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LA VERA AMICIZIA.

Per riconoscere, ed evitare, i prevaricatori basta il telefono, ma per riconoscer un vero amico bisogna essere un psicologo.

In un modo o nell’altro, stiamo parlando del Santo Natale. Tutti sappiano che il Natale augura pace agli “ uomini di buona volontà” e perciò ricordiamoci di loro cercando di non premiare, invece, i violenti, i provocatori. Ma per riuscirci, dobbiamo distinguerli dai primi. Cosa che non facciamo quasi mai perché non osserviamo attentamente i comportamenti della gente. Proviamoci oggi.

 Su questo argomento, abbiamo letto alcune interviste, rilasciate da vari psicologi, come Angelo Cavalli e Francesco  Alberoni. Essi ci consigliano di incominciare dai provocatori poco pericolosi perché impulsivi, grossolani, sgarbati, maldestri. Per riconoscerli basta osservarli, studiarli come farebbe un provo investigatore, specialmente quando  entrano in casa nostra. Quest’individuo, parla ad alta voce, butta il suo cappotto dove capita, semina i suoi oggetti in giro. Occupa tutto lo spazio fisico e sonoro. E occupa anche la nostra mente perché parla, pontifica e pretende che noi lo ascoltiamo. Sul lavoro, non avendo il senso del limite, finisce per urtare i colleghi e litigare con loro. Insomma, una persona a cui conviene non affidare delicate relazioni diplomatiche.

Il secondo tipo di prevaricatore é ambizioso e più pericoloso, ma ha la debolezza di scoprirsi. Vi disturba tanto che finite per evitarlo. A volte si comporta da amico, vi é affezionato. Ma quando avete con lui un rapporto professionale diventa insopportabile. Vi chiede continuamente appuntamenti, vuol essere ascoltato, si offende se non lo fate, vi ossessiona. E ossessiona gli altri perché vuol sempre dire la sua, mettersi in mostra. Così disturba, irrita e quasi sempre finisce per farsi isolare.

 Il terzo tipo di provocatore, invece, é veramente pericoloso, addirittura letale. Perché estremamente ambizioso, vuol emergere ad ogni costo, é affamato, ossessionato dal potere, e non ha alcuno scrupolo nel raggiungerlo. Ma é anche molto intelligente e capace di un ferreo autocontrollo. Capisce i problemi, trova il modo di risolverli, sa rendersi utile. Sa essere estremamente cortese, raffinato, un abilissimo diplomatico. Riesce a convincere con la lusinga, con l’astuzia e, nel segreto, con il ricatto. Nessuno sospetta la sua vera matura, nessuno capisce che le maniere cortesi nascondono una spregiudicatezza che arriva alla ferocia. Anche voi, affascinati dalle sue capacità di seduzione, potete sceglierlo come collaboratore e vi accorgete troppo tardi che vi siete portati in casa un serpente velenoso.

Eppure, come ci conferma la psicologia, che studio questi fenomeni, c’è un metodo sicuro, semplicissimo, per scoprirlo. Infatti ha un comportamento in comune con i due tipi umani di cui ho appena parlato. Anche lui parla troppo, fa lunghi discorsi, lunghe telefonate, occupa il vostro spazio mentale. Già questo dovrebbe mettervi in sospetto. Inoltre, se state attenti - come scrive F. Alberoni - “se analizzate la conversazione, vi accorgerete che non sa resistere alla tentazione di correggervi continuamente, di contraddirvi. Voi dite qualcosa, e lui risponde “ si, certo, ma...” E vi fa un obiezione. Poi arriva un secondo, un terzo, un quarto “ma”. Nonostante tutto il suo autocontrollo si comporta da antagonista. Perché si sente superiore a voi, vuol schiacciarvi. E, fate attenzione, dopo una lunga conversazione con lui, anche al telefono, vi sentite sempre  sfinito. Vi ha rubato energia.

Ecco ciò che accomuna tutti i prevaricatori, i violenti, da quelli poco pericolosi a quelli pericolosissimi. Vi antagonizzano, vi logorano, vi stancano. Perciò evitateli come la peste. La persona “ di buona volontà” al contrario vi ascolta, cerca di capire, risponde con calma e così, alla fine della conversazione, vi sentite riposata. E’ costui che dovete prendere come collaboratore e come amico, perché l’amicizia é una cosa veramente importante. Bisogna sapersi scegliere gli amici fin dalla fanciullezza.

Il segreto di un’esistenza felice sarebbe proprio questo: saper identificare al momento giusto le persone e i sentimenti profondi per istituire l’amicizia. Si direbbe un traguardo elementare, se non fosse che, a quella che possiamo definire “ la voce della coscienza” che dovrebbe guidarci senza sbagliare la rotta, si oppongono giorno per giorno centinaia di altri richiami.

Sono voci esterne, molto spesso futili, che però non possiamo fare a meno di ascoltare, e che mettono in dubbio le  certezze del giorno prima. In questa zona oscura del nostro essere, in quel buio insormontabile della certezza: la saggezza é messa in crisi dall’ambizione; la serenità é continuamente aggredita dalle tentazioni; le passioni si fanno beffe della ragionevolezza.

E il passar del tempo anziché placarsi spalanca nuovi inquietanti interrogativi.

Come uscire allora da questo vicolo cieco? Simile ad un treno in corsa che attraversa fasci di binari, la spinta verso gli altri, verso quella serenità, la spinta dei desideri apre e chiude gli scambi, si entusiasma e si deprime, incapace di scegliere il binario giusto. Ma chi sarà il vero macchinista del treno? Noi naturalmente, si, siamo noi stessi, con le nostre gioie e anche con le nostre debolezze.

L’amicizia, quella con “A” maiuscola, é una delle forme spontanee in cui si manifesta la solidarietà tra gli uomini. L’amicizia é il legame di affetto che si stabilisce tra due e più persone, sulla base della comprensione spirituale, della confidenza, della stima reciproca e con l’esclusione dell’utile ( almeno come scopo diretto).

L’amicizia é una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce l’esigenza umana di solidarietà, di vicinanza di altri esseri, simili a noi per pensieri e atteggiamenti, il bisogno d’affetto, di approvazione, da parte degli altri.

C’è un vecchio proverbio che dice: non é mai troppo tardi per scoprire le cose belle della vita come l’amicizia.

Noi abbiamo scoperto tutto questo quasi al traguardo della nostra vita. Non é che prima non conoscessimo il valore intrinseco di questo sentimento che é dentro nella natura stessa degli uomini, nell’intimità dell’animo umano, ma essendo militari era naturale che i nostri rapporti dovevano mantenersi sempre su di una linea tale da permetterci di conservare ognora quell’indipendenza che é necessaria al tutore dell’ordine e della Legge.

Non, quindi, eccessiva dimestichezza o famigliarità, con confidenze che non sarebbero in armonia con quella particolare posizione. Bisognava soprattutto essere assai guardinghi nell’accettare inviti e nell’entrare in rapporti, anche di famiglia, con privati.

L’imparzialità, il sapersi mantenere al di fuori e al di sopra di ogni cosa, l’umanità, il senso della misura nell’adempimento di ogni dovere, il mantenersi lontani da ogni eccessiva famigliarità, l’essere prudenti e riservati, costituivano altrettanto necessità per la buona riuscita del nostro servizio. Come abbiamo detto, il segreto di un’esistenza felice sarebbe proprio questo: saper identificare al momento giusto le persone giuste dai prevaricatori, dagli invadenti, dagli ambiziosi, che a volte si comportano da veri amici, ma quando abbiamo con lui dei rapporti professionali diventano insopportabili e ci ossessionano la vita.

 Ci dobbiamo rendere conto che queste persone vanno isolate, allontanate dal nostro quotidiano vivere, perché non sanno dove sta di casa la vera amicizia. Il loro scopo è quello di ottenere con la falsa amicizia, un profitto. La persona “ di buona volontà” al contrario vi ascolta, cerca di capire, risponde con calma e così alla fine della conversazione, vi sentite riposato. E’ costui che dovete prendere come amico, perché é disinteressato e non mira ad altri scopi che a quello della vera amicizia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GLI ITALIANI NON SANNO FARE I CONTI.

Marco Belpoliti, parlando dell’Euro, la nuova moneta di cui si é dotata l’Unione Europea, in un suo articolo sulla “Stampa”, fra l’altro,  ha detto: Gli italiani non sanno fare i conti”. Con nostro rammarico, dobbiamo dire, che egli ha veramente ragione. Non è che non sappiamo fare i conti, il fatto é che, ritornando ai centesimi, specialmente quelli più anziani, si sono trovati in difficoltà, e molti, rimpiangono la  vecchia e cara “Lira”.

“ In una delle ultime interviste concesse da Italo  Calvino gli veniva chiesto quali erano le cose essenziali da sapere per il prossimo millennio. Con la sua consueta ironia, ma anche con molta serietà, lo scrittore elencava tre attività indispensabili: saper attaccare un bottone, imparare le poesie a memoria, saper fare le quattro operazioni senza calcolatrici. Il memento calviniano mi è venuto in mente mentre in questi giorni osservavo in una delle tante file d’attesa in cui mi sono trovato coinvolto gli addetti alla riscossione dare il resto in euro ai clienti.

Molti si sono trovati in difficoltà, non tanto nel riconoscere le monete metalliche, ma nel calcolare il resto al di là della virgola: 25 centesimi di euro e 25 euro; o, 25 e 25. La disabitudine a fare i conti con i decimali é palese. Risulta ostico sommare o sottrarre e spostare le decine al di qua o al di là della virgola in modo da comporre la cifra giusta.  Nei programmi delle scuole elementari, come mi diceva mia figlia Tiziana, che insegna, appunto, alle elementari, le lezioni sui decimali sono affidate alla terza classe. Prima, noi maestre,  insegnano le frazioni, poi le frazioni decimali, quindi passiamo alla rappresentazione visiva dei decimali ponendoli sulla linea dei numeri usando l’abaco. Questa é una parte importante del programma, che viene costantemente tenuta sotto controllo anche nelle classi successive, perché serve a far comprendere il concetto di misura, oltre naturalmente il concetto di numero”. Questi concetti, ricordo di averli approfonditi anche nei corsi delle scuole superiori,  specialmente  nei calcoli algebrici, per cui oggi, non  ho trovato alcuna difficoltà nell’effettuare queste piccole operazioni giornalieri con i centesimi della nuova moneta. Premetto, che in passato, un passato non molto lontano, e precisamente nell’agosto del 1989, in un viaggio escursionistico negli Stati Uniti d’America, dove viene praticata da moltissimo tempo  la moneta con i decimali, di aver fatto la mia prima esperienza.  Io ed Adriana mia moglie, in quella esperienza americana,  nei nostri acquisti, non abbiamo trovato alcuna difficoltà. Forse perché, negli Stati Uniti, avevamo a che fare con una sola moneta: con il dollaro.

Secondo il mio punto di vista, la confusione che c’è in questi giorni nel nostro Paese,  non é per i decimali, ma per la doppia moneta e per le monetine che sono microscopiche, ma passato questo momento, sono sicuro che tutto ritorno alla normalità.

Ritornando ai decimali, croce e delizia dei nostri giorni, ho compreso, che se non si usa con assiduità, il calcolo mediante i decimali si dimentica facilmente, si copre di ruggine, come é dato constatare in questi giorni. La numerazione “ posizionale” non é infatti così naturale come sembra. Si pensi alla difficoltà che sovente incontrano i bambini a imparare il calcolo del tempo fondato su secondi, minuti e ore, che ha bisogno di un altro tipo di numerazione. Nei mesi che hanno preceduto l’introduzione dell’euro si era posto l’accento sulla necessità di ripassare il calcolo decimale; ma poi l’attenzione si era spostata sull’identificazione delle monete, sulla conversione da lira a euro, e viceversa. Ecco una delle cose che la scuola del nuovo millennio non potrà fare a meno di insegnare.

 Pollice verso per gli eurocent: inutili.

Quello che dubitavamo é successo in Finlandia. Ai finlandesi non piacciono le monetine e vorrebbero eliminarle.  La giornalista Maria Corbi, in un suo articolo sulla “Stampa” di oggi, così scrive: “ Quanto devo? La signora ha appena fatto la messa in piega e chiede alla receptiinist del parrucchiere il conto in euro. La risposta é “ 19,81 euro” Quel cent di troppo fa decidere alla signora di tirar fuori la carta di credito. “ Ma perché non li tolgono di mezzo? Tutte queste monetine sono fastidiose nel portafoglio e non si trovano mai. Dovrebbero fare come hanno fatto in quel paese del nord”. Quel paese del nord sarebbe la Finlandia dove per legge l’arrotondamento si fa ai cinque cent più vicini. Se deve pagare 8, 19 euro si arrotonda  a 8, 20. Se invece il prezzo é di 8, 16 si abbassa a 8,15. Una legge del governo finlandese dispone l’arrotondamento quando si paga in contanti eliminando di fatto le monetine da due e un cent. Con la carta di credito invece i prezzi restano con i centesimi”.

E’ bastato questo a far nascere il caso e a ipotizzare sanzioni contro il paese scandinavo reo di aver violato disposizioni comunitarie. Il pericolo, naturalmente, é quello inflattivo. Arrotondando si rischia di far alzare i prezzi e scatenare una pericolosa spirale. In realtà le cose non starebbero proprio così visto che la regola dell’arrotondamento valeva in Finlandia anche per la moneta nazionale. In un comunicato diffuso ieri la banca di Finlandia spiega che “ nei paesi scandinavi per i pagamenti in contante con le monete nazionali valeva la regola di arrotondamento che é stata trasportata anche alla moneta unica”. La giornalista - continua dicendo: “ Il portavoce dell’istituto assicura che tutti possono continuare a usare queste monete anche se il loro utilizzo é raro. Ma proprio il fatto di essere raro invoglia i collezionisti ad accaparrarsi le monetine. La domanda é  talmente forte che a partire da febbraio la Banca Centrale aumenterà “ in modo significativo” il loro ammontare.

Nel nostro Paese invece si usano ancora anche se cercarli nel borsellino può diventare un vero incubo. Io, tutto questo, lo posso dire per esperienza, perché tutti i giorni mi tocca fare la spesa.  Ormai tutti ne siamo consapevoli, che ogni giorno che passa si assiste ad una vera maratona con questi centesimi. I più anziani come noi, quelli specialmente deboli della vista e non solo, si trovano in difficoltà ad individuare i centesimi e sono le commesse dei vari negozi a scegliere quelle monete necessarie per il pagamento della spesa. In molti sperano e credono in un loro precoce pensionamento. Lo sperano soprattutto baristi e camerieri che da quando é stato introdotto l’euro hanno visto dimezzarsi le mance. “ Ci mettono nei piattini gli inutili centesimi facendo finta di non capire il loro valore”, si lamentano i parroci,  perché dicono che i cestini delle offerte sono sempre più vuoti, e al posto delle mille lire trovano i centesimi; si lamentano i baristi, che trovano nel piattino delle mance i centesimi; si lamentano quelli che chiedono l’elemosina e che troviamo agli angoli delle strade e avanti alle chiese, come abbiamo potuto constatare a   Mantova. I negozianti , poi, tranne rare eccezioni, non ci stanno a fare piccoli sconti arrotondando in basso. Ieri, facendo la spesa, come tutti i giorni del resto, dal panettiere. Una signora anziana compra  due panini e un pezzo di pizza. Il conto è di 2 euro e 24 centesimi. Nel portamonete mancano i quattro centesimi. La commessa, una brava ragazza, ma precisa e ligia nei suoi conti, cerca di ovviare a questa incresciosa situazione e, alla fine segna su  di un taccuino i quattro centesimi che mancano nel saldare il conto.  Su questo, in un certo senso insignificante episodio, che ha certamente la sua importanza, ho fatto una piccola riflessione, un esame approfondito sull’attuale momento di transazione monetaria, e  mi sono convinto che quello che é certo é che le monetine hanno fatto nascere una nuova categoria: gli eurotirchi.

 Prima dell’entrata dell’euro alle monetine da venti  e cinquanta lire, non ci si faceva più caso, mentre oggi, sui centesimi della nuova moneta, si va a cercare il pelo nell’uovo, ma ne sono convinto  sempre di più, che oltre ad essere noiosi, sono stati utili. Di questo parere é anche il mio amico Maurizio, che come me, anch’egli fa la spesa tutti i giorni, e ci incontriamo, oltre che nel Bar Centrale, anche nella panetteria  di nostra fiducia.

Da Romano Prodi arriva la difesa dei centesimi: “ In Italia, sono stati utili in questa fase di cambiamento” ad “evitare in molti casi questi piccoli noiosi aumenti che ci sarebbero stati in assenza del centesimo”. “ In Finlandia - ha osservato - c’era già una tradizione che arrotondava ai 10 cent. con la moneta nazionale. Ma tutti i conti vengono fatti in centesimi, così come tutti i pagamenti elettronici. In Italia, invece, la tradizione dei centesimi non esisteva e la loro introduzione “ ha aiutato”.

Apprendiamo, inoltre, che il sottosegretario al ministero dell’Economia e presidente del Comitato euro, Vito Tanzi dice che é ancora “ presto per penare all’eliminazione dei centesimi come in Finlandia. Se poi vedremo che in Italia la gente non li usa molto, allora si potrà fare. Negli Usa, come abbiamo potuto constatare nel nostro lungo giro turistico, i centesimi sono usati continuamente, e danno molta più flessibilità nei prezzi. Sul changeover il sottosegretario Tanzi ha detto inoltre: “ le cose sono andate molto bene. C’è stato qualche piccolo problema amministrativo ma era inevitabile in un passaggio così importante. Ma non ci sono stati grossi problemi. Forse si sono  allungate un po’ le code ma per risolvere questo problema é questione di qualche settimana”. Anche la Banca d’Italia conferma il buon esito delle operazioni: i changeover “ é praticamente finito, siamo ormai alla normalità - ha dichiarato ieri il direttore generale della Banca d’Italia, Antonio Finocchiaro - anche se un po’ affannosa e appesantita per quel che riguarda la fase di rientro”. Fra non molto, é questione di  pochi mesi, é tutto lo stock di vecchie banconote sarà stato distrutto.

Fino a quando c’è in circolazione una sola moneta della vecchia e cara “ lira”, ci saranno questi piccoli problemi, ma dopo tutto ritornerà alla normalità. Ne sono veramente convinto.

Addio! Mia cara e vecchia “ lira”, hai fatto il tuo tempo.

 

 

 

 

 

IL MIRACOLO DELLA PRIMAVERA.

Un miracolo che si ripete ogni anno  tra gennaio e febbraio: mentre nel resto d’Italia é ancora inverno, la Valle dei Templi di Agrigento é tutta in fiore. Grazie ad una pianta i cui doni ci rendono più dolce la vita. Ma non solo nella Valle dei Templi, in questo periodo invernale fioriscono le piante, ma anche qui da noi, nella Pianura Padana. Questa mattina, appena ho aperto la finestra del mio studio che da sul giardino, ho potuto ammirare lo spettacolo più bello del mondo: una fioritura particolare, fatta di candidi merletti. Questa  é una fioritura effimera, che ha la durata di poche ore o di alcuni giorni, dipende  dalla temperatura atmosferica. Se i raggi del sole riescono a filtrare attraverso la nebbia bassa che avvolge la grande pianura, questo meraviglioso spettacolo scompare in poco tempo, altrimenti, come sta succedendo in questi giorni,  può durare alcuni giorni. Comunque, questo é un meraviglioso paesaggio bianco, che si può definire un paesaggio da presepe, un paesaggio metafisico e lunare.

 Questo fenomeno é dovuto alla “ galaverna”, alla nebbia bassa che ristagna nella grande pianura brumosa e, che per la situazione del clima, la nebbia dallo stato gassoso per la bassa temperatura passa allo stato solido. dando origine a questo fenomeno della “fioritura  delle piante”.

La fioritura dei mandorli colora di rosa tutta la Sicilia. Ma in alcuni punti dell’isola questo evento assume un significato particolare.

La Valle dei Templi é la prima a riempirsi di fiori, già a gennaio. Tra febbraio e i primi di marzo, i fiori si aprono anche nella zona di Palermo e in quella di Siracusa, dove cresce la prelibata mandorla pizzura, la migliore per i confetti.

In questo periodo, da nord a sud, il nostro Paese é avvolto in una morsa di gelo e di ghiaccio, che ha provocato ingenti danni alla circolazione stradale e  soprattutto alle colture e alle piante, facendo levitare i prezzi della frutta e delle verdure.

Le cime dei monti sono coperte di neve e, a valle, la compagna resta profondamente addormentata, avvolta dalle nebbie mattutine e dall’umidità della notte: dalle Alpi alla punta estrema della Penisola, sono ancora i freddi colori invernali a dominare il paesaggio, anche se le giornate cominciano lentissimamente ad allungarsi, al ritmo di un paio di minuti ogni 24 ore.

Eppure, nonostante in tutta Italia sia ancora inverno, con abbondanti nevicate al centro e al sud, risparmiando le zone dolomitiche e le grandi pianure del nord, con una grande siccità che persino ha quasi asciugato il grande fiume Po, in Sicilia si compie un piccolo miracolo, il primo segnale che la natura sta per risvegliarsi dal torpore della brutta stagione.  In un servizio del telegiornale del TG Uno, ci ha fatto vedere  che ad Agrigento succede prima che nel resto dell’isola: già a gennaio, i fiori del mandorlo sbocciano, anticipando la primavera. Si aprono sui rami dei tronchi ritorti, quando l’albero é ancora spoglio, senza le foglie, che prenderanno il posto delle corolle chiare, una volta fiorite. Sotto il rosso costone pietroso dominato dai templi agrigentini sono una visione sfolgorante. Ingentiliscono una  zona bruciata dall’arsura del cielo e dal fuoco interno: dove finisce la collina dei templi comincia, infatti, una regione che, fino al primo Novecento, si poteva definire davvero infernale: la regione delle zolfare. E già pochi chilometri dalla città ( non più di quindici, verso nord, in direzione di Aragona) ci si imbatte in una collina forata da vulcanelli che colano fango caldo, le cosiddette maccalube.

Questo, oltre ad essere un paesaggio bellissimo, é un paesaggio che racchiude in se la storia del passato, ma  sono anche luoghi che nell’Ottocento, videro molti viaggiatori, scrittori e poeti stranieri.  Il grande scrittore tedesco Ferdinando Gregorovius, che ha percorso in lungo ed in largo questi luoghi, descrivendoli in modo eccezionale. Egli così  descrive una delle tante escursioni in quei luoghi: “ La giornata era magnifica: passato Monreale, percorremmo una strada montuosa e deserta per la quale non trovammo anima vivente, se escludi le aquile di Giove, che ci guardavano dall’alto tranquille e silenziose, eppure disegnavano nell’aria ampie spire coi loro voli. Così camminammo parecchie ore sino a che alla nostra vista non si distese la meravigliosa pianura di Partinico e di Sala, vicino al golfo di S. Vito. A dritta si trova Borghetto, l’antica Hykarap patria di Laide, la più bella donna dell’Ellade, che i greci condotti da Nicia portarono bambina ad Atene.

Le linee del golfo di S. Vito sono belle e insieme grandiose, come quelle di Cefalù; la pianura, poi, é tra le più feraci della Sicilia, così lussuriosa nella vegetazione  da far pensare ai tropici. Il paesaggio acquista in grandiosità, assumendo quasi carattere greco con l’armonia delle sue montagne colorate da tinte calde, or rosse, or verdemente cupe. Il carattere di quella contrada - grazie ai giganteschi pini, i malinconici cipressi, le palme annose, gli aloe dagli snelli fusti fioriti - é reso più grave dell’autunno. Qui tutto é monocromo, scuro sovrapposto allo scuro e, con meraviglia, si vede quanto possa la natura con una sola tinta fondamentale”.

“ Per vedere il rinomato tempio di Segesta, ripartimmo mentre ancora splendevano le stelle e, per nove miglia, camminammo in un paese deserto, tra monti calcarei. Orione, vera stella sicula, della quale Messina ha fatto un mito, sfolgorava su tutte le altre. Già, in Sardegna, ove il popolo l’ha nominata stella dei Re Magi, avevo ammirato questo astro; ma fu solo in Sicilia che lo potei contemplare in tutta la sua magnificenza; i suoi raggi sprizzavano come fuoco d’artificio. Intanto s’alzava la brezza mattutina, il cielo si imbiancava ad oriente, si diradavano le tenebre e si dissipavano le nebbie; le sagome dei monti accennavano a dileguarsi e compariva il mare, di purpureo si tingeva la campagna e Orione spariva dopo aver brillato per o spazio di una notte meravigliosa”.

LA STORIA.

L’ultima volta che siamo stati nella Valle dei Templi, ricordo che giungemmo nelle prime ore del mattino. Per descrivere quel momento magico, prendiamo in prestito le parole di Ferdinando Gregorovius: “quando le sagome dei monti accennavano a dileguarsi e compariva il mare,  di purpureo si tingeva la campagna e Orione spariva dopo aver brillato per lo spazio di una notte meravigliosa”.

La pianta dell’antica Agrigento si presentava come un triangolo irregolare, fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord, appoggiata contro due colline: il Kamiko, per cui trovasi con Girgenti e  Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui si accostavano i sobborghi, Neopoli ( città nuova), come la denomina Plutarco, la quale si allargava sotto il Kamiko occupando quasi tutta l’altura.

Le alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano le difese della città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a levante ed a mezzogiorno.

Ponendosi dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di templi divisi, dei quali sono giunti sino a noi alcune reliquie, si ha davanti una costa di grandiosa e malinconica bellezza, della quale é meglio tacere piuttosto che tentare la descrizione con parole.

La pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto, un paesaggio di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia con la grandezza monumentale dei templi dorici. Oggi, quella imponente e completa ormonica con la grandezza monumentale, é stata  turbata dalla violenza subita con le costruzioni di casette, villini e ville abusive, che hanno deturpato il paesaggio storico. Noi non diremo nulla di tutto questo scempio, perché troppo si é scritto e detto, ma lasciamo alle Autorità competenti di appianare ogni cosa, e riportare alla normalità il paesaggio distrutto. Ciò , sicuramente, non sarà più possibile.

Tutto era grandioso: l’orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono le tinte e la terra arida ci indica la prossimità dell’Africa; l’unica vegetazione che qui si scorga é quella malinconica degli olivi e quella chiassosa , da gennaio a febbraio, dei mandorli in fiore.

Attorno - ove sorgevano templi, ove ancora posano centinaia di tombe, di loculi, di grotte - sorgono qua e là tronchi di colonne e il suolo é coperto di avanzi di architravi colossali e di capitelli; “tutto vi chiama alla contemplazione, all’ammirazione, e chi non si sente commosso a quella vista, vuol dire che non nutre nessun amore per l’antica Grecia - come scriveva nel suo libro: “ Sulle tracce dei Greci” Ferdinando Gregorovius, e non sa apprezzare la splendida civiltà di questa.

Non é possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi monumenti senza prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto dare un cenno della storia dell’Antica Agrigento nella speranza che il lettore di queste pagine sia indotto a fermarsi in questa città di fama mondiale e di completare quanto io accenno semplicemente. Vi sono inoltre nella vita di Agrigento una folla di grandi figure, il cui nome é sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu una delle principali fra le città elleniche, e se non così potente come Siracusa, fu però ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.

Lo storico Gregorovius, ci ricorda che anche prima dei Greci era già un centro importante dei Sicani. Il suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro, ospitato Dedalo fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamilo una rocca alla quale si poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale.

In questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro.

L’Agrigento ellenica sorse nei due anni della 49’ olimpiade ( 582) come città coloniale della vicina Gela, e presto superò in importanza la città madre: avendole dato un rapido sviluppo il commercio con Cartagine.

Gli Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo gli statuti di Charondas di Catania, che durò fino a che Falaride la mise in mano ai tiranni. Quest’uomo straordinario era Cretese di nascita. Incaricato della costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si giovò di questa impresa che gli metteva a disposizione denaro e uomini, nonché il punto più forte della città.

Egli assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si celebrava la festa di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento. Ai Greci era così odiosa la monarchia, che concepirono Falaride come un mostro favoloso, e la sua crudeltà diventò proverbiale.

A tutti é nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo dovette costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli stranieri e le persone a lui nemiche.

Il toro d’Agrigento e l’immagine del toro di Dedalo furono rimandati a Creta e di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli uomini nei fianchi del toro.

Che il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli racconta: “ Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di Agrigento, ma Scipione, 260 anni dopo, in seguito alla distruzione di Cartagine, lo ha ritornato agli Agrigentini.

Il toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici, dove egli fa comparire degli inviati del tiranno in Delfo i quali portano come offerta al Dio quella macchina infernale, e il crudele tiranno vi é presentato come un uomo giusto; egli, inoltre, per bocca dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce come un’assai religiosa offerta.

Non é facilmente possibile poter spingere più oltre la malignità contro la Chiesa come Luciano ha fatto in questi suoi scritti.

Falaride fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso la metà del VI secolo a. C. , si distinse a guisa degli altri tiranni greci  come uomo d’intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e artisti.

Si raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia di Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e quella che viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva assoggettate tante città, si alleò una volta con quelli d’Imera, a patto che essi dovessero eleggerlo a loro capo e potersi così vendicare dei loro nemici.

“ Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo della favola, o uomini d’Imera; voi dovete ben riflettere prima di sottomettervi al giogo di Falaride”. Gli Imeresi rifletterono, infatti, e quindi  abbandonarono ogni  idea di alleanza col tiranno.

Assai importante appare l’influenza che i filosofi avevano sui tiranni di Sicilia. Come nei tempi favolosi gli eroi erravano per il mondo per distruggere i mostri, così più tardi i filosofi viaggiavano nel mondo  per liberarlo dai tiranni.

Il compito della filosofia é sicuro: liberare l’umanità da ogni specie di tirannia, e questo scopo é chiaramente espresso nelle antiche relazioni dei famosi  viaggi compiuti dai Pitagorici e dagli Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e Pitagora per ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù. Nella vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi, le capacità, le imperfezioni e le passioni dell’anima, rese manifesta l’onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l’incredulo tiranno.

Egli non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge e parlò molto sul giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della sorte e della bramosia degli uomini per possesso e la sovranità

Ai discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: “ Per la signoria é come per la vita. Nessuno vorrebbe  nascere se sapesse anticipatamente il martirio della vita, però appena si é nati non si vuole più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se non conoscesse anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si é divenuti, non si può più cessare di esserlo”.

Si ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio. Quando questi una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno dei suoi amici gli disse: “ O Dionisio, la tirannide é una bella veste da morto!”

Il presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide con un esempio visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana é eternamente la stessa. Quando si paragonano i due grandi periodi della tirannide, la ellenico - sicula e la medioevale, che si equivalgono, con l’apparizione della nostra giovane tirannide nei suoi intrighi e nelle sue macchinazioni, si vede che nulla é nuovo sotto il sole. E’ cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi filosofici e i nostri professori di filosofia adesso non fanno che creare o combattere dei sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla felicità dei popoli.

Lasciamo la storia e la filosofia, e ritorniamo ai ricordi che ci hanno lasciato dentro di noi, passando sul colle di Minerva, da dove si raggiunge quella fila di templi che stanno sul confine meridionale delle mura della città. La loro vista sullo sfondo del mare Libico, quando il sole ardente illumina le loro pietre gialle e fa sfavillare le colonne potenti, e ancor oggi incantevole; e fa pensare quanto stupenda dovesse essere nell’antichità.

Noi oggi diciamo, quanto é bella questa città, questa grande e moderna metropoli, con i suoi spettacolari grattacieli, ben sapendo che sono delle scatole vuote, fatte d’acciaio, di cemento armato, di alluminio , di vetro e di carton gesso. In questi palazzi, non troviamo quelle meravigliose linee architettoniche che vi erano nei templi Greci ed in quelli medioevali, ma solo delle pareti lisce che bucano il cielo: non vi é stile, non vi é arte. Diciamo che all’interno di essi vi sono tutte le comodità che l’uomo moderno desidera oggi avere, con tutte le modernità, le tecnologie più avanzate. In poche parole, e non v’è dubbio, sono delle case confortevoli, che offrono agio e comodità, ma nella loro bellezza, nel loro confort e comodità, sono edifici freddi e senz’anima.  Sicuramente, non hanno a che fare con  i veri capolavori architettonici dell’antichità, con  le loro colonne e capitelli dorici: uno dei principali stili architettonici dei Greci antichi, di cui la Sicilia e la Calabria ne vanno fieri.

Per rendersi conto di tanta meravigliosa bellezza, basta vedere il bel tempio di Giunone Lucina, che é il primo della serie. S’innalza su di un piccolo colle, ed é a metà distrutto; soltanto da una parte esistono ancora le sue 13 colonne doriche che sostengono l’architrave.

Su prospetto solo due colonne stanno ancora in piedi, con un pezzo dell’architrave; alle rimanenti mancano i capitelli, che sono abbattute e spezzate. Il tempio giace sopra un alto ripiano di quattro gradini.

Nel ricordo di tutto questo, e andando a ritroso nel tempo, mi sembra che i ruderi dei templi della magna Grecia di Agrigento e di Sagesta, che abbiamo a lungo ammirato, hanno una correlazione, una stessa affinità con le due Torri Gemelle di New York,  entrambi, sono state incendiate e abbattute dai terroristi: quelle di New York, dai kamikaze di Osama Bin Laden, mentre quelle di Sagesta e di Agrigento, dai guerriglieri - pirati Cartaginesi. Comunque sia, questi terroristi, hanno  la stessa radice islamica, e in entrambi i casi, c’entra sempre la religione.

L’attacco alle Torri Gemelle ha rotto l’equilibrio. Gli americani hanno ritrovato l’unità attorno alla propria bandiera, l’orgoglio dei propri valori tradizionali. Il grido che ha lanciato Oriana Fallaci da New York, ci da un’idea dell’intensità  di tale reazione. Nell’Europa continentale   il processo é in ritardo, ma va nella stessa direzione.

Ad un certo punto noi siamo costretti a domandarci: “ Chi siamo? Quali sono le cose veramente importanti per noi? Il razzismo non c’entra per nulla. E’ una domanda sulle tradizioni, la storia e i valori che vogliamo conservare. Comprendiamo che solo qui, in Europa, é nata la democrazia, che solo qui in Europa é nata la distinzione fra Stato e religione, la separazione fra legge e morale, fra pubblico e privato. Che, nel nostro profondo, abbiamo principi come “ ama il prossimo tuo come te stesso” quindi anche  gli infedeli, i nemici di oggi e di ieri.

Nei prossimi anni, come scrive il sociologo F. Alberoni, ci sarà un rifiorire degli studi filosofici, storici, religiosi perché dobbiamo scegliere nuovamente i nostri valori e la nostra identità. Ci stiamo rendendo conto che esistono grandi differenze anche fra  noi europei. Abbiamo capito che non ci basta essere unificati economicamente e governati da burocrati. Aspiriamo, soprattutto, ad una comunità di fratelli in cui trovarci. Ma dobbiamo trovare i fondamenti morali comuni per crearla. Questi fondamenti morali, li possiamo trovare fra le righe della Storia, analizzando ogni  particolare del nostro passato, delle nostre origini e nei nostri antichi valori. Questi valori, sono racchiusi nei capitelli, nelle  antiche pietre dei nostri monumenti, dei nostri templi e nella nostra millenaria storia.

Ritornando alla nostra escursione fra le rovine degli antichi templi, ricordiamo che questo tempio era circondato da 34 colonne doriche con 20 scannellature; di esse 13 stanno ai lati e sei nel prospetto. Le colonne hanno  cinquanta centimetri di diametro e un’altezza di circa cinque metri. I loro capitelli sono scolpiti con eleganza ed armonia. Nell’architettura moderna, non  riscontriamo tutte queste meravigliose bellezze, fatte di capitelli, di colonne, di linee, di superficie e di prospettive.

Ritornando alle rovine dei templi della magna Grecia, come quello appunto di Sagesta, dove, disgraziatamente nulla é rimasto del frontale e del fregio. Nelle rovine vi sono tracce d’incendio. Lo storico Fazello fu il primo che diede  a questo, come agli altri templi, il nome, perché prima si chiamava la “ Torre delle pulzelle”.

“Secondo Plinio, Zeusi dipinse per esso il celebre ritratto di Giunone e per modello gli Agrigentini misero a sua disposizione cinque delle più belle fanciulle della città. Cicerone però riporta lo stesso episodio nel quadro di Elena, nel tempio di Giunone a Crotone”

Dai gradini del tempi si abbraccia benissimo il circuito dell’antica città.

Vicino a chi guarda si ergono le mura meridionali, formate dalla rupe naturale, come si vede anche in qualche punto dell’antica Siracusa, dove a picco di una rupe servì di muro.

 Anche il tempio della Concordia sorge su di una collina, in mezzo ad un pittoresco insieme di rovine e di fichi d’India, mentre più in basso vi é una piantagione di mandorli. E’ completo fino al tetto, che manca con le due fronti e tutte le colonne. Anch’esso posa su quattro gradini ed ha 34 colonne.

Non distrutto dai Cartaginesi, ha sfidato vittoriosamente  il tempo e nel medioevo, essendo stato trasformato in chiesa, se ne impedì così il suo deperimento. Quando nel secolo XV si fece della cella una cappella, si introdussero nelle pareti laterali i due archi che rimangono ancor oggi. In seguito la chiesa fu abbandonata, e nell’anno 1748 il principe di Torremuzza restaurò il tempio.

Farzello gli ha dato il nome di Concordia, con la quale non ha che fare nessuna divinità dorica. Fra tutti i templi italiani e siciliani, nessuno ha conservato la cella così intatta come questo: le scale che conducono  dalla sua entrata orientale sul tetto sono rimaste intatte in ogni loro parte.

Senza dubbio, é il più completo dei templi siciliani, poiché quello di Sagesta rimane incompleto, non scorgendosi in esso il minimo indizio di cella. Le colonne maestose, i capitelli colossali, le belle proporzioni dell’architrave che ha preservato gli ornamenti del suo triglifo, la grandezza semplice dell’architettura, offrono il più puro godimento estetico. Come direbbe un vero critico d’arte, la costruzione  dorica é certamente la più bella dell’antichità, certo non apparisse inferiore alla plastica e alla poesia, la cui forza e la cui purezza viveva nell’anima del popolo greco, che fu capace di trovare quelle semplici leggi architettoniche. Guardando un tempio dorico non si può fare a meno di ricordare in quali grandi e semplici ritmi si é sviluppata la vita dei Greci, se l’intero modo di sentire nazionale, che quel popolo espresse nel modo più originale ed evidente nell’architettura religiosa, si poté rappresentare in simili guisa.

Noi, che non siamo critici d’arte e d’architettura in particolare, comprendiamo benissimo quest’armonia, che é così semplice come una relazione fondamentale geometrica; però ancora non possiamo afferrare l’intero senso della sua intima connessione con i costumi del popolo. Io, e non solo io, sono persuaso che il duomo cristiano di Monreale (Palermo) sia il più bel contrapposto a questo tempio della Concordia.

Come scrive Ferdinando Gregorovius, in merito a questi due edifici, secondo lui, se la Sicilia non avesse altro che questi due edifici, monumenti di due grandi culture, rimarrebbe sempre una terra  meravigliosa. Il tempio dorico é l'effigie vivente del tenace ordinamento del mondo greco e delle sue tragiche necessità; il caso, e tutto il fantastico é escluso da questa prima forma; nessun principio pittorico predominante vi signoreggia, non v’è ancora il lusso del disegno, né il gioco di diverse figure.

“Il terzo tempio é quello di Ercole, un tempio il primo d’Agrigento, oggi una massa gigantesca di rovine che giacciono fieramente accavallate. Una sola colonna scannellata si erge da quel caos. Si contemplano con stupore quei blocchi di pietra, quei bellissimi capitelli, le rovine dell’architrave, che hanno conservato tutti le tracce della loro  coloritura purpurea, e quei  pezzi di colonna scannellata che giacciono miseramente all’intorno simili a gigantesche pietre molari, sepolti per metà nel terreno e coperti da piante incolte. Questo tempio, vicino all’Olimpion, era il più grande della città e aveva fama mondiale: il suo porticato aveva 38 colonne doriche, di cui 6 sulla larghezza e 15 per la lunghezza, numerando pure le colonne degli angoli. Il loro diametro era di 8,5, 10 palmi, la loro altezza col capitello poco più di quattro metri”.

Vivaci colori, il rosso, l’azzurro, i il nero e il bianco, ornavano l’architrave; il fregio era munito di teste di leoni nella scannellatura, e di decorazioni floreali. La cella era ipatrica. In essa sorgeva l’Ercole di Mirone, in bronzo; Cicerone narra che la base di questa statua del dio  era levigata per i molti baci di coloro che  venivano a pregare nel tempo. Oggi possiamo fare la stessa osservazione in San Pietro a Roma, dove i baci dei cattolici hanno consumato il piede del S. Pietro di bronzo. Un altro caso del genere lo abbiamo riscontrato nella chiesa francescana, della città di Innsbruck, capoluogo del Tirolo,  dove nella navata principale, vi é situato il monumento funebre del principe Massimiliano d’Austria. Uno testicolo di uno dei quattro cavalli, che si trovano ai quattro lati  del sarcofago, é consumato a furia di toccarlo,  a toccarlo sono le donne. Sembra che porta bene, e lo fanno per propiziarsi la fortuna o di un  nuovo amore.

Si può rimproverare al tempo e agli elementi la distruzione delle opere d’arte, se gli stessi lavori in bronzo sono così vergognosamente baciati?

Questa singolare analogia di costumi non é del resto l’unica comune al paganesimo ed alla Chiesa cattolica.

 Le  pagine consultate del libro di Ferdinando Gregorovius, “ Sulle tracce dei Greci”: uno dei più grandi “artisti” della storiografia di tutti i tempi, sono una vera e potente e trascinante  “rivelazione” del Mezzogiorno al Mezzogiorno, del Mezzogiorno al Nord e, soprattutto, degli italiani agli italiani. Da queste pagine abbiamo tratto una significativa poesia in latino, che tradotta in italiano, così recita:

“Presente sempre fu in guerra la valorosa gente degli ( Agrigentini. 

Tu sola degna veramente  fra tutti i popoli siculi di ( elevare .

Nello stemma il trino segno de’ Giganti, portentosi ( per forma           fra tutti.

Ruinò a terra l’altissimo muro, ed i cittadini più non (l’ebbero in cura.

Parve a tutti la mole gigantesca della statua essere una divinità).

Nell’anno quattrocento uno dopo l’anno millesimo.

Nel nono giorno di dicembre cadde il monumento da (ogni parte.

Tale riuina ebbe luogo correndo la quinta indizione”.

“ Girgenti continua a portare sul suo stemma i tre giganti e le rovine dell’Olimpion, dal popolo chiamate col nome di “ Palazzo dei Giganti”.

Oggi nel gran tempio non resta altro da vedere che la sua pianta, che si é potuta formare per l’assetto dato alle rovine, e la sua grandezza mette stupore.

Ai lati si é fermato un argine di macerie coperto di piante selvagge e di antichi mandorli, che in gennaio rallegrano il paesaggio con i suoi meravigliosi fiori bianchi e rosa.

Otto giorni di sagra.

Ogni anno Agrigento saluta, appunto, la fioritura precoce dei mandorli con una grande sagra popolare che si tiene nella Valle dei Templi: é l’erede dell’antica festa contadina nata con lo scopo di propiziarsi i raccolti fin dall’inizio della stagione. Giunta alla sua 53’ edizione, la sagra si svolge quest’anno dal 1’ all’8 febbraio, in concomitanza con il 43’ Festival internazionale del folclore. In questa settimana la città sicula si riempie di migliaia di visitatori che possono assistere elle esibizioni di gruppi folcloristici provenienti da tutto il mondo. Il programma prevede spettacoli nella centrale piazza Cavour e  sfilate storiche per le vie cittadine, ma anche suggestivi festeggiamenti nella Valle dei Templi: come la fiaccolata, che seguirà la solenne accensione del Tripode dell’amicizia davanti al millenario Tempio della Concordia, di cui ne abbiamo parlato diffusamente, in questo nostro intervento storico.

 

 

Il ricordo nel tempo.

Molti anni prima, é precisamente negli anni Cinquanta, quando dal Piemonte, ogni anno, mi recavo a trascorrere le mie ferie estive nella terra natia del vecchio Sud. In  uno di quei viaggi,  attraversai lo Stretto di Messina, e andai a visitare i paesi della Magna Grecia. In quel tempo, il turismo di massa non esisteva o se esisteva, era un turismo  riservato per soli studiosi, scarsi  viaggiatori stranieri e per gente come me, che andava per il solo piacere di conoscere località e paesi nuovi. Per puro caso, a volte, mi trovavo in località storiche  come queste, e per me era una vera gioia poter conoscere e apprendere maggiormente la storia antica, che avevano contribuito a fare più grande il nostro meraviglioso Paese. E poi, potevo ammirare i meravigliosi paesaggi che la natura mi offriva.  Ricordo, che quel giorno di luglio, appena sbarcato dal ferry -boat nella bella Messina, a bordo di un pullman, raggiunsi  i luoghi storici e archeologici di Sagesta.

Prima che il grosso torpedone si fermasse nel grande piazzale riservato a questi grossi automezzi  turistici, improvvisamente, si parò dinanzi ai nostri occhi il tempio di Segesta; sebbene fossimo ancora lontani, lo vedevamo ergersi solitario sulla scura pendice del monte, da cui signoreggiava sul severo paesaggio dove crescono e fioriscono i mandorli, bello di aspetto e tale da non poterlo dire rovina, poiché stava con tutte le sue colonne e due suoi frontoni. La strada che porta colà é una piccola strada quasi bianca e fiancheggiata per oltre un chilometro da piante di rara bellezza, formanti come un viale fino al tempio che sorge sui fastigi di una brulla e pietrosa collina. Oggi, quel paesaggio bellissimo, é stato deturpato dalle costruzioni abusive.

“ Quella terra punteggiata da cardi selvatici, meschino pascolo per le capre; quella profonda solitudine; i versi sonori di Virgilio; la guerra di Segesta con Salinunte, che die’ origine alla spedizione degli Ateniesi contro Siracusa e a tanti eventi storici; ogni cosa eccitava la nostra fantasia, come pure nell’Ottocento, quella di Ferdinando Gregorovius, il grande storico tedesco, che come tanti altri, visitarono il nostro meraviglioso Paese.

Qui la solitudine é maggiormente pittorica che non quella di Pesto, e l’aria c’è quasi satura di favole, di miti, di tradizioni, di memorie storiche. Sedendo nell’antico teatro dissepolto dall’archeologo Hittorf, l’occhio raccoglie in sé tutta quella regione di magica solitudine, di tragica serietà: si scorgono il golfo di Castellammare, i monti di Alcamo; ai piedi si svolge una valle selvaggia nel cui fondo corre il favoloso Krimolfo; all’opposta parte si rizza il monte grigio di Calatafimi, ove vidi i garibaldini combattere  con fervore e con sentimento patriottico, per l’Unità d’Italia, e né suoi fastigi si discerne la città di colore scuro e cupa.

Volgendo  lo sguardo ad occidente, si vede una catena di colline giallastre e, più in alto, fantastici monti azzurri, i monti Erici, su cui s’ergeva, ora non più, il tempio a Venere. Oltre sconfina il mare Egeo, che attira lo sguardo sulle spiagge ove fu Cartagine e ricorda le guerre puniche.

Non indugerò a parlare del tempio si Segesta, già sufficientemente noto. Tutti quelli che sono stati in Sicilia per turismo, sicuramente sono stati anche loro  a vedere il meraviglioso tempio di Sagesta ed hanno avuto la nostra identica impressione: una impressione fatta di storia, di leggenda e di regalità. Quelli sono i luoghi che ci richiamano alla storia antica, a quella storia che abbiamo appreso sui banchi di scuola. Senza volerlo, eravamo sulle tracce dei Greci, dei Romani e dei Cartaginesi. Luoghi che ci richiamano alle guerre puniche, le tre guerre combattute dai Romani contro i Cartaginesi tra il 264 e il 146 a. C,

 

I LUOGHI DOVE CRESCE IL MANDORLO.

Dopo, questo giro storico e paesaggistico, ritorniamo a parlare del mandorlo. Ma il mandorlo non merita di essere ricordato soltanto nelle statistiche e negli almanacchi semplicemente per il suo primatio  nella fioritura e per la celebre sagra che al suo fiore viene dedicata ogni anno dagli agrigentini. Il vero prodigio di questa pianta, che ama i luoghi esposti al sole, caldi e secchi, e resiste nei terreni pietrosi e sabbiosi, é il tesoro che la luce e il calore fanno crescere sui suoi rami, un vero prodigio della natura: la mandorla, una superstar tra i frutti della terra, anche se non sembra questo il suo destino alla nascita.

Rispetto alle sue bellissime, voluttuose e succose sorelle ( la pesca, l’albicocca e la susina, anch’esse frutti di alberi del genere Prunus, appartenenti alla famiglia delle rosacee) la mandorla, nudo seme in un involucro butterato, fa la figura del brutto anatroccolo. Ma ha una vita meravigliosa. E contribuisce a migliorare la qualità della nostra vita. Provate ad immaginare un mondo senza gli amaretti, senza i confetti, senza il marzapane: lo vedrete molto meno colorato e gustoso.

Per fortuna, invece, il mandorlo ci accompagna da sempre: proveniente, nelle forme spontanee, dall’Asia occidentale, é coltivato da tempo immemorabile in Oriente: gli ebrei lo conoscevano parecchi secoli prima di Cristo e nelle pagine della Bibbia gode di molto favore. Il suo nome ebraico, come apprendiamo dalla pubblicazione settimanale di Linea Verde, in un articolo di Santi Urso, significa “ colui che veglia”, per indicare la precoce fioritura. Nella Genesi le mandorle sono incluse tra i più squisiti prodotti della natura e, nel libro dei Numeri, il bastone di Aronne fiorisce per volontà divina e i fiori, maturando, si convertono in mandorle.

Alla diffusione in Occidente provvidero i Fenici, mentre furono i Greci, che lo conoscevano già intorno al VI secolo a.C., a portare il mandorlo nella nostra Penisola.

Più robusto dell’olivo, ha conquistato tutte le regioni temperate dei due emisferi: pianta longeva, entra in produzione dopo il sesto anno e dà  frutti fino a settant’anni d’età. Le impossibili descrizioni delle enciclopedie dicono che “ le foglie lanceolate e con breve picciolo sono denticolate ai margini; i fiori sono bianchi o rosati; i frutti sono drupe ovali, acute a uno degli apici; l'ecocarpo é un mallo, verde grigiastro, ricoperto  di fine peluria, contenente un seme o due, racchiusi in un guscio legnoso; i semi hanno polpa bianca e contengono un olio dolce o amaro”. Ecco: quei semi dalla polpa bianca hanno virtù nutritive che li rendono preziosi. Già il romano Apicio, raffinato buongustaio, raccomandava di farne la base della farcitura della lepre. Nel XV secolo si riteneva che le mandorle pulissero “ il superfluo degli intestini” e aumentassero “ la sostanza del cervello”, nutrendo bene, facendo dormire dolcemente e aprendo i condotti urinari. La chimica moderna ha rivelato che non é tutta leggenda. Ricordo che quando ero piccolo, mia madre ne estraeva l’olio da questo prezioso frutto e ce lo somministrava, per rinfrescarci l’intestino. Quindi, oltre ad essere un rinfrescante, era ed é un olio medicinale.

Ma la vera gloria della mandorla si celebra in pasticceria. Viene preparata in mille modi diversi, e non sembrano  mai abbastanza. Simbolo di prosperità da tempi antichissimi( per questo si distribuivano alle nozze, e l’usanza é perpetua nei confetti), le mandorle si sbucciano immergendole in acqua bollente per uno o due minuti. Per tostarle é sufficiente stenderle su una placca da forno e poi imbiondire a fuoco moderato. Per caramellarle, si immergono nello zucchero caramellato, nella proporzione di uno a tre.

Antonio Piccinardi, nel suo Dizionario di gastronomia ( edito da Rizzoli), ricorda: “ Le mandorle possono essere dolci o amare, in base alla presenza della emigdalina: quelle amare sono generalmente più piccole e contengono meno grassi di quelle dlci. Costituiscono un elemento fondamentale della pasticceria, dove vengono usate intere o tritate, pralinate o ridotte in polvere, per la preparazione di biscotti, costate e sfornati. Sono inoltre utilizzate per la produzione di ottime bevande, la più famosa delle quali é il latte di mandorle, fatto con mandorle dolci, zucchero e acqua di fiori d’arancio”.

Fra tutte le preparazioni la più straordinaria é senza dubbio il marzapane, che non senza  ragione si é guadagnato il nome di pasta  reale. Prodotto tipico del mondo arabo, é uno dei più antichi dolci conosciuti: oggi, dalla Sicilia, arriva nelle pasticcerie e sulle tavole di tutta l’Italia in magistrali simulazioni di frutta e in allegre figurine di animali, il più famoso dei quali é l’agnello pasquale.

Si, lo so, che mi sono spinto un po’ oltre, ma era necessario spiegare, oltre al fiore, l’origine della pianta e  della bontà del suo frutto, ma soprattutto dei dolci, che arrivano sulla tavola sotto forma  di dolci, confezionati in tantissime forme.

Oltre al mandorlo, in Sicilia e nella Old Calabria,  troviamo un’altra meravigliosa pianta: il melograno. La storia ci racconta, che fu Plinio il Vecchio, nel I’ secolo dopo Cristo, a definire questa pianta “Maelum punicum”, melo cartaginese, forse perché nella zona di Cartagine ne prosperavano bellissimi esemplari. Il termine, “ granatum”, in realtà, non si riferisce ai grani, ma al color granata ( rosso acceso) dei fiori e dei chicchi. Originario dell’Asia occidentale, il melo grano che ha un portamento arbustivo, da maggio a settembre si ricopre di fiori di un bel rosso - aranciato, solitari o riuniti in gruppi di due o tre. Ha foglie oblunghe, caduche, con la pagina superiore di color verde brillante. I frutti, melegrane o granate, raggiungono la maturazione dalla fine dell’estate a dicembre: sono bacche tondeggianti, commestibili, grandi più o meno come una mela, dalla buccia pergamenacea di color giallastro tendente al rosso, suddivise in tante logge, irregolari. Contengono numerosissimi semi sfaccettati, coperti da una polpa trasparente, succosa e acidula, di colore rosso. Soprattutto nella varietà nana ( Punica granatum nanum), nota anche come “ melograno delle Antille”, si presta a essere coltivata con successo anche in vaso. Noi, la coltiviamo nel nostro giardino, qui in Val Padana,  nella patria della nebbia.

Vicino a questa deliziosa pianta, vi germoglia un solitario ed alto cipresso, originario anch’esso dell’Asia centrale, dalle foglie di un verde cupo, che in questi giorni della grande gelata notturna, “ la galaverna”, lo  ha trasformato in una trina:  un merletto meraviglioso, che con le altre piante del giardino ci ha regalato un suggestivo paesaggio da presepe: un paesaggio che non ammiravamo da moltissimi anni.

 

 

 

 

 

 

TREKKING  SULLA  NEVE  A  FOLGARIA.

27 gennaio.

Creativo é scrivere, plasmare la creta, dipingere, scolpire un’immagine, ma é anche camminare, fare del trekking sulle nostre meravigliose montagne del Trentino o degli Appennini, osservare da vicino la natura, gli orizzonti,  guardarsi intorno per ammirare le meraviglie del creato. E’ meraviglioso, si, è veramente meraviglioso, sostare vicino ad un querulo ruscello e osservare il risveglio della  natura e pensare, pensare alle meraviglie della natura, che la Madre Terra ci offre. Cerchiamo quindi di non alterare o inquinare tutte queste bellezze. Tutto questo, oltre ad essere creativo, é sensibilità nei confronti della natura che ci circonda.

Klipling ha affermato che chi va in montagna “ va verso sua madre”. Con questo a significare che la montagna é anche un luogo spirituale, un luogo che, tra l’altro, consente di rigenerarci. Eppure nei suoi riguardi l’uomo ha dimostrato un atteggiamento che, pur mutando nel corso del tempo, ha generato una graduale ma costante metamorfosi della sua natura originaria.

Se ci soffermiamo a riflettere, come  facciamo sempre quando  ci arrampichiamo su per queste  meravigliose montagne, sull’attuale immagine della montagna, ci accorgiamo che non sempre siamo in grado di comprendere fino in fondo, in modo tangibile e trasparente, il reale valore e il significato. Ci si chiede se ogni cosa sia la stessa descritta dai poeti e dagli scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, affascinati dal suo ambiente incontaminato, nonché il soggetto delle sublimi composizioni di musicisti quali ad esempio Ludwig Van Beethoven ( “ Sinfonia Pastorale”) o Richard Strauss ( “ Eine Alpensinfonie”).

Nel passato la montagna era anche alla base di sentimenti di esaltazione, grazie alle imprese alpinistiche che, in qualche caso, si spingevano ai confini dell’impossibile.

Le richieste  nei confronti di questo ambiente si sono fatte sempre più pressanti, allo scopo di soddisfare le crescenti esigenze dell’individuo, ma spesso non ci siamo mai resi conto di quale potesse essere l’impatto del continuo sfruttamento del suo territorio. Nonostante le presenze, la montagna é ormai entrata a far parte della Terra, gli effetti prodotti dai cambiamenti climatici a da tutte quelle attività umane che in qualche modo danneggiano la natura: l’inquinamento atmosferico, la deforestazione, l’uso irrazionale del territorio e del turismo di massa, sia esso invernale che estivo, azioni che rendono sempre più difficile il ripristino degli equilibri naturali preesistenti.

Il giornalista Giovanni Di Vecchia, ci da un esempio di questi equilibri: “ Basta soltanto citare alcuni di questi fenomeni per capire quanto l’integrità dell’ambiente montano sia a rischio: pensiamo ad esempio all’arretramento costante dei ghiacciai, alla costruzione o all’ampliamento di rifugi e baite, anche in alta quota, trasformati in alberghi o ristoranti, alla deforestazione effettuata, tra l’altro, anche per la costruzione, in alcuni casi irrazionale, di impianti di risalita e di piste da sci innevate artificialmente (con ulteriore consumo di risorse idriche), alla trasformazione di territori agro - pastorali in cattedrali del cemento”.

Creativo é  anche il pensiero filosofico, che ti porta all’indagine della ragione rivolta alla conoscenza dei problemi fondamentali della vita, e che ti permette di sopportare serenamente le avversità di ogni giorno. Creativa é la poesia della vita, dei ricordi della fanciullezza, che ti scuotono la polvere della loro vecchia amicizia. Pensando a tutta questa infinità di cose ed osservando la natura che ti circonda, che poi non é altro che la forza che genera e governa tutti gli esseri dell’universo: e ti porta a scoprire le leggi, i segreti della natura.

Questa mattina di fine gennaio, la valle Rutiliana si presenta umida e brumosa, come del resto é nella sua natura e nella sua veste invernale, con le sue caratteristiche geometrie dei suoi vigneti e frutti, che sono pronti per la potatura  primaverile. Attraversato la grande valle alpina, il pesante torpedone ha imboccato la SS. Nr. 350, che porta agli altopiani di Folgaria, per proseguire poi verso il  Passo Coi, per poi raggiungere l’altopiano dei Setti Comuni e quindi Asiago. Anche quest’aspra montagna, con i suoi contrafforti e i suoi tortuosi tornanti, é quella di sempre, che ormai ci é familiare.

Mentre il torpedone sale a velocità ridotta, abbiamo modo di osservare quel paesaggio brullo e bruciato dal grande freddo, ma soprattutto dalla prolungata siccità di questi mesi invernali, che ha messo in ginocchio tutte le regioni del nostro Paese. Superato il costone e giunti in prossimità delle prime case di Folgaria, abbiamo potuto constatare che i prati erano bruciati dal gelo e appunto dalla siccità. Insomma, si presentava davanti ai nostri occhi un paesaggio desolante, tanto che per un momento, ci é sembrato un paesaggio bruciato dal sole, come quello africano.

Superato il Fondo Grande,  il paesaggio che prima brullo e secco, stava cambiando gradualmente: la neve che era caduta in questi ultimi giorni, ci dava il senso della vera montagna. Don Enrico, il nostro parroco di Campitello, che aveva organizzato la gita, tra l’altro ha detto, con un filo di grande soddisfazione: “ Avete visto, che anche quest’anno  la montagna non ha tradito le nostre aspettative? Guardate, quanto sono belli gli alberi imbiancati di neve, sembra un vero presepe. Sono sicuro, che alla fine della giornata, saremo tutti felici e contenti”. Egli aveva veramente ragione.

Il Fondo Piccolo, dove ci siamo fermati, era avvolto da nuvole basse, da nuvole nere e fredde, che facevano poco sperare. Un vecchio proverbio così dice: “ La speranza é l’ultima a morire”. Tutti gli impianti di risalita funzionavano a pieno ritmo e gli sciatori , anche con le nuvole basse, che più che nuvole a me sembrava una fitta nebbia che avvolgeva tutta la montagna e la vallata, continuavano a sciare nelle piste innevate da neve fresca. Anche il nostro piccolo gruppo, composto da una decina di escursionisti, in fila indiana, ci siamo avviati su per un comodo sentiero ed in poco tempo, abbiamo raggiunto la nostra meta: il rifugio Camini, che sorge a quota 1700 metri, in cima alla montagna imbiancata   di neve fresca.

 Dopo un lungo, lunghissimo inverno freddo e ghiacciato, siamo usciti all’aria aperta per respirare una boccata d’aria pura fra queste montagne meravigliose del Trentino. Nei giorni scorsi, nella grande e brumosa Pianura Padana, é piovuto sufficientemente, dopo un lungo periodo di siccità, mentre su queste montagne ondulate e scoscese aveva nevicato un poco, ma il sentiero  era coperto do un sottile  strato di candida neve fresca, non più alto di  20 centimetri. Il sole, già del suo sorgere ,é apparso vigoroso e i suoi raggi ci hanno fatto ben sperare di una bella giornata, ma le nuvole basse hanno oscurato la grande vallata. Non so se si può dire nebbia quella che avvolgeva quasi tutta la zona alpina. Era come quella che qualche volta ci sorprendeva in montagna e ci faceva perdere il sentiero tra i mughi; più che nebbia erano nubi basse che si arrampicavano sulle montagne, come é successo questa volta. Ma quella di Alessandria, in tutti gli anni che vi ho soggiornato per via del mio lavoro, come la ricordo! Era fredda e umida la camerata nella caserma Scappaccino; alla sera si andava a letto e pareva di entrare tra coperte bagnate nel Fiume Tanaro. Al mattino, come pure alla sera, non si vedeva ad un palmo dal naso. Era una nebbia unta e densa come quella che vediamo ora alla Tv: un nebbione tetro anche perché non si può insaccare e portare via in discarica; nemmeno certi trattamenti chimici hanno dimostrato efficacia. Magari fosse solo nebbia come massa di vapori acquei condensati vicino alla terra: con questi ci sono tutti i miasmi che la nostra civiltà produce e così, oltre che far stare al suolo gli aerei e rendere lente e pericolose le autostrade, infierisce malanni ai polmoni di chi la respira. Me ne rendo ben conto quando vedo  gli automobili delle città e dei paesi della  Padana, dove noi oggi viviamo da moltissimi anni, talmente lordi da non poter distinguere il colore della carrozzeria. Tante volte mi sono domandato, ma come si fa ad abitare in luoghi simili? Nel nostro caso, sono state le vicende della vita: una successione di cose, di avvenimenti che si alternano tra loro, e che ci hanno portato a questi lidi.

Parlando ancora della nebbia, ricordo che  da noi, nella Old Calabria,era rarissima; quella di novembre aveva un odore di neve, di bosco marcescente e di fumo della legna secca che bruciava sui focolai, dove la sera la famiglia si riuniva attorno al fuoco. Quella di marzo aveva un buonissimo odore di primavera, come di terra amorosa, ed era bello giocare dentro la nebbia in quelle rare sere che scendeva dalle colline aspromontane. Quelle erano le bianche nuvole  che annunciavano la pioggia.

Non é la prima volta che saliamo fin quassù. Anche l’anno scorso, nello stesso periodo, con la stessa comitiva di amici, ci siamo venuti per una breve passeggiata. Abbiamo da poco lasciato il resto degli escursionisti, quelli amanti dello sci, mentre il nostro  gruppetto,  passo dopo passo, ci siamo inerpicati per il sentiero scosceso che si snoda intorno al monte. Superato le prime ondulazioni, cioè i piccoli mammelloni della brulla montagna, e seguendo un sentiero appena spruzzato di neve, abbiamo avvistato un filo di fumo che usciva dal piccolo rifugio alpino, ciò voleva significare che quello era  il Rifugio “ Il Camino”, dove l’anno precedente ci eravamo rifocillati. Il sole stentava a bucare le nuvole, mentre l’orizzonte incominciava a schiarirsi. L’amico Pierino e Alfio, che in fila indiana precedevano il piccolo gruppo, ci hanno fatto osservare, che fra non molto avremmo raggiunto il bianco rifugio, sito sul pendio del costone. Siamo giunti all’ora di pranzo. Appena entrati, siamo stati investiti da un piacevole tepore, ma anche  le nostre papille olfattive hanno subito la stesa cosa: un profumo di stracotto , di polenta arrostita e di  luganighe arrostite si diffondeva nel locale che ci deliziava i sensi e ci stimolava l’appetito. L’allegra compagnia, prendeva posto nel solito tavolo lungo, un tavolo rustico d’abete posto dietro la grande vetrata che dava sulla  valle. Le nuvole basse si erano diradate e da quella  finestra panoramica, si poteva ammirare un paesaggio delizioso, lievemente biancheggiato da un sottile strato di neve fresca. Adriana mia moglie, ha detto alle altre donne: “ Se osservate bene, da questa posizione, non vi sembra di ammirare un quadro dipinto da un grande pittore del Settecento? Con le sue meravigliose montagne sfumate verso l’orizzonte e finemente incorniciate dai verdi abeti. Ella aveva veramente ragione. Si, é vero, da quella posizione si domina un paesaggio stupendo, un paesaggio da favola, da dove l’occhio poteva spaziare all’infinito.

Appena vedi  il Rifugio Camini, ti da l’impressione di vedere un grosso Trullo, uno di quei caratteristici edifici coniforme pugliesi, per via della sua caratteristica costruzione tondeggiante e con il tetto a punta. Più che un trullo, vedendolo da lontano, immerso in quella massa di nuvole basse e biancastre,  mi  dava la sensazione di scorgere la prua di una nave in un mare in tempesta .

Entrando in questo locale rustico e caratteristico della montagna Trentina, sul lato destro, fa bella mostra di sé  una grossa teca, dove sono stati sistemati moltissimi uccelli e animaletti imbalsamati, caratteristici della montagna. Che richiamano l’attenzione  degli escursionisti di passaggio e specialmente dai bambini. Anche noi, cioè Alfio, Pierino , Tullio ed io, come la volta precedente, ci siamo fermati per ammirare quelle piccole creature imbalsamate. Ogni volta, osservando bene, si scoprono dei nuovi animaletti che prima non avevi mai visti e, allora fai una piccola riflessione, una considerazione attenta, un esame approfondito che la mente rivolge a quella particolare cosa: alla bellezza della natura.

Sull’estrema destra della teca, contenente decine di rari uccelli, e di mammiferi, vi era un trespolo ricavato da una radice contorta di abete, ove era stato sistemato un raro esemplare di rapace: il falchetto reale, che qualcuno degli astanti aveva scambiato per una piccola aquila.  Nel pensare alle meravigliose aquile che con molta grazia volteggiano sulle cime dei picchi dolomitici, mi é venuto in mente un brano di Romano Battaglia, che avevo letto molto tempo fa nel suo libro il “Fiume della vita”, edito da “Rizzoli”. “..... Un’aquila volteggia intorno alla vetta e nell’aria sento quasi il sibilo delle sue ali. Forse mi ha notato e, sospettosa, fa la guardia al suo nido nascosto tra le rocce. E’ raro che qualcuno venga sin quassù: la mia presenza la rende inquieta.

Qualcuno, non ricordo chi, mi ha raccontato che anche le aquile possono morire d’amore. Quando il suo compagno viene ucciso dai cacciatori, la femmina vola alta nel cielo, e poi si lascia cadere, con le ali chiuse, nel vuoto, precipitare sulle rocce con un lamento straziante che lacera l’aria. L’uomo non può capire il loro dolore.

Ora l’aquila ha volato basso, per osservare meglio i miei movimenti. Continua a roteare sfiorando la parete della montagna. Siamo soli al cospetto del cielo: lei, con l’intento di proteggere i suoi piccoli, io, col desiderio di arrivare dove nasce il fiume. Due creature spinte dallo stesso amore per la vita.

Se avessi dei figli racconterei loro la mia storia, di quando mi sono incamminato verso la montagna, la grande fatica per trovare le risposte ai miei perché. Mi ascolterebbero in silenzio. Forse se esistessero e mi amassero non avrei bisogno di cercare le origini e il senso della vita”.

Anche Dostoieski insegna che “ vi sono momenti in cui l’uomo vive e impara più che in anni interi”. Lo scrittore, nella sua solitudine della vita, come succede a moltissime persone, si era incamminato su per gli impervi sentieri della montagna per ritrovare se stesso e i giorni del suo passato, alleggerendosi dei momenti più pesanti. Lungo il cammino la sua visione del mondo si é allargata come la pianura e il mare, che sono laggiù, lontani.

Io ed Adriana, siamo innamorati della montagna e quando possiamo, cerchiamo di raggiungerla, per vivere questi momento e, soprattutto, per respirare a pieni polmoni quest’aria  frizzante e godere delle meraviglie del creato, lontani dal caos delle nostre città invivibili.

Un antico proverbio africano dice che “ una montagna va salita passo dopo passo, la ricchezza si acquista passo per passo, la saggezza si raggiunge passo per passo”. Anche Giacomo Leopardi cercava il perché della vita e trascorreva ore sul suo “ ermo colle” ad ammirare dall’alto la pianura e il mare lontani: fu più sfortunato di tanti altri perché non ebbe la gioia di essere amato. Fra lui e l’amore c’era la lontananza. Lo contemplava da distante: a lungo, teneramente, si struggeva alla vista di Silvia che ricamava. Visse il suo disperato amore alla finestra.

Leggendo le sue poesie, abbiamo compreso quell’amore grande nella sua immaginazione di poeta, tragico e non corrisposto. La vita stessa gli appariva un limite, mai avrebbe potuto scalare questa e tante altre montagne incantate, come quelle che abbiamo scalato noi nelle nostre escursioni dolomitiche. Si, é vero, bisogna essere forti fisicamente, sani, integri, per camminare a lungo sotto il sole dell’estate. Negli anni precedenti, lo abbiamo fatto, oggi le nostre camminate sono diventate delle semplici passeggiate, tenendo presente l’antico proverbio africano. Questo proverbio, lo troviamo anche nell’ABC del CAI, che pressappoco dice la stessa cosa:  “La montagna va salita passo per passo”. Non c’è fretta di raggiungere la cima, perché quando non te la spetti, é proprio davanti a te: superba, bella e meravigliosa.

Le Alpi tra le montagne della terra sono uno dei luoghi dove l’ambiente naturale é stato nel corso dei secoli più profondamente trasformato dall’uomo. Nel Trentino, dove oggi noi ci troviamo, per effettuare questa breve e leggera passeggiata, già da tempo, strade e funivie, alberghi e rifugi hanno rotto l’incanto che per secoli ha regnato sovrano fra le meraviglie naturali ancor oggi tra le più belle e superbe del mondo intero.

Nel bene o nel male ora tutto é più accessibile ma la bellezza rimane. Ed é proprio grazie all’accessibilità resa dalle  seggiovie, cabinovie e quant’altro, ognuno di noi può raggiungere località impensate come il nuovo ed il bello può essere anche straordinariamente vicino!

Queste comode e veloci cabinovie, che trasvolano da un picco all’altro, in pochi minuti ci portano sulle cime più belle delle Dolomiti, per godere di quella pace e di quella serenità che la natura ci offre. Sembra  che sono state fatte a posta per noi anziani, altrimenti non avremmo mai sognato di raggiungere le alte quote.  Ricordo, che   due o tre anni fa, quando con Adriana, Maria Artusi ed altri amici del CAI di Mantova, da Madonna di Campiglio, salimmo sul Crosté, su quel balcone panoramico di meravigliosa bellezza, che con un solo sguardo abbraccia un paesaggio incantato, immenso e meraviglioso. Mentre stavo guardando un rivolo d’acqua scorrere fra le rocce del massiccio, allontanavo la realtà della vita quotidiana per inoltrarmi nel sentiero incantato , dove i pensieri cattivi si infrangono sulla scogliera della fantasia.

Una piccola creatura, una taccola nera, é venuta ad abbeverarsi, farfalle bianche volavano sulla superficie del piccolo rigagnolo. Avvertivo il dolce palpitare della natura che in sé mantiene il potere della rigenerazione. Tutti gli uomini disperati hanno ritrovato, grazie alla natura, l’equilibrio e l’umanità che avevano perduto. Lamartine aveva ragione di scrivere che...

“La natura ti invita e ti ama: riposati nel suo seno, che essa ti apre sempre: quando tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso sole sorge sui tuoi giorni”.

Dopo questa breve pausa di ricordi e di riflessioni, ritorniamo a parlare di questo anomalo inverno, secco e gelato, che ha prodotto tantissimi danni all’agricoltura del nostro Paese.

Da oltre 50 anni, che viviamo  tra Piemonte, Liguria e Lombardia,  non abbiamo mai visto un inverno così siccitoso e arido, anche se gennaio , mediamente é il mese con meno precipitazioni. Quello del 1955 - 1956, ricordo, fu un inverno senza neve, ma senza neve sui mille metri perché a Natale una bonaccia l’aveva sciolta e dopo  non si vide una stilla o una goccia d’acqua fino a marzo; la montagna era però bene innevata e si poté sciare nel bel sole su neve ottima. Quest’anno niente. Un po' di neve era venuta ai primi di dicembre, poi sereno, freddo e il vento del nord la disperse, mentre in questo mese di gennaio, una grande gelata notturna, ci ha fatto rivivere un avvenimento insolito, un avvenimento che non si verificava da moltissimi anni. La nebbia notturna, per via della famosa “galaverna”, ha regalato ad ognuno di noi un paesaggio eccezionale, un paesaggio da presepe, con i suoi merletti ricamati, come un bellissimo abito da sposa.

Che venisse un inverno freddo lo avevano indicato alcuni segnali: un amico esperto di montagna, l’amico Sandro Zanellini del CAI di Mantova, con il quale più volte ci siamo trovati sui sentieri innevati, mi aveva segnalato che i camosci, quelli che avevamo ammirato l’anno scorso sui costoni del Gran Paradiso, in Val di Notre Dame, avevano anticipato di quindici giorni la stagione degli amori; anche il poeta Ferdinando Bandini, osservatore del mondo degli uccelli, scriveva di aver notato i pettirossi tra gli alberi della sua città molto in anticipo sugli anni passati; lo scricchiolo sul  melograno del mio giardino era arrivato a settembre. Ero incredulo!

Ora, in pieno inverno, camosci, cervi, caprioli, lepri, tetraonidi hanno boschi e montagne liberi da neve fino alle alte quote dove trovano spazi da camminare o da volare alla ricerca di cibo senza essere disturbati. Ma se per loro la stagione va bene così, per noi umani, no: é brulla, secca, soggetta a incendi la montagna d’inverno senza neve. Oggi, 27 gennaio, siamo sulle montagne di Folgaria, ma di neve, grazie ad una breve nevicata di questi giorni,  c’è né pochino e sommata a quella  prodotta con i cannoni, é sufficiente solo per sciare. Il freddo e il vento fanno screpolare la pelle delle dita, i polmoni e la gola risentono la secchezza nel respiro. Sarà ancora peggio in città, con tutti quegli automezzi puzzolenti e la polvere nell’aria. Anche la nostra città di Mantova, come pure le altre città della Lombardia, sono state chiuse al traffico per via dell’inquinamento da polvere e dallo smog. Poveri bambini. Se a questi inconvenienti si può in qualche modo rimediare , é difficile o impossibile rimediare alla mancanza d’acqua. Il grande fiume Po, é sotto il segnale di guardia di ben 7 metri, la navigazione fluviale é in pericolo ed in pericolo sono anche i campi di quest’immensa Valle Padana.

Così scrive in un suo articolo Mario Rigon Sten: “Mai, guardando dalle finestre, a mia memoria,  mai ho visto le montagne intorno così nude a gennaio: il Pasubio grigio e ferrigno, la Cima XII brulla e pulita; solo nei canaloni c’è un po’ di neve portata dal vento più che dalle nubi. Il Cevedale e le Dolomiti di Brenta si mostrano meno bianche che d’estate! I torrenti sono asciutti non perché il freddo li ha fermati ma perché dall’alto non scende acqua; in certi paesi del Cadore, leggo sul giornale, sono costretti a portare l’acqua con le autobotti..

Allora che fare? Intanto non sprechiamo l’acqua che esce dai rubinetti per non rimpiangerla dopo. Gli addetti al nostro acquedotto mi assicurano che mai le sorgenti sono state così in magra. Anche perché il trascorso autunno é stato avaro di piogge. Speriamo in febbraio. Di solito febbraio é il mese della neve e ben lo sanno i pastori. Abbiamo bisogno di fare riserva d’acqua ma anche i prati, i pascoli, i boschi soffriranno a rinverdire a primavera.

Un nostro vecchio proverbio dice: “  Viel snean viel obe” ( molta neve, molto fieno; ma se l’economia dei pascoli e dei prati montani é povera, non é così per le risaie, i frutteti, le vigne, i seminati e gli erbai di pianura”.

Creativo é anche svagarsi.

Quando il piccolo gruppo degli escursionisti é giunto al “Fondo Piccolo”, il pallido sole, che durante la giornata   a stento si era fatto vedere, ora era là, sulla cima della montagna, come legato ad un filo di lana , che da un momento all’altro sarebbe  tramontato. In quell’angolo tranquillo di pace e di serenità, quasi distaccato  dagli impianti di risalita, i bambini si divertivano moltissimo con lo slittino. Alcuni del nostro gruppo, sono stati per così dire influenzati, da quel semplice svago praticato dai più piccoli ed hanno voluto provarci anche loro.

E’ proprio vero, a volte, per divertirsi  basta poco. In questo caso, é stato sufficiente un telo di nailon. Raggiunto il vertice della piccola collina, sistemato il telo di nailon sulla neve, si sono seduti uno dietro l’altro, formando un piccolo treno, che per via d’inerzia scivolavano verso valle, assumendo la forma  buffa di un bruco. Quello é stato un divertimento anche per noi che assistevamo alla loro performance improvvisata.

Quello che é stato molto interessante: scoprire il lato buffo della  loro performance improvvisata. Le cadute si susseguivano una dopo l’altra, rendendo allegro e divertente questo semplice  divertimento  da bambini. Ma quello che maggiormente  mi ha fatto riflettere: quello di ritornare ad essere bambini anche noi.

Intanto la Luna che era alta nel cielo, piano piano sparisce nella foschia che ha ricoperto le vallate e le pianure, qualcuno dice  che forse pioverà, perché il pianeta ha la gobba in giù, pare una barchetta. E il gelo?  “Vedremo”, dicono, perché devono ancora arrivare “ i giorni della merla”, a fine mese. I più freddi dell’anno.