Per
riconoscere, ed evitare, i prevaricatori basta il telefono, ma per riconoscer un
vero amico bisogna essere un psicologo.
In
un modo o nell’altro, stiamo parlando del Santo Natale. Tutti sappiano che il
Natale augura pace agli “ uomini di buona volontà” e perciò ricordiamoci
di loro cercando di non premiare, invece, i violenti, i provocatori. Ma per
riuscirci, dobbiamo distinguerli dai primi. Cosa che non facciamo quasi mai
perché non osserviamo attentamente i comportamenti della gente. Proviamoci
oggi.
Su
questo argomento, abbiamo letto alcune interviste, rilasciate da vari psicologi,
come Angelo Cavalli e Francesco Alberoni.
Essi ci consigliano di incominciare dai provocatori poco pericolosi perché
impulsivi, grossolani, sgarbati, maldestri. Per riconoscerli basta osservarli,
studiarli come farebbe un provo investigatore, specialmente quando
entrano in casa nostra. Quest’individuo, parla ad alta voce, butta il
suo cappotto dove capita, semina i suoi oggetti in giro. Occupa tutto lo spazio
fisico e sonoro. E occupa anche la nostra mente perché parla, pontifica e
pretende che noi lo ascoltiamo. Sul lavoro, non avendo il senso del limite,
finisce per urtare i colleghi e litigare con loro. Insomma, una persona a cui
conviene non affidare delicate relazioni diplomatiche.
Il
secondo tipo di prevaricatore é ambizioso e più pericoloso, ma ha la debolezza
di scoprirsi. Vi disturba tanto che finite per evitarlo. A volte si comporta da
amico, vi é affezionato. Ma quando avete con lui un rapporto professionale
diventa insopportabile. Vi chiede continuamente appuntamenti, vuol essere
ascoltato, si offende se non lo fate, vi ossessiona. E ossessiona gli altri
perché vuol sempre dire la sua, mettersi in mostra. Così disturba, irrita e
quasi sempre finisce per farsi isolare.
Il
terzo tipo di provocatore, invece, é veramente pericoloso, addirittura letale.
Perché estremamente ambizioso, vuol emergere ad ogni costo, é affamato,
ossessionato dal potere, e non ha alcuno scrupolo nel raggiungerlo. Ma é anche
molto intelligente e capace di un ferreo autocontrollo. Capisce i problemi,
trova il modo di risolverli, sa rendersi utile. Sa essere estremamente cortese,
raffinato, un abilissimo diplomatico. Riesce a convincere con la lusinga, con
l’astuzia e, nel segreto, con il ricatto. Nessuno sospetta la sua vera matura,
nessuno capisce che le maniere cortesi nascondono una spregiudicatezza che
arriva alla ferocia. Anche voi, affascinati dalle sue capacità di seduzione,
potete sceglierlo come collaboratore e vi accorgete troppo tardi che vi siete
portati in casa un serpente velenoso.
Eppure,
come ci conferma la psicologia, che studio questi fenomeni, c’è un metodo
sicuro, semplicissimo, per scoprirlo. Infatti ha un comportamento in comune con
i due tipi umani di cui ho appena parlato. Anche lui parla troppo, fa lunghi
discorsi, lunghe telefonate, occupa il vostro spazio mentale. Già questo
dovrebbe mettervi in sospetto. Inoltre, se state attenti - come scrive F.
Alberoni - “se analizzate la conversazione, vi accorgerete che non sa
resistere alla tentazione di correggervi continuamente, di contraddirvi. Voi
dite qualcosa, e lui risponde “ si, certo, ma...” E vi fa un obiezione. Poi
arriva un secondo, un terzo, un quarto “ma”. Nonostante tutto il suo
autocontrollo si comporta da antagonista. Perché si sente superiore a voi, vuol
schiacciarvi. E, fate attenzione, dopo una lunga conversazione con lui, anche al
telefono, vi sentite sempre sfinito.
Vi ha rubato energia.
Ecco
ciò che accomuna tutti i prevaricatori, i violenti, da quelli poco pericolosi a
quelli pericolosissimi. Vi antagonizzano, vi logorano, vi stancano. Perciò
evitateli come la peste. La persona “ di buona volontà” al contrario vi
ascolta, cerca di capire, risponde con calma e così, alla fine della
conversazione, vi sentite riposata. E’ costui che dovete prendere come
collaboratore e come amico, perché l’amicizia é una cosa veramente
importante. Bisogna sapersi scegliere gli amici fin dalla fanciullezza.
Il
segreto di un’esistenza felice sarebbe proprio questo: saper identificare al
momento giusto le persone e i sentimenti profondi per istituire l’amicizia. Si
direbbe un traguardo elementare, se non fosse che, a quella che possiamo
definire “ la voce della coscienza” che dovrebbe guidarci senza sbagliare la
rotta, si oppongono giorno per giorno centinaia di altri richiami.
Sono
voci esterne, molto spesso futili, che però non possiamo fare a meno di
ascoltare, e che mettono in dubbio le certezze
del giorno prima. In questa zona oscura del nostro essere, in quel buio
insormontabile della certezza: la saggezza é messa in crisi dall’ambizione;
la serenità é continuamente aggredita dalle tentazioni; le passioni si fanno
beffe della ragionevolezza.
