“
MAI VISTA UNA SICCITÀ' COSÌ”
6
febbraio.
Questi
sono i giorni della merla, ma sono anche
i giorni di grandi siccità non solo per il grande fiume. Non è la prima volta
che il livello scende così in basso. Ma nessuno ricorda una magra lunga: dura
da quaranta giorni. Oggi, siamo qui a Boretto, lungo l’argine del grande
fiume, da dove possiamo ammirare un grande orizzonte, oltre il quale si distende
il lungo serpentone in agonia.
Nella presentazione del libro di Umberto Eco: “Il nome della rosa”,
leggiamo: “ Pensa a un fiume, denso e maestoso, che corre per miglia e miglia
entro argini robusti, e tu sai dove sia il fiume, dove l’argine, dove la terra
ferma. A un certo punto il fiume per stanchezza, perché ha corso per troppo
tempo e troppo spazio, perché si avvicina al mare, che annulla in sé tutti i
fiumi, non sai più cosa sia. Diventa il proprio delta. Rimane forse un ramo
maggiore, ma molti se ne diramano, in ogni direzione e alcuni riconfluiscono gli
uni negli altri, e non sai più cosa sia origine di cosa, e talora non sai cosa
sia fiume ancora, e cosa già mare”. Il grande fiume si è annullato, ha perso
la sua vigorosità, la sua bellezza, il suo fascino da sempre.
Al suo posto sono emerse le dune e le piccole pozzanghere, ove vediamo
molti trampolieri che cercano di pesca il loro pranzo. Guardando queste
dune, queste spiagge di sabbia bianca, mi sembra di essere sulla spiaggia
di Cattolica, dove l’orizzonte annulla ogni senso di riferimento. Ma a
Cattolica, oltre alla grande distesa di sabbia, vi é il mare che da allegria e
gioia: qui c’è soltanto tristezza. A fianco ai cumuli di sabbia, emergono i
grossi barconi, i relitti arrugginiti dal tempo.
Quindici
mesi fa qui il fiume crebbe come una casa di quattro piani: ora é un ruscello
dove le barche si incagliano in venti centimetri d’acqua. Nell’ammirare
questo cimitero di cose morte, ho provato una grande tristezza: quella scena mi
ha toccato il cuore e mi ha commosso.
Paolo
Rutiz, il corrispondente di “ Repubblica”, in un suo articolo così scrive:
“ Se prosegui scarpinando sull’argine,
entri nell’inverno degli Hobbit. Fantasmi di dune
bruciate dal gelo, pioppeti sotto vetro, pezzi di banchisa tra i campi
gialli gelati. L’acqua é al minimo, ma
la cosa eccezionale non é quest’aorta semivuota. Il Po così basso s’è
visto altre volte: “ Quello che non
s’era mai visto - spiega l’ingegnere Ivano Galvani che da Boretto Po
sorveglia la navigabilità su tutto il fiume - era una simile durata della
magra: quasi quaranta giorni. E non s’era mai vista, nemmeno, una temperatura
così a lungo sotto zero”. Di notte fa meno otto, anche nove. Freddo boia.
Roba da tabarri, come nel libro “ L’albero degli zoccoli”. Nei boschi e
sugli argini c’è ancora la neve di metà di dicembre, la brina disegna fiori
di ghiaccio sulla sabbia. Un gelo tale che fino a tre giorni fa' sé mangiato
anche la nebbia”.
“A
valle riemerge di tutto dai fondali. I ruderi della chiesa di San
Vito e Modesto, inghiottita secoli fa dal fiume che mutò direzione; gli
scheletri di vecchi barconi; persino le palafitte di un ponte spagnolo, roba del
seicento. Ma è cosa modesta rispetto a quello che segue qui a monte. Il bello
viene dopo il ponte in ferro a Cremona. Qui la Padania diventa uno stoccafisso -
una bassura secca e fredda come la Piszta ungherese - e il Bengodi del culatello
si veste di Quaresima. Qui, dove il Po diventa il dio - serpente, si attorciglia
in meandri, sbanda come un ubriaco e ti depista nella nebbia per attirarti nella
sua trappola invernale.
Primo
imbroglio: sei sul letto maggiore del Po, eppure quell’acqua bassa non gli
appartiene. Cosa accade? Quel rigagnolo é dell’Adda. Infatti é lui che sbuca
dietro il curvone a monte con i suoi ottanta, striminziti metri cubi al secondo.
Un esproprio, e la conferma arriva oltre la confluenza. Lì il fiume di Gianni
Brera muore del tutto. La poca acqua che c’è rallenta, si ferma, fuma tra i
pioppeti coperti di “ verglas”.
Oltre
alla confluenza dell’Adda, la nebbia si dirama - con l’acqua ferma - il
ghiaccio aumenta. E’ così, proprio dove diventa un dio minore, il Po si nobilita, si trasforma in un reame di
cristallo. Sulla scarpata dell’Isola Sarafini il vapore cristallizza generando
fantastiche concrezioni. Il ghiaccio scricchiola sotto le scarpe; in certe
conche poi anche passare sull’acqua a piedi. Barconi con la rete a bilanciere
sono incastrati nella banchisa. Non
c’è anima viva, il silenzio é assoluto, senti solo un jet ad alta quota e un
cane che abbaia sull’altra riva. Intanto, col sole, i colori sbucano dal
grigio del mattino. Sono il bianco e il giallo, il folle vestito dell’inverno
2002: un abbinamento di sabbia e brina, deserto e pack, bruma umida e campi
bruciati.
“E’
un momento eccezionale, irripetibile”. Neanche Annibale Volpi, che sorveglia
il fiume per conto dell’Arni, ha mai visto una Siberia simile. E’
eccitatissimo, sa che già domani il gelo potrebbe mollare. Nella sua postazione
accanto alla diga idroelettrica, c’è la stufetta, una piccola biblioteca e la
foto di un pesce - siluro record. Un mostro onnivoro di due metri e venti,
pescato da queste parti. Da qui il fiume pere un quadro di Peter Brhueghel il
vecchio, l’Olanda d’inverno con i pattinatori; ma sopra, la luce é
desertica, quasi medio - orientale. Volpi butta un sasso e “ toc”, il sasso
rimbalza, il ghiaccio non cede. Oltre, accanto alla diga, nella corrente, decine
di cormorani vorticano per acchiappare i pesci bloccati.” Mangiano come jene”,
ride, e spiega come si dividono il territorio a branchi.
“
Il canale navigabile che aggira la diga pare un’autostrada bianca, compatta,
immobile. Il ghiaccio avrà dieci centimetri , un barcaiolo deve farsi strada a
picconate per avvicinarsi a un grosso motoscafo
Sui pioppi, tredici metri più in alto, pendono sacchi di plastica abbandonati
dall’ultima piena. Dicono che quindici mesi fa il Po crebbe come una casa di
quattro piani. Oltre l’argine destro, un pavone bianco é fermo in un
boschetto di olmi, e nella neve pare una memorabile scena di “ Amarcord”. E
sullo sfondo la nebbia che si dirada rivela il tradimento delle montagne. Senza
neve, desertiche anche loro.
Annotta,
si torna a Viadana, il ponte sul Po
é statico, immobile, mentre il traffico stradale é aumentato. Dal finestrino
dell’auto, diamo un ultimo sguardo al vecchio fiume, anzi che dito, al vecchio
ruscello: si perché, ha assunto
proprio l’aspetto di un ruscello, mentre tutt’intorno la spiaggia si fa
sempre più grande, per l’effetto prospettiva. Ci rimane soltanto il ricordo
dei piloni di cemento del grande ponte che mostrano le tacche delle ultime
piene, dicono che appena l’altro ieri il Po allagò, strade, campetti,
palestre, ristoranti, rimesse delle barche. Intanto, al bar del porto la gente
rumina notizie sul clima impazzito. Dieci sotto zero ad Amendolara, mondo boia. Meno sei a Monticelli, roba da matti. La nebbia che
finalmente ricomincia dopo troppe notti stellate.
Qualcuno
dice nel nostro Bar Sport di Campitello: “ Ci avete rotto le palle col vostro
effetto serra” sbotta un nonnetto, e mostra sul giornale le foto dei finocchi,
dei porri , dei cavoli e dei carciofi striminziti da quaranta giorni di
temperature artiche. Ride: “ Vi pare che faccia caldo?”. I padani
minimizzano sempre, sanno che il freddo e le magre sono sempre esistiti e che il
nostro allarmismo ecologico é spesso figlio della memoria perduta”.
“Paragoni col passato sono impossibili”, protesta Luigi Mattioli, un
altro che lavora al controllo del fiume Oglio. E spiega: il fondale si é
abbassato, tutte le misure sono falsate.
La
spiaggia dei tesori.
Nei
giorni che seguirono la nostra passeggiata sulle piagge deserte di Boretto, e
fra le dune e i vecchi relitti arrugginiti, emerseci dai fondali dopo la grande siccità di
questo inverno, ci siamo ritornati.
Un
vecchio pescatore, che era seduto su di una piccola una di sabbia a fumare
tranquillamente la sua pipa, mentre con gli occhi tristi scrutava l’orizzonte,
fatto di sabbia bianca, di relitti e di alberi spogli. Ad una nostra domanda sul
grande fiume, egli ci ha detto: “Il Po restituisce sempre quello che prende .A
volte passano anni, a volte secoli, tempi che sorpassano la vita degli uomini.
Ma il fiume non ruba, nemmeno le terre. Se le divora con l’impeto della
corrente durante le piene autunnali, ma d’inverno, quando ritorna nel suo
letto di magra, le riconsegna, lasciando le tracce del suo passaggio sulla
sabbia. Così, durante le secche, emergono le cose perdute negli anni. Barche,
ormeggi, a volte reperti storici o preistorici. Quando il grande fiume si ritira
esce di tutto: é come se si aprisse un grande
forziere. Quello che oggi voi state osservando, é il frutto della sua azione a
volte silenziosa e a volte tragica. Egli, aveva ragione di affermare tutto
questo, perché i vecchio e grande
fiume é così, a volte generoso che da la vita. C’è un posto fra le anse del
fiume dove si spegna la malinconia come il sole nel mare e ti senti libero perché
ti senti ritornato, ragazzo, a giocare fra le cose perdute nel tempo.
C’è un posto fra gli argini, l’orizzonte dei pioppi nella geometria della
pianura da non scordare mai, perché tra i filari spogli di questi pioppi vi é
l’aria della sera, ritrovi sempre il dolce incanto di una felicità perduta.
Forse, per noi, che non siamo nati in questi luoghi, ma nella parte estrema
della nostra penisola, essi ci invitano ad amare la natura, sfiorano il dolce
incanto della poesia e di quella felicità ritrovata: il fiume della vita.
Dopo
le rive spoglie e sabbiose di Boretto, il nostro viaggio esplorativo prosegue
verso Guastalla, e attraversando il lungo, lunghissimo ponte, incontriamo Dosolo.
Un ricordo di questo borgo antico, ci riporta indietro nel tempo,
e ci va rivivere le serate allegre, fra gente di diversa estrazione
sociale nel piccolo ristorante di Nizzoli, dove, per la prima volta, abbiamo
cenato a base di lumache . Prima di allora, non avevo mai mangiato le lumache,
ma come vengono cucinate da Nizzoli, non li cucina nessuno, e tu non puoi fare a
meno di non assaggiarle. E’ un piatto veramente squisito. Quella sera, parlo
di molti anni fa, avevo invitato alcuni amici in quel ristorante, per
festeggiare la riuscita di una mia mostra personale a Gazzuolo. Si, perché, in
quel tempo, oltre ad essere il maresciallo comandante la stazione dei
Carabinieri di Gazzuolo, trovavo
anche il tempo per dipingere. Siamo ritornati più volte in quei luoghi di
riviera, per osservare e dipingere il grande fiume della vita.
Ricordo,
che in una delle mie passeggiate lungo i sentieri del vecchio fiume, ho colto un
piccolo fiore su una siepe sparuta, un fiore azzurro come il cielo e profumato
di aria. Un piccolo saluto in questo mondo, in quel tempo incontaminato, mentre
oggi non si può dire la stessa cosa, e lontano dal traffico delle grandi città.
Durante
le nostre escursioni sulle montagne
dolomitiche e delle meravigliose Alpi, più di una volto incontrai tanti fiori
gialli come quelli del fiume, nati tra i boschi
e le vallate. Quella visione mi ricorda una bellissima e significativa poesia di
Romano Battaglia:
“C’è
un posto in cima al monte, fra
fiori
Gialli
e bianchi blocchi di marmo, dove
Si
vede il mare brillare nella sera che
muore
. Fra odore di erbe selvatiche, dolci
Ricordi
sciolgono il nodo alla gola che hai
Avuto
nel giorno. C’è un posto in cima al
Monte
dove si spegne
la malinconia
Come
il sole nel mare e ti senti libero perché
Sei
tornato, ragazzo, a giocare fra le cose
Perdute
nel tempo”.
In questa nostra nuova escursione, abbiamo compreso che camminare lungo
la riva del fiume il tempo passa più lentamente. Si, é vero, il tempo sembra
che si sia fermato fra la nebbia silenziosa che avvolge ogni cosa.
A
Dosolo la spiaggia dei tesori.
Ritmando
al piccolo villaggio di Dosolo, e ricordando
le avventure del vecchio fiume, ci vengono in mente moltissimi racconti
fatti da pescatori, barcaioli e
raccoglitori di radici e di altri oggetti, quando il fiume é in secca come é
successo quest’anno. Le correnti
e la secca mettono in luce numerosi reperti: da quelli bellici alle monete
antiche.
Spogliando
una ad una le pagine della Gazzetta di Mantova, inserite nel sito di Internet,
di mercoledì 6 febbraio, alla pagina 17, leggiamo un articolo del
corrispondente Francesco Romani, che ci da lo spunto per continuare il nostro
racconto sul grande fiume della Vita: Il Po.
“
Dosolo é uno dei punti “magici” dove la corrente più spesso porta sulla
spiaggia i reperti. “ La colpa é dei lavori a Guastalla” dice Gino Azzi,
vecchio lupo di fiume. “ Prima della guerra costruirono il pannello, la
massicciata sotto il pelo d’acqua che difende le sponde a fiume correggendo le
curve,. Ma così facendo é cambiato il flusso a valle e adesso l’acqua spinge
contro la sponda di Dosolo”. E proprio la corrente deposita ogni anno, durante
le piene, decine di reperti che nei periodi di secca, come quello eccezionale di
adesso emergono.
Le
tracce della guerra.
“
Nemmeno due settimane fa, passeggiando sulla sabbia, Carlo Azzi, ha trovato un
elmetto tedesco dell’ultima guerra mondiale: “ Aveva un foro di proiettile
su un lato” spiega lo scopritore. “ L’ho portato a casa, ma é in cattive
condizioni e arrugginito. Qui, durante la grande ritirata, i tedeschi passavano
il Po come potevano. Ma non conoscevano la forza del fiume e la sua pericolosità
e molti sono annegati”. Qualcun altro ha trovato anche un teschio ma é stato
nuovamente sepolto sotto la sabbia. Nel vicino parmigiano, un barcaiolo scorto
sotto l’acqua la torretta di un carro armato, ma come già sperimentato in
passato ad Ostiglia, il recupero in ogni caso sarebbe estremamente complesso e
necessiterebbe un grande dispendio di mezzi e denaro.
