione. Il distacco e la dispersione dei nuclei familiari ha causato lo “ sdradicamento ” dalla propria terra, un allontanamento affettivo e culturale dalle conseguenze quasi irreversibili. Al ritorno, la ricostruzione: paesi nuovi ma meno caratteristici. Dopo la ricostruzione, ancora disoccupazione ed ancora emigrazione in un alternarsi che proseguirà, purtroppo, anche nel secondo dopoguerra, perché le attività tradizionali erano sempre insufficienti a garantire una crescita rispondente alle nuove esigenze vitali. Verso gli anni  Sessanta sé quasi di colpo intensificata l’attività turistica con la costruzione di ville ed appartamenti, di impianti sportivi e di tutto quanto comporta l’industria del tempo libero. Tutto questo, nel nostro girovagare per i villaggi del comprensorio, é una realtà tangibile, che noi abbiamo potuto constatare. Tutto ciò ha prodotto una profonda trasformazione sia economica che sociale e soprattutto culturale che costringe all’impegno di conciliare le attese di un giustificato benessere con la necessità di salvaguardare la bontà del territorio e l’identità culturale trasmessa dalle passate generazioni.

L’Altopiano dei Sette Comuni.

Oggi, 10 febbraio 2002, siamo ritornato in questa ridente località bianca di neve e riscaldata da un tiepido sole invernale, per trascorre una giornata diversa da  quelle padane, oscurate dalla  fitta nebbia che ti fa mancare il respiro ed ostacola la circolazione stradale, senza parlare poi, dello smog. Il lamento é retorico: si deplora lo smog come si deplora un assassinio, perché non deplorarlo apparirebbe sconvenienza. Ma una flebile riduzione del traffico é temuta più dei veleni sospesi e ogni chiusura temporanea di un’industria che appesta una città provoca rivolte popolari.

Ma noi, quando possiamo, cerchiamo di evadere da questo stato di cose. Ma questo desiderio di purezza, di pulizia, di verità, questo bisogno di dimenticare l’ossessione del quotidiano lo proviamo anche noi. Per questo andiamo in campagna, cerchiamo le isole tropicali, per questo i giovani si tuffano nell’eccitamento della discoteca, per questo alcuni si dedicano alla meditazione ed altri riscoprono la vita religiosa nei movimenti del risveglio dello spirito. Per sollevarci, almeno  provvisoriamente, sopra la palude mefitica che ci risucchia e respirare un’aria più pura, vedere un cielo più limpido, in contatto con qualcosa di nobile, di splendente, di vero, come questo paesaggio meraviglioso di Asiago.

  L’Altopiano dei Sette Comuni, dove oggi ci troviamo si estende tra la Val Sugana e la pianura vicentina. Questo é un vasto pianoro ondulato, inciso da numerosi torrenti. E’ appunto, l’Altopiano di Asiago, detto anche “ dei Sette Comuni” poiché, dopo l’età feudale, come ci spiega la storia, le genti della regione diedero vita a una libera confederazione tra i comuni di Asiago, Roana, Rotzo, Lusiana, Foza, Enego e Gallio che durò fino al 1807. Da Tiene si risale la Val d’Astico - dominata, sopra Tonezza del Cimone, dall’Ossario degli Alpini - fino a Lavarone ( interessante il forte Belvedere, esempio di ingegneria militare della grande guerra). Da qui si entra nell’altopiano vero e proprio, attraversando dapprima terreni carsici e poi vasti boschi e pascoli. Superata Asiago, si può piegare verso Bassano del Grappa oppure proseguire fino al Brenta, che in questa zona scorre profondamente incassato in una stretta valle dalle pareti ripidissime, chiamata “ Canale di Brenta”, che separa l’Altopiano dei Sette Comuni dal massiccio del Grappa.

Questa volta, non siamo saliti fin quassù con il gruppo CAI di Mantova, come al nostro solito, ma con gli amici del Circolo CRAI dell’APAM di Mantova. Con questa organizzazione, non é la prima volta che andiamo in gita nelle velli innevati, ma ci siamo stati altre volte  sulle località montane. Oggi, hanno scelto la cittadina di Asiago: una località turistica molto nota, al centro dell’Altopiano . Parlando di Asiago, diremo che  é stata distrutta nel 1916 dalla furia della guerra: un ossario sul Colle di Laiten accoglie le salme di 13. 000 caduti, italiani e austriaci, uniti nell’ultimo sonno. Dalla frazione Sasso una caratteristica scala di pietra con (4444 gradini) costruita nel 1480 scende al Brenta.

Questi ambienti alpini contraddistinti da numerosi ed evocativi toponimi suscitano sottili curiosità semantiche sui luoghi visitati od attraversati; interrogativi si pongono ai visitatori più attenti lungo l'Altopiano, intorno agli ossari, ai forti e alle trincee o alle propaggini delle montagne, oppure contornando le celebre cime come quella dell’Ortigara o del Monte Lozze  e del Monte Forno.

Ambienti tutti ricchi di storia e di suggestioni, riuniti da sempre nel magico ambito del regno di Asiago. Per introdursi in queste gruppi e località montuosi, non a caso definiti “ monumenti del mondo” occorre saper ripercorrere, fra inebrianti bellezze, le echeggianti rievocazioni di storiche vicende e le singolari avventure della guerra e d’alpe, insinuarsi nelle pieghe di una altura affascinante quanto remota, dove sempre aleggia lo spirito senza tempo delle leggende alpine.

La leggenda di Tiziano

Parlando di montagne e di luoghi meravigliosi come questi dell’Altopiano di Asiago, ci vengono in mente i Monti Pallidi, che pensandoci bene, non sono molto lontani da qui, basta salire sulle cime più alte per ammirarne il loro profilo. Chi abbia visto anche una sola volta lo spettacolo delle Dolomiti può comprendere come sia nata la leggenda secondo cui Tiziano Vecellio intingesse i suoi pennelli nell’arcobaleno dei Monti Pallidi. Il pittore di Pieve di Cadore, una delle figure più rappresentative della pittura italiana del Cinquecento, si formò artisticamente a Venezia ma é lecito pensare che il suo personalissimo stile, caratterizzato da un acceso cromatismo, sia stato influenzato dalla natura e dai colori del Cadore. Ce lo confermano precise annotazioni nelle sue tele, come nel caso della Presentazione al tempio ( Venezia, Galleria dell’Accademia), in cui, profondo e arioso, compare sullo sfondo un paesaggio montano delle Dolomiti.

Qui, nell’Altopiano di Asiago, non ci sono le Dolomiti che ci fanno da sfondo, ma una meravigliosa cerchia di montagne altrettanto bellissime, che incoronano il paesaggio dei Sette Comuni in un unico abbraccio. Dal rifugio Frubelek, dove noi ci troviamo, e che é situato a 1500 metri di quota,  e che sorge nella frazione di Cauna di Roana, si domina un paesaggio  favoloso, che meriterebbe di comparire come sfondo di un quadro d’autore del Cinquecento.

La descrizione che fa Francesco Carrer, dei Monti Pallidi, la potremmo ambientare benissimo in questi luoghi che circondano l’Altopiano di Asiago. Egli, così scriveva dei Monti Pallidi: “Nell’arco delle numerose giornate proposte sullo sfondo dell’ “enrosadira”, immergendosi fra evanescenti tonalità di rosso e di rosa, con lo sguardo intento a decifrare le frastagliate quinte rocciose di dolomia, capiterà di frequente, anche dietro l’angolo di rinomate stazioni sciistiche di riflettere sulle magre sussistenze di un tempo, sulle lontane tracce dei pastori, sulle ardite vie dei cacciatori e degli alpinisti.

“Dalle propaggini delle pietrose montagne, dei fitti boschi che sorvegliano i dolci e sinuosi prativi d’alta quota, luoghi dove “ l’altezza in sé non sempre é importante” ritornano ancora attuali le annotazioni, pur nei diversi luoghi alpini dove i monti parlano, del grande alpinista Giulius Kugy: “.... Risuonano i richiami dei falciatori e delle falciatrici, delle donne.... che portavano di malga in malga, di alpe in alpe così sonori e limpidi sulla valle... da una parte all’altra..... il sole che cantava. Anche questa é la montagna che non mi ha mai abbandonato, la montagna che riscopro sempre”.

Dopo lunghe giornate, interminabili settimane e forse anche mesi,  di nebbia stagnante, di una nebbia fredda e umida che ti penetra persino nelle ossa, finalmente, possiamo godere di una giornata di pace  e soprattutto  di sole, in questo paradiso terrestre. La Valle Padana, si sa, d’inverno é così, non si può cambiare, perché é dentro la sua natura, come é dentro il DNA della sua gente. Questa é la patria, se lo volete o no, della nebbia opprimente ed ossessionante da sempre.

Appena superato il grande costone che separa la pianura Veneta dall’Altopiano, si respirava un’altra aria: un’aria pulita e salubre. Non poteva mancare il cielo azzurro e sereno, il sole tiepido e   splendente. Insomma, quello era un altro mondo. Ma se guardavi dal finestrino del grosso torpedone, ti accorgevi che sotto di te, nella grande pianura, vi era il limbo, quel limbo dantesco di lontana memoria. Qualcuno, non ricordo chi fosse, forse una signora che era seduta dietro di noi, ha detto: “ Guardate  laggiù, il lago immobile e grigio”. Quello non era il lago, perché da quelle parti non c’è nessun lago, ma era la nebbia stagnante che copriva ogni cosa e, alla signora, dava la sensazione di un  grande lago. Quella era una visione di cose naturali che spesso sembrano reali ma spesso sono allucinazioni, che colpiscono particolarmente e suscitano meraviglia.

Prima di giungere ad Asiago, abbiamo attraversato un paesaggio collinare stupendo, un paesaggi caratteristico imbiancato di neve. Se ci fossero stati  al posto degli abeti i lunghi filari di cipressi, avremo potuto pensare di essere in Toscana, in quella terra antica e meravigliosa, che é a noi familiare. Ma i meravigliosi cipressi, li abbiamo trovati anche ad Asiago, lungo il viale che sale a Monumento Ossario.

 

 

 

IL SACRARIO

Alle ore 10 circa, il nostro pullman, si é fermato nel grande piazzale di fronte al palazzetto del ghiaccio. E gli escursionisti ci siamo sparpagliati per la cittadina di Asiago. Ma un piccolo gruppetto, quelli di Campitello, ed altre persone ci siamo diretti  verso il Sacrario. Non c’era posto migliore  dove costruire il grande  Monumento: il Colle Leiter sovrasta la piccola cittadina, da dove si osserva un paesaggio stupendo. Dal vertice del Monumento, sotto l’arco quadriforme, da dove l’occhio spazia per un raggio  di trecento sessanta gradi, una  cerchia di montagne e colline imbiancate di neve, che furono teatro della Grande Guerra.

Si sale una scalinata in marmo bianco e  nella piattaforma, che delimita il Mausoleo, vi sono sistemati quattro cannoni, con relativi affusti, che fanno la guardia d’onere alle migliaia di caduti, che riposano in pace nel sonno eterno della resurrezione.

Dall’ampio vestibolo con grandi pilastri a tutta volta partono le de gallerie perimetrali e la crociera. Al centro della cripta c’è la cappella ottagonale nelle cui pareti di marmo Cipollino sono tumulate le Salme di 12 Medaglie d’oro e sopra i loculi sono incisi i nomi di altre 14 Medaglie d’oro. L’altare é di marmo Veronese, i loculi delle gallerie sono in marmo di Chiampo ed i contorni di marmo della Val d’Adige. Il pavimento é di marmo di Piombino Chiaro dell’Altopiano e la fascia di contorno é di marmo Nero sempre della Val d’Adige.

Le sculture dell’ingresso, quelle della cripta e le due Vittorie prospicenti Asiago e Gallio, sono dello scultore Prof. Tullio Montini di Verona.

Le due Vittorie verso l’acquedotto e l’Osservatorio Astrofisico, sono del Prof. Cav. Giuseppe Zanetti di Vicenza. Tali sculture sono tutte in marmo di Sant'Ambrogio Veronese.

I portoni sono in larice ricoperto da pannelli in rame sbalzato di tipo romano e sono dotati di speciali apparecchi di funzionamento e chiusura.

Il 23 Ottobre 1924 con regio Decreto é conferito ad Asiago il titolo di Città ed il nuovo Municipio é stato inaugurato alla presenza del Principe di Piemonte il 21 settembre 1929.

Nel Tempio Ossario di Asiago sono custodite oltre 60.000 Salme.

Per fatti d’arme, sull’Altopiano sono state concesse 43 Medaglie d’oro personali e 10 a Reparti.

I caduti sono catalogati in 41 Cimiteri: 24.285 Italiani; 23.647 Austriaci: 723 Inglesi; 280 Francesi.

BREVI CENNI SUL GRANDE

MONUMENTO OSSARIO DI ASIAGO.

Presso il Museo Storico della Grande  guerra 1915 -1918, che ha sede in Canove, abbiamo ottenuto dalla custode: una simpatica e carina signorina bionda, un pieghevole, nel quale, oltre ai dati della realizzazione del Museo della Grande Guerra, contiene anche brevi cenni sul grande Monumento Ossario di Asiago.

“ I primi contatti per l’erigendo Monumento Ossario di Asiago, avvennero in Prefettura a Vicenza il 18 Settembre 1928.

Il 1’ Aprile 1931 venne accettato il progetto dell’Architetto Prof. Orfeo Rossato di Venezia.

Il 28 Dicembre 1931, fra 14 concorrenti, vince l’appalto dei lavori l’impresa veronese Cav, Guglielmo Roncari, con Direttore dei lavori l’Ing. Giuseppe Roncari.

L’importo dell’appalto fu di Lire 4.300.000.

Il 12 Febbraio 1932 fu deliberato dal Comune di asiago lo sbancamento del Colle Leiter e la costruzione delle strade fino al cantiere nonché le condutture per l’acqua fino all’altezza sufficiente per alimentare 2 serbatoi e il drenaggio di scolo di tutta l’area del Monumento.

La prima pietra fu posta il 19 Agosto 1932.

Il 10 Ottobre 1936 l’impresa costruttrice consegnava l’opera al Commissario del Governo.

 

 

LE MISURE

La cripta é a base quadrata di m.80 di lato e m.7 di altezza, l’avancorpo della scala é di m.12 X 40 e la soglia principale é a m.1044 s.l.m..

L’arco quadrifronte ha il lato di m.23 e le arcate sono larghe m.9 ed alte m.22. L’altezza totale é di m.47.

Il materiale utilizzato fu estratto da 15 cave su un raggio di 20 km.

LA CITTADINA DI ASIAGO.

Dopo la visita doverosa al Sacrario, abbiamo ripercorso a ritroso il viale, che qualche ora prima, ci aveva portato sul Colle Leiter, dove sorge appunto, il Grande Monumento Ossario. L’appuntamento con il resto della comitiva era stato fissato per le ore 11,30, per poi proseguire verso il rifugio Rubelek, che sorge  a metri 1220, nella frazione Cesuna di Roana. Quindi avevamo tutto il tempo necessario per una visita alla Città di Asiago.

Asiago, é una cittadina simpatica, accogliente, linda e deliziosa ,e quell’imbiancata di neve la rendeva maggiormente caratteristica. Una sosta in un piccolo Bar, per un caffè e un’ “ombretta”, come si dice da quelle parte, nel loro dialetto veneto. Dopo il Bar, la passeggiata nel centro, e le piccole soste davanti ai negozi,  con le loro belle vetrine. Ma non poteva mancare una breve visita al Duomo, per una breve preghiera di ringraziamento, piegando il ginocchio per devozione davanti all’Altare Maggiore. Prima di raggiungere il luogo d’attesa, dove c’era in sosta il nostro torpedone, una breve visita al Museo della Guerra, e poi, su verso Cesuna, dove ci attendevano per il pranzo.

IL RIFUGIO TRUBELEK.

Da Asiago, una strada stretta, una strada di montagna, sale dolcemente verso il promontorio di Monte Zovetto, dove sorge il Rifugio Trubelek, a quota 1220 metri. Di lassù, si domina un paesaggio meraviglioso, da dove l’occhio spazia fra orizzonti lontani e i luoghi  che furono teatro  della Grande guerra. Il Monte Ortigara, é posto in centro della cerchia degli altri monti a noi noti, per esserci stati più volte con i nostri amici del CAI di Mantova.

Appena giunti sul Monte Zovetto, alcuni del nostro gruppo, specialmente le donne, attratte dall’allettante posizione soleggiata dei luoghi coperti di neve, preferivano sdraiarsi al sole per prendere la tintarella, invece che entrare nel rifugio per il pranzo. Il sole era caldo ed invitante, e poi, oltre al sole e la neve, c’era la vista paesaggistica dell’intera  vallata. Si, é vero, vedendo questi posti da sogno, ti viene voglia di dire: Non c’è bisogno di andare nelle isole felici, nelle isole tropicali, per trovare il sole e soprattutto la serenità dello spirito. Basta salire fin lassù, nell’Altopiano di Asiago, per ritrovare la luce, la pace ed il tiepido sole invernale.

 Sotto tale evocativa luce, con rinnovati stupori, diventa ancora riscopribile, anche nella stagione delle nevi, l’Altopiano di Asiago, con le sue montagne i suoi tramonti, i suoi pascoli, gli scoscendimenti, i riposanti pianori con le sue malghe, i suoi rifugi, oltre a tanti altri segreti microambienti distribuiti nelle pieghe delle dorsali.

Gli altri anni, con l’organizzazione dell’APAM, siamo stati a Ponte di Legno e a Moena. In entrambi le località, gli organizzatori, hanno impiantato una grossa tenda da campo con le cucine  e le varie attrezzature, per preparare la polenta , le salamelle e le costine alla griglia ed il vino brûlé. Quest’anno, non é stato così, non ce stato bisogno del tendone e delle altre attrezzature, perché si sono appoggiati al Rifugio “ Trubelek” di Monte, Zovetto, che hanno pensato loro a confezionare il pranzo per tutta la comitiva. Però, mancava qualcosa, mancavano le grosse pentole con il profumato vino brûlé.

Non é stata una  gita qualunque, é stata una vera festa sociale, una festa come quella che facciamo con il CAI, alla fine della stagione escursionistica.  Il Rifugio “Trubelek” é il vero e proprio rifugio alpino fatto esclusivamente  per gli escursionisti e per gli sciatori di discesa, posto a quota  1220 metri, dove la natura qui é ancora pura e incontaminata. E’ meta preferita e punto d’incontro della maggior parte  degli escuirsionisti che riscoprono il fascino della montagna innevata e il piacere di una allegra compagnia.

Quest’anno, siamo stati fortunati. Ovunque, in questi ultimi giorni, é caduta tanta neve, una  nevicata attesa, non solo dagli escursionisti ed amanti della montagna, ma soprattutto dagli operatori dello scii.

Oltre agli amici e conoscenti di Mantova, i soci del Circolo CRAL, vi é la squadra dei Campitellesi, gli amici di sempre, quelli che il 27 gennaio u.s. siamo stati al “ Fondo Piccolo di Folgaria”, dove abbiamo trascorso una meravigliosa giornata fra quelle montagne appena spruzzate ed imbiancate di neve fresca. Oggi, non é  che ci siamo allontanati di molto, perché le montagne di Folgaria, sono le stesse che cingono l’omonimo altopiano circondato   di boschi  che ricoprono le pendici del Monte Cornetto, ove vi sono molte possibilità escursionistiche, come quelle ai forti  austriaci e alla torbiera di Echen. Proseguendo sulla SS.  Nr. 350, che porta al Passo Coi, da dove prosegue sull’Altopiano dei Sette Comuni, fino ad Asiago. Quindi, possiamo dire, che la distanza é  breve. Dopo questa premessa, veniamo al clou della nostra giornata sul Monte Zovetto.

Appena giunti al Rifugio “ Trubelek”, si sentiva nell’aria un profumo allettante di carne arrostita alla brace: un profumo che sollecitava le nostre papille gustative, quelle della lingua, atte a percepire i sapori, e già prima di assaporare quelle delizie culinarie, il nostro stomaco , mediante l’acquolina in bocca, li digeriva  prima ancora di  introdurle. Appena entrati in quel locale, che probabilmente un tempo lontano, era stato adibito al ricovero degli animali ed ai pastori, é stato trasformato in un accogliente rifugio: un rifugio dove l’escursionista  possa trovare  riposo e ristoro.  C’è un tempo in cui l’uomo ha bisogno di incontrare altri suoi simili, con i quali trascorrere attorno ad un desco, un momento di riflessione e anche e soprattutto, un momento per rifocillarsi e riposare le sue membra stanche. Quando la malinconia ci travolge l’anima, quando ci sembra che nulla abbia più un senso, a chi possiamo rivolgerci? A che cosa possiamo aggrapparci per non venire travolti dallo sconforto? E’ in questa situazione, la cosa migliore é trovarsi in un luogo come questo, con gli amici, le persone care per stare insieme  e ritrovare l’allegria perduta. Un vecchio proverbio dice:  l’allegria é la contentezza e la gioia di stare insieme. Ogni tanto, concedersi una giornata di allegria con gli amici é il massimo che l’individuo può aspirare.

IL rustico locale.

Appena  entrato in quel locale, mi ha dato la sensazione di essermi trovato in una bolgia: l’ottavo cerchio dell’inferno dantesco: luogo chiuso e afoso dove l’aria é irrespirabile e dove c’è anche un baccano infernale.

Al centro della grande sala, vi era un grosso camino, un camino che poteva essere definito la ciminiera di una fornace, tanto era grande. Aveva quattro lati ed alla base di questi lati, vi era un’apertura circolare come quella che  avevano i vecchi forni a legna  per cuoceva il pane. In ognuna di queste aperture, vi era una grossa griglia in ferro, sopra la quale si stavano cuocendo  le braciole, gli stinchi e le salamelle. L’aria non era irrespirabile, ma  il profumo della carne arrostita era piacevole. Quello che c’era  e sovrastava ogni cosa, era il chiacchiericcio prolungato e sommesso  dei numerosissimi astanti. Attorno ai tre lati del grande camino, una fila di tavoli apparecchiati ed i clienti che aspettavano il pranzo. Nella parte anteriore, vicino all’entrata  del locale, vi era il bancone del Bar, dietro il quale i locali della cucina e la stanza dei servizi.

La nostra comitiva, oltre ottanta persone, é stata sistemata nel locale attiguo: un locale rettangolare della capienza di oltre cento persone. Nei dieci lunghi tavoli, sistemati come i banchi di una chiesa, con ai fianchi e di fronte, tre grandissime finestroni  attraverso i quali, si poteva osservare una veduta meravigliosa del paesaggio sottostante.  Mentre attendevamo che ci servissero il pranzo, Adriana mia moglie, mi ha detto: “ Diego, guarda quelle finestre, non ti sembrano tre meravigliosi quadri di un grande autore del Settecento? Si, aveva veramente ragione. Più che dei quadri, ti dava la sensazione di ammirare  ciascuna dei vari pannelli, dipinti a colori, che posti ai lati del palcoscenico di un teatro.

Il pranzo che ci hanno servito, non é stato un semplice pranzo, uno di quelli mordi e fuggi, ma un pranzo pantagruelico, degno di Pantagruel, personaggio di F. Rabelais ( 1494 -1553), descritto come un gran mangiatore e bevitore.

Le portate sono state numerose, come quelle di un pranzo di nozze, soltanto che mancava la sposa e i confetti, ma per il resto era anche più ricco. In quella occasione, ci siamo, per così dire, trasformati in grandi divoratori, come  fu Pantagruel. Alla fine dei primi piatti, é giunto il momento della seconda portata: una  montagna di carne arrostita ai ferri, quella carne che abbiamo visto cuocere nelle graticola.

Quello non era un modesto pranzo turistico, ma una festa sociale, soltanto che mancava l’oratore. Le libagioni sono state anch’esse abbondanti, come pure il dolce finale e le bottiglie di grappa. In poche parole, alla fine del pantagruelico pranzo, eravamo quasi tutti se non brilli, molto allegri e felici di aver trascorso una meravigliosa giornata sull’Altopiano di Asiago.

I sentieri dell’Amicizia.

In questi convivi, in queste feste sociali, in queste passeggiate ed escursioni sui sentieri del nostro meraviglioso Paese, possiamo dire, e non c’è ombra di dubbio, che nasce la vera amicizia.

Il convivio di domenica, si potrebbe definire una festa da favola che ha sapore irreale, ma che nasconde la ricerca continua dell’uomo moderno che si trova confuso e smarrito in un universo di messaggi spesso contraddittori, alla ricerca della verità e della vera amicizia.

 Si, é vero, oggi non c’è più amicizia fra gli uomini, quell’amicizia di un tempo ormai   lontano.  L’amicizia é fragile. Non resiste alla sfortuna. Quando un amico viene accusato, anche ingiustamente, gli altri si allontanano. Non resiste nemmeno alla fortuna, perché chi ha successo spesso diventa orgoglioso, e chi resta indietro viene afferrato dall’invidia. L’amicizia dura solo se gli amici si impegnano seriamente a restare in rapporto, a capirsi, ad aiutarsi, ad essere reciprocamente fedeli.

Un vecchio proverbio dice che “ l’amicizia si deve coltivare. Cosa vuol dire? Vuol dire che, se sono veramente amico di qualcuno, non devo incontrarlo solo quando se ne presenta l’occasione, non devo parlargli solo quando mi chiama. Ma devo anche telefonargli per sapere come sta, cercare di capire se ha bisogno di qualcosa, essere pronto ad aiutarlo prima che lui me lo chieda.   

Nel mondo moderno, abbiamo compreso, che si é diffuso il principio morale che afferma: “ Sii spontaneo, agisci seguendo i tuoi impulsi, dii’ ciò che pensi. E’ sempre meglio la verità che l'ipocrisia. Se sei di malumore, non costringerti ad essere gentile. Se sei irritato, rispondi male. Se l’altro non ti piace, diglielo in faccia. Se non andate d’accordo litigate apertamente.

L’esaltazione della spontaneità é uno dei motivi del naufragio della coppia moderna. La vita di coppia é possibile solo se riusciamo a farci carico dei bisogni, dei sogni, dei desideri dell’altro. Io sono felice se mia moglie é felice, se si realizza nel suo lavoro, se ha successo. Sono infelice se mi accorgo che soffre, che é amareggiata, delusa, avvilita. Perciò cercherò di fare di tutto quanto posso per renderla contenta, per aiutarla ad esprimersi. Non posso porre al primo posto i miei impulsi, i miei malumori, i miei capricci.

E’ sbagliato contrapporre spontaneità e dovere. Io sono spontaneo anche quando  mi rendo utile agli altri, sia questi amici, familiari o semplici conoscenti.

La spontaneità della vita di coppia é come quella della danza. Quando vediamo danzare due ballerini, abbiamo una straordinaria impressione di naturalezza. Ma alla base di quella spontaneità e di quella grazia, non ci sono due spontaneità separate. Al contrario c’è la ricerca volontaria di un accordo, di una armonia, di una intesa perfetta che si realizza con un lungo studio, provando e riprovando. La spontaneità é il fiore che sboccia da questa convergenza delle volontà.

Quanto vale per la coppia vale, ancor più per l’amicizia.

 

 

 

IL PAESAGGIO NORVEGESE DI PASSO COE.

Domenica 17 Febbraio 2002.

Di tanto in tanto capita ad ognuno di noi di  sentire o leggere una parola, un detto  o un pensiero che ci colpisce particolarmente e che ci fa bene. Due espressioni m’hanno sorpreso ultimamente perché forti, sincere e piene di senso. La prima, di un amico ( un amico speciale e che mi porta in dietro di alcuni anni nel tempo, e mi fa rivivere momenti belli della vita, di quella vita vissuta  nel piccolo borgo medioevale di Gazzuolo:

 Il paese di Giovanni Nuvoletti, “che in fondo non era che una strada, tutto una lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto, di un nobile porticato e di tante dignitose casette”.

(Gazzuolo, un tempo  si apriva e si apre tuttora, in una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le continue bonifiche redimevano. Fra gli alti pioppi si alzavano i canti della antica pazienza, intrecciandosene qualche nuovo delle prime rivolte, un paese che diede lustro e potenza ai Sig. Gonzaga). Franchino Guizzardi, così si chiama il nostro amico, egli si esprime in questo senso: “ In gioventù, non pensavo a tante cose, ma ora che sono giunto all’età matura,  vorrei saperla accoglierla con la stessa paga serenità con cui si vive la sera dopo una giornata meravigliosa come questa, in compagnia degli amici di oggi e soprattutto di quelli di ieri.”

E’ senza dubbio una frase dettata da un animo quieto e fiducioso, di uno che sente d’aver orientato l’esistenza sulla strada giusta. Nella mia vita, ho compreso che  abbiamo un po' tutti bisogno di confidenze personali autentiche perché ci confortano e confermano nel nostro credo, nella nostra filosofia di vita. Ho compreso inoltre, che bisogna aprirsi all’amicizia, per essere felici, perché l’uomo del nostro tempo é solo e va sempre alla ricerca del tempo perduto e dei valori della vita che non ci sono più. Un vecchio proverbio così recita: “ Non é mai troppo tardi, per ritornare sui sentieri della vita , per  riscoprire le nostre radici”.

Patrizio Rigon, in un suo articolo così scriveva: “ Il tempo di vivere che ci é concesso, come la salute, le capacità, le risorse fisiche e spirituali, e senza dubbio, anche quelle economiche di cui disponiamo, sono capitali da “ spendere” per i vicini e i lontani, in nome di una fratellanza che non ha confini. La vita non é una vacanza, anche se c’è chi fa di tutto per farcelo credere. E’ il “mondo”, evangelicamente parlando, che tenta in cento mila modi di addomesticare la nostra fede cristiana, di renderla innocua, indistinta, equivocabile”.

La serenità a compenso della stanchezza di una operosa giornata su queste montagne e sentieri innevate, dove l’occhio spazia all’infinito: credo che sia questa in fondo anche la “paga” degli uomini del CAI che svolgono volontariato, di chi si  da fare - mente, cuore, mani - per alleviare, sostenere, confortare, soccorrere, aiutare, servire non importa chi. Tutto questo, secondo il mio modesto modo di vedere le cose, é vera amicizia.

La seconda, é la natura, questa natura meravigliosa che ti circonda e t’invita e ti ama: “riposati nel suo seno”, mi diceva un vecchio amico escursionista: uno che la montagna la conosceva molto bene, “ che essa ti apre sempre: quando tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso sole sorge sui tuoi giorni”.

Noi oggi siamo qui, su questi sentieri innevati, alla ricerca di noi stessi, alle ricerca delle nostre radici, alla ricerca  di un momento di riflessione e di felicità, circondati da vecchi e nuovi amici: gli amici di sempre. Parlando di montagne e di luoghi come questo, dove noi  oggi respiriamo a pieni polmoni, qualcuno ha scritto questi semplici ma significativi versi:

 “..... ci sono montagne che

 sfiorano il cielo come i

 sogni, e distese in cui

 tutti i sogni si perdono”. ....

Romano Battaglia, così scriveva: “ La vita stessa porta l’uomo a fare bilanci e ad accorgersi degli sbagli commessi, dei gesti mai compiuti, delle parole mai dette. Oggi siamo tutti presi dalla preoccupazione di vivere e in questa corsa con il tempo spesso dimentichiamo il piacere di esistere”.

Un tempo antichi Re si facevano seppellire sulla riva sinistra del Nilo, in una valle sassosa, vicino a Karnak, e sulle pareti delle loro tombe si leggevano parole cariche di nostalgia. Ma noi oggi non siamo sulla riva sinistra infuocata dal sole del vecchio Nilo, ma sui contrafforti pietrosi delle montagne del Trentino, dove ci sono seppelliti i generali, gli alpini e gli umili fanti del Sud d’Italia. Nel bianco e grandissimo Mausoleo di Asiago, neppure una settimana fa, abbiamo letto, uno ad uno i nomi degli eroi italiani  e anche di quelli austriaci, che hanno sacrificato la loro vita per il bene del nostro meraviglioso Paese e, per un’Europa libera e unita.

Questi sono i contrafforti folgaretani, da dove é passata la Grande Guerra, e dove si trovano barbicati i forti più famosi del Trentino.  Sull’omonimo Dosso prativo delle Somme, a quota 1670 m. in posizione splendidamente panoramica, si trova il forte Dosso. Sotto a strapiombo, si apre la valle di Terragnolo mentre di fronte si staglia l’ampio e maestoso massiccio montuoso del Pasubio, tetro di drammatiche vicende belliche.

Costruito negli anni 1907 - 1914, il forte era costruito da tre corpi di fabbrica collegati mediante gallerie scavate nella roccia. Una copertura di calcestruzzo e putrelle di ferro dello spessore di tre metri e mezzo proteggevano la struttura dai tiri delle artiglierie italiane dislocati tra gli anfratti del Pasubio e gli obici da 280 collocati al Passo della Barcola. L’armamento era di 4 obici da 100 mm, montati su cupole girevoli e da 22 postazioni di mitragliatrice. Uscito dal conflitto danneggiato ma sostanzialmente integro, venne distrutto - al pari degli altri forti di Sommo Alto e Chèrle  - negli anni Trenta per recuperare le putrelle d’acciaio che conteneva. Oggi si presenta come un ammasso di rovine ma é in corso di attuazione un progetto di recupero che renderà il forte più visitabile e più sicuro. Quando siamo entrati in questi forti, ci sembrava di visitare  le rovine dei Templi Greci e di quelli Romani. In un certo senso, si possono anch’essi definire dei veri templi: i templi della guerra.

A poca distanza da Passo Coi, dove noi oggi ci troviamo, sorge il Forte Chèrle, é uno dei forti maggiormente dirupato. Questo Forte era chiamato dagli austriaci Werk S. Sebastian. Da una piccola lapide murata in un angolo del forte, abbiamo appreso che fu costruito dal primo tenente Eugenio Luschisky. Forte Chèrle rappresentava il terzo caposaldo armato dell’altopiano di Folgaria. Era fornito da 6 obici da 10 cm montati su torrette girevoli, di un osservatorio blindato, di due cannoni da 60 mm e di una serie  di postazioni di mitragliatrice. La storia ci dice che sostenne un bombardamento intenso da parte delle artiglierie italiane del Forte Campomolòn. Tutt’oggi, i pascoli circostanti la fortezza mostrano i crateri lasciati dalle granate italiane, ultima testimonianza dell’inferno di ferro e fuoco che avvolse il forte nei giorni della grande offensiva. Nei pressi vi é la Scala dell’imperatore, una lunga scala costruita nel 1917 in onore dell’imperatore Carlo d’Asburgo in visita al fronte degli Altopiani di Asiago. Data la vicinanza con l’ex cimitero militare era chiamata anche la Scala dei morti. Nei pressi, si possono vedere ancora  i resti dell’ex ospedale militare  del forte.

IL FORTE BELVEDERE DI LAVARONE.

Proseguendo sulla dorsale panoramica sull’alta Val d’Astico, sull’altopiano di Luserna, sulle guglie di Tonezza e sull’altopiano dei Fiorentini, abbiamo incontrato il complesso fortificato del Forte Belvedere di Lavarone. La storia ci racconta che questo forte fu costruito tra il 1908 e il 1914 con il compito principale di controllare la Val d’Astico che si apre a strapiombo ai suoi piedi, Forte Belvedere é l’unica tra le sette fortezze edificate sugli Altopiani ad essere sfuggita parzialmente all’opera demolitrice degli anni Trenta, attuata dal regine fascista nell’ambito della campagna “Ferro alla Patria”.

Non poté essere comunque evitata l’asportazione delle torri corazzate ( cupole girevoli in acciaio di 20 cm di spessore), sostituite in seguito con delle copie in cemento.

L’armamento del Forte.

Oltre che sulla sua invidiabile posizione, Forte Cshwent basava la propria superiorità su un armamento di prim’ordine. Era infatti attrezzato con tre obici da 10,5 cm in torre corazzata, più due cannoncini da 80 mm e altri due da 60 mm; poteva inoltre contare su 22 postazioni di mitragliatrice. Era anche munito di un profondo fossato ritagliato nella roccia che rendeva vano ogni tentativo di attacco dalla sottostante valle dell’Astico.

Come rinasce il Museo di Forte Belvedere

Visitare Forte Belvedere restaurato e arricchito del nuovo museo sarà come seguire un racconto sulle vicende della Grande Guerra sugli Altopiani. L’allestimento museale, come scrive Maria Pace, Assessore al Turismo del Comune di Lavarone, previsto per il forte, prevede infatti una narrazione storico - didattica con immagini e reperti nelle sale maggiori del blocco casematte, movimentata e completata da allestimenti speciali in alcune sale: “ la trincea”, “l’infermeria”, “ il colore della guerra”, etc.

Tra le sezioni nelle quali il percorso si articola, corrispondenti ai piani della struttura centrale del forte, ovvero delle casematte. Le sale a pianterreno sono dedicate alla storia del Forte dalle origini al restauro in corso. Il primo percorso si conclude con la sala dedicata alla storia della comunità di Lavarone durante il conflitto.

Al primo piano vengono delineate le operazioni militari e gli eventi bellici che videro protagonisti gli Alpini, inseriti nel più ampio contesto della guerra italo - austriaca. Viene dato spazio anche alla storia di guerra del forte e ella sua guarnigione e a una rilevante sezione espositiva riservata alla guerra di montagna, la cosiddetta “ guerra bianca”. Il secondo piano é dedicato alle tematiche generali della prima guerra mondiale. Si tratta di una sezione didattica che comprende le cause e una sintetica cronologica della guerra europea, con approfondimenti riservati alla vita dei combattenti in trincea, alla “ guerra industriale”, alla propaganda e alla memoria del conflitto. In questo contesto si inserisce la ricostruzione di una trincea: qui il visitare si può rendere conto, per così dire all’interno, degli angusti spazi e delle precarie condizioni della vita del soldato al fronte nella Grande Guerra. Le opere di restauro e riqualificazione del Forte Belvedere sono in fase di avanzata esecuzione. Esse comportano - é utile ricordarlo - consistenti interventi che sono stati organizzati e articolati secondo distinti lotti funzionali. Si tratta innanzitutto di lavori per consolidare le strutture del blocco casematte. Poi é stato necessario liberare il forte dai rimaneggiamenti successivi alla costruzione, in modo da ridare ad esso la sua immagine originale, e rifare il manto di copertura in lamiera di zinco, secondo i criteri dell’epoca”.

Insomma,  una volta sistemato e restaurato il Forte Belvedere, con il ripristino del paesaggio, sarà un richiamo turistico che completa quello escursionistico della montagna, alla ricerca della verità perduta.

Camminando su questi sentieri pietrosi, sotto il peso dello zaino, ricordo di essermi fermato un momento davanti ai ruderi di questi forti e di aver colto un piccolo fiore su una siepe sparuta, un fiore azzurro come il cielo del Trentino e profumato di aria. Un piccolo saluto in questo mondo incontaminato e lontano dai rumori del traffico delle grandi città.

In quella piccola sosta, in quel luogo che fu teatro di drammatiche vicende belliche, con quel piccolo fiore azzurro fra le mani, mi é venuta in mente una lirica di Romano Battaglia, che così recita:

“ Pensa alla tua felicità per tutto il tempo

 che vivrai, fino a quando ti sosterranno le

 forze. Non smettere di appagare i tuoi

 desideri, fino a quando non verrà il giorno

della traversata senza ritorno. Perché coloro

 che se ne sono andati sin dal tempo

del Dio, non sono più tornati. Si può cercare

 il loro nome, domandare dove sono,

ma della loro casa non resta più un solo

mattone e il viso non sarà più cosa significhi

 un giorno di festa. Essi sono partiti, se ne

sono andati. Ah se l’avessi saputo!

E’ tutto ciò che resta da dire......”

PASSO COE

   Dopo l’ultima nevicata di questi ultimi giorni, il Passo Coe, ci sembra oltre che un paesaggio da Presepe, un paesaggio norvegese, stretto e stritolato dalla morsa dei ghiacci di quell’inferno bianco, oppure una località della sconfinata steppa della grande Russa, dove i nostri Alpini combatterono quella guerra non voluta, ma imposta dal regime fascista. Ma questo paesaggio meraviglioso di Passo Coe, fa parte dei profondi orizzonti del verde e bianco Trentino.  Questa nostra passeggiata sulla neve, ci ha dato la possibilità di  ammirare le montagne che hanno ispirato il poeta nel comporre questi semplici versi, che abbiamo riportato sopra: “ Ci sono montagne che sfiorano il cielo come i sogni, e distese in cui tutti i sogni si perdono”. Mentre noi percorriamo questo luogo incantato, questo paesaggio da favola: un sentiero appena tracciato dal “ gatto delle nevi”, che attraversa longitudinalmente l’intera vallata, dove le montagne sfiorano il cielo come i nostri sogni. Oltre a noi,  moltissime  altre persone percorrono il nostro itinerario, soltanto che noi seguiamo il tracciato un passo dopo l’altro, mentre gli appassionati di sci di fondo, sfrecciano come saette verso la grande valle bianca di neve. E’ una neve  soffice e leggera, che copre indissolubilmente ogni cosa, mentre ai lati della valle fanno  corona  le alte e meravigliose  abetaie che bucano il cielo, un cielo grigio che profuma di neve. Senza dubbio, é un paesaggio senza uguali, che noi della pianura non siamo abituati a tanta meravigliosa bellezza. Se  osservi da vicino queste stupende piante, ti da la sensazione che da un momento all’altro possono precipitare, tanto sono carichi di soffice neve. Il sole si é fatto vedere per pochissimo tempo, quel tanto per osservare questo meraviglioso paesaggio incantato, ma ben presto é sparito dietro la massa nuvolosa ed é incominciato a nevicare. E’ caratteristico camminare sotto la neve che scende a  larghe falde, ti da un senso di pace e di allegria nello stesso tempo, mentre continuiamo la nostra lunga passeggiata fino in fondo alla valle. Da lontano ci sembravano tante piccole baite in mezzo alla neve, ma quello non é un villaggio agricolo, ma una cittadella militare abbandonata. E’ un complesso di casematte, rifugi sotterranei, bunk, magazzini  e depositi di materiale bellico. Il gestore del Rifugio “ La Stua”, dove ci siamo fermati per il pranzo, ci ha detto che quelle che abbiamo visto, sono le caserme della Nato (North Atlantic Treaty Organization - organizzazione politico - militare del Patto Atlantico).  Negli anni Ottanta, il generale James Lee Dozier, era il comandante  delle truppe Nato  della Regione del Nord Ovest  e quindi di quella cittadella militare, ora abbandonata per cessate esigenze politico - militare, con i Paesi dell’Est. In quel periodo, l’alto ufficiale, venne sequestrato dalle Br e liberato dai NOCS  della Polizia a Padova nel 1982.

Come abbiamo avuto modo di osservare, non solo nel secolo scorso si sono costruite bunker e fortezze  su questa dorsale Appenninica dell’Altopiano di Folgaria, ma anche nel periodo della “Guerra Fredda”, come  testimoniano le caserme della Nato  nel fondo valle di Passo Coe, che abbiamo visto da vicino.

La nostra poetica e distensiva passeggiata, sotto quel cielo spennellato di grigio e il paesaggio disteso ai nostri piedi, con in fondo alla valle la cittadella  militare abbandonata, luccicava appena dalla neve fresca che continuava a cadere dolcemente sui bunker, sulle casematte, sui prati e sui boschi delle antiche abetaie, dove la brezza soffiava tra i rami e un uccello audace sfidava l’inverno col suo canto solitario.

Dalla finestra del Rifugio “ La Stua”, guardando quella immensa distesa di neve che persino accecava gli occhi, ebbi la sensazione che quella valle  meravigliosa piena di tutto quello che contiene l’inverno é nulla e tutto nello stesso tempo. Luce sacramentale e oscurità del grigiore  di una giornata nevosa. Sono il vuoto, sono tutto ciò che esiste, sono in ogni  ramo verde ed aghiforme dei pini e degli alberi del bosco, in ogni fiocco di neve, in ogni  goccia di rugiada, in ogni particella di cenere che il vento e la neve trascina via, sono nulla e sono tutto il resto in questa ed in altre vite, immortale.  Perché la vita é come un soffio, come la penna d’ala d’uccello ferito, da valle in valle portata del vento che tutto trascina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALTOPIANO DI SIUSI.

24 Febbraio 2002.

Abbiamo incominciato questa nostra lunga cavalcata dei ricordi, viaggiando sul filo della memoria, che richiama immagini,  nozioni e avvenimenti del nostro passato prossimo e del nostro presente, partendo dai luoghi dell’infanzia, dalle pendici del massiccio dell’Aspromonte, per approdare qui, sull’Altopiano di Siusi, nel cuore delle Dolomiti. Scrivere libri di viaggio, come cerchiamo di fare  noi da  alcuni anni,  spesso queste rievocazioni sono noiosi, ripetitivi, e non colgono nel segno le cose veramente importanti. E poi vanno sostenuti con una prosa adeguata, in modo che diventino un’opera letteraria. Per fare tutto questo, ci vorrebbe la prosa semplice, chiara e scorrevole di un vero narratore. Come abbiamo detto altre volte, “noi non siamo scrittori di professione, ma semplici cultori della letteratura, dell’arte e soprattutto della natura.  In poche parole, siamo autodidatta. Le cose le vediamo sotto un’altra ottica, sotto un altro punto di vista da come le potrebbe vedere un vero scrittore. Quando dobbiamo scrivere qualcosa di una località o di un paesaggio che ci hanno maggiormente impressionati, andiamo subito al nocciolo del problema, senza curarci del resto. In poche parole, ci manca l’arte dello scrittore e l’occhio di lince di cogliere tutte le sfumature. Eppure, a tutto questo, noi siamo avvezzi, perché abituati a cogliere ogni minima sfumatura, ogni piccolo indizio per risolvere  un caso, un’indagine di Polizia giudiziaria. Ma svolgere indagini di P.G. é una cosa e scrivere dei libri escursionistici é un’altra. Per quanto riguarda il campo delle indagini, bisogna seguire dei canoni diversi, seguendo delle norme basilari, criteri fondamentali e assoluti: i canoni di una scienza, di un'arte: comportarsi secondo alcuni criteri fondamentali che riguardano la criminologia, mentre raccontare la visione di un paesaggio, l’impressione che si ha avuto di un luogo o l’immagine che ha suscitato in ognuno di noi,  ci vuole la prosa semplice , chiara del narratore che riflette un’osservazione diretta della realtà e la compone in un quadro efficace.

Lo scrittore Stefano Malatesta, in una intervista ha così detto: “ La conoscenza dei luoghi é il fatto più importante, i miti e le leggende le apprendi solo con l’esperienza diretta e personale, e se sai ascoltare gli altri”. Noi oggi ci troviamo sull’Altopiano di Siusi, al cospetto delle meravigliose cime dolomitiche: il Sasso Piatto e il Sasso Lungo, in questo, che abbiamo definito il “ deserto bianco”. Noi mediterranei, si, perché io non sono un settentrionale e neppure un padano di nascita, ma di adozione e abbiamo un’immagine di questo meraviglioso e nello stesso tempo spettrale “deserto bianco di neve” come una realtà straordinaria ma monotona. Cosa non vera, perché queste montagne dolomitiche che ci circondano sono piene di storie magnifiche.

Il nostro é un atto d’amore  di questo “ deserto bianco”, un viaggio dentro le sue storie e i suoi affascinanti tramonti. Nelle nostre escursioni come questa di oggi, andiamo sempre alla ricerca di qualcosa da raccontare. Nel capitolo precedente, che abbiamo illustrato l’Altopiano di Folgaria, che poi non é altro che la continuazione dell’Altopiano dei Sette Comuni e con al centro  Asiago, abbiamo cercato  di raccontare la storia dei Forti austriaci barbicati sui pendii dei contrafforti delle Alpi e dei campi di battaglia con i suoi camminamenti, le gallerie scavate nella roccia dagli Alpini. Mentre ti inoltravi in quelle zone  dove é passata la Grande Guerra, c’era un’aria di mistero, mentre l’atmosfera continuava a cambiare . Un vecchio  alpino di Asiago, che un giorno abbiamo incontrato sul sentiero che porta al Monte Ortigara, ci  disse: “Chi vive fra queste montagne muore molto vecchio a meno che,  un giorno  una valanga non ti seppellisce prima, oppure un’altra guerra non scoppia e infuria fra queste montagne. Speriamo che tutto questo non si verifichi mai più”.

Non é la prima volta che noi saliamo fin quassù, e ogni volta abbiamo compreso che la grande forza sprigionata da queste austere montagne, ha grandemente appianato le numerose divergenze dovute alle diverse realtà storiche e umane, dalle molte vallate che vi si addentrano e che la circondano. Queste  superbe cime, bianche di neve, che bucano superbamente il cielo terso e meraviglioso, sono uniche al mondo per la loro estrema varietà di forme e di contrasti, Dario Scarpa, scrivendo delle Dolomiti, nel suo libro “ Dolomiti”, ha scritto: “ Le Dolomiti si possono definire il regno dell’armonia e la fonte di perenne giovinezza. Arditi profili, rocce articolate, creste bizzarramente sagomate e frastagliate  risaltano ovunque in primo piano spesso assumendo l’incantevole aspetto di una fiabesca e capricciosa ricostruzione. Molto complesso sarebbe definire minuziosamente la struttura geologica di questi gruppi montuosi. Interessante é però sapere che le singolari masse rocciose delle Dolomiti si differenziano nettamente dalle normali formazioni calcaree, poiché sono composte da un‘insieme di doppio carbonato di calcio e magnesio chiamato “dolomia”. La storia ci ricorda che questo nome é legato al famoso geologo Déodat de Dolomieu che nel 1789 analizzò per primo tale composizione. Mentre la geologia, scienza che si occupa della costituzione della Terra, cioè dei processi che hanno determinato la formazione, la struttura e la distribuzione delle rocce sulla sua superficie nel corso delle varie epoche, ci dice che, circa settanta milioni di anni fa, le Dolomiti emersero dai flutti di un profondo mare sotto forma di un fantastico paesaggio chiazzato di scuro e di verde. Oggi, in questa meravigliosa giornata di fine Febbraio, limpida e soleggiata, noi escursionisti del CAI, che veniamo dalla brumosa Val Padana, abbiamo avuto il privilegio di poter ammirare le sue rosee vette che puntano dritte al cielo e sembrano poi veleggiare nell’aria pura di un silenzioso ed infinito spazio. Questa bellissima sensazione, l’abbiamo  provata questa mattina, quando faticosamente il torpedone arrancava su per i tornanti ripidi dell’Altopiano. Sopra di noi, signoreggiava il superbo massiccio dello Sciliar con le staccate Punte Santner ed Euringer, parzialmente  illuminato dal sole, assumeva la figura di un gendarme a guardia della valle, ma più che di un gendarme, mi dava l’impressione di una grande nave che veleggiava  in un grande mare fatto di nuvole biancastre basse, di nuvole che sembravano nebbia, ma che nebbia non era. Esse  coprivano la montagna e la valle  sottostante. Superato il costone, con i suoi ripidi tornanti, ecco che siamo entrati nel suggestivo e meraviglioso Altopiano di Siusi, dove la natura si é dimenticata di metterci  gli alberi. Appena scesi dal pullman, ci ha dato la sensazione di trovarci in quell’inferno bianco della  tundra, nella pianura caratteristica delle zone artiche, dove per molti mesi dell’anno, sono coperte di neve.

No, non eravamo nell’inferno bianco dell’Artico, ma semplicemente nel meraviglioso Altopiano di Siusi. Inventare classifiche di montagna é difficile ed ingiusto poiché tutte sono degne di essere incoronate. Al nostro cospetto, sulla nostra destra, facevano bella mostra di se, il Sasso Lungo e il Sasso Piatto. Questi due gruppi pressoché posti al centro della Regione Dolomitica, possiedono però qualcosa di diverso degli altri sia per imponenza, sia per un’insieme di graziate e superiori forme. Ad oriente degli ondulati pascolo, che oggi sono coperti  di candida neve. Dell’Alpe di Siusi e sopra le testate delle Valli di Fassa e Gardena si eleva il maestoso ed impervio Gruppo del Sasso Lungo.

Il nostro piccolo gruppo di escursionisti, sotto un sole splendente, stiamo procedendo, passo dopo passo, sull’Altopiano di Siusi, che si trova all’interno dei tormentati fianchi delle loro altissime e fredde sponde del Sasso Piatto e del Sasso Lungo, che racchiudono il vallone pianeggiante, che in origine non era altro che un cratere, una cavità imbutiforme e collinare, punteggiato da piccole baite di legno, dove i contadini altoatesini custodiscono il fieno e abitano nel periodo estivo, mentre il bestiame pascola nei verdi prati. La nostra meta é la parte opposta dell’Altopiano, dove c’è un piccolo ristorante, che sorge ai piedi della montagna, dietro la quale si trova la Val Gardena.

La minuscola comitiva: quattro persone in tutto, giunti al centro dell’Altopiano, ci siamo fermati davanti ad una di queste baite, per ammirare le bellezze del Gruppo: - Sasso Lungo e Sasso Piatto - mentre il sole ci illuminava il volto e ci riscaldava il cuore e le membra.

La nostra amica Marisa, ad un certo punto mi ha chiesto: “ Diego, mi sai dire di quelle due montagne meravigliose che ci stanno di fronte, quale é il  Sasso Lungo? Si, Marisa, vedi quella grande montagna alta e meravigliosa che buca il cielo? Ebbene, quello é il Sasso Lungo, mentre quella che sembra coricata, é il Sasso Piatto. Il primo é il re delle Dolomiti, esso  si eleva con la sua alta mole per m.3181, e bisogna prima di tutto intendere, quel colossale blocco roccioso che lungo circa duemila metri e con pareti alte più di mille forma la testata settentrionale del gruppo. Questo gigantesco sasso a cui s’aggrappano tetti e campanili oltre che essere il vero signore della Val Gardena, é una fra le più classiche e grandiose montagne dolomitiche. Al fianco del sovrano Sasso Lungo fanno elegantemente da corte una serie di satelliti minori costituenti la zona centrale. La Punta Cinque Dita m. 2996 é un’ardita pala che conclude il suo lancio con una cresta frastagliata e composita. Al Passo Sella si mostra sotto forma di un poderoso palmo di mano destra ben evidenziando le sue snelle cinque dita. Questa vetta é stata paragonata ad una grande cattedrale ricca di campanili intrisi di ghiaccio é invece la sua faccia settentrionale. Poderosa si eleva vicina la Punta Grohmann m. 3126.

Questa bella é tormentata piramide segna l’estremità orientale delle pareti che dominano il versante fassano, dal quale é partito l’originale battesimo di Sasso Levante. In questo complesso dolomitico, si trovano una miriade di altre alte cime meno conosciute, perché vengono spesso confuse con la massiccia mole della Punta Grohmann. Una serie di paurosi scivoli e camini ghiacciati la circondano all’interno rendendola ardita e di riflesso molto ambita da numerosi alpinisti. Dalla parte opposta, cioè dalla Val Gardena, affilato e strapiombante si presenta poi il Dente del Sasso Lungo m.3001. Bello da vedersi da ogni lato questo acuto canino roccioso é sicuramente la cima più impegnativa del gruppo. Per questa peculiarità che riveste ogni suo componente il Sasso Lungo risulta il gruppo dolomitico alpinisticamente più gagliardo e difficile. Nonostante che questo piccolo mondo alpino si possa definire una riserva e soprattutto un banco di priva per provetti rocciatori. Ho letto da qualche parte, che si possono ugualmente effettuare numerose incantevoli escursioni, ma ti assicuro, mia cara Marisa, che questi sentieri non fanno più per noi. Noi, siamo costretti a guardarli da lontano, come stiamo facendo adesso, per cogliere le sue meravigliose bellezze.

Dopo due ore di cammino sulla soffice neve fresca, che in certi punti nascondeva l’insidia dei lastroni di ghiaccio e che in certi altri sprofondavamo fino al ginocchio, finalmente, siamo arrivati al piccolo rifugio. Dalla terrazza antistante, dove ci é stato servito il  pranzo, perché all’interno dell’unico locale, era occupato da alcune squadre di escursionisti austriaci, sotto i raggi di un pallido e piacevole sole primaverile, da dove si poteva  godere una vista eccezionale, che abbracciava tutta la valle con allo sfondo i signori delle Dolomiti: il Sasso Lungo ed il Sasso Piatto. In questi luoghi di pace,  lontano dal rumore e dai gas di scarico sono la parola d’ordine ed il paradiso luminoso dell’Alpe di Siusi  mantiene sempre quanto promette. Non solo d’inverno, quando nevica come oggi, l’Alpe di Siusi mostra la sua veste migliore; anche d’estate ha il suo fascino per noi escursionisti, rocciatori, appassionati di mountainbike, amanti della natura e tutti coloro che sono attratti dal mondo alpino. Molti turisti, hanno  tirato fuori dallo zaino la macchina fotografica e alcuni la cinepresa, per scattare e catturare sulla pellicola la fotografia ricordo, quella fotografia da  mettere in evidenza nell'album dei ricordi. Si, perché noi, ormai viviamo soltanto di memorie e di ricordi.

In questo riposante paesaggio altoatesino ogni esigenza turistica viene soddisfatta con grande sensibilità e coronata da un notevole complesso di attrezzature sportive, ristoranti, piste sciistiche ed impianti di risalita.  L’Altopiano di Siusi, data la sua particolare posizione, é dotato da un servizio di pronto soccorso aereo. Infatti, al centro della Valle, a fianco alla baita rifugio, stazione in continuazione  un elicottero  per ogni emergenza.

La piccola bufera.

Adesso si é alzato il vento, passa attraverso le gole delle montagne con un sibilo lungo e modulato. Smuove le rade piante  abbarbicati alle rocce. Più saliamo e più la montagna si fa brulla per la rarefazione dell’ossigeno. Il clima da queste parti cambia con facilità: adesso c’è il sole e subito dopo  può venire anche una  tempesta di neve accompagnata dal vento gelido del nord. Oggi é successo di tutto: il sole é improvvisamente sparito, il cielo si é coperto da nuvoloni neri oscurando il sole. E’ incominciato con un leggero spostamento di vento, più o meno rapido e intenso , dovuto a diversità di temperatura e di pressione, mulinava la neve e la spostava da un luogo ad un altro, come succede  con la tempesta di sabbia, tipica delle regioni desertiche , che sposta e annulla le dune, la stessa cosa stava succedendo sull’Altopiano di Siusi. In poco tempo, questo venticello costante e quasi tiepido, si é trasformato in un vento gelido, in una  tempesta con neve, che ci sferzava il volto come se fosse uno scudiscio. Si procedeva lentamente e a fatica sul cocuzzolo della collina, ma una volta sottovento, cioè nella parte  opposta a quella dalla quale soffiava  la tormenta, tutto era ritornato alla normalità.

 Adriana mia moglie, ha superato molto bene quel momento cruciale, riparandosi con il suo inseparabile ombrellino, mentre la signora Maria, oltre alle sferzate della gelida tormenta, era sofferente  da una patologia non definita  che la costringeva a continue e impreviste soste, per soddisfare i suoi impellenti bisogni.   In questi giorni, parlando di questo caso con  il mio amico Danio Dott. Martelli, mi ha detto che potrebbe trattarsi di  una “fibrillazione”, che in medicina vuol dire “ alterazione del ritmo cardiaco: la “ fibrillazione atriale ventricolare”: Tale patologia potrebbe essere dipesa dalla paura, oppure dal freddo o da una qualsiasi preoccupazione.

Si sa, di questa stagione invernale la montagna é fatta così: ora brilla il sole e poco dopo soffia la bufera. Bisogna essere preparati a tutte queste variazioni climatiche.

La quiete dopo la tempesta.

Succede sempre così anche nella vita di ognuno di noi: dopo la tempesta ritorna sempre il sereno.

Intanto scende la sera, e il sole calando dall’alto del cielo, fra non molto si tufferà dietro il massiccio dello Sciliar, mentre la nostra piccola squadra, con il sole che era ritornato ad  illuminarci  il viso, in fila indiana e passo dopo passo, si stava avvicinando nella piazzola dove era parcheggiato il pesante automezzo e gli altri amici sciatori di fondo che ci stavano attendendo al Gasthof Albergo. Ciò voleva dire, che la giornata era terminata, e poi si notava del cielo che era spennellato di rosso, il   rosso  del tramonto che si rifletteva sull’intero paesaggio innevato del meraviglioso Altopiano di Siusi.

Gaston Rebuffat, così faceva a scrivere:

“ Lassù, tra terra e cielo

 abbiamo trovato non solo la realtà,

 ma soprattutto la verità

della montagna e dell’alpinismo,

 in questo noi miravamo

 e questa é stata

la nostra grande ricompensa”.

 

 

 

PASSO SAN  PELLEGRINO

La nostra lunga cavalcata dei ricordi dall’Appennino Calabrese, dai luoghi che mi videro fanciullo, ai contrafforti Dolomitici, si ferma qui. Come si dice, in gergo comunemente parlando, siamo giunti al termine di questa  nostra ennesima fatica letteraria, nella quale ci vidi adolescenti e adesso uomini maturi, giunti al culmine delle nostre conoscenze umane, é come entrare in un sogno, nel sogno della realtà della nostra vita

E’ trascorsa appena una settimana dall’ultima uscita escursionistica  nell’Altopiano di Siusi, ed eccoci nuovamente nel cuore delle Dolomiti. Ad est di Trento e di Bolzano una fitta rete di strade consente di addentrarsi in ampie vallate dominate dalle più famose vette e catene dolomitiche: i Lagurai, le Pale di San Martino e quelle, meno note ma altrettanto suggestive, di San Lucano, il Catenaccio, il Sasso Lungo, il Sella, le Tofane. E anche di percorrere valichi altissimi, dai nomi quasi leggendari: Pordoi, Sella, Falzarego. E quasi una cavalcata nella memoria e nel cuore di un complesso di montagne unico al mondo, paradiso per scalatori e semplici escursionisti come noi, ma anche ricco di memorie artistiche e culturali.

E’ da poco che siamo entrati nella Valle della Magnifica Comunità, nel settore mediano della valle percorsa dall’Avio che prende nome di Val di Fiemme: i suoi limiti sono il Lago di Stramentizzo e Valle Moena a monte; più oltre si apre la Val di Fassa. Quelli che d’estate sono estesi pascoli terrazzati, vasti prati e un patrimonio forestale d’eccezione costituiscono gli elementi fondamentali del paesaggio, dominato a sud da una delle più solitarie catene dolomitiche, quella dei Lagurai. Questi luoghi bellissimi, oggi li vediamo coperti da un manto di candida neve , anzi direi bianchissima, tanto che ci abbaglia gli occhi nell’osservare questo paradiso terrestre. La storia di questa valle é esemplare per quel che concerne la gestione dell’ambiente. Lo so, e di questo ci  rendiamo conto, che spesso siamo ripetitivi, ma non possiamo fare altrimenti nel parlare di questi luoghi a noi familiari e della sua storia.

Non possiamo  esimerci dal raccontare una pagina della storia di questa vallata così bella e meravigliosa. Nel 1110, con riconoscimento vescovile, veniva sancito l’atto costitutivo della Magnifica Comunità della Val di Fiemme. Con quel documento gran parte dei boschi e elle foreste diventavano di proprietà collettiva: da allora ogni prelievo di legname é stato accortamente calibrato per consentire il naturale rinnovamento del manto forestale, primaria fonte di reddito per le popolazioni locali.

Quella legge, é rimasta tale e quale, ma il reddito della popolazione locale é cambiato con l’avvento del nuovo turismo. La Val di Fiemme, oggi é una località molto rinomata per il turismo estivo ed invernale.

MOENA.

Moena. L’abbiamo definita un Paese che, in ogni stagione, conferma il fascino della sua storia antica, di quella storia che abbiamo da poco accennato, nel pieno rispetto di quel ruolo che da sempre la riconosce come “ La Fata delle Dolomiti”.

Risorse naturali e possibilità ricreative costituiscono il riferimento più stimolante per una vacanza diversa, impregnata di contenuti che soddisfano anche i palati più esigenti e che si ispirano sempre a motivazioni di straordinaria intensità.

Non  solo i colori dell’estate, ma anche e soprattutto quelli dell’inverno, quando l’ambiente diventa messaggio accattivante con i prati e la montagna piena di fiori , di natura, di neve  , di silenzi e di tradizioni, di vallate  , di  pianori e di montagne, dove i rumori diventano improvvisamente ovattati. Insomma, ti da la sensazione di camminare sulle nuvole bianche del cielo.

L’inverno, come quest’anno, con le ampie distese di neve, la modernità delle piste e degli impianti, il fascino dello sci, alpino e nordico.

Ritornando a parlare di Moena, diremo che oltre ad essere una cittadina che ha il sapore della storia, é una località turistica sviluppatasi in una conca prativa incorniciata dalle “ crode” dolomitiche del Latemar e del Catenaccio. Accanto alla parrocchiale ( rifatta in questo secolo, conservando il campanile gotico) sorge la chiesetta di S. Volfango, con affreschi quattrocenteschi e un soffitto ligneo barocco. Affreschi settecenteschi ornano alcuni edifici dell’abitato. Ma le attrattive non sono soltanto queste. La cittadina, oltre ad essere famosa per lo scii di fondo, é anche conosciuta per le sue meravigliose “fontane di ghiaccio”, che fanno bella mostra di se, lungo il greto del fiume che l’attraversa.

Prima di giungere in questa simpatica cittadina dolomitica, é cessata la pioggia  battente: una pioggia che ci ha fatto rattristare e  che ci ha accompagnato fino alle alture di San Lugano. Cessata la pioggia, ha incominciato a nevicare, facendoci ritornare il sorriso e con esso il buon umore di sempre.

 Subito fuori Moena, quella leggera  nevicata si é fatta più intensa  e la strada Provinciale per San Pellegrino, era coperta di neve. La nostra meta era appunto quella rinomata località. Non é la prima volta che saliamo fin lassù, ma ogni volta ci sembra sempre la prima volta. Quella é una vallata bellissima, un costone di alte abetaie cariche di neve. Il cielo, dopo la pioggia, si é oscurato, assumendo  il caratteristico colore plumbeo: il grigio plumbeo delle grandi nevicate. Infatti, la neve cadeva a larghe falde, tanto che il torpedone slittava ed é stato necessario munirlo dalle catene per la neve. L’ultima nevicata della notte scorsa é stata abbondante, facendo felici grandi e bambini.

Entrando in un sogno.

Proseguendo la provinciale che attraversava la grande foresta di abeti, ti dava la sensazione di entrare in un sogno. Giunti sull’altopiano del Passo di San Pellegrino, vi abbiamo trovato una marea di sciatori, di pullman e di autovetture parcheggiate. L’aria era resa in respirabile per il gas di scarico degli automezzi, tanto che ci sembrava di essere giunti in una grande città satura di  veleni.  Appena scesi dal grosso torpedone, non ci siamo fermati neppure per sorbire un caldo caffè, e in fila indiana, ci siamo avviati verso la nostra meta: il Rifugio  Fuciade, che sorge a quota 2394 m, é situato in una posizione tranquilla e soleggiata, punto di partenza per escursionisti sia estive che invernali. Osservandolo da lontano, sembrava  che si toccasse con le mani, ma il percorso: una strada sterrata che taglia dolci praterie, oggi, coperto di candida neve, che era alquanto  distensivo e poco faticoso.

L’inverno, con le ampie distese di neve, la modernità delle piste e degli impianti, il fascino dello sci, alpino e nordico, é il paradiso  degli escursionisti.

 La strada forestale era resa agibile dal “gatto delle nevi” e dalle moto slitte, che facevano servizio fino al rifugio, trasportando i pigri escursionisti che non avevano voglia di camminare.

La strada segue l’ondulazione della montagna e i piccoli tornati si susseguono uno all’altro in mezzo ai boschi delle abetaie cariche di neve. Stavamo entrando in un mondo senza tempo, in un paesaggio lunare e metafisico. L’immensa cortina di conifere e faggeti spogli schermavano il pallido, anzi il pallidissimo sole che occhieggiava  di tanto in tanto al di là della volta vegetale, mobile rosone di una cattedrale assediata dall’abbondante nevicata. Il contrappunto tra il gorgoglio del piccolo torrente e il ritmo  pulsare della moto slitta che ci superava mi risuonava nelle orecchie come il ticchettio di due orologi accordati per andare all’unisono, solo che questi due orologi privi di lancette.

Uno dietro l’altro, come una squadra di alpini e con passo lento e poco cadenzato, si continuava a salire verso la montagna bianca e meravigliosa. Le ore trascorrevano velocissime, precipitando come polvere nel largo imbuto di clessidra della mia mente. Ma la strada forestale continuava a salire, mentre il sentiero era circondato dalla cortina impenetrabile della foresta dei meravigliosi ed alti abeti, talmente alti che sembrava bucassero il cielo in cerca della luce. La cui volta nascondeva la vista del cielo e delle meravigliose montagne: fu come entrare in un tunnel che ci conduceva fuori dalla realtà, fuori della notte per farci entrare in un sogno.

Come d’incanto, all’improvviso, le faggete e le grosse abetaie erano sparite e davanti a noi si é presentato un paesaggio strano, un paesaggio lunare, avvolto da nuvole  basse e bianchissime che si confondevano  con la neve che  a sua volta avvolgevano anche le alte montagne.  Ci siamo resi conto che stavamo entrando in un mondo senza tempo. Per un momento ti dava la sensazione che  quel paesaggio fosse irreale, un paesaggio inventato dalla fantasia di un grande scrittore. Non era così, quello era un piccolo paradiso terrestre. Quando la neve cade, quell’angolo dolomitico indossa vesti fra le più belle, e diventa come uno sterminato mare bianco dal quale svettano le montagne e le sottostante foreste come fossero grandi isole verdi.

Mentre i miei passi s'inoltravano verso il pianoro ondulato e riparato dai picchi nevosi in quel paesaggio fantastico, dove la natura aveva dimenticato di metterci gli alberi, ma gli uomini negli anni passati,  avevano costruito tante piccole baite, che sembravano le casette delle fate e che punteggiavano quell’angolo felice. Dai fumaioli di quelle casette di legno, continuava ad uscire un filo di fumo, ciò voleva significare che anche lassù c’era la vita che pulsava. Sopra di uno di quei comignoli di pietra e annerito dal fumo, risuonò, rompendo il silenzio quasi opprimente, il rauco richiamo di qualche uccello sconosciuto e gli fece eco il verso cinguettante di una nera e simpatica taccola, che si era posata sul tetto della baita successiva.

Conoscevamo quel luogo, per esserci stati l’anno precedente, ma  ci sforzavamo di riconoscerlo, tanto era fantastico. Ci sembrava di essere entrati in un mondo ancora vergine, un regno fatato e inventato da me e che Adriana e io avremmo continuato a inventare insieme.

Quello, non era un luogo inventato dalla mia fantasia, ma un luogo reale e meraviglioso, dove l’uomo vive con i suoi pensieri e i suoi sogni, la sua  serenità alla ricerca costante della felicità perduta.

“ Ho sempre pensato alle montagne come preghiere pietrificate, per dire a tutti gli uomini della terra che Lui esiste, che é lassù, nell’infinito.

Kailas é la montagna sacra del Tibet dove abita Dio: nessuno é mai salito sulla sua vetta sacra. Una volta all’anno i pellegrini si recano ai suoi piedi a pregare, qualcuno vi arriva camminando in ginocchio per trovare la via della purificazione. Molti anziani muoiono ai suoi piedi con gli occhi rivolti verso la cima, e la gente crede che siano stati chiamati da Colui che abita lassù. In un certo senso, anche noi  scalavamo quella montagna senza tempo, per ritrovare noi stessi e la purificazione della nostra anima.

Reinhold Messener ha detto che “ più saliamo, più conosciamo noi stessi. Più l’uomo conosce se stesso, più ha bisogno di salire. L’uomo é come la montagna: la conquista dell’uno e dell’altra non finisce mai. La vera meta non  é  raggiungere la vetta, l’estremo confine tra la terra e il cielo, ma qualcosa senza confine come la felicità, la convinzione di essere  sereni”.

Proseguiamo quel sentiero ora pianeggiante e ora scosceso, che attraversa quel piccolo altopiano sotto le cime dentellate dei monti pallidi e bianchi di neve che lo circondano e che assumono la forma di un anfiteatro, un sentiero non vergine ma calpestato da altri escursionisti che come noi, sono saliti fin lassù per trovare  quel luogo magico, ma soprattutto per trovare  loro stessi e la gioia di vivere. Mi hanno detto che proseguendo su quel sentiero troverò un luogo magico, dove l’acqua, chiara come il vetro, zampilla dalla roccia, fresca come l’aria, leggera come un filo di vento. Infatti, dietro il Rifugio Fuciade, a quota 2394 metri, dove ci siamo fermati per rifocillarci e per riposare le nostre membra stanche, scorre un piccolo torrente, il torrente dove scorre l’acqua chiara come l’aria.

La visione di questo luogo senza tempo, dove l’occhio spazia in quell’orizzonte senza fine, spesso noi escursionisti  dell’infinito a volte ci domandiamo il perché della vita. La risposta al perché si può  leggere nei piccoli occhi di un passero o di una taccola che saltella tra un comignolo all’altro di questo meraviglioso mondo che ci circonda.

Romano Battaglia ha così scritto: “ La vita spesso attrae nella sua falsa luce: durante questo lungo cammino l’uomo non si accorge di fuggire le occasioni e le gioie, e si perde nel nulla. In questo vuoto esistenziale nasce il desiderio di essere veramente uomo e di cercare dentro di noi la Verità.

“Ho visto tra i rovi il nido di una capinera. I piccoli uccelli con poche piume mi guardano tranquilli, non hanno paura dello sguardo dell’uomo. Era la prima volta che incrociavano gli occhi di un essere umano e non avevano provato alcuna emozione. Loro, aspettano tranquilli la madre per l’imboccata; stanno lì, uno vicino all’altro con la tenerezza di fiori sbocciati nel giardino della semplicità. Questa é la vita, il palpito gioioso della natura con tutte le sue creature. Lo aveva notato anche un monaco tibetano trecento anni fa”.

“ Me ne sto occupato nel nulla sul confine

del mondo ad osservare il cielo e le nuvole

e qualche volta sorrido alla serenità

 delle creature che mi circondano”.

 Il nostro viaggio escursionistico che ci ha accompagnato  in questa nostra lunga cavalcata della vita, finisce qui tra celo e terra, in questo paesaggio silente, muto e silenzioso, dove tutto é in noi col suo mistero, come l’acqua che scorre nel piccolo ruscello. Ti sei mai chiesto che cosa é l’acqua, perché é trasparente e viva, e come mai scorre? E’ un dono  come il sole e la luce, la notte e il giorno. E’ il fluire dell’invisibile che sempre palpita attorno a noi, per farci coraggio e per incitarci a proseguire oltre nella vita.

“Nulla nasce dal caso: tutti abbiamo un destino, un padre e una madre che ci seguono dai confini del nulla che é il Tutto.

“ Non si può fermare il tempo, come non si può fermare l’acqua di un fiume quando preme sugli argini per conquistare il mare. Si deve prendere il largo, come abbiamo fatto noi nella adolescenza, per provare la gioia profonda di fidarsi di Dio.

“Addio amico della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia maturità. E’ l’ora del tramonto, anche il sole calerà tra poco dietro le cime dolomitiche innevate, come pure nel mare e tutto a poco a poco svanirà, come in un sogno, il sogno della vita.

EMOZIONI.

In questa nostra ultima escursione, su queste meravigliose montagne coperte di neve, dove tutto é silenzio ed emozioni, ci viene da fare una semplice riflessione  sulle nostre esperienze fatte, incominciando dalla nostra lontana adolescenza.  Ci ritornano in mente i ricordi del nostro primo viaggio, di quel viaggio nella città meravigliosa di Napoli, con il quale abbiamo iniziato questo nostro libro di ricordi. Vogliamo terminare con la stessa emozioni di allora.

Così faceva a scrivere Edoardo Guglielmi: “Quel viaggio a  Salerno, l’arrivo nel tardo crepuscolo.  Un’intera adolescenza  risorge al primo tocco della memoria, a ogni contatto con i luoghi, con le antiche parole da cui si irradiano tremore e dolcezza sulla soglia del tempo che sempre più si allunga alle mie spalle”. Analizzando questi pensieri, questi ricordi, ritornano in noi emozioni, fantasie di una sommersa Atlantide; lontane stagioni ravvolte in un velo notturno che sono racchiusi nel viaggio a Napoli. Ogni parola non detta, ogni gesto più segreto si empie ora di amorosi significati, e per vie nascoste, labilissime. Per noi é stato un esplorare d'orecchie ben tesi, un ansioso rilevarsi. Tutto mi incide, tutto fa ressa al cuore, al cuore di un adolescente ed ora al cuore di un uomo maturo, che come gli uomini maturi, vivono di ricordi e di memorie.

Di quel lungo viaggio, che per me significava la scoperta del mondo intero, ha avuto l’impatto su quel lungo treno bestiame, che poi non era altro che una vecchia tradotta militare, con in testa due vetture di terza classe. Parecchi sedevano sui porta bagagli. Tutti gli sportelli erano aperti, e l’ungo l’intero treno c’era gente che viaggiava seduta sulle soglie degli sportelli, le gambe penzoloni nel vuoto, o accovacciata sui predellini, tenendosi con un braccio alle maniglie. I tetti dei vagoni, i respingenti, i soffietti, il tender, la macchina erano coperti di viaggiatori stracciati e scamiciati. In grandissima parte, erano soldati che travestiti alla meglio con panni borghesi, che ritornavano alle loro case dalla Sicilia. Trovai posto su di una vettura bestiame, che dalla Old Calabria mi portava lontano e mi sovvengono quelle ore, di quei giorni di vaghezza e di verità sono forse il solo - a tanta distanza d’anni, nell’inameno presente - a conoscere e custodire il mistero, che poi non c’era nessun mistero da scoprire, ma un’altra realtà della vita. Perché di quel tempo febbrile non pare essere rimasto che qualche sfarzo e più diafano lume, non più che qualche fremito in sordina, di oro spento. Vedo ancora un ragazzo disteso sulla sabbia tiepida della spiaggia di Pozzuoli, un ragazzo senza meta e senza pensieri. La vita gli scorre accanto come qualcosa di estraneo, di ostile, segnata da un gran senso di vuoto, di solitudine fra gente che non conosceva, in una città meravigliosa e fra gente sconosciuta. E’ nella ricerca invano il bisogno nascosto, gli spazi da sottrarre all’erosione del tempo. Quella era una città sconosciuta, con i suoi problemi di ogni giorno, che si differenziava dal piccolo e vecchio borgo aspromontano, ma era una città senza un volto ne una ragione di vita.

Quel primo ansioso piacere dell’evasione ritrovata, di riconoscerla in ogni sua parte: nella calma penombra degli “ intericus” di fine conflitto mondiale. Nel vecchio porto, dove trovai una prima sistemazione occupazionale, trovai anche i personaggi che mi furono cari: gli amici d’infanzia ritrovati in quella caotica città, in quella città invasa da un esercito      di conquistatori di ogni nazionalità, che mi furono cari, e tali sono rimasti tuttora, nella rete magica d’un tempo senza tempo.

Qui il mio ricordo riacquista peso e fervore, vibra del sangue, in un rimpianto di libertà e di gioie perdute all’insorgere tumultuoso di frammenti di vita.... ( come rintracciare l’etimo, come interrogarne il suono più segreto?). Solo a volte una parola più aperta, più mossa, lacera il bozzolo di questo piccolo mondo e mette le ali. L’orlo schiumoso dei flutti, le screziature d’una conchiglia in cui si percepisce la fievole eco di un età remota. Un minor soffio di vita, una pacata rinuncia.

                                                               

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