E
il passar del tempo anziché placarsi spalanca nuovi inquietanti interrogativi.
Come
uscire allora da questo vicolo cieco? Simile ad un treno in corsa che attraversa
fasci di binari, la spinta verso gli altri, verso quella serenità, la spinta
dei desideri apre e chiude gli scambi, si entusiasma e si deprime, incapace di
scegliere il binario giusto. Ma chi sarà il vero macchinista del treno? Noi
naturalmente, si, siamo noi stessi, con le nostre gioie e anche con le nostre
debolezze.
L’amicizia,
quella con “A” maiuscola, é una delle forme spontanee in cui si manifesta
la solidarietà tra gli uomini. L’amicizia é il legame di affetto che si
stabilisce tra due e più persone, sulla base della comprensione spirituale,
della confidenza, della stima reciproca e con l’esclusione dell’utile (
almeno come scopo diretto).
L’amicizia
é una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce l’esigenza umana
di solidarietà, di vicinanza di altri esseri, simili a noi per pensieri e
atteggiamenti, il bisogno d’affetto, di approvazione, da parte degli altri.
C’è
un vecchio proverbio che dice: non é mai troppo tardi per scoprire le cose
belle della vita come l’amicizia.
Noi
abbiamo scoperto tutto questo quasi al traguardo della nostra vita. Non é che
prima non conoscessimo il valore intrinseco di questo sentimento che é dentro
nella natura stessa degli uomini, nell’intimità dell’animo umano, ma
essendo militari era naturale che i nostri rapporti dovevano mantenersi sempre
su di una linea tale da permetterci di conservare ognora quell’indipendenza
che é necessaria al tutore dell’ordine e della Legge.
Non,
quindi, eccessiva dimestichezza o famigliarità, con confidenze che non
sarebbero in armonia con quella particolare posizione. Bisognava soprattutto
essere assai guardinghi nell’accettare inviti e nell’entrare in rapporti,
anche di famiglia, con privati.
L’imparzialità,
il sapersi mantenere al di fuori e al di sopra di ogni cosa, l’umanità, il
senso della misura nell’adempimento di ogni dovere, il mantenersi lontani da
ogni eccessiva famigliarità, l’essere prudenti e riservati, costituivano
altrettanto necessità per la buona riuscita del nostro servizio. Come abbiamo
detto, il segreto di un’esistenza felice sarebbe proprio questo: saper
identificare al momento giusto le persone giuste dai prevaricatori, dagli
invadenti, dagli ambiziosi, che a volte si comportano da veri amici, ma quando
abbiamo con lui dei rapporti professionali diventano insopportabili e ci
ossessionano la vita.
Ci
dobbiamo rendere conto che queste persone vanno isolate, allontanate dal nostro
quotidiano vivere, perché non sanno dove sta di casa la vera amicizia. Il loro
scopo è quello di ottenere con la falsa amicizia, un profitto. La persona “
di buona volontà” al contrario vi ascolta, cerca di capire, risponde con
calma e così alla fine della conversazione, vi sentite riposato. E’ costui
che dovete prendere come amico, perché é disinteressato e non mira ad altri
scopi che a quello della vera amicizia.
GLI
ITALIANI NON SANNO FARE I CONTI.
Marco
Belpoliti, parlando dell’Euro, la nuova moneta di cui si é dotata l’Unione
Europea, in un suo articolo sulla “Stampa”, fra l’altro,
ha detto: Gli italiani non sanno fare i conti”. Con nostro rammarico,
dobbiamo dire, che egli ha veramente ragione. Non è che non sappiamo fare i
conti, il fatto é che, ritornando ai centesimi, specialmente quelli più
anziani, si sono trovati in difficoltà, e molti, rimpiangono la
vecchia e cara “Lira”.
“
In una delle ultime interviste concesse da Italo Calvino gli veniva chiesto quali erano le cose essenziali da
sapere per il prossimo millennio. Con la sua consueta ironia, ma anche con molta
serietà, lo scrittore elencava tre attività indispensabili: saper attaccare un
bottone, imparare le poesie a memoria, saper fare le quattro operazioni senza
calcolatrici. Il memento calviniano mi è venuto in mente mentre in questi
giorni osservavo in una delle tante file d’attesa in cui mi sono trovato
coinvolto gli addetti alla riscossione dare il resto in euro ai clienti.
Molti
si sono trovati in difficoltà, non tanto nel riconoscere le monete metalliche,
ma nel calcolare il resto al di là della virgola: 25 centesimi di euro e 25
euro; o, 25 e 25. La disabitudine a fare i conti con i decimali é palese.