Il
ponte medioevale.
“Pochi
giorni fa, al culmine della secca, quando il Po si é ridotto ad un rigagnolo,
sono emersi dalle sabbie i piloni di sostegno di un ponte, proprio di fronte al
pontile degli Amici del Po. Si tratterebbe di un’opera medioevale, della quale
si possono vedere i pali infissi riuniti a mazzo da un cerchio in ferro. Forse
si tratta della testata di un ponte, visto che si sa che esattamente di fronte
sorgeva il castello di Dosolo, una costruzione massiccia le
cui pietre sono servite da cava per l’edificazione del mastio di San
Giorgio a Mantova.
La
barca - museo del pittore.
“Poche
decine di metri più a monte del ponte medioevale é l’Isola del peccato. Si
tratta di un sabbione a forma di mandorla il cui nome si perde nella notte dei
tempi e rimanda all’uso del luogo selvaggio, al riparo da occhi indiscreti,
che ne avrebbero fatto i vicini guastallesi. Qui la magra ha messo in luce le
parti del “ Ferrante Gonzaga”. Si tratta dell’imbarcazione in legno varata
negli anni Trenta e trasformata in casa - museo galleggiante del pittore
guastallese Giovanni Miglioli. La furia della iena dell’ottobre 2000 la
disancorò dal Lido Po di Guastalla trascinandola a valle. Parte della struttura
fu ritrovata a Riva di Suzzara ed ora il rimanente é emerso a Dosolo. Il
problema del recupero si preannuncia difficoltoso in quanto le piene primaverili
dovrebbero por termine alla secca. La corsa contro il tempo é già iniziata.
L’albero
dell’età di Cristo.
“Nel
borgo di Dosolo, abbiamo appreso dell’albero dell’età di Cristo,
del quale ne abbiamo trovato corrispondenza nel sito della Gazzetta di
Mantova. Ma ne abbiamo voluto sapere di più. Lasciato il borgo di Dosolo, ci
siamo immessi in una strada bianca che ci accompagna verso l’infinito, verso
le sponde del Po. Abbiamo trovato il vecchio albero. “ Ora fa bella
mostra di sé sulla riva del fiume. Ma come una sorta di mummia di Similaun,
prima di emergere dalle acque del Po nella primavera del 98, l’enorme tronco
é rimasto a mollo circa 1800 anni. La datazione l’ha fatta l’Enea con il
radiocarbonio situando il “decesso” fra il 130 ed il 430 dopo Cristo.
Calcolando che l’albero aveva 250 anni alla morte, si può considerare
contemporaneo dell’era cristiana. Pesante 230 quintali, per oltre 16 metri, il
tronco non ha ancora una collocazione stabile. “Siamo disponibili a darlo alle
istituzioni che lo vorranno conservare” dice Gino Azzi, uno dei primi ad
averlo avvistato nel 98. “ Se rimane all’aria il legno rischia di marcire.
Ricordo la fatica che abbiamo fatto per recuperarlo: tre giorni con 5 trattori
per smuoverlo. La notte la corrente ce lo spostava sempre. Alla fine abbiamo
dovuto fare un buco nella sabbia e infilarci sotto i carri da trasporto perché
il tronco era troppo pesante da alzare. Sembravamo gli egiziani con gli
obelischi” conclude ridendo. Ora il secolare
tronco é all’ombra della cattedrale dei pioppi, in attesa del
risveglio della primavera. Ma lungo la riva del fiume, il tempo passa più
lentamente che altrove.
La
piroga del Po .
“
La scorsa estate, lo sconvolgimento rappresentato dalla piena di pochi mesi
prima, aveva fatto emergere a Boretto (RE), di fronte a Viadana, un’antica
piroga. Un tronco scavato, la cui datazione é ancora incerta. Recenti studi
attribuirebbero il reperto, lungo una decina di metri, all’Alto Medioevo. Si
tratterebbe o di un’imbarcazione oppure della parte di una zattera per
trasporto merci o ancora un pezzo di pontile. Nulla di certo, insomma, tranne
che il lungo tronco scavato ora si trova nella sede del Museo del Po, a Boretto,
in attesa dell’apertura dopo i lavori di ripristino.
I
cercatori di tesori.
“Al
sabato e la domenica soprattutto decine di privati, alcuni con il metal -
detector, affollano le spiagge della zona alla ricerca di qualche ritrovamento.
Dalla sponda cremonese - mantovana a quella
parmigiana gli appassionati setacciano la sabbia alla ricerca di ogni
indizio che possa portare alla “ scoperta”. Pezzi di anfore romane,
vasellame medioevale e rinascimentale, monete non sono rare da trovare lungo il
corso del fiume che attraversa la pianura più ricca ed abitata d’Italia. E
diversi privati in casa hanno piccole collezioni di antichità o curiosità. Chi
non partecipa a queste “cacce al tesoro” sono gli archeologi. Lo spiega
Antonio Anghinelli, di Viadana, cercatore da decenni:
“ Le nostre ricerche avvengono solo in luoghi fissi. Solo così si può
studiare la stratigrafia e quindi capire la collocazione storica. Non ha senso
indagare un reperto trasportato dall’acqua”. I fratelli Anghinelli, li
abbiamo conosciuti molti anni fa, é precisamente negli anni Ottanta, quando noi
eravamo di stanza a Gazzuolo, quali
comandante di quella stazione Carabinieri. Ricordo di averli conosciuti nella
periferia di Belforte, sulle rive dell’ex lago Gerundo, dove per centinaia di
anni, hanno abitato delle tribù di pastori scesi dalle Arobbie. In quella
località, negli scavi da loro praticati, sono emersi diversi focolai, dove
quelle popolazioni primitive, cuocevano le loro vivande. Lì, hanno rinvenuto molto materiale archeologico, che oggi si trova nel
Museo di Mantova.
Quindi?
Avanti con i cercatori. A San Daniele Po, nel Cremonese hanno trovato due femori
di bisonte e poco più su una mandibola di “elephans primigenitus”, cioè il
primo discendente dei mammuth. Buona fortuna.
Il
nostro viaggio, alla scoperta delle spiagge del grande fiume, finisce qui,
vicino ad un cascinale abbandonato lungo la riva della memoria. Ma un filo
sottile di nebbia bassa e silenziosa sembra avvolgere ogni cosa, ma la storia
del grande fiume della vita, rimane sepolta sotto una soffice coltre bianca di
sabbia che attutisce e addormenta
la madre Terra.
Il
grande scrittore tedesco Hermann Hesse, così scrive del fiume .....
“Serenamente contemplava la corrente del fiume; mai un’acqua gli era tanto
piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il
significato dell’acqua che passa. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di
speciale da dirli, qualcosa ch’egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava
proprio lui”.
Anche
a noi, il grande fiume della vita, ha dato la stessa sensazione che ha provato
il grande scrittore Hermann Esse. Guardando lo scorrere perenne del
grande fiume, ci pareva che avesse qualcosa di speciale da dirci,
qualcosa che noi non sapevamo ancora, qualcosa che da tempo cercavamo ed
aspettavamo di conoscere proprio da
lui. Ci sono momenti nella vita di ognuno di noi che ci sembrano carichi di
significati: messaggi che ci sarebbero difficili comunicare agli altri,
definire, tradurre in parole, ma che appunto ci si presentano decisivi. Sono
annunci e presagi che riguardano noi stessi e il mondo insieme: e di me
non gli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma ciò che accade dentro,
nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d’essere
generale di tutto. Comprenderete dunque la mia difficoltà a parlare, a
scrivere, a raccontare, se non per
accenni.
Romano
Battaglia, così scriveva: “Addio fiume, io mi fermo qui, al confine tra terra
e mare”, mentre noi diremo, ci
fermeremo qui, lungo la riva sabbiosa del fiume, dove é sepolta la storia dei
popoli e del tempo, dove il tempo passa più lentamente che altrove, quasi come
lo scorrere delle sue acque.
“Il
tuo ricordo sarà sempre con me:
Passerà
il tempo e del fiume rimarrà solo
Un
segno o una voce che giunge dall’infinito.
Quando
non si udranno più le sue
Parole
a guidare il nostro cammino, allora
Anche
noi diventeremo un sogno, il
Grande
sogno del fiume della vita”.
L’ALTOPIANO
DI ASIAGO:
DA
QUI E’ PASSATA LA GRANDE GUERRA.
10
febbraio .
Spesso,
noi escursionisti, siamo come le tartarughe, ritorniamo sempre nei luoghi che ci
hanno in qualche modo impressionati. Questi rettili di mare, hanno registrato
nel loro DNA il viaggio, che
una volta all’anno, effettuano nei luoghi prestabiliti, per depositare le uova
e dare continuazione alla loro specie. Noi, invece, possiamo variare la stagione
del nostro ritorno, ma loro no. Ritornano sempre nello stesso luogo e nello
stesso periodo o addirittura nello stesso giorno.
In
genere, nelle nostre escursioni, cerchiamo sempre località nuove e diverse, ma
molto spesso si verifica, per motivi diversi, che ritorniamo nella stessa
località, come é successo oggi. Oggi, siamo qui ad Asiago, una località
storica a noi molto cara, perché da qui é passata la grande guerra, dove sono
sepolte le radici del nostro passato. E’ una località a noi molto nota per
esserci venuti diverse volte, ma ogni volta, ci sembra sempre la prima volta,
per le sue meravigliose bellezze e per la sua particolare storia. E poi, Asiago,
non é un luogo qualunque, é un luogo storico sito nelle Prealpi Vicentine,
dove tra i forti Astico e Brenta, Cima Dodici ed il Monte Ortigara, vi si
combatterono aspre battaglie nella guerra 1915 - 18.
Una
guerra totale che coinvolse direttamente anche l’Altopiano di Asiago che, come
noto, divenne teatro di alcune delle più sanguinose battaglie combattute sul
fronte italiano: la così detta Strafexpedition (maggio - giugno 1916) che nelle
intenzioni del Comando Supremo Austriaco doveva consentire alle truppe imperiali
di raggiungere la pianura veneta attraverso il saliente trentino oppure
l’Azione K, meglio nota come la Battaglia dell’Ortigara, con il suo
altissimo tributo di sangue; e ancora la Battaglia di Natale 1917 e la Battaglia
del silenzio ( giugno 1918) che, in particolare sui Tre Monti, segnarono la
ripresa capacità offensiva dell’esercito italiano dopo a rotta di Caporetto.
Combattimenti
che provocarono la morte di migliaia di soldati e che portarono alla
devastazione pressoché totale dei boschi e delle colture, alla distruzione di
paesi e contrade e con essi il prolungamento che costrinse le popolazioni ad
abbandonare la propria terra e cercare conforto con la sola speranza di poter
ritornare presto a ricominciare una nuova vita.
I
segni di quell’immane conflitto, pur ad ottant’anni di distanza, appaiono
ancor oggi in tutta la loro evidenza: dai resti delle trincee, dei ricoveri, dei
centri logistici, ai ruderi degli impianti idrici, delle stazioni delle
teleferiche; dalle rovine delle fortezze, all’estesa rete viaria e, ancora, ai
cimiteri, alle lapidi ed ai monumenti che ricordano le migliaia di soldati
caduti sull’Altopiano. Un patrimonio che proprio sull’Altopiano assume un
rilievo del tutto eccezionale e che, pur ad ottant’anni di distanza, manifesta
ancora una straordinaria forza evocativa.
E’
in questo contesto che é nata l’idea di predisporre una carta turistica
espressamente dedicata ai “ luoghi della Grande guerra” con l’obiettivo di evidenziare e rendere
leggibili quei segni che risultano in gran parte incomprensibili anche a causa
della mancanza di una adeguata segnaletica. Ma noi del gruppo CAI di Mantova,
seguendo la
segnaletica nota a tutti gli alpinisti, tracciata sulle rocce dei
sentieri, con i colori rosso - blu,
riusciamo sempre a raggiungere la
meta.
Nell’autunno
di due anni fa, nel mese di settembre, siamo saliti fin sopra la cima del Monte
Ortigara, ripercorrendo il sentiero scavato nella rocciosa montagna dai nostri
valorosi Alpini, per combattere il nemico di sempre: quello austriaco. Abbiamo
visto sventolare al vento il tricolore sull’alto pennone del Monte Lozze,
dove una squadra di vecchi alpini, ogni giorno, effettuano l’alzo
bandiera , per ricordare e non dimenticare
mai il valore dei nostri soldati. Sulla rupe del Monte, sorge una cappella
votiva, dove l’escursionista si ferma e piega il ginocchio e recita una breve
preghiera in suffragio dei caduti. Se si dovessero analizzare quelle rocce, su di ognuna di esse, sebbene sono trascorsi ottant’anni, vi
troverebbero ancora il DNA dei nostri eroi caduti, perché quelle rocce sono
state irrorate con il loro sangue
generoso, come pure le zolle dell’aspra e pietrosa montagna d’Ortigara.
Camminando fra i camminamenti, i fortini, i ridottini, le gallerie, i
sentieri e i campi di mughi, possiamo trovare sepolta la nostra storia ed i
ricordi lontani della Grande guerra. Ovunque, si possono trovare ancora cimeli e
oggetti appartenuti ai nostri soldati. Incontrare questi luoghi e come
incontrare l’Italia. Ed é incontrare l’Italia significa penetrare nella
cultura, nella tradizione, nel modo di vedere e intendere la vita e il mondo
propri di ciascuna zona di questa composita realtà socio - culturale che la
nostra Italia presenta. Ma soprattutto significa riuscire ad eliminare più che
il divario economico, la sostanzialmente assai scarsa comprensione e, quindi, la
fondamentale difficoltà di un dialogo aperto e fecondo fra il Sud ed il Nord
dell’Europa Unita, come pure quella del Nord
ed il Mezzogiorno della nostra penisola. Perché lassù, quando si combatteva,
non c’erano soltanto uomini del Nord, ma anche ragazzi del Mezzogiorno e del
Sud del nostro meraviglioso Paese.
Abbiamo
fatto ogni sforzo per realizzare l’Europa
unita, stiamo facendo, e questa é già una realtà, di tutto per realizzare quella economica con la
nuova moneta: l’Euro, ma adesso dobbiamo fare un ulteriore sforzo
per realizzare l’Europa politica; si fa di tutto - e ben a ragione -
per sensibilizzare soprattutto i giovani ad “ incontrare l’Italia e la nuova
Europa”, quell’Europa senza confini, senza le disastrose guerre che ci hanno
dissanguato e martoriato. Sono incisi in ognuno di noi i nomi di questi luoghi
che furono teatro di grande battaglie - Val Sugana, l’Altopiano di
Asiago, Pasubio, Cima Dodici, Monte Ortigara - essi evocano le aspre battaglie
combattute durante la prima guerra mondiale.
Transitando
per questi luoghi, ovunque, abbiamo visto un ossario, una lapide, un piccolo
cimitero, una croce su un sasso ricordano l’immenso sacrificio di vite umane.
Scoprire
e capire le più profonde radici della tradizione e della storia, é
fondamentale sia per il Nord - onde possa comprendere e quindi, amare il
Mezzogiorno -, sia per il Mezzogiorno stesso, onde possa “ritrovare se
stesso”, la coscienza della propria natura, che é, in fin dei conti, la
coscienza della propria storia. Gli storici e i politici si pongono ancora
questi problemi, tra Sud e Nord, ma lo scrivente, che ebbi i natali nella Old
Calabria, e che per oltre 40 anni, ha servito il nostro Paese, quale tutore
della Legge,. non ha mai avuto di questi tentennamenti. Ha trattato tutti sullo
stesso livello, perché sia nel bene che nel male, siamo tutti dello stesso
Paese.
CENNI
STORICI.
Da
un pieghevole che ci é stato fornito dall’Ente del Turismo di Asiago,
leggiamo la storia dell’Altopiano dei Sette comuni, nel quale lo storico
Patrizio Rigoni, così scrive: “ L’uomo sull’Altopiano: le selci e i
graffiti della Valdossa sono le “ fonti mute” che parlano di una preistorica
presenza umana sull’Altopiano, di una presenza comunque temporanea. Un
afflusso probabilmente stagionale, dovuto alla caccia e al prelievo della selce
( quassù abbondantissima), buona per ottenerne raschiatoi, lame, grattatoi. La
scoperta del villaggio del Bostel di Torzo ( 1781, Dal Pozzo) portò alla luce
le tracce di un popolo stabilitosi ( forse per primo) su questi monti: casette
interrate ed avanzi di stoviglie, manufatti di ferro e di bronzo, monete
d’argento ( di conio romano), ossa di animali ecc. Altri segni di insediamenti
precristiani sono stati trovati a Luisiana ( Corgnon) e ad Enego, con richiami
frequenti alla civiltà romana.
La
parlata cimbra é attualmente il documento più evocativo delle origini della
gente altopianese. Da chi discende la gente che ancora oggi usa correntemente
termini come rach ( muschio), rasetle ( scricciolo), loch (buca), tanna ( abete
bianco), pach ( rigagnolo), slenca ( fionda), tal ( valle), grabo
(fossa)......? Una lingua simile al tedesco. L’Altopiano, territorio un
tempo pressoché impraticabile e selvaggio, é stato certamente luogo di ripiego
e di rifugio per frange di tribù e di popoli che negli inquieti secolo post
romani, varcarono le Alpi. Immigrazioni tuttavia germaniche e, tra le ultime (
subito dopo il Mille) famiglie di coloni bavaresi, alla ricerca di terre da
disboscare, bonificare e da coltivare. Quassù, al sicuro, hanno riordinato la
loro vita e mantenuto nel tempo la lingua e i costumi originari. La parlata
cimbra é dunque riferibile ad un dialetto tedesco, o meglio, bavarese.
I
primi centri a formarsi furono Torzo ad ovest ed Enego ad est, in corrispondenza
cioè dell’avanzare della colonizzazione del territorio dai bordi verso il
centro. Sorsero via via gli altri, Gallio - Foza - Roana - Lusiana - Asiago, e
divennero ben presto Comuni, “ protetti” dapprima dagli Ezzelini, dagli
Scaligeri e dai Visconti poi (1400), dai quali ottennero pascoli
e privilegi economici necessari alla sopravvivenza in una zona montana
come questa. In tale periodo l’unione fra i Sette Comuni si rafforzò sino al
patto della Reggenza ( 1310) che permise l’autonomia politico - amministrativa
ed una propria milizia. L’insegna ideale che la sosteneva e guidava, sembra
racchiusa nelle parole: “ Dise saint Siben, Alte Komeun, Prudere liben”:
Questi sono i Sette Antichi Comuni,
Fratelli Cari.
Nel
1404, la Federazione dei Sette Comuni s’alleò volontariamente alla Repubblica
di Venezia, in una fedeltà che durò per quattro secoli ( 1807). Venezia
garantiva le esenzioni e i privilegi indispensabili alla Reggenza e le
richiedeva la salvaguardia dei confini settentrionali ( (importanti
strategicamente), impegno che costò ai Comuni, nel tempo, saccheggi e
devastazioni a più riprese (1487), 1508, 1805) eppure episodi di tenace
vittoriosa difesa.
Nel
1631 la peste, che desolava l’Alta Italia, raggiunse anche Asiago, cagionando
1500 morti ( Lazzaretto). Con la rivoluzione francese e Napoleone , Venezia
decadde ed anche la reggenza. Si passò poi
sotto l’impero austriaco ( 1815) e vennero cancellati di colpo i benefici fino
ad allora goduti, sostituiti di contro da tasse ed imposte, che portarono via
via l’Altopiano ad un’economia di pura sussistenza. Da qui l’emigrazione
verso le regioni più promettenti d’Europa e d’oltre oceano. In una delle
piazze di Asiago, nella nostra escursione nella cittadina, abbiamo potuto
ammirare un piccolo e significativo monumento in bronzo, dedicato appunto
all’emigrazione: una piccola famiglia, padre, madre ed un bambino, ognuno con
un piccolo fagotto, che raggiungono il
luogo di partenza.
Nonostante
le difficoltà, apparvero i segni del progresso moderno, con opere pubbliche, i
primi alberghi e le banche, nuove vie di comunicazione interne e con il piano.
La Legione Cimbrica ( forse 800 soldati) sorta nel fatidico 1848 e che contribuì
a contenere l’avanzata degli austriaci, comprova la partecipazione
dell’Altopiano al risorgimento. Parecchi volontari inoltre presero parte alla
II’ guerra d’indipendenza e alla spedizione dei Mille.
Nel
1866 ci fu l’annessione all’Italia. Ad un maggiore collegamento interno
contribuì efficacemente la costruzione del ponte sulla Valdossa (1906) e, con
la pianura, la realizzazione dell’ardita ferrovia a cremagliera (1909).
L’emigrazione però continuava, anche se cominciavano nuove attività (
estrattive, della distillazione ecc.) La I’ guerra mondiale, con l’Altopiano
zona di confine, é stato l’evento più tragico e disastroso della sua storia,
per la distruzione totale degli abitanti e del patrimonio forestale e per
l’esodo della popolazione. Il distacco e la dispersione dei nuclei familiari
ha causato lo “ sdradicamento ” dalla propria terra, un allontanamento
affettivo e culturale dalle conseguenze quasi irreversibili. Al ritorno, la
ricostruzione: paesi nuovi ma meno caratteristici. Dopo la ricostruzione, ancora
disoccupazione ed ancora emigrazione in un alternarsi che proseguirà,
purtroppo, anche nel secondo dopoguerra, perché le attività tradizionali erano
sempre insufficienti a garantire una crescita rispondente alle nuove esigenze
vitali. Verso gli anni Sessanta sé
quasi di colpo intensificata l’attività turistica con la costruzione di ville
ed appartamenti, di impianti sportivi e di tutto quanto comporta l’industria
del tempo libero. Tutto questo, nel nostro girovagare per i villaggi del
comprensorio, é una realtà tangibile, che noi abbiamo potuto constatare. Tutto
ciò ha prodotto una profonda trasformazione sia economica che sociale e
soprattutto culturale che costringe all’impegno di conciliare le attese di un
giustificato benessere con la necessità di salvaguardare la bontà del
territorio e l’identità culturale trasmessa dalle passate generazioni.
L’Altopiano
dei Sette Comuni.
Oggi,
10 febbraio 2002, siamo ritornato in questa ridente località bianca di neve e
riscaldata da un tiepido sole invernale, per trascorre una giornata diversa da
quelle padane, oscurate dalla fitta
nebbia che ti fa mancare il respiro ed ostacola la circolazione stradale, senza
parlare poi, dello smog. Il lamento é retorico: si deplora lo smog come si
deplora un assassinio, perché non deplorarlo apparirebbe sconvenienza. Ma una
flebile riduzione del traffico é temuta più dei veleni sospesi e ogni chiusura
temporanea di un’industria che appesta una città provoca rivolte popolari.
Ma
noi, quando possiamo, cerchiamo di evadere da questo stato di cose. Ma questo
desiderio di purezza, di pulizia, di verità, questo bisogno di dimenticare
l’ossessione del quotidiano lo proviamo anche noi. Per questo andiamo in
campagna, cerchiamo le isole tropicali, per questo i giovani si tuffano
nell’eccitamento della discoteca, per questo alcuni si dedicano alla
meditazione ed altri riscoprono la vita religiosa nei movimenti del risveglio
dello spirito. Per sollevarci, almeno provvisoriamente,
sopra la palude mefitica che ci risucchia e respirare un’aria più pura,
vedere un cielo più limpido, in contatto con qualcosa di nobile, di splendente,
di vero, come questo paesaggio meraviglioso di Asiago.
L’Altopiano dei Sette Comuni, dove oggi ci troviamo si estende tra la
Val Sugana e la pianura vicentina. Questo é un vasto pianoro ondulato, inciso
da numerosi torrenti. E’ appunto, l’Altopiano di Asiago, detto anche “ dei
Sette Comuni” poiché, dopo l’età feudale, come ci spiega la storia, le
genti della regione diedero vita a una libera confederazione tra i comuni di
Asiago, Roana, Rotzo, Lusiana, Foza, Enego e Gallio che durò fino al 1807. Da
Tiene si risale la Val d’Astico - dominata, sopra Tonezza del Cimone,
dall’Ossario degli Alpini - fino a Lavarone ( interessante il forte Belvedere,
esempio di ingegneria militare della grande guerra). Da qui si entra
nell’altopiano vero e proprio, attraversando dapprima terreni carsici e poi
vasti boschi e pascoli. Superata Asiago, si può piegare verso Bassano del
Grappa oppure proseguire fino al Brenta, che in questa zona scorre profondamente
incassato in una stretta valle dalle pareti ripidissime, chiamata “ Canale di
Brenta”, che separa l’Altopiano dei Sette Comuni dal massiccio del Grappa.
Questa
volta, non siamo saliti fin quassù con il gruppo CAI di Mantova, come al nostro
solito, ma con gli amici del Circolo CRAI dell’APAM di Mantova. Con questa
organizzazione, non é la prima volta che andiamo in gita nelle velli innevati,
ma ci siamo stati altre volte sulle
località montane. Oggi, hanno scelto la cittadina di Asiago: una località
turistica molto nota, al centro dell’Altopiano . Parlando di Asiago, diremo
che é stata distrutta nel 1916
dalla furia della guerra: un ossario sul Colle di Laiten accoglie le salme di
13. 000 caduti, italiani e austriaci, uniti nell’ultimo sonno. Dalla frazione
Sasso una caratteristica scala di pietra con (4444 gradini) costruita nel 1480
scende al Brenta.
Questi
ambienti alpini contraddistinti da numerosi ed evocativi toponimi suscitano
sottili curiosità semantiche sui luoghi visitati od attraversati; interrogativi
si pongono ai visitatori più attenti lungo l'Altopiano, intorno agli ossari, ai
forti e alle trincee o alle propaggini delle montagne, oppure contornando le
celebre cime come quella dell’Ortigara o del Monte Lozze
e del Monte Forno.
Ambienti
tutti ricchi di storia e di suggestioni, riuniti da sempre nel magico ambito del
regno di Asiago. Per introdursi in queste gruppi e località montuosi, non a
caso definiti “ monumenti del mondo” occorre saper ripercorrere, fra
inebrianti bellezze, le echeggianti rievocazioni di storiche vicende e le
singolari avventure della guerra e d’alpe, insinuarsi nelle pieghe di una
altura affascinante quanto remota, dove sempre aleggia lo spirito senza tempo
delle leggende alpine.
La
leggenda di Tiziano
Parlando
di montagne e di luoghi meravigliosi come questi dell’Altopiano di Asiago, ci
vengono in mente i Monti Pallidi, che pensandoci bene, non sono molto lontani da
qui, basta salire sulle cime più alte per ammirarne il loro profilo. Chi abbia
visto anche una sola volta lo spettacolo delle Dolomiti può comprendere come
sia nata la leggenda secondo cui Tiziano Vecellio intingesse i suoi pennelli
nell’arcobaleno dei Monti Pallidi. Il pittore di Pieve di Cadore, una delle
figure più rappresentative della pittura italiana del Cinquecento, si formò
artisticamente a Venezia ma é lecito pensare che il suo personalissimo stile,
caratterizzato da un acceso cromatismo, sia stato influenzato dalla natura e dai
colori del Cadore. Ce lo confermano precise annotazioni nelle sue tele, come nel
caso della Presentazione al tempio ( Venezia, Galleria dell’Accademia), in
cui, profondo e arioso, compare sullo sfondo un paesaggio montano delle
Dolomiti.
Qui,
nell’Altopiano di Asiago, non ci sono le Dolomiti che ci fanno da sfondo, ma
una meravigliosa cerchia di montagne altrettanto bellissime, che incoronano il
paesaggio dei Sette Comuni in un unico abbraccio. Dal rifugio Frubelek, dove noi
ci troviamo, e che é situato a 1500 metri di quota,
e che sorge nella frazione di Cauna di Roana, si domina un paesaggio
favoloso, che meriterebbe di comparire come sfondo di un quadro
d’autore del Cinquecento.
La
descrizione che fa Francesco Carrer, dei Monti Pallidi, la potremmo ambientare
benissimo in questi luoghi che circondano l’Altopiano di Asiago. Egli, così
scriveva dei Monti Pallidi: “Nell’arco delle numerose giornate proposte
sullo sfondo dell’ “enrosadira”, immergendosi fra evanescenti tonalità di
rosso e di rosa, con lo sguardo intento a decifrare le frastagliate quinte
rocciose di dolomia, capiterà di frequente, anche dietro l’angolo di rinomate
stazioni sciistiche di riflettere sulle magre sussistenze di un tempo, sulle
lontane tracce dei pastori, sulle ardite vie dei cacciatori e degli alpinisti.
“Dalle
propaggini delle pietrose montagne, dei fitti boschi che sorvegliano i dolci e
sinuosi prativi d’alta quota, luoghi dove “ l’altezza in sé non sempre é
importante” ritornano ancora attuali le annotazioni, pur nei diversi luoghi
alpini dove i monti parlano, del grande alpinista Giulius Kugy: “....
Risuonano i richiami dei falciatori e delle falciatrici, delle donne.... che
portavano di malga in malga, di alpe in alpe così sonori e limpidi sulla
valle... da una parte all’altra..... il sole che cantava. Anche questa é la
montagna che non mi ha mai abbandonato, la montagna che riscopro sempre”.
Dopo
lunghe giornate, interminabili settimane e forse anche mesi,
di nebbia stagnante, di una nebbia fredda e umida che ti penetra persino
nelle ossa, finalmente, possiamo godere di una giornata di pace
e soprattutto di sole, in
questo paradiso terrestre. La Valle Padana, si sa, d’inverno é così, non si
può cambiare, perché é dentro la sua natura, come é dentro il DNA della sua
gente. Questa é la patria, se lo volete o no, della nebbia opprimente ed
ossessionante da sempre.
Appena
superato il grande costone che separa la pianura Veneta dall’Altopiano, si
respirava un’altra aria: un’aria pulita e salubre. Non poteva mancare il
cielo azzurro e sereno, il sole tiepido e
splendente. Insomma, quello era un altro mondo. Ma se guardavi dal
finestrino del grosso torpedone, ti accorgevi che sotto di te, nella grande
pianura, vi era il limbo, quel limbo dantesco di lontana memoria. Qualcuno, non
ricordo chi fosse, forse una signora che era seduta dietro di noi, ha detto: “
Guardate laggiù, il lago immobile
e grigio”. Quello non era il lago, perché da quelle parti non c’è nessun
lago, ma era la nebbia stagnante che copriva ogni cosa e, alla signora, dava la
sensazione di un grande lago.
Quella era una visione di cose naturali che spesso sembrano reali ma spesso sono
allucinazioni, che colpiscono particolarmente e suscitano meraviglia.
Prima
di giungere ad Asiago, abbiamo attraversato un paesaggio collinare stupendo, un
paesaggi caratteristico imbiancato di neve. Se ci fossero stati
al posto degli abeti i lunghi filari di cipressi, avremo potuto pensare
di essere in Toscana, in quella terra antica e meravigliosa, che é a noi
familiare. Ma i meravigliosi cipressi, li abbiamo trovati anche ad Asiago, lungo
il viale che sale a Monumento Ossario.
IL
SACRARIO
Alle
ore 10 circa, il nostro pullman, si é fermato nel grande piazzale di fronte al
palazzetto del ghiaccio. E gli escursionisti ci siamo sparpagliati per la
cittadina di Asiago. Ma un piccolo gruppetto, quelli di Campitello, ed altre
persone ci siamo diretti verso il
Sacrario. Non c’era posto migliore dove
costruire il grande Monumento: il
Colle Leiter sovrasta la piccola cittadina, da dove si osserva un paesaggio
stupendo. Dal vertice del Monumento, sotto l’arco quadriforme, da dove
l’occhio spazia per un raggio di
trecento sessanta gradi, una cerchia
di montagne e colline imbiancate di neve, che furono teatro della Grande Guerra.
Si
sale una scalinata in marmo bianco e nella
piattaforma, che delimita il Mausoleo, vi sono sistemati quattro cannoni, con
relativi affusti, che fanno la guardia d’onere alle migliaia di caduti, che
riposano in pace nel sonno eterno della resurrezione.
Dall’ampio
vestibolo con grandi pilastri a tutta volta partono le de gallerie perimetrali e
la crociera. Al centro della cripta c’è la cappella ottagonale nelle cui
pareti di marmo Cipollino sono tumulate le Salme di 12 Medaglie d’oro e sopra
i loculi sono incisi i nomi di altre 14 Medaglie d’oro. L’altare é di marmo
Veronese, i loculi delle gallerie sono in marmo di Chiampo ed i contorni di
marmo della Val d’Adige. Il pavimento é di marmo di Piombino Chiaro
dell’Altopiano e la fascia di contorno é di marmo Nero sempre della Val
d’Adige.
Le
sculture dell’ingresso, quelle della cripta e le due Vittorie prospicenti
Asiago e Gallio, sono dello scultore Prof. Tullio Montini di Verona.
Le
due Vittorie verso l’acquedotto e l’Osservatorio Astrofisico, sono del Prof.
Cav. Giuseppe Zanetti di Vicenza. Tali sculture sono tutte in marmo di
Sant'Ambrogio Veronese.
I
portoni sono in larice ricoperto da pannelli in rame sbalzato di tipo romano e
sono dotati di speciali apparecchi di funzionamento e chiusura.
Il
23 Ottobre 1924 con regio Decreto é conferito ad Asiago il titolo di Città ed
il nuovo Municipio é stato inaugurato alla presenza del Principe di Piemonte il
21 settembre 1929.
Nel
Tempio Ossario di Asiago sono custodite oltre 60.000 Salme.
Per
fatti d’arme, sull’Altopiano sono state concesse 43 Medaglie d’oro
personali e 10 a Reparti.
I
caduti sono catalogati in 41 Cimiteri: 24.285 Italiani; 23.647 Austriaci: 723
Inglesi; 280 Francesi.
BREVI
CENNI SUL GRANDE
MONUMENTO
OSSARIO DI ASIAGO.
Presso
il Museo Storico della Grande guerra
1915 -1918, che ha sede in Canove, abbiamo ottenuto dalla custode: una simpatica
e carina signorina bionda, un pieghevole, nel quale, oltre ai dati della
realizzazione del Museo della Grande Guerra, contiene anche brevi cenni sul
grande Monumento Ossario di Asiago.
“
I primi contatti per l’erigendo Monumento Ossario di Asiago, avvennero in
Prefettura a Vicenza il 18 Settembre 1928.
Il
1’ Aprile 1931 venne accettato il progetto dell’Architetto Prof. Orfeo
Rossato di Venezia.
Il
28 Dicembre 1931, fra 14 concorrenti, vince l’appalto dei lavori l’impresa
veronese Cav, Guglielmo Roncari, con Direttore dei lavori l’Ing. Giuseppe
Roncari.
L’importo
dell’appalto fu di Lire 4.300.000.
Il
12 Febbraio 1932 fu deliberato dal Comune di asiago lo sbancamento del Colle
Leiter e la costruzione delle strade fino al cantiere nonché le condutture per
l’acqua fino all’altezza sufficiente per alimentare 2 serbatoi e il
drenaggio di scolo di tutta l’area del Monumento.
La
prima pietra fu posta il 19 Agosto 1932.
Il
10 Ottobre 1936 l’impresa costruttrice consegnava l’opera al Commissario del
Governo.
LE
MISURE
La
cripta é a base quadrata di m.80 di lato e m.7 di altezza, l’avancorpo della
scala é di m.12 X 40 e la soglia principale é a m.1044 s.l.m..
L’arco
quadrifronte ha il lato di m.23 e le arcate sono larghe m.9 ed alte m.22.
L’altezza totale é di m.47.
Il
materiale utilizzato fu estratto da 15 cave su un raggio di 20 km.
LA
CITTADINA DI ASIAGO.
Dopo
la visita doverosa al Sacrario, abbiamo ripercorso a ritroso il viale, che
qualche ora prima, ci aveva portato sul Colle Leiter, dove sorge appunto, il
Grande Monumento Ossario. L’appuntamento con il resto della comitiva era stato
fissato per le ore 11,30, per poi proseguire verso il rifugio Rubelek, che sorge
a metri 1220, nella frazione Cesuna di Roana. Quindi avevamo tutto il
tempo necessario per una visita alla Città di Asiago.
Asiago,
é una cittadina simpatica, accogliente, linda e deliziosa ,e quell’imbiancata
di neve la rendeva maggiormente caratteristica. Una sosta in un piccolo Bar, per
un caffè e un’ “ombretta”, come si dice da quelle parte, nel loro
dialetto veneto. Dopo il Bar, la passeggiata nel centro, e le piccole soste
davanti ai negozi, con le loro
belle vetrine. Ma non poteva mancare una breve visita al Duomo, per una breve
preghiera di ringraziamento, piegando il ginocchio per devozione davanti
all’Altare Maggiore. Prima di raggiungere il luogo d’attesa, dove c’era in
sosta il nostro torpedone, una breve visita al Museo della Guerra, e poi, su
verso Cesuna, dove ci attendevano per il pranzo.
IL
RIFUGIO TRUBELEK.
Da
Asiago, una strada stretta, una strada di montagna, sale dolcemente verso il
promontorio di Monte Zovetto, dove sorge il Rifugio Trubelek, a quota 1220
metri. Di lassù, si domina un paesaggio meraviglioso, da dove l’occhio spazia
fra orizzonti lontani e i luoghi che
furono teatro della Grande guerra.
Il Monte Ortigara, é posto in centro della cerchia degli altri monti a noi
noti, per esserci stati più volte con i nostri amici del CAI di Mantova.
Appena
giunti sul Monte Zovetto, alcuni del nostro gruppo, specialmente le donne,
attratte dall’allettante posizione soleggiata dei luoghi coperti di neve,
preferivano sdraiarsi al sole per prendere la tintarella, invece che entrare nel
rifugio per il pranzo. Il sole era caldo ed invitante, e poi, oltre al sole e la
neve, c’era la vista paesaggistica dell’intera vallata. Si, é vero, vedendo questi posti da sogno, ti viene
voglia di dire: Non c’è bisogno di andare nelle isole felici, nelle isole
tropicali, per trovare il sole e soprattutto la serenità dello spirito. Basta
salire fin lassù, nell’Altopiano di Asiago, per ritrovare la luce, la pace ed
il tiepido sole invernale.
Sotto
tale evocativa luce, con rinnovati stupori, diventa ancora riscopribile, anche
nella stagione delle nevi, l’Altopiano di Asiago, con le sue montagne i suoi
tramonti, i suoi pascoli, gli scoscendimenti, i riposanti pianori con le sue
malghe, i suoi rifugi, oltre a tanti altri segreti microambienti distribuiti
nelle pieghe delle dorsali.
Gli
altri anni, con l’organizzazione dell’APAM, siamo stati a Ponte di Legno e a
Moena. In entrambi le località, gli organizzatori, hanno impiantato una grossa
tenda da campo con le cucine e le
varie attrezzature, per preparare la polenta , le salamelle e le costine alla
griglia ed il vino brûlé. Quest’anno, non é stato così, non ce stato
bisogno del tendone e delle altre attrezzature, perché si sono appoggiati al
Rifugio “ Trubelek” di Monte, Zovetto, che hanno pensato loro a confezionare
il pranzo per tutta la comitiva. Però, mancava qualcosa, mancavano le grosse
pentole con il profumato vino brûlé.
Non
é stata una gita qualunque, é
stata una vera festa sociale, una festa come quella che facciamo con il CAI,
alla fine della stagione escursionistica. Il
Rifugio “Trubelek” é il vero e proprio rifugio alpino fatto esclusivamente
per gli escursionisti e per gli sciatori di discesa, posto a quota
1220 metri, dove la natura qui é ancora pura e incontaminata. E’ meta
preferita e punto d’incontro della maggior parte
degli escuirsionisti che riscoprono il fascino della montagna innevata e
il piacere di una allegra compagnia.
Quest’anno,
siamo stati fortunati. Ovunque, in questi ultimi giorni, é caduta tanta neve,
una nevicata attesa, non solo dagli
escursionisti ed amanti della montagna, ma soprattutto dagli operatori dello
scii.
Oltre
agli amici e conoscenti di Mantova, i soci del Circolo CRAL, vi é la squadra
dei Campitellesi, gli amici di sempre, quelli che il 27 gennaio u.s. siamo stati
al “ Fondo Piccolo di Folgaria”, dove abbiamo trascorso una meravigliosa
giornata fra quelle montagne appena spruzzate ed imbiancate di neve fresca.
Oggi, non é che ci siamo
allontanati di molto, perché le montagne di Folgaria, sono le stesse che
cingono l’omonimo altopiano circondato
di boschi che ricoprono le
pendici del Monte Cornetto, ove vi sono molte possibilità escursionistiche,
come quelle ai forti austriaci e
alla torbiera di Echen. Proseguendo sulla SS.
Nr. 350, che porta al Passo Coi, da dove prosegue sull’Altopiano dei
Sette Comuni, fino ad Asiago. Quindi, possiamo dire, che la distanza é
breve. Dopo questa premessa, veniamo al clou della nostra giornata sul
Monte Zovetto.
Appena
giunti al Rifugio “ Trubelek”, si sentiva nell’aria un profumo allettante
di carne arrostita alla brace: un profumo che sollecitava le nostre papille
gustative, quelle della lingua, atte a percepire i sapori, e già prima di
assaporare quelle delizie culinarie, il nostro stomaco , mediante l’acquolina
in bocca, li digeriva prima ancora
di introdurle. Appena entrati in
quel locale, che probabilmente un tempo lontano, era stato adibito al ricovero
degli animali ed ai pastori, é stato trasformato in un accogliente rifugio: un
rifugio dove l’escursionista possa
trovare riposo e ristoro.
C’è un tempo in cui l’uomo ha bisogno di incontrare altri suoi
simili, con i quali trascorrere attorno ad un desco, un momento di riflessione e
anche e soprattutto, un momento per rifocillarsi e riposare le sue membra
stanche. Quando la malinconia ci travolge l’anima, quando ci sembra che nulla
abbia più un senso, a chi possiamo rivolgerci? A che cosa possiamo aggrapparci
per non venire travolti dallo sconforto? E’ in questa situazione, la cosa
migliore é trovarsi in un luogo come questo, con gli amici, le persone care per
stare insieme e ritrovare
l’allegria perduta. Un vecchio proverbio dice:
l’allegria é la contentezza e la gioia di stare insieme. Ogni tanto,
concedersi una giornata di allegria con gli amici é il massimo che
l’individuo può aspirare.
IL
rustico locale.
Appena
entrato in quel locale, mi ha dato la sensazione di essermi trovato in
una bolgia: l’ottavo cerchio dell’inferno dantesco: luogo chiuso e afoso
dove l’aria é irrespirabile e dove c’è anche un baccano infernale.
Al
centro della grande sala, vi era un grosso camino, un camino che poteva essere
definito la ciminiera di una fornace, tanto era grande. Aveva quattro lati ed
alla base di questi lati, vi era un’apertura circolare come quella che
avevano i vecchi forni a legna per
cuoceva il pane. In ognuna di queste aperture, vi era una grossa griglia in
ferro, sopra la quale si stavano cuocendo le
braciole, gli stinchi e le salamelle. L’aria non era irrespirabile, ma
il profumo della carne arrostita era piacevole. Quello che c’era
e sovrastava ogni cosa, era il chiacchiericcio prolungato e sommesso
dei numerosissimi astanti. Attorno ai tre lati del grande camino, una
fila di tavoli apparecchiati ed i clienti che aspettavano il pranzo. Nella parte
anteriore, vicino all’entrata del
locale, vi era il bancone del Bar, dietro il quale i locali della cucina e la
stanza dei servizi.
La
nostra comitiva, oltre ottanta persone, é stata sistemata nel locale attiguo:
un locale rettangolare della capienza di oltre cento persone. Nei dieci lunghi
tavoli, sistemati come i banchi di una chiesa, con ai fianchi e di fronte, tre
grandissime finestroni attraverso i
quali, si poteva osservare una veduta meravigliosa del paesaggio sottostante.
Mentre attendevamo che ci servissero il pranzo, Adriana mia moglie, mi ha
detto: “ Diego, guarda quelle finestre, non ti sembrano tre meravigliosi
quadri di un grande autore del Settecento? Si, aveva veramente ragione. Più che
dei quadri, ti dava la sensazione di ammirare ciascuna
dei vari pannelli, dipinti a colori, che posti ai lati del palcoscenico di un
teatro.
Il
pranzo che ci hanno servito, non é stato un semplice pranzo, uno di quelli
mordi e fuggi, ma un pranzo pantagruelico, degno di Pantagruel, personaggio di
F. Rabelais ( 1494 -1553), descritto come un gran mangiatore e bevitore.
Le
portate sono state numerose, come quelle di un pranzo di nozze, soltanto che
mancava la sposa e i confetti, ma per il resto era anche più ricco. In quella
occasione, ci siamo, per così dire, trasformati in grandi divoratori, come
fu Pantagruel. Alla fine dei primi piatti, é giunto il momento della
seconda portata: una montagna di
carne arrostita ai ferri, quella carne che abbiamo visto cuocere nelle
graticola.
Quello
non era un modesto pranzo turistico, ma una festa sociale, soltanto che mancava
l’oratore. Le libagioni sono state anch’esse abbondanti, come pure il dolce
finale e le bottiglie di grappa. In poche parole, alla fine del pantagruelico
pranzo, eravamo quasi tutti se non brilli, molto allegri e felici di aver
trascorso una meravigliosa giornata sull’Altopiano di Asiago.
I
sentieri dell’Amicizia.
In
questi convivi, in queste feste sociali, in queste passeggiate ed escursioni sui
sentieri del nostro meraviglioso Paese, possiamo dire, e non c’è ombra di
dubbio, che nasce la vera amicizia.
Il
convivio di domenica, si potrebbe definire una festa da favola che ha sapore
irreale, ma che nasconde la ricerca continua dell’uomo moderno che si trova
confuso e smarrito in un universo di messaggi spesso contraddittori, alla
ricerca della verità e della vera amicizia.
Si,
é vero, oggi non c’è più amicizia fra gli uomini, quell’amicizia di un
tempo ormai lontano.
L’amicizia é fragile. Non resiste alla sfortuna. Quando un amico viene
accusato, anche ingiustamente, gli altri si allontanano. Non resiste nemmeno
alla fortuna, perché chi ha successo spesso diventa orgoglioso, e chi resta
indietro viene afferrato dall’invidia. L’amicizia dura solo se gli amici si
impegnano seriamente a restare in rapporto, a capirsi, ad aiutarsi, ad essere
reciprocamente fedeli.
Un
vecchio proverbio dice che “ l’amicizia si deve coltivare. Cosa vuol dire?
Vuol dire che, se sono veramente amico di qualcuno, non devo incontrarlo solo
quando se ne presenta l’occasione, non devo parlargli solo quando mi chiama.
Ma devo anche telefonargli per sapere come sta, cercare di capire se ha bisogno
di qualcosa, essere pronto ad aiutarlo prima che lui me lo chieda.
Nel
mondo moderno, abbiamo compreso, che si é diffuso il principio morale che
afferma: “ Sii spontaneo, agisci seguendo i tuoi impulsi, dii’ ciò che
pensi. E’ sempre meglio la verità che l'ipocrisia. Se sei di malumore, non
costringerti ad essere gentile. Se sei irritato, rispondi male. Se l’altro non
ti piace, diglielo in faccia. Se non andate d’accordo litigate apertamente.
L’esaltazione
della spontaneità é uno dei motivi del naufragio della coppia moderna. La vita
di coppia é possibile solo se riusciamo a farci carico dei bisogni, dei sogni,
dei desideri dell’altro. Io sono felice se mia moglie é felice, se si
realizza nel suo lavoro, se ha successo. Sono infelice se mi accorgo che soffre,
che é amareggiata, delusa, avvilita. Perciò cercherò di fare di tutto quanto
posso per renderla contenta, per aiutarla ad esprimersi. Non posso porre al
primo posto i miei impulsi, i miei malumori, i miei capricci.
E’
sbagliato contrapporre spontaneità e dovere. Io sono spontaneo anche quando
mi rendo utile agli altri, sia questi amici, familiari o semplici
conoscenti.
La
spontaneità della vita di coppia é come quella della danza. Quando vediamo
danzare due ballerini, abbiamo una straordinaria impressione di naturalezza. Ma
alla base di quella spontaneità e di quella grazia, non ci sono due spontaneità
separate. Al contrario c’è la ricerca volontaria di un accordo, di una
armonia, di una intesa perfetta che si realizza con un lungo studio, provando e
riprovando. La spontaneità é il fiore che sboccia da questa convergenza delle
volontà.
Quanto
vale per la coppia vale, ancor più per l’amicizia.
IL
PAESAGGIO NORVEGESE DI PASSO COE.
Domenica
17 Febbraio 2002.
Di
tanto in tanto capita ad ognuno di noi di sentire
o leggere una parola, un detto o un
pensiero che ci colpisce particolarmente e che ci fa bene. Due espressioni
m’hanno sorpreso ultimamente perché forti, sincere e piene di senso. La
prima, di un amico ( un amico speciale e che mi porta in dietro di alcuni anni
nel tempo, e mi fa rivivere momenti belli della vita, di quella vita vissuta
nel piccolo borgo medioevale di Gazzuolo:
Il
paese di Giovanni Nuvoletti, “che in fondo non era che una strada, tutto una
lunga strada ordinata e abbellita di qualche palazzotto, di un nobile porticato
e di tante dignitose casette”.
(Gazzuolo,
un tempo si apriva e si apre
tuttora, in una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le continue
bonifiche redimevano. Fra gli alti pioppi si alzavano i canti della antica
pazienza, intrecciandosene qualche nuovo delle prime rivolte, un paese che diede
lustro e potenza ai Sig. Gonzaga). Franchino Guizzardi, così si chiama il
nostro amico, egli si esprime in questo senso: “ In gioventù, non pensavo a
tante cose, ma ora che sono giunto all’età matura,
vorrei saperla accoglierla con la stessa paga serenità con cui si vive
la sera dopo una giornata meravigliosa come questa, in compagnia degli amici di
oggi e soprattutto di quelli di ieri.”
E’
senza dubbio una frase dettata da un animo quieto e fiducioso, di uno che sente
d’aver orientato l’esistenza sulla strada giusta. Nella mia vita, ho
compreso che abbiamo un po' tutti
bisogno di confidenze personali autentiche perché ci confortano e confermano
nel nostro credo, nella nostra filosofia di vita. Ho compreso inoltre, che
bisogna aprirsi all’amicizia, per essere felici, perché l’uomo del nostro
tempo é solo e va sempre alla ricerca del tempo perduto e dei valori della vita
che non ci sono più. Un vecchio proverbio così recita: “ Non é mai troppo
tardi, per ritornare sui sentieri della vita , per
riscoprire le nostre radici”.
Patrizio
Rigon, in un suo articolo così scriveva: “ Il tempo di vivere che ci é
concesso, come la salute, le capacità, le risorse fisiche e spirituali, e senza
dubbio, anche quelle economiche di cui disponiamo, sono capitali da “
spendere” per i vicini e i lontani, in nome di una fratellanza che non ha
confini. La vita non é una vacanza, anche se c’è chi fa di tutto per farcelo
credere. E’ il “mondo”, evangelicamente parlando, che tenta in cento mila
modi di addomesticare la nostra fede cristiana, di renderla innocua, indistinta,
equivocabile”.
La
serenità a compenso della stanchezza di una operosa giornata su queste montagne
e sentieri innevate, dove l’occhio spazia all’infinito: credo che sia questa
in fondo anche la “paga” degli uomini del CAI che svolgono volontariato, di
chi si da fare - mente, cuore, mani
- per alleviare, sostenere, confortare, soccorrere, aiutare, servire non importa
chi. Tutto questo, secondo il mio modesto modo di vedere le cose, é vera
amicizia.
La
seconda, é la natura, questa natura meravigliosa che ti circonda e t’invita e
ti ama: “riposati nel suo seno”, mi diceva un vecchio amico escursionista:
uno che la montagna la conosceva molto bene, “ che essa ti apre sempre: quando
tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso sole sorge sui tuoi
giorni”.
Noi
oggi siamo qui, su questi sentieri innevati, alla ricerca di noi stessi, alle
ricerca delle nostre radici, alla ricerca di
un momento di riflessione e di felicità, circondati da vecchi e nuovi amici:
gli amici di sempre. Parlando di montagne e di luoghi come questo, dove noi
oggi respiriamo a pieni polmoni, qualcuno ha scritto questi semplici ma
significativi versi:
“.....
ci sono montagne che
sfiorano
il cielo come i
sogni,
e distese in cui
tutti
i sogni si perdono”. ....
Romano
Battaglia, così scriveva: “ La vita stessa porta l’uomo a fare bilanci e ad
accorgersi degli sbagli commessi, dei gesti mai compiuti, delle parole mai
dette. Oggi siamo tutti presi dalla preoccupazione di vivere e in questa corsa
con il tempo spesso dimentichiamo il piacere di esistere”.
Un
tempo antichi Re si facevano seppellire sulla riva sinistra del Nilo, in una
valle sassosa, vicino a Karnak, e sulle pareti delle loro tombe si leggevano
parole cariche di nostalgia. Ma noi oggi non siamo sulla riva sinistra infuocata
dal sole del vecchio Nilo, ma sui contrafforti pietrosi delle montagne del
Trentino, dove ci sono seppelliti i generali, gli alpini e gli umili fanti del
Sud d’Italia. Nel bianco e grandissimo Mausoleo di Asiago, neppure una
settimana fa, abbiamo letto, uno ad uno i nomi degli eroi italiani
e anche di quelli austriaci, che hanno sacrificato la loro vita per il
bene del nostro meraviglioso Paese e, per un’Europa libera e unita.
Questi
sono i contrafforti folgaretani, da dove é passata la Grande Guerra, e dove si
trovano barbicati i forti più famosi del Trentino. Sull’omonimo Dosso prativo delle Somme, a quota 1670 m. in
posizione splendidamente panoramica, si trova il forte Dosso. Sotto a
strapiombo, si apre la valle di Terragnolo mentre di fronte si staglia l’ampio
e maestoso massiccio montuoso del Pasubio, tetro di drammatiche vicende
belliche.
Costruito
negli anni 1907 - 1914, il forte era costruito da tre corpi di fabbrica
collegati mediante gallerie scavate nella roccia. Una copertura di calcestruzzo
e putrelle di ferro dello spessore di tre metri e mezzo proteggevano la
struttura dai tiri delle artiglierie italiane dislocati tra gli anfratti del
Pasubio e gli obici da 280 collocati al Passo della Barcola. L’armamento era
di 4 obici da 100 mm, montati su cupole girevoli e da 22 postazioni di
mitragliatrice. Uscito dal conflitto danneggiato ma sostanzialmente integro,
venne distrutto - al pari degli altri forti di Sommo Alto e Chèrle
- negli anni Trenta per recuperare le putrelle d’acciaio che conteneva.
Oggi si presenta come un ammasso di rovine ma é in corso di attuazione un
progetto di recupero che renderà il forte più visitabile e più sicuro. Quando
siamo entrati in questi forti, ci sembrava di visitare
le rovine dei Templi Greci e di quelli Romani. In un certo senso, si
possono anch’essi definire dei veri templi: i templi della guerra.
A
poca distanza da Passo Coi, dove noi oggi ci troviamo, sorge il Forte Chèrle,
é uno dei forti maggiormente dirupato. Questo Forte era chiamato dagli
austriaci Werk S. Sebastian. Da una piccola lapide murata in un angolo del
forte, abbiamo appreso che fu costruito dal primo tenente Eugenio Luschisky.
Forte Chèrle rappresentava il terzo caposaldo armato dell’altopiano di
Folgaria. Era fornito da 6 obici da 10 cm montati su torrette girevoli, di un
osservatorio blindato, di due cannoni da 60 mm e di una serie
di postazioni di mitragliatrice. La storia ci dice che sostenne un
bombardamento intenso da parte delle artiglierie italiane del Forte Campomolòn.
Tutt’oggi, i pascoli circostanti la fortezza mostrano i crateri lasciati dalle
granate italiane, ultima testimonianza dell’inferno di ferro e fuoco che
avvolse il forte nei giorni della grande offensiva. Nei pressi vi é la Scala
dell’imperatore, una lunga scala costruita nel 1917 in onore dell’imperatore
Carlo d’Asburgo in visita al fronte degli Altopiani di Asiago. Data la
vicinanza con l’ex cimitero militare era chiamata anche la Scala dei morti.
Nei pressi, si possono vedere ancora i
resti dell’ex ospedale militare del
forte.
IL
FORTE BELVEDERE DI LAVARONE.
Proseguendo
sulla dorsale panoramica sull’alta Val d’Astico, sull’altopiano di Luserna,
sulle guglie di Tonezza e sull’altopiano dei Fiorentini, abbiamo incontrato il
complesso fortificato del Forte Belvedere di Lavarone. La storia ci racconta che
questo forte fu costruito tra il 1908 e il 1914 con il compito principale di
controllare la Val d’Astico che si apre a strapiombo ai suoi piedi, Forte
Belvedere é l’unica tra le sette fortezze edificate sugli Altopiani ad essere
sfuggita parzialmente all’opera demolitrice degli anni Trenta, attuata dal
regine fascista nell’ambito della campagna “Ferro alla Patria”.
Non
poté essere comunque evitata l’asportazione delle torri corazzate ( cupole
girevoli in acciaio di 20 cm di spessore), sostituite in seguito con delle copie
in cemento.
L’armamento
del Forte.
Oltre
che sulla sua invidiabile posizione, Forte Cshwent basava la propria superiorità
su un armamento di prim’ordine. Era infatti attrezzato con tre obici da 10,5
cm in torre corazzata, più due cannoncini da 80 mm e altri due da 60 mm; poteva
inoltre contare su 22 postazioni di mitragliatrice. Era anche munito di un
profondo fossato ritagliato nella roccia che rendeva vano ogni tentativo di
attacco dalla sottostante valle dell’Astico.
Come
rinasce il Museo di Forte Belvedere
Visitare
Forte Belvedere restaurato e arricchito del nuovo museo sarà come seguire un
racconto sulle vicende della Grande Guerra sugli Altopiani. L’allestimento
museale, come scrive Maria Pace, Assessore al Turismo del Comune di Lavarone,
previsto per il forte, prevede infatti una narrazione storico - didattica con
immagini e reperti nelle sale maggiori del blocco casematte, movimentata e
completata da allestimenti speciali in alcune sale: “ la trincea”,
“l’infermeria”, “ il colore della guerra”, etc.
Tra
le sezioni nelle quali il percorso si articola, corrispondenti ai piani della
struttura centrale del forte, ovvero delle casematte. Le sale a pianterreno sono
dedicate alla storia del Forte dalle origini al restauro in corso. Il primo
percorso si conclude con la sala dedicata alla storia della comunità di
Lavarone durante il conflitto.
Al
primo piano vengono delineate le operazioni militari e gli eventi bellici che
videro protagonisti gli Alpini, inseriti nel più ampio contesto della guerra
italo - austriaca. Viene dato spazio anche alla storia di guerra del forte e
ella sua guarnigione e a una rilevante sezione espositiva riservata alla guerra
di montagna, la cosiddetta “ guerra bianca”. Il secondo piano é dedicato
alle tematiche generali della prima guerra mondiale. Si tratta di una sezione
didattica che comprende le cause e una sintetica cronologica della guerra
europea, con approfondimenti riservati alla vita dei combattenti in trincea,
alla “ guerra industriale”, alla propaganda e alla memoria del conflitto. In
questo contesto si inserisce la ricostruzione di una trincea: qui il visitare si
può rendere conto, per così dire all’interno, degli angusti spazi e delle
precarie condizioni della vita del soldato al fronte nella Grande Guerra. Le
opere di restauro e riqualificazione del Forte Belvedere sono in fase di
avanzata esecuzione. Esse comportano - é utile ricordarlo - consistenti
interventi che sono stati organizzati e articolati secondo distinti lotti
funzionali. Si tratta innanzitutto di lavori per consolidare le strutture del
blocco casematte. Poi é stato necessario liberare il forte dai rimaneggiamenti
successivi alla costruzione, in modo da ridare ad esso la sua immagine
originale, e rifare il manto di copertura in lamiera di zinco, secondo i criteri
dell’epoca”.
Insomma,
una volta sistemato e restaurato il Forte Belvedere, con il ripristino
del paesaggio, sarà un richiamo turistico che completa quello escursionistico
della montagna, alla ricerca della verità perduta.
Camminando
su questi sentieri pietrosi, sotto il peso dello zaino, ricordo di essermi
fermato un momento davanti ai ruderi di questi forti e di aver colto un piccolo
fiore su una siepe sparuta, un fiore azzurro come il cielo del Trentino e
profumato di aria. Un piccolo saluto in questo mondo incontaminato e lontano dai
rumori del traffico delle grandi città.
In
quella piccola sosta, in quel luogo che fu teatro di drammatiche vicende
belliche, con quel piccolo fiore azzurro fra le mani, mi é venuta in mente una
lirica di Romano Battaglia, che così recita:
“
Pensa alla tua felicità per tutto il tempo
che
vivrai, fino a quando ti sosterranno le
forze.
Non smettere di appagare i tuoi
desideri,
fino a quando non verrà il giorno
della
traversata senza ritorno. Perché coloro
che
se ne sono andati sin dal tempo
del
Dio, non sono più tornati. Si può cercare
il
loro nome, domandare dove sono,
ma
della loro casa non resta più un solo
mattone
e il viso non sarà più cosa significhi
un
giorno di festa. Essi sono partiti, se ne
sono
andati. Ah se l’avessi saputo!
E’
tutto ciò che resta da dire......”
PASSO
COE
Dopo l’ultima nevicata di questi ultimi giorni, il Passo Coe, ci sembra
oltre che un paesaggio da Presepe, un paesaggio norvegese, stretto e stritolato
dalla morsa dei ghiacci di quell’inferno bianco, oppure una località della
sconfinata steppa della grande Russa, dove i nostri Alpini combatterono quella
guerra non voluta, ma imposta dal regime fascista. Ma questo paesaggio
meraviglioso di Passo Coe, fa parte dei profondi orizzonti del verde e bianco
Trentino. Questa nostra passeggiata
sulla neve, ci ha dato la possibilità di ammirare
le montagne che hanno ispirato il poeta nel comporre questi semplici versi, che
abbiamo riportato sopra: “ Ci sono montagne che sfiorano il cielo come i
sogni, e distese in cui tutti i sogni si perdono”. Mentre noi percorriamo
questo luogo incantato, questo paesaggio da favola: un sentiero appena tracciato
dal “ gatto delle nevi”, che attraversa longitudinalmente l’intera
vallata, dove le montagne sfiorano il cielo come i nostri sogni. Oltre a noi,
moltissime altre persone
percorrono il nostro itinerario, soltanto che noi seguiamo il tracciato un passo
dopo l’altro, mentre gli appassionati di sci di fondo, sfrecciano come saette
verso la grande valle bianca di neve. E’ una neve
soffice e leggera, che copre indissolubilmente ogni cosa, mentre ai lati
della valle fanno corona
le alte e meravigliose abetaie
che bucano il cielo, un cielo grigio che profuma di neve. Senza dubbio, é un
paesaggio senza uguali, che noi della pianura non siamo abituati a tanta
meravigliosa bellezza. Se osservi
da vicino queste stupende piante, ti da la sensazione che da un momento
all’altro possono precipitare, tanto sono carichi di soffice neve. Il sole si
é fatto vedere per pochissimo tempo, quel tanto per osservare questo
meraviglioso paesaggio incantato, ma ben presto é sparito dietro la massa
nuvolosa ed é incominciato a nevicare. E’ caratteristico camminare sotto la
neve che scende a larghe falde, ti
da un senso di pace e di allegria nello stesso tempo, mentre continuiamo la
nostra lunga passeggiata fino in fondo alla valle. Da lontano ci sembravano
tante piccole baite in mezzo alla neve, ma quello non é un villaggio agricolo,
ma una cittadella militare abbandonata. E’ un complesso di casematte, rifugi
sotterranei, bunk, magazzini e
depositi di materiale bellico. Il gestore del Rifugio “ La Stua”, dove ci
siamo fermati per il pranzo, ci ha detto che quelle che abbiamo visto, sono le
caserme della Nato (North Atlantic Treaty Organization - organizzazione politico
- militare del Patto Atlantico). Negli
anni Ottanta, il generale James Lee Dozier, era il comandante
delle truppe Nato della Regione del Nord Ovest
e quindi di quella cittadella militare, ora abbandonata per cessate
esigenze politico - militare, con i Paesi dell’Est. In quel periodo, l’alto
ufficiale, venne sequestrato dalle Br e liberato dai NOCS
della Polizia a Padova nel 1982.
Come
abbiamo avuto modo di osservare, non solo nel secolo scorso si sono costruite
bunker e fortezze su questa dorsale
Appenninica dell’Altopiano di Folgaria, ma anche nel periodo della “Guerra
Fredda”, come testimoniano le
caserme della Nato nel fondo valle
di Passo Coe, che abbiamo visto da vicino.
La
nostra poetica e distensiva passeggiata, sotto quel cielo spennellato di grigio
e il paesaggio disteso ai nostri piedi, con in fondo alla valle la cittadella
militare abbandonata, luccicava appena dalla neve fresca che continuava a
cadere dolcemente sui bunker, sulle casematte, sui prati e sui boschi delle
antiche abetaie, dove la brezza soffiava tra i rami e un uccello audace sfidava
l’inverno col suo canto solitario.
Dalla
finestra del Rifugio “ La Stua”, guardando quella immensa distesa di neve
che persino accecava gli occhi, ebbi la sensazione che quella valle
meravigliosa piena di tutto quello che contiene l’inverno é nulla e
tutto nello stesso tempo. Luce sacramentale e oscurità del grigiore
di una giornata nevosa. Sono il vuoto, sono tutto ciò che esiste, sono
in ogni ramo verde ed aghiforme dei
pini e degli alberi del bosco, in ogni fiocco di neve, in ogni goccia di rugiada, in ogni particella di cenere che il vento
e la neve trascina via, sono nulla e sono tutto il resto in questa ed in altre
vite, immortale. Perché la vita é
come un soffio, come la penna d’ala d’uccello ferito, da valle in valle
portata del vento che tutto trascina.
ALTOPIANO
DI SIUSI.
24
Febbraio 2002.
Abbiamo
incominciato questa nostra lunga cavalcata dei ricordi, viaggiando sul filo
della memoria, che richiama immagini, nozioni
e avvenimenti del nostro passato prossimo e del nostro presente, partendo dai
luoghi dell’infanzia, dalle pendici del massiccio dell’Aspromonte, per
approdare qui, sull’Altopiano di Siusi, nel cuore delle Dolomiti. Scrivere
libri di viaggio, come cerchiamo di fare noi
da alcuni anni,
spesso queste rievocazioni sono noiosi, ripetitivi, e non colgono nel
segno le cose veramente importanti. E poi vanno sostenuti con una prosa
adeguata, in modo che diventino un’opera letteraria. Per fare tutto questo, ci
vorrebbe la prosa semplice, chiara e scorrevole di un vero narratore. Come
abbiamo detto altre volte, “noi non siamo scrittori di professione, ma
semplici cultori della letteratura, dell’arte e soprattutto della natura.
In poche parole, siamo autodidatta. Le cose le vediamo sotto un’altra
ottica, sotto un altro punto di vista da come le potrebbe vedere un vero
scrittore. Quando dobbiamo scrivere qualcosa di una località o di un paesaggio
che ci hanno maggiormente impressionati, andiamo subito al nocciolo del
problema, senza curarci del resto. In poche parole, ci manca l’arte dello
scrittore e l’occhio di lince di cogliere tutte le sfumature. Eppure, a tutto
questo, noi siamo avvezzi, perché abituati a cogliere ogni minima sfumatura,
ogni piccolo indizio per risolvere un
caso, un’indagine di Polizia giudiziaria. Ma svolgere indagini di P.G. é una
cosa e scrivere dei libri escursionistici é un’altra. Per quanto riguarda il
campo delle indagini, bisogna seguire dei canoni diversi, seguendo delle norme
basilari, criteri fondamentali e assoluti: i canoni di una scienza, di un'arte:
comportarsi secondo alcuni criteri fondamentali che riguardano la criminologia,
mentre raccontare la visione di un paesaggio, l’impressione che si ha avuto di
un luogo o l’immagine che ha suscitato in ognuno di noi, ci vuole la prosa semplice , chiara del narratore che
riflette un’osservazione diretta della realtà e la compone in un quadro
efficace.
Lo
scrittore Stefano Malatesta, in una intervista ha così detto: “ La conoscenza
dei luoghi é il fatto più importante, i miti e le leggende le apprendi solo
con l’esperienza diretta e personale, e se sai ascoltare gli altri”. Noi
oggi ci troviamo sull’Altopiano di Siusi, al cospetto delle meravigliose cime
dolomitiche: il Sasso Piatto e il Sasso Lungo, in questo, che abbiamo definito
il “ deserto bianco”. Noi mediterranei, si, perché io non sono un
settentrionale e neppure un padano di nascita, ma di adozione e abbiamo
un’immagine di questo meraviglioso e nello stesso tempo spettrale “deserto
bianco di neve” come una realtà straordinaria ma monotona. Cosa non vera,
perché queste montagne dolomitiche che ci circondano sono piene di storie
magnifiche.
Il
nostro é un atto d’amore di
questo “ deserto bianco”, un viaggio dentro le sue storie e i suoi
affascinanti tramonti. Nelle nostre escursioni come questa di oggi, andiamo
sempre alla ricerca di qualcosa da raccontare. Nel capitolo precedente, che
abbiamo illustrato l’Altopiano di Folgaria, che poi non é altro che la
continuazione dell’Altopiano dei Sette Comuni e con al centro Asiago, abbiamo cercato
di raccontare la storia dei Forti austriaci barbicati sui pendii dei
contrafforti delle Alpi e dei campi di battaglia con i suoi camminamenti, le
gallerie scavate nella roccia dagli Alpini. Mentre ti inoltravi in quelle zone
dove é passata la Grande Guerra, c’era un’aria di mistero, mentre
l’atmosfera continuava a cambiare . Un vecchio
alpino di Asiago, che un giorno abbiamo incontrato sul sentiero che porta
al Monte Ortigara, ci disse: “Chi
vive fra queste montagne muore molto vecchio a meno che,
un giorno una valanga non ti
seppellisce prima, oppure un’altra guerra non scoppia e infuria fra queste
montagne. Speriamo che tutto questo non si verifichi mai più”.
Non
é la prima volta che noi saliamo fin quassù, e ogni volta abbiamo compreso che
la grande forza sprigionata da queste austere montagne, ha grandemente appianato
le numerose divergenze dovute alle diverse realtà storiche e umane, dalle molte
vallate che vi si addentrano e che la circondano. Queste
superbe cime, bianche di neve, che bucano superbamente il cielo terso e
meraviglioso, sono uniche al mondo per la loro estrema varietà di forme e di
contrasti, Dario Scarpa, scrivendo delle Dolomiti, nel suo libro “
Dolomiti”, ha scritto: “ Le Dolomiti si possono definire il regno
dell’armonia e la fonte di perenne giovinezza. Arditi profili, rocce
articolate, creste bizzarramente sagomate e frastagliate
risaltano ovunque in primo piano spesso assumendo l’incantevole aspetto
di una fiabesca e capricciosa ricostruzione. Molto complesso sarebbe definire
minuziosamente la struttura geologica di questi gruppi montuosi. Interessante é
però sapere che le singolari masse rocciose delle Dolomiti si differenziano
nettamente dalle normali formazioni calcaree, poiché sono composte da
un‘insieme di doppio carbonato di calcio e magnesio chiamato “dolomia”. La
storia ci ricorda che questo nome é legato al famoso geologo Déodat de
Dolomieu che nel 1789 analizzò per primo tale composizione. Mentre la geologia,
scienza che si occupa della costituzione della Terra, cioè dei processi che
hanno determinato la formazione, la struttura e la distribuzione delle rocce
sulla sua superficie nel corso delle varie epoche, ci dice che, circa settanta
milioni di anni fa, le Dolomiti emersero dai flutti di un profondo mare sotto
forma di un fantastico paesaggio chiazzato di scuro e di verde. Oggi, in questa
meravigliosa giornata di fine Febbraio, limpida e soleggiata, noi escursionisti
del CAI, che veniamo dalla brumosa Val Padana, abbiamo avuto il privilegio di
poter ammirare le sue rosee vette che puntano dritte al cielo e sembrano poi
veleggiare nell’aria pura di un silenzioso ed infinito spazio. Questa
bellissima sensazione, l’abbiamo provata
questa mattina, quando faticosamente il torpedone arrancava su per i tornanti
ripidi dell’Altopiano. Sopra di noi, signoreggiava il superbo massiccio dello
Sciliar con le staccate Punte Santner ed Euringer, parzialmente
illuminato dal sole, assumeva la figura di un gendarme a guardia della
valle, ma più che di un gendarme, mi dava l’impressione di una grande nave
che veleggiava in un grande mare
fatto di nuvole biancastre basse, di nuvole che sembravano nebbia, ma che nebbia
non era. Esse coprivano la montagna
e la valle sottostante. Superato il
costone, con i suoi ripidi tornanti, ecco che siamo entrati nel suggestivo e
meraviglioso Altopiano di Siusi, dove la natura si é dimenticata di metterci gli alberi. Appena scesi dal pullman, ci ha dato la
sensazione di trovarci in quell’inferno bianco della
tundra, nella pianura caratteristica delle zone artiche, dove per molti
mesi dell’anno, sono coperte di neve.
No,
non eravamo nell’inferno bianco dell’Artico, ma semplicemente nel
meraviglioso Altopiano di Siusi. Inventare classifiche di montagna é difficile
ed ingiusto poiché tutte sono degne di essere incoronate. Al nostro cospetto,
sulla nostra destra, facevano bella mostra di se, il Sasso Lungo e il Sasso
Piatto. Questi due gruppi pressoché posti al centro della Regione Dolomitica,
possiedono però qualcosa di diverso degli altri sia per imponenza, sia per
un’insieme di graziate e superiori forme. Ad oriente degli ondulati pascolo,
che oggi sono coperti di candida
neve. Dell’Alpe di Siusi e sopra le testate delle Valli di Fassa e Gardena si
eleva il maestoso ed impervio Gruppo del Sasso Lungo.
Il
nostro piccolo gruppo di escursionisti, sotto un sole splendente, stiamo
procedendo, passo dopo passo, sull’Altopiano di Siusi, che si trova
all’interno dei tormentati fianchi delle loro altissime e fredde sponde del
Sasso Piatto e del Sasso Lungo, che racchiudono il vallone pianeggiante, che in
origine non era altro che un cratere, una cavità imbutiforme e collinare,
punteggiato da piccole baite di legno, dove i contadini altoatesini custodiscono
il fieno e abitano nel periodo estivo, mentre il bestiame pascola nei verdi
prati. La nostra meta é la parte opposta dell’Altopiano, dove c’è un
piccolo ristorante, che sorge ai piedi della montagna, dietro la quale si trova
la Val Gardena.
La
minuscola comitiva: quattro persone in tutto, giunti al centro dell’Altopiano,
ci siamo fermati davanti ad una di queste baite, per ammirare le bellezze del
Gruppo: - Sasso Lungo e Sasso Piatto - mentre il sole ci illuminava il volto e
ci riscaldava il cuore e le membra.
La
nostra amica Marisa, ad un certo punto mi ha chiesto: “ Diego, mi sai dire di
quelle due montagne meravigliose che ci stanno di fronte, quale é il
Sasso Lungo? Si, Marisa, vedi quella grande montagna alta e meravigliosa
che buca il cielo? Ebbene, quello é il Sasso Lungo, mentre quella che sembra
coricata, é il Sasso Piatto. Il primo é il re delle Dolomiti, esso
si eleva con la sua alta mole per m.3181, e bisogna prima di tutto
intendere, quel colossale blocco roccioso che lungo circa duemila metri e con
pareti alte più di mille forma la testata settentrionale del gruppo. Questo
gigantesco sasso a cui s’aggrappano tetti e campanili oltre che essere il vero
signore della Val Gardena, é una fra le più classiche e grandiose montagne
dolomitiche. Al fianco del sovrano Sasso Lungo fanno elegantemente da corte una
serie di satelliti minori costituenti la zona centrale. La Punta Cinque Dita m.
2996 é un’ardita pala che conclude il suo lancio con una cresta frastagliata
e composita. Al Passo Sella si mostra sotto forma di un poderoso palmo di mano
destra ben evidenziando le sue snelle cinque dita. Questa vetta é stata
paragonata ad una grande cattedrale ricca di campanili intrisi di ghiaccio é
invece la sua faccia settentrionale. Poderosa si eleva vicina la Punta Grohmann
m. 3126.
Questa
bella é tormentata piramide segna l’estremità orientale delle pareti che
dominano il versante fassano, dal quale é partito l’originale battesimo di
Sasso Levante. In questo complesso dolomitico, si trovano una miriade di altre
alte cime meno conosciute, perché vengono spesso confuse con la massiccia mole
della Punta Grohmann. Una serie di paurosi scivoli e camini ghiacciati la
circondano all’interno rendendola ardita e di riflesso molto ambita da
numerosi alpinisti. Dalla parte opposta, cioè dalla Val Gardena, affilato e
strapiombante si presenta poi il Dente del Sasso Lungo m.3001. Bello da vedersi
da ogni lato questo acuto canino roccioso é sicuramente la cima più
impegnativa del gruppo. Per questa peculiarità che riveste ogni suo componente
il Sasso Lungo risulta il gruppo dolomitico alpinisticamente più gagliardo e
difficile. Nonostante che questo piccolo mondo alpino si possa definire una
riserva e soprattutto un banco di priva per provetti rocciatori. Ho letto da
qualche parte, che si possono ugualmente effettuare numerose incantevoli
escursioni, ma ti assicuro, mia cara Marisa, che questi sentieri non fanno più
per noi. Noi, siamo costretti a guardarli da lontano, come stiamo facendo
adesso, per cogliere le sue meravigliose bellezze.
Dopo
due ore di cammino sulla soffice neve fresca, che in certi punti nascondeva
l’insidia dei lastroni di ghiaccio e che in certi altri sprofondavamo fino al
ginocchio, finalmente, siamo arrivati al piccolo rifugio. Dalla terrazza
antistante, dove ci é stato servito il pranzo,
perché all’interno dell’unico locale, era occupato da alcune squadre di
escursionisti austriaci, sotto i raggi di un pallido e piacevole sole
primaverile, da dove si poteva godere
una vista eccezionale, che abbracciava tutta la valle con allo sfondo i signori
delle Dolomiti: il Sasso Lungo ed il Sasso Piatto. In questi luoghi di pace,
lontano dal rumore e dai gas di scarico sono la parola d’ordine ed il
paradiso luminoso dell’Alpe di Siusi mantiene
sempre quanto promette. Non solo d’inverno, quando nevica come oggi, l’Alpe
di Siusi mostra la sua veste migliore; anche d’estate ha il suo fascino per
noi escursionisti, rocciatori, appassionati di mountainbike, amanti della natura
e tutti coloro che sono attratti dal mondo alpino. Molti turisti, hanno tirato fuori dallo zaino la macchina fotografica e alcuni la
cinepresa, per scattare e catturare sulla pellicola la fotografia ricordo,
quella fotografia da mettere in
evidenza nell'album dei ricordi. Si, perché noi, ormai viviamo soltanto di
memorie e di ricordi.
In
questo riposante paesaggio altoatesino ogni esigenza turistica viene soddisfatta
con grande sensibilità e coronata da un notevole complesso di attrezzature
sportive, ristoranti, piste sciistiche ed impianti di risalita.
L’Altopiano di Siusi, data la sua particolare posizione, é dotato da
un servizio di pronto soccorso aereo. Infatti, al centro della Valle, a fianco
alla baita rifugio, stazione in continuazione
un elicottero per ogni
emergenza.
La
piccola bufera.
Adesso
si é alzato il vento, passa attraverso le gole delle montagne con un sibilo
lungo e modulato. Smuove le rade piante abbarbicati
alle rocce. Più saliamo e più la montagna si fa brulla per la rarefazione
dell’ossigeno. Il clima da queste parti cambia con facilità: adesso c’è il
sole e subito dopo può venire
anche una tempesta di neve
accompagnata dal vento gelido del nord. Oggi é successo di tutto: il sole é
improvvisamente sparito, il cielo si é coperto da nuvoloni neri oscurando il
sole. E’ incominciato con un leggero spostamento di vento, più o meno rapido
e intenso , dovuto a diversità di temperatura e di pressione, mulinava la neve
e la spostava da un luogo ad un altro, come succede con la tempesta di sabbia, tipica delle regioni desertiche ,
che sposta e annulla le dune, la stessa cosa stava succedendo sull’Altopiano
di Siusi. In poco tempo, questo venticello costante e quasi tiepido, si é
trasformato in un vento gelido, in una tempesta
con neve, che ci sferzava il volto come se fosse uno scudiscio. Si procedeva
lentamente e a fatica sul cocuzzolo della collina, ma una volta sottovento, cioè
nella parte opposta a quella dalla
quale soffiava la tormenta, tutto
era ritornato alla normalità.
Adriana
mia moglie, ha superato molto bene quel momento cruciale, riparandosi con il suo
inseparabile ombrellino, mentre la signora Maria, oltre alle sferzate della
gelida tormenta, era sofferente da
una patologia non definita che la
costringeva a continue e impreviste soste, per soddisfare i suoi impellenti
bisogni. In questi giorni, parlando di questo caso con
il mio amico Danio Dott. Martelli, mi ha detto che potrebbe trattarsi di
una “fibrillazione”, che in medicina vuol dire “ alterazione del
ritmo cardiaco: la “ fibrillazione atriale ventricolare”: Tale patologia
potrebbe essere dipesa dalla paura, oppure dal freddo o da una qualsiasi
preoccupazione.
Si
sa, di questa stagione invernale la montagna é fatta così: ora brilla il sole
e poco dopo soffia la bufera. Bisogna essere preparati a tutte queste variazioni
climatiche.
La
quiete dopo la tempesta.
Succede
sempre così anche nella vita di ognuno di noi: dopo la tempesta ritorna sempre
il sereno.
Intanto
scende la sera, e il sole calando dall’alto del cielo, fra non molto si tufferà
dietro il massiccio dello Sciliar, mentre la nostra piccola squadra, con il sole
che era ritornato ad illuminarci
il viso, in fila indiana e passo dopo passo, si stava avvicinando nella
piazzola dove era parcheggiato il pesante automezzo e gli altri amici sciatori
di fondo che ci stavano attendendo al Gasthof Albergo. Ciò voleva dire, che la
giornata era terminata, e poi si notava del cielo che era spennellato di rosso,
il rosso del
tramonto che si rifletteva sull’intero paesaggio innevato del meraviglioso
Altopiano di Siusi.
Gaston
Rebuffat, così faceva a scrivere:
“
Lassù, tra terra e cielo
abbiamo
trovato non solo la realtà,
ma
soprattutto la verità
della
montagna e dell’alpinismo,
in
questo noi miravamo
e
questa é stata
la
nostra grande ricompensa”.
PASSO
SAN PELLEGRINO
La
nostra lunga cavalcata dei ricordi dall’Appennino Calabrese, dai luoghi che mi
videro fanciullo, ai contrafforti Dolomitici, si ferma qui. Come si dice, in
gergo comunemente parlando, siamo giunti al termine di questa
nostra ennesima fatica letteraria, nella quale ci vidi adolescenti e
adesso uomini maturi, giunti al culmine delle nostre conoscenze umane, é come
entrare in un sogno, nel sogno della realtà della nostra vita
E’
trascorsa appena una settimana dall’ultima uscita escursionistica
nell’Altopiano di Siusi, ed eccoci nuovamente nel cuore delle Dolomiti.
Ad est di Trento e di Bolzano una fitta rete di strade consente di addentrarsi
in ampie vallate dominate dalle più famose vette e catene dolomitiche: i
Lagurai, le Pale di San Martino e quelle, meno note ma altrettanto suggestive,
di San Lucano, il Catenaccio, il Sasso Lungo, il Sella, le Tofane. E anche di
percorrere valichi altissimi, dai nomi quasi leggendari: Pordoi, Sella,
Falzarego. E quasi una cavalcata nella memoria e nel cuore di un complesso di
montagne unico al mondo, paradiso per scalatori e semplici escursionisti come
noi, ma anche ricco di memorie artistiche e culturali.
E’
da poco che siamo entrati nella Valle della Magnifica Comunità, nel settore
mediano della valle percorsa dall’Avio che prende nome di Val di Fiemme: i
suoi limiti sono il Lago di Stramentizzo e Valle Moena a monte; più oltre si
apre la Val di Fassa. Quelli che d’estate sono estesi pascoli terrazzati,
vasti prati e un patrimonio forestale d’eccezione costituiscono gli elementi
fondamentali del paesaggio, dominato a sud da una delle più solitarie catene
dolomitiche, quella dei Lagurai. Questi luoghi bellissimi, oggi li vediamo
coperti da un manto di candida neve , anzi direi bianchissima, tanto che ci
abbaglia gli occhi nell’osservare questo paradiso terrestre. La storia di
questa valle é esemplare per quel che concerne la gestione dell’ambiente. Lo
so, e di questo ci rendiamo conto,
che spesso siamo ripetitivi, ma non possiamo fare altrimenti nel parlare di
questi luoghi a noi familiari e della sua storia.
Non
possiamo esimerci dal raccontare
una pagina della storia di questa vallata così bella e meravigliosa. Nel 1110,
con riconoscimento vescovile, veniva sancito l’atto costitutivo della
Magnifica Comunità della Val di Fiemme. Con quel documento gran parte dei
boschi e elle foreste diventavano di proprietà collettiva: da allora ogni
prelievo di legname é stato accortamente calibrato per consentire il naturale
rinnovamento del manto forestale, primaria fonte di reddito per le popolazioni
locali.
Quella
legge, é rimasta tale e quale, ma il reddito della popolazione locale é
cambiato con l’avvento del nuovo turismo. La Val di Fiemme, oggi é una
località molto rinomata per il turismo estivo ed invernale.
MOENA.
Moena.
L’abbiamo definita un Paese che, in ogni stagione, conferma il fascino della
sua storia antica, di quella storia che abbiamo da poco accennato, nel pieno
rispetto di quel ruolo che da sempre la riconosce come “ La Fata delle
Dolomiti”.
Risorse
naturali e possibilità ricreative costituiscono il riferimento più stimolante
per una vacanza diversa, impregnata di contenuti che soddisfano anche i palati
più esigenti e che si ispirano sempre a motivazioni di straordinaria intensità.
Non
solo i colori dell’estate, ma anche e soprattutto quelli
dell’inverno, quando l’ambiente diventa messaggio accattivante con i prati e
la montagna piena di fiori , di natura, di neve
, di silenzi e di tradizioni, di vallate
, di pianori e di montagne, dove i rumori diventano
improvvisamente ovattati. Insomma, ti da la sensazione di camminare sulle nuvole
bianche del cielo.
L’inverno,
come quest’anno, con le ampie distese di neve, la modernità delle piste e
degli impianti, il fascino dello sci, alpino e nordico.
Ritornando
a parlare di Moena, diremo che oltre ad essere una cittadina che ha il sapore
della storia, é una località turistica sviluppatasi in una conca prativa
incorniciata dalle “ crode” dolomitiche del Latemar e del Catenaccio.
Accanto alla parrocchiale ( rifatta in questo secolo, conservando il campanile
gotico) sorge la chiesetta di S. Volfango, con affreschi quattrocenteschi e un
soffitto ligneo barocco. Affreschi settecenteschi ornano alcuni edifici
dell’abitato. Ma le attrattive non sono soltanto queste. La cittadina, oltre
ad essere famosa per lo scii di fondo, é anche conosciuta per le sue
meravigliose “fontane di ghiaccio”, che fanno bella mostra di se, lungo il
greto del fiume che l’attraversa.
Prima
di giungere in questa simpatica cittadina dolomitica, é cessata la pioggia
battente: una pioggia che ci ha fatto rattristare e
che ci ha accompagnato fino alle alture di San Lugano. Cessata la
pioggia, ha incominciato a nevicare, facendoci ritornare il sorriso e con esso
il buon umore di sempre.
Subito
fuori Moena, quella leggera nevicata
si é fatta più intensa e la
strada Provinciale per San Pellegrino, era coperta di neve. La nostra meta era
appunto quella rinomata località. Non é la prima volta che saliamo fin lassù,
ma ogni volta ci sembra sempre la prima volta. Quella é una vallata bellissima,
un costone di alte abetaie cariche di neve. Il cielo, dopo la pioggia, si é
oscurato, assumendo il
caratteristico colore plumbeo: il grigio plumbeo delle grandi nevicate. Infatti,
la neve cadeva a larghe falde, tanto che il torpedone slittava ed é stato
necessario munirlo dalle catene per la neve. L’ultima nevicata della notte
scorsa é stata abbondante, facendo felici grandi e bambini.
Entrando
in un sogno.
Proseguendo
la provinciale che attraversava la grande foresta di abeti, ti dava la
sensazione di entrare in un sogno. Giunti sull’altopiano del Passo di San
Pellegrino, vi abbiamo trovato una marea di sciatori, di pullman e di
autovetture parcheggiate. L’aria era resa in respirabile per il gas di scarico
degli automezzi, tanto che ci sembrava di essere giunti in una grande città
satura di veleni.
Appena scesi dal grosso torpedone, non ci siamo fermati neppure per
sorbire un caldo caffè, e in fila indiana, ci siamo avviati verso la nostra
meta: il Rifugio Fuciade, che sorge
a quota 2394 m, é situato in una posizione tranquilla e soleggiata, punto di
partenza per escursionisti sia estive che invernali. Osservandolo da lontano,
sembrava che si toccasse con le
mani, ma il percorso: una strada sterrata che taglia dolci praterie, oggi,
coperto di candida neve, che era alquanto distensivo
e poco faticoso.
L’inverno,
con le ampie distese di neve, la modernità delle piste e degli impianti, il
fascino dello sci, alpino e nordico, é il paradiso degli escursionisti.
La
strada forestale era resa agibile dal “gatto delle nevi” e dalle moto
slitte, che facevano servizio fino al rifugio, trasportando i pigri
escursionisti che non avevano voglia di camminare.
La
strada segue l’ondulazione della montagna e i piccoli tornati si susseguono
uno all’altro in mezzo ai boschi delle abetaie cariche di neve. Stavamo
entrando in un mondo senza tempo, in un paesaggio lunare e metafisico.
L’immensa cortina di conifere e faggeti spogli schermavano il pallido, anzi il
pallidissimo sole che occhieggiava di
tanto in tanto al di là della volta vegetale, mobile rosone di una cattedrale
assediata dall’abbondante nevicata. Il contrappunto tra il gorgoglio del
piccolo torrente e il ritmo pulsare
della moto slitta che ci superava mi risuonava nelle orecchie come il ticchettio
di due orologi accordati per andare all’unisono, solo che questi due orologi
privi di lancette.
Uno
dietro l’altro, come una squadra di alpini e con passo lento e poco cadenzato,
si continuava a salire verso la montagna bianca e meravigliosa. Le ore
trascorrevano velocissime, precipitando come polvere nel largo imbuto di
clessidra della mia mente. Ma la strada forestale continuava a salire, mentre il
sentiero era circondato dalla cortina impenetrabile della foresta dei
meravigliosi ed alti abeti, talmente alti che sembrava bucassero il cielo in
cerca della luce. La cui volta nascondeva la vista del cielo e delle
meravigliose montagne: fu come entrare in un tunnel che ci conduceva fuori dalla
realtà, fuori della notte per farci entrare in un sogno.
Come
d’incanto, all’improvviso, le faggete e le grosse abetaie erano sparite e
davanti a noi si é presentato un paesaggio strano, un paesaggio lunare, avvolto
da nuvole basse e bianchissime che
si confondevano con la neve che
a sua volta avvolgevano anche le alte montagne.
Ci siamo resi conto che stavamo entrando in un mondo senza tempo. Per un
momento ti dava la sensazione che quel
paesaggio fosse irreale, un paesaggio inventato dalla fantasia di un grande
scrittore. Non era così, quello era un piccolo paradiso terrestre. Quando la
neve cade, quell’angolo dolomitico indossa vesti fra le più belle, e diventa
come uno sterminato mare bianco dal quale svettano le montagne e le sottostante
foreste come fossero grandi isole verdi.
Mentre
i miei passi s'inoltravano verso il pianoro ondulato e riparato dai picchi
nevosi in quel paesaggio fantastico, dove la natura aveva dimenticato di
metterci gli alberi, ma gli uomini negli anni passati,
avevano costruito tante piccole baite, che sembravano le casette delle
fate e che punteggiavano quell’angolo felice. Dai fumaioli di quelle casette
di legno, continuava ad uscire un filo di fumo, ciò voleva significare che
anche lassù c’era la vita che pulsava. Sopra di uno di quei comignoli di
pietra e annerito dal fumo, risuonò, rompendo il silenzio quasi opprimente, il
rauco richiamo di qualche uccello sconosciuto e gli fece eco il verso
cinguettante di una nera e simpatica taccola, che si era posata sul tetto della
baita successiva.
Conoscevamo
quel luogo, per esserci stati l’anno precedente, ma ci sforzavamo di riconoscerlo, tanto era fantastico. Ci
sembrava di essere entrati in un mondo ancora vergine, un regno fatato e
inventato da me e che Adriana e io avremmo continuato a inventare insieme.
Quello,
non era un luogo inventato dalla mia fantasia, ma un luogo reale e meraviglioso,
dove l’uomo vive con i suoi pensieri e i suoi sogni, la sua
serenità alla ricerca costante della felicità perduta.
“
Ho sempre pensato alle montagne come preghiere pietrificate, per dire a tutti
gli uomini della terra che Lui esiste, che é lassù, nell’infinito.
Kailas
é la montagna sacra del Tibet dove abita Dio: nessuno é mai salito sulla sua
vetta sacra. Una volta all’anno i pellegrini si recano ai suoi piedi a
pregare, qualcuno vi arriva camminando in ginocchio per trovare la via della
purificazione. Molti anziani muoiono ai suoi piedi con gli occhi rivolti verso
la cima, e la gente crede che siano stati chiamati da Colui che abita lassù. In
un certo senso, anche noi scalavamo
quella montagna senza tempo, per ritrovare noi stessi e la purificazione della
nostra anima.
Reinhold
Messener ha detto che “ più saliamo, più conosciamo noi stessi. Più
l’uomo conosce se stesso, più ha bisogno di salire. L’uomo é come la
montagna: la conquista dell’uno e dell’altra non finisce mai. La vera meta
non é
raggiungere la vetta, l’estremo confine tra la terra e il cielo, ma
qualcosa senza confine come la felicità, la convinzione di essere
sereni”.
Proseguiamo
quel sentiero ora pianeggiante e ora scosceso, che attraversa quel piccolo
altopiano sotto le cime dentellate dei monti pallidi e bianchi di neve che lo
circondano e che assumono la forma di un anfiteatro, un sentiero non vergine ma
calpestato da altri escursionisti che come noi, sono saliti fin lassù per
trovare quel luogo magico, ma
soprattutto per trovare loro stessi
e la gioia di vivere. Mi hanno detto che proseguendo su quel sentiero troverò
un luogo magico, dove l’acqua, chiara come il vetro, zampilla dalla roccia,
fresca come l’aria, leggera come un filo di vento. Infatti, dietro il Rifugio
Fuciade, a quota 2394 metri, dove ci siamo fermati per rifocillarci e per
riposare le nostre membra stanche, scorre un piccolo torrente, il torrente dove
scorre l’acqua chiara come l’aria.
La
visione di questo luogo senza tempo, dove l’occhio spazia in quell’orizzonte
senza fine, spesso noi escursionisti dell’infinito
a volte ci domandiamo il perché della vita. La risposta al perché si può
leggere nei piccoli occhi di un passero o di una taccola che saltella tra
un comignolo all’altro di questo meraviglioso mondo che ci circonda.
Romano
Battaglia ha così scritto: “ La vita spesso attrae nella sua falsa luce:
durante questo lungo cammino l’uomo non si accorge di fuggire le occasioni e
le gioie, e si perde nel nulla. In questo vuoto esistenziale nasce il desiderio
di essere veramente uomo e di cercare dentro di noi la Verità.
“Ho
visto tra i rovi il nido di una capinera. I piccoli uccelli con poche piume mi
guardano tranquilli, non hanno paura dello sguardo dell’uomo. Era la prima
volta che incrociavano gli occhi di un essere umano e non avevano provato alcuna
emozione. Loro, aspettano tranquilli la madre per l’imboccata; stanno lì, uno
vicino all’altro con la tenerezza di fiori sbocciati nel giardino della
semplicità. Questa é la vita, il palpito gioioso della natura con tutte le sue
creature. Lo aveva notato anche un monaco tibetano trecento anni fa”.
“
Me ne sto occupato nel nulla sul confine
del
mondo ad osservare il cielo e le nuvole
e
qualche volta sorrido alla serenità
delle
creature che mi circondano”.
Il
nostro viaggio escursionistico che ci ha accompagnato
in questa nostra lunga cavalcata della vita, finisce qui tra celo e
terra, in questo paesaggio silente, muto e silenzioso, dove tutto é in noi col
suo mistero, come l’acqua che scorre nel piccolo ruscello. Ti sei mai chiesto
che cosa é l’acqua, perché é trasparente e viva, e come mai scorre? E’ un
dono come il sole e la luce, la
notte e il giorno. E’ il fluire dell’invisibile che sempre palpita attorno a
noi, per farci coraggio e per incitarci a proseguire oltre nella vita.
“Nulla
nasce dal caso: tutti abbiamo un destino, un padre e una madre che ci seguono
dai confini del nulla che é il Tutto.
“
Non si può fermare il tempo, come non si può fermare l’acqua di un fiume
quando preme sugli argini per conquistare il mare. Si deve prendere il largo,
come abbiamo fatto noi nella adolescenza, per provare la gioia profonda di
fidarsi di Dio.
“Addio
amico della mia infanzia, della mia fanciullezza, della mia maturità. E’
l’ora del tramonto, anche il sole calerà tra poco dietro le cime dolomitiche
innevate, come pure nel mare e tutto a poco a poco svanirà, come in un sogno,
il sogno della vita.
EMOZIONI.
In
questa nostra ultima escursione, su queste meravigliose montagne coperte di
neve, dove tutto é silenzio ed emozioni, ci viene da fare una semplice
riflessione sulle nostre esperienze
fatte, incominciando dalla nostra lontana adolescenza.
Ci ritornano in mente i ricordi del nostro primo viaggio, di quel viaggio
nella città meravigliosa di Napoli, con il quale abbiamo iniziato questo nostro
libro di ricordi. Vogliamo terminare con la stessa emozioni di allora.
Così
faceva a scrivere Edoardo Guglielmi: “Quel viaggio a Salerno, l’arrivo nel tardo crepuscolo. Un’intera adolescenza
risorge al primo tocco della memoria, a ogni contatto con i luoghi, con
le antiche parole da cui si irradiano tremore e dolcezza sulla soglia del tempo
che sempre più si allunga alle mie spalle”. Analizzando questi pensieri,
questi ricordi, ritornano in noi emozioni, fantasie di una sommersa Atlantide;
lontane stagioni ravvolte in un velo notturno che sono racchiusi nel viaggio a
Napoli. Ogni parola non detta, ogni gesto più segreto si empie ora di amorosi
significati, e per vie nascoste, labilissime. Per noi é stato un esplorare
d'orecchie ben tesi, un ansioso rilevarsi. Tutto mi incide, tutto fa ressa al
cuore, al cuore di un adolescente ed ora al cuore di un uomo maturo, che come
gli uomini maturi, vivono di ricordi e di memorie.
Di
quel lungo viaggio, che per me significava la scoperta del mondo intero, ha
avuto l’impatto su quel lungo treno bestiame, che poi non era altro che una
vecchia tradotta militare, con in testa due vetture di terza classe. Parecchi
sedevano sui porta bagagli. Tutti gli sportelli erano aperti, e l’ungo
l’intero treno c’era gente che viaggiava seduta sulle soglie degli
sportelli, le gambe penzoloni nel vuoto, o accovacciata sui predellini,
tenendosi con un braccio alle maniglie. I tetti dei vagoni, i respingenti, i
soffietti, il tender, la macchina erano coperti di viaggiatori stracciati e
scamiciati. In grandissima parte, erano soldati che travestiti alla meglio con
panni borghesi, che ritornavano alle loro case dalla Sicilia. Trovai posto su di
una vettura bestiame, che dalla Old Calabria mi portava lontano e mi sovvengono
quelle ore, di quei giorni di vaghezza e di verità sono forse il solo - a tanta
distanza d’anni, nell’inameno presente - a conoscere e custodire il mistero,
che poi non c’era nessun mistero da scoprire, ma un’altra realtà della
vita. Perché di quel tempo febbrile non pare essere rimasto che qualche sfarzo
e più diafano lume, non più che qualche fremito in sordina, di oro spento.
Vedo ancora un ragazzo disteso sulla sabbia tiepida della spiaggia di Pozzuoli,
un ragazzo senza meta e senza pensieri. La vita gli scorre accanto come qualcosa
di estraneo, di ostile, segnata da un gran senso di vuoto, di solitudine fra
gente che non conosceva, in una città meravigliosa e fra gente sconosciuta.
E’ nella ricerca invano il bisogno nascosto, gli spazi da sottrarre
all’erosione del tempo. Quella era una città sconosciuta, con i suoi problemi
di ogni giorno, che si differenziava dal piccolo e vecchio borgo aspromontano,
ma era una città senza un volto ne una ragione di vita.
Quel
primo ansioso piacere dell’evasione ritrovata, di riconoscerla in ogni sua
parte: nella calma penombra degli “ intericus” di fine conflitto mondiale.
Nel vecchio porto, dove trovai una prima sistemazione occupazionale, trovai
anche i personaggi che mi furono cari: gli amici d’infanzia ritrovati in
quella caotica città, in quella città invasa da un esercito
di conquistatori di ogni nazionalità, che mi furono cari, e tali sono
rimasti tuttora, nella rete magica d’un tempo senza tempo.
Qui
il mio ricordo riacquista peso e fervore, vibra del sangue, in un rimpianto di
libertà e di gioie perdute all’insorgere tumultuoso di frammenti di vita....
( come rintracciare l’etimo, come interrogarne il suono più segreto?). Solo a
volte una parola più aperta, più mossa, lacera il bozzolo di questo piccolo
mondo e mette le ali. L’orlo schiumoso dei flutti, le screziature d’una
conchiglia in cui si percepisce la fievole eco di un età remota. Un minor
soffio di vita, una pacata rinuncia.