Risulta ostico sommare o sottrarre e spostare le decine al di qua o al di là
della virgola in modo da comporre la cifra giusta. Nei programmi delle scuole elementari, come mi diceva mia
figlia Tiziana, che insegna, appunto, alle elementari, le lezioni sui decimali
sono affidate alla terza classe. Prima, noi maestre, insegnano le frazioni, poi le frazioni decimali, quindi
passiamo alla rappresentazione visiva dei decimali ponendoli sulla linea dei
numeri usando l’abaco. Questa é una parte importante del programma, che viene
costantemente tenuta sotto controllo anche nelle classi successive, perché
serve a far comprendere il concetto di misura, oltre naturalmente il concetto di
numero”. Questi concetti, ricordo di averli approfonditi anche nei corsi delle
scuole superiori, specialmente
nei calcoli algebrici, per cui oggi, non
ho trovato alcuna difficoltà nell’effettuare queste piccole operazioni
giornalieri con i centesimi della nuova moneta. Premetto, che in passato, un
passato non molto lontano, e precisamente nell’agosto del 1989, in un viaggio
escursionistico negli Stati Uniti d’America, dove viene praticata da
moltissimo tempo la moneta con i
decimali, di aver fatto la mia prima esperienza.
Io ed Adriana mia moglie, in quella esperienza americana,
nei nostri acquisti, non abbiamo trovato alcuna difficoltà. Forse perché,
negli Stati Uniti, avevamo a che fare con una sola moneta: con il dollaro.
Secondo
il mio punto di vista, la confusione che c’è in questi giorni nel nostro
Paese, non é per i decimali, ma
per la doppia moneta e per le monetine che sono microscopiche, ma passato questo
momento, sono sicuro che tutto ritorno alla normalità.
Ritornando
ai decimali, croce e delizia dei nostri giorni, ho compreso, che se non si usa
con assiduità, il calcolo mediante i decimali si dimentica facilmente, si copre
di ruggine, come é dato constatare in questi giorni. La numerazione “
posizionale” non é infatti così naturale come sembra. Si pensi alla
difficoltà che sovente incontrano i bambini a imparare il calcolo del tempo
fondato su secondi, minuti e ore, che ha bisogno di un altro tipo di
numerazione. Nei mesi che hanno preceduto l’introduzione dell’euro si era
posto l’accento sulla necessità di ripassare il calcolo decimale; ma poi
l’attenzione si era spostata sull’identificazione delle monete, sulla
conversione da lira a euro, e viceversa. Ecco una delle cose che la scuola del
nuovo millennio non potrà fare a meno di insegnare.
Pollice
verso per gli eurocent: inutili.
Quello
che dubitavamo é successo in Finlandia. Ai finlandesi non piacciono le monetine
e vorrebbero eliminarle. La
giornalista Maria Corbi, in un suo articolo sulla “Stampa” di oggi, così
scrive: “ Quanto devo? La signora ha appena fatto la messa in piega e chiede
alla receptiinist del parrucchiere il conto in euro. La risposta é “ 19,81
euro” Quel cent di troppo fa decidere alla signora di tirar fuori la carta di
credito. “ Ma perché non li tolgono di mezzo? Tutte queste monetine sono
fastidiose nel portafoglio e non si trovano mai. Dovrebbero fare come hanno
fatto in quel paese del nord”. Quel paese del nord sarebbe la Finlandia dove
per legge l’arrotondamento si fa ai cinque cent più vicini. Se deve pagare 8,
19 euro si arrotonda a 8, 20. Se
invece il prezzo é di 8, 16 si abbassa a 8,15. Una legge del governo finlandese
dispone l’arrotondamento quando si paga in contanti eliminando di fatto le
monetine da due e un cent. Con la carta di credito invece i prezzi restano con i
centesimi”.
E’
bastato questo a far nascere il caso e a ipotizzare sanzioni contro il paese
scandinavo reo di aver violato disposizioni comunitarie. Il pericolo,
naturalmente, é quello inflattivo. Arrotondando si rischia di far alzare i
prezzi e scatenare una pericolosa spirale. In realtà le cose non starebbero
proprio così visto che la regola dell’arrotondamento valeva in Finlandia
anche per la moneta nazionale. In un comunicato diffuso ieri la banca di
Finlandia spiega che “ nei paesi scandinavi per i pagamenti in contante con le
monete nazionali valeva la regola di arrotondamento che é stata trasportata
anche alla moneta unica”. La giornalista - continua dicendo: “ Il portavoce
dell’istituto assicura che tutti possono continuare a usare queste monete
anche se il loro utilizzo é raro. Ma proprio il fatto di essere raro invoglia i
collezionisti ad accaparrarsi le monetine. La domanda é
talmente forte che a partire da febbraio la Banca Centrale aumenterà “
in modo significativo” il loro ammontare.
Nel
nostro Paese invece si usano ancora anche se cercarli nel borsellino può
diventare un vero incubo. Io, tutto questo, lo posso dire per esperienza, perché
tutti i giorni mi tocca fare la spesa. Ormai
tutti ne siamo consapevoli, che ogni giorno che passa si assiste ad una vera
maratona con questi centesimi. I più anziani come noi, quelli specialmente
deboli della vista e non solo, si trovano in difficoltà ad individuare i
centesimi e sono le commesse dei vari negozi a scegliere quelle monete
necessarie per il pagamento della spesa. In molti sperano e credono in un loro
precoce pensionamento. Lo sperano soprattutto baristi e camerieri che da quando
é stato introdotto l’euro hanno visto dimezzarsi le mance. “ Ci mettono nei
piattini gli inutili centesimi facendo finta di non capire il loro valore”, si
lamentano i parroci, perché dicono
che i cestini delle offerte sono sempre più vuoti, e al posto delle mille lire
trovano i centesimi; si lamentano i baristi, che trovano nel piattino delle
mance i centesimi; si lamentano quelli che chiedono l’elemosina e che troviamo
agli angoli delle strade e avanti alle chiese, come abbiamo potuto constatare a
Mantova. I negozianti , poi, tranne rare eccezioni, non ci stanno a fare
piccoli sconti arrotondando in basso. Ieri, facendo la spesa, come tutti i
giorni del resto, dal panettiere. Una signora anziana compra
due panini e un pezzo di pizza. Il conto è di 2 euro e 24 centesimi. Nel
portamonete mancano i quattro centesimi. La commessa, una brava ragazza, ma
precisa e ligia nei suoi conti, cerca di ovviare a questa incresciosa situazione
e, alla fine segna su di un
taccuino i quattro centesimi che mancano nel saldare il conto.
Su questo, in un certo senso insignificante episodio, che ha certamente
la sua importanza, ho fatto una piccola riflessione, un esame approfondito
sull’attuale momento di transazione monetaria, e
mi sono convinto che quello che é certo é che le monetine hanno fatto
nascere una nuova categoria: gli eurotirchi.
Prima
dell’entrata dell’euro alle monetine da venti
e cinquanta lire, non ci si faceva più caso, mentre oggi, sui centesimi
della nuova moneta, si va a cercare il pelo nell’uovo, ma ne sono convinto
sempre di più, che oltre ad essere noiosi, sono stati utili. Di questo
parere é anche il mio amico Maurizio, che come me, anch’egli fa la spesa
tutti i giorni, e ci incontriamo, oltre che nel Bar Centrale, anche nella
panetteria di nostra fiducia.
Da
Romano Prodi arriva la difesa dei centesimi: “ In Italia, sono stati utili in
questa fase di cambiamento” ad “evitare in molti casi questi piccoli noiosi
aumenti che ci sarebbero stati in assenza del centesimo”. “ In Finlandia -
ha osservato - c’era già una tradizione che arrotondava ai 10 cent. con la
moneta nazionale. Ma tutti i conti vengono fatti in centesimi, così come tutti
i pagamenti elettronici. In Italia, invece, la tradizione dei centesimi non
esisteva e la loro introduzione “ ha aiutato”.
Apprendiamo,
inoltre, che il sottosegretario al ministero dell’Economia e presidente del
Comitato euro, Vito Tanzi dice che é ancora “ presto per penare
all’eliminazione dei centesimi come in Finlandia. Se poi vedremo che in Italia
la gente non li usa molto, allora si potrà fare. Negli Usa, come abbiamo potuto
constatare nel nostro lungo giro turistico, i centesimi sono usati
continuamente, e danno molta più flessibilità nei prezzi. Sul changeover il
sottosegretario Tanzi ha detto inoltre: “ le cose sono andate molto bene. C’è
stato qualche piccolo problema amministrativo ma era inevitabile in un passaggio
così importante. Ma non ci sono stati grossi problemi. Forse si sono
allungate un po’ le code ma per risolvere questo problema é questione
di qualche settimana”. Anche la Banca d’Italia conferma il buon esito delle
operazioni: i changeover “ é praticamente finito, siamo ormai alla normalità
- ha dichiarato ieri il direttore generale della Banca d’Italia, Antonio
Finocchiaro - anche se un po’ affannosa e appesantita per quel che riguarda la
fase di rientro”. Fra non molto, é questione di
pochi mesi, é tutto lo stock di vecchie banconote sarà stato distrutto.
Fino
a quando c’è in circolazione una sola moneta della vecchia e cara “
lira”, ci saranno questi piccoli problemi, ma dopo tutto ritornerà alla
normalità. Ne sono veramente convinto.
Addio!
Mia cara e vecchia “ lira”, hai fatto il tuo tempo.
IL
MIRACOLO DELLA PRIMAVERA.
Un
miracolo che si ripete ogni anno tra
gennaio e febbraio: mentre nel resto d’Italia é ancora inverno, la Valle dei
Templi di Agrigento é tutta in fiore. Grazie ad una pianta i cui doni ci
rendono più dolce la vita. Ma non solo nella Valle dei Templi, in questo
periodo invernale fioriscono le piante, ma anche qui da noi, nella Pianura
Padana. Questa mattina, appena ho aperto la finestra del mio studio che da sul
giardino, ho potuto ammirare lo spettacolo più bello del mondo: una fioritura
particolare, fatta di candidi merletti. Questa
é una fioritura effimera, che ha la durata di poche ore o di alcuni
giorni, dipende dalla temperatura
atmosferica. Se i raggi del sole riescono a filtrare attraverso la nebbia bassa
che avvolge la grande pianura, questo meraviglioso spettacolo scompare in poco
tempo, altrimenti, come sta succedendo in questi giorni,
può durare alcuni giorni. Comunque, questo é un meraviglioso paesaggio
bianco, che si può definire un paesaggio da presepe, un paesaggio metafisico e
lunare.
Questo
fenomeno é dovuto alla “ galaverna”, alla nebbia bassa che ristagna nella
grande pianura brumosa e, che per la situazione del clima, la nebbia dallo stato
gassoso per la bassa temperatura passa allo stato solido. dando origine a questo
fenomeno della “fioritura delle
piante”.
La
fioritura dei mandorli colora di rosa tutta la Sicilia. Ma in alcuni punti
dell’isola questo evento assume un significato particolare.
La
Valle dei Templi é la prima a riempirsi di fiori, già a gennaio. Tra febbraio
e i primi di marzo, i fiori si aprono anche nella zona di Palermo e in quella di
Siracusa, dove cresce la prelibata mandorla pizzura, la migliore per i confetti.
In
questo periodo, da nord a sud, il nostro Paese é avvolto in una morsa di gelo e
di ghiaccio, che ha provocato ingenti danni alla circolazione stradale e
soprattutto alle colture e alle piante, facendo levitare i prezzi della
frutta e delle verdure.
Le
cime dei monti sono coperte di neve e, a valle, la compagna resta profondamente
addormentata, avvolta dalle nebbie mattutine e dall’umidità della notte:
dalle Alpi alla punta estrema della Penisola, sono ancora i freddi colori
invernali a dominare il paesaggio, anche se le giornate cominciano
lentissimamente ad allungarsi, al ritmo di un paio di minuti ogni 24 ore.
Eppure,
nonostante in tutta Italia sia ancora inverno, con abbondanti nevicate al centro
e al sud, risparmiando le zone dolomitiche e le grandi pianure del nord, con una
grande siccità che persino ha quasi asciugato il grande fiume Po, in Sicilia si
compie un piccolo miracolo, il primo segnale che la natura sta per risvegliarsi
dal torpore della brutta stagione. In un servizio del telegiornale del TG Uno, ci ha fatto
vedere che ad Agrigento succede
prima che nel resto dell’isola: già a gennaio, i fiori del mandorlo
sbocciano, anticipando la primavera. Si aprono sui rami dei tronchi ritorti,
quando l’albero é ancora spoglio, senza le foglie, che prenderanno il posto
delle corolle chiare, una volta fiorite. Sotto il rosso costone pietroso
dominato dai templi agrigentini sono una visione sfolgorante. Ingentiliscono una
zona bruciata dall’arsura del cielo e dal fuoco interno: dove finisce
la collina dei templi comincia, infatti, una regione che, fino al primo
Novecento, si poteva definire davvero infernale: la regione delle zolfare. E già
pochi chilometri dalla città ( non più di quindici, verso nord, in direzione
di Aragona) ci si imbatte in una collina forata da vulcanelli che colano fango
caldo, le cosiddette maccalube.
Questo,
oltre ad essere un paesaggio bellissimo, é un paesaggio che racchiude in se la
storia del passato, ma sono anche
luoghi che nell’Ottocento, videro molti viaggiatori, scrittori e poeti
stranieri. Il grande scrittore
tedesco Ferdinando Gregorovius, che ha percorso in lungo ed in largo questi
luoghi, descrivendoli in modo eccezionale. Egli così
descrive una delle tante escursioni in quei luoghi: “ La giornata era
magnifica: passato Monreale, percorremmo una strada montuosa e deserta per la
quale non trovammo anima vivente, se escludi le aquile di Giove, che ci
guardavano dall’alto tranquille e silenziose, eppure disegnavano nell’aria
ampie spire coi loro voli. Così camminammo parecchie ore sino a che alla nostra
vista non si distese la meravigliosa pianura di Partinico e di Sala, vicino al
golfo di S. Vito. A dritta si trova Borghetto, l’antica Hykarap patria di
Laide, la più bella donna dell’Ellade, che i greci condotti da Nicia
portarono bambina ad Atene.
Le
linee del golfo di S. Vito sono belle e insieme grandiose, come quelle di Cefalù;
la pianura, poi, é tra le più feraci della Sicilia, così lussuriosa nella
vegetazione da far pensare ai
tropici. Il paesaggio acquista in grandiosità, assumendo quasi carattere greco
con l’armonia delle sue montagne colorate da tinte calde, or rosse, or
verdemente cupe. Il carattere di quella contrada - grazie ai giganteschi pini, i
malinconici cipressi, le palme annose, gli aloe dagli snelli fusti fioriti - é
reso più grave dell’autunno. Qui tutto é monocromo, scuro sovrapposto allo
scuro e, con meraviglia, si vede quanto possa la natura con una sola tinta
fondamentale”.
“
Per vedere il rinomato tempio di Segesta, ripartimmo mentre ancora splendevano
le stelle e, per nove miglia, camminammo in un paese deserto, tra monti
calcarei. Orione, vera stella sicula, della quale Messina ha fatto un mito,
sfolgorava su tutte le altre. Già, in Sardegna, ove il popolo l’ha nominata
stella dei Re Magi, avevo ammirato questo astro; ma fu solo in Sicilia che lo
potei contemplare in tutta la sua magnificenza; i suoi raggi sprizzavano come
fuoco d’artificio. Intanto s’alzava la brezza mattutina, il cielo si
imbiancava ad oriente, si diradavano le tenebre e si dissipavano le nebbie; le
sagome dei monti accennavano a dileguarsi e compariva il mare, di purpureo si
tingeva la campagna e Orione spariva dopo aver brillato per o spazio di una
notte meravigliosa”.
LA
STORIA.
L’ultima
volta che siamo stati nella Valle dei Templi, ricordo che giungemmo nelle prime
ore del mattino. Per descrivere quel momento magico, prendiamo in prestito le
parole di Ferdinando Gregorovius: “quando le sagome dei monti accennavano a
dileguarsi e compariva il mare, di
purpureo si tingeva la campagna e Orione spariva dopo aver brillato per lo
spazio di una notte meravigliosa”.
La
pianta dell’antica Agrigento si presentava come un triangolo irregolare,
fiancheggiato dai due fiumi, con la base verso nord, appoggiata contro due
colline: il Kamiko, per cui trovasi con Girgenti e Minerva. Questa era la città propriamente detta, a cui si
accostavano i sobborghi, Neopoli ( città nuova), come la denomina Plutarco, la
quale si allargava sotto il Kamiko occupando quasi tutta l’altura.
Le
alture naturali ed un dedalo di gole e di fossati, costituivano le difese della
città, e ancora oggi ne sono visibili le vestigia a levante ed a mezzogiorno.
Ponendosi
dove sorgevano le mura a sud, nel centro di quella serie di templi divisi, dei
quali sono giunti sino a noi alcune reliquie, si ha davanti una costa di
grandiosa e malinconica bellezza, della quale é meglio tacere piuttosto che
tentare la descrizione con parole.
La
pianura scende al mare e offre, nel suo aspetto solenne e deserto, un paesaggio
di forme severe che doveva trovarsi in completa armonia con la grandezza
monumentale dei templi dorici. Oggi, quella imponente e completa ormonica con la
grandezza monumentale, é stata turbata
dalla violenza subita con le costruzioni di casette, villini e ville abusive,
che hanno deturpato il paesaggio storico. Noi non diremo nulla di tutto questo
scempio, perché troppo si é scritto e detto, ma lasciamo alle Autorità
competenti di appianare ogni cosa, e riportare alla normalità il paesaggio
distrutto. Ciò , sicuramente, non sarà più possibile.
Tutto
era grandioso: l’orizzonte ampio, il mare vasto, calde vi sono le tinte e la
terra arida ci indica la prossimità dell’Africa; l’unica vegetazione che
qui si scorga é quella malinconica degli olivi e quella chiassosa , da gennaio
a febbraio, dei mandorli in fiore.
Attorno
- ove sorgevano templi, ove ancora posano centinaia di tombe, di loculi, di
grotte - sorgono qua e là tronchi di colonne e il suolo é coperto di avanzi di
architravi colossali e di capitelli; “tutto vi chiama alla contemplazione,
all’ammirazione, e chi non si sente commosso a quella vista, vuol dire che non
nutre nessun amore per l’antica Grecia - come scriveva nel suo libro: “
Sulle tracce dei Greci” Ferdinando Gregorovius, e non sa apprezzare la
splendida civiltà di questa.
Non
é possibile considerare una città distrutta o parlare dei suoi monumenti senza
prima ricordarne le vicende. Perciò io voglio anzitutto dare un cenno della
storia dell’Antica Agrigento nella speranza che il lettore di queste pagine
sia indotto a fermarsi in questa città di fama mondiale e di completare quanto
io accenno semplicemente. Vi sono inoltre nella vita di Agrigento una folla di
grandi figure, il cui nome é sulle labbra di tutti, in quanto questa città fu
una delle principali fra le città elleniche, e se non così potente come
Siracusa, fu però ricca in non minore misura di felici e spirituali qualità.
Lo
storico Gregorovius, ci ricorda che anche prima dei Greci era già un centro
importante dei Sicani. Il suo re Kokalus aveva, secondo il racconto di Diodoro,
ospitato Dedalo fuggiasco e questi costruì per lui sul Kamilo una rocca alla
quale si poteva accedere solamente per una tortuosa via artificiale.
In
questo castello imprendibile portò Kokalus il suo tesoro.
L’Agrigento
ellenica sorse nei due anni della 49’ olimpiade ( 582) come città coloniale
della vicina Gela, e presto superò in importanza la città madre: avendole dato
un rapido sviluppo il commercio con Cartagine.
Gli
Agrigentini avevano prima una forma oligarchica di governo secondo gli statuti
di Charondas di Catania, che durò fino a che Falaride la mise in mano ai
tiranni. Quest’uomo straordinario era Cretese di nascita. Incaricato della
costruzione del tempio di Zeusi Polieus, si giovò di questa impresa che gli
metteva a disposizione denaro e uomini, nonché il punto più forte della città.
Egli
assoldò dei mercenari, armò i prigionieri e mentre che si celebrava la festa
di Cerere, si rese signore e tiranno di Agrigento. Ai Greci era così odiosa la
monarchia, che concepirono Falaride come un mostro favoloso, e la sua crudeltà
diventò proverbiale.
A
tutti é nota la leggenda del toro di bronzo arroventato, che Perillo dovette
costruire per quel tiranno a fine di farvi morire dentro gli stranieri e le
persone a lui nemiche.
Il
toro d’Agrigento e l’immagine del toro di Dedalo furono rimandati a Creta e
di poi alla vicina Cartagine, dove furono sacrificati degli uomini nei fianchi
del toro.
Che
il toro di Falaride esistesse veramente lo afferma Diodoro. Egli racconta: “
Himilkone lo ha spedito a Cartagine dopo la conquista di Agrigento, ma Scipione,
260 anni dopo, in seguito alla distruzione di Cartagine, lo ha ritornato agli
Agrigentini.
Il
toro di Falaride ha servito a Luciano per due dialoghi satirici, dove egli fa
comparire degli inviati del tiranno in Delfo i quali portano come offerta al Dio
quella macchina infernale, e il crudele tiranno vi é presentato come un uomo
giusto; egli, inoltre, per bocca dei sacerdoti, fa comparire il dono del feroce
come un’assai religiosa offerta.
Non
é facilmente possibile poter spingere più oltre la malignità contro la Chiesa
come Luciano ha fatto in questi suoi scritti.
Falaride
fu potente e crudele, ma anche egli col tempo, circa verso la metà del VI
secolo a. C. , si distinse a guisa degli altri tiranni greci
come uomo d’intelligenza, e visse nella compagnia di filosofi e
artisti.
Si
raccontano di lui dei tratti di generosa magnanimità come la storia di
Menalippo e Cariton che ricorda quella Dionisia di Damon e Pitia, e quella che
viene ricordata dal famoso Stesicoro. Falaride, che aveva assoggettate tante
città, si alleò una volta con quelli d’Imera, a patto che essi dovessero
eleggerlo a loro capo e potersi così vendicare dei loro nemici.
“
Così, disse Stesicoro, volete somigliare anche voi al cavallo della favola, o
uomini d’Imera; voi dovete ben riflettere prima di sottomettervi al giogo di
Falaride”. Gli Imeresi rifletterono, infatti, e quindi
abbandonarono ogni idea di alleanza col tiranno.
Assai
importante appare l’influenza che i filosofi avevano sui tiranni di Sicilia.
Come nei tempi favolosi gli eroi erravano per il mondo per distruggere i mostri,
così più tardi i filosofi viaggiavano nel mondo
per liberarlo dai tiranni.
Il
compito della filosofia é sicuro: liberare l’umanità da ogni specie di
tirannia, e questo scopo é chiaramente espresso nelle antiche relazioni dei
famosi viaggi compiuti dai
Pitagorici e dagli Eleusini. Vanno verso Falaride Demostene, Zenone di Elea e
Pitagora per ammonirlo, allontanarlo dalla tirannia, e rivolgerlo alla virtù.
Nella vita di Pitagora sono narrati i ragionamenti che un filosofo ebbe con
Falaride. Egli paragonò i cattivi e i buoni modi di vivere, gli scopi, le
capacità, le imperfezioni e le passioni dell’anima, rese manifesta
l’onnipotenza di Dio dalle sue opere, e convinse così l’incredulo tiranno.
Egli
non tacque del castigo che aspetta ai violatori della legge e parlò molto sul
giudizio divino e sulla virtù, sulle vicende della sorte e della bramosia degli
uomini per possesso e la sovranità
Ai
discorsi dei filosofi rispondeva così il tiranno geniale: “ Per la signoria
é come per la vita. Nessuno vorrebbe nascere
se sapesse anticipatamente il martirio della vita, però appena si é nati non
si vuole più morire; così nessuno vorrebbe essere tiranno, se non conoscesse
anticipatamente la pena che soffrono i tiranni; appena però lo si é divenuti,
non si può più cessare di esserlo”.
Si
ricordano le parole profonde che un siracusano rivolse a Dionisio. Quando questi
una volta era in dubbio se deporre la sovranità o no, uno dei suoi amici gli
disse: “ O Dionisio, la tirannide é una bella veste da morto!”
Il
presente, così mi sembra, fa rivivere quei tempi della tirannide con un esempio
visibile nel ricordo: esso mostra che la natura umana é eternamente la stessa.
Quando si paragonano i due grandi periodi della tirannide, la ellenico - sicula
e la medioevale, che si equivalgono, con l’apparizione della nostra giovane
tirannide nei suoi intrighi e nelle sue macchinazioni, si vede che nulla é
nuovo sotto il sole. E’ cessata solamente la vecchia libertà dei discorsi
filosofici e i nostri professori di filosofia adesso non fanno che creare o
combattere dei sistemi e delle chimere, che non hanno nessun potere sulla
felicità dei popoli.
Lasciamo
la storia e la filosofia, e ritorniamo ai ricordi che ci hanno lasciato dentro
di noi, passando sul colle di Minerva, da dove si raggiunge quella fila di
templi che stanno sul confine meridionale delle mura della città. La loro vista
sullo sfondo del mare Libico, quando il sole ardente illumina le loro pietre
gialle e fa sfavillare le colonne potenti, e ancor oggi incantevole; e fa
pensare quanto stupenda dovesse essere nell’antichità.
Noi
oggi diciamo, quanto é bella questa città, questa grande e moderna metropoli,
con i suoi spettacolari grattacieli, ben sapendo che sono delle scatole vuote,
fatte d’acciaio, di cemento armato, di alluminio , di vetro e di carton gesso.
In questi palazzi, non troviamo quelle meravigliose linee architettoniche che vi
erano nei templi Greci ed in quelli medioevali, ma solo delle pareti lisce che
bucano il cielo: non vi é stile, non vi é arte. Diciamo che all’interno di
essi vi sono tutte le comodità che l’uomo moderno desidera oggi avere, con
tutte le modernità, le tecnologie più avanzate. In poche parole, e non v’è
dubbio, sono delle case confortevoli, che offrono agio e comodità, ma nella
loro bellezza, nel loro confort e comodità, sono edifici freddi e senz’anima.
Sicuramente, non hanno a che fare con
i veri capolavori architettonici dell’antichità, con
le loro colonne e capitelli dorici: uno dei principali stili
architettonici dei Greci antichi, di cui la Sicilia e la Calabria ne vanno
fieri.
Per
rendersi conto di tanta meravigliosa bellezza, basta vedere il bel tempio di
Giunone Lucina, che é il primo della serie. S’innalza su di un piccolo colle,
ed é a metà distrutto; soltanto da una parte esistono ancora le sue 13 colonne
doriche che sostengono l’architrave.
Su
prospetto solo due colonne stanno ancora in piedi, con un pezzo
dell’architrave; alle rimanenti mancano i capitelli, che sono abbattute e
spezzate. Il tempio giace sopra un alto ripiano di quattro gradini.
Nel
ricordo di tutto questo, e andando a ritroso nel tempo, mi sembra che i ruderi
dei templi della magna Grecia di Agrigento e di Sagesta, che abbiamo a lungo
ammirato, hanno una correlazione, una stessa affinità con le due Torri Gemelle
di New York, entrambi, sono state
incendiate e abbattute dai terroristi: quelle di New York, dai kamikaze di Osama
Bin Laden, mentre quelle di Sagesta e di Agrigento, dai guerriglieri - pirati
Cartaginesi. Comunque sia, questi terroristi, hanno
la stessa radice islamica, e in entrambi i casi, c’entra sempre la
religione.
L’attacco
alle Torri Gemelle ha rotto l’equilibrio. Gli americani hanno ritrovato
l’unità attorno alla propria bandiera, l’orgoglio dei propri valori
tradizionali. Il grido che ha lanciato Oriana Fallaci da New York, ci da
un’idea dell’intensità di tale
reazione. Nell’Europa continentale
il processo é in ritardo, ma va nella stessa direzione.
Ad
un certo punto noi siamo costretti a domandarci: “ Chi siamo? Quali sono le
cose veramente importanti per noi? Il razzismo non c’entra per nulla. E’ una
domanda sulle tradizioni, la storia e i valori che vogliamo conservare.
Comprendiamo che solo qui, in Europa, é nata la democrazia, che solo qui in
Europa é nata la distinzione fra Stato e religione, la separazione fra legge e
morale, fra pubblico e privato. Che, nel nostro profondo, abbiamo principi come
“ ama il prossimo tuo come te stesso” quindi anche gli infedeli, i nemici di oggi e di ieri.
Nei
prossimi anni, come scrive il sociologo F. Alberoni, ci sarà un rifiorire degli
studi filosofici, storici, religiosi perché dobbiamo scegliere nuovamente i
nostri valori e la nostra identità. Ci stiamo rendendo conto che esistono
grandi differenze anche fra noi
europei. Abbiamo capito che non ci basta essere unificati economicamente e
governati da burocrati. Aspiriamo, soprattutto, ad una comunità di fratelli in
cui trovarci. Ma dobbiamo trovare i fondamenti morali comuni per crearla. Questi
fondamenti morali, li possiamo trovare fra le righe della Storia, analizzando
ogni particolare del nostro
passato, delle nostre origini e nei nostri antichi valori. Questi valori, sono
racchiusi nei capitelli, nelle antiche
pietre dei nostri monumenti, dei nostri templi e nella nostra millenaria storia.
Ritornando
alla nostra escursione fra le rovine degli antichi templi, ricordiamo che questo
tempio era circondato da 34 colonne doriche con 20 scannellature; di esse 13
stanno ai lati e sei nel prospetto. Le colonne hanno
cinquanta centimetri di diametro e un’altezza di circa cinque metri. I
loro capitelli sono scolpiti con eleganza ed armonia. Nell’architettura
moderna, non riscontriamo tutte
queste meravigliose bellezze, fatte di capitelli, di colonne, di linee, di
superficie e di prospettive.
Ritornando
alle rovine dei templi della magna Grecia, come quello appunto di Sagesta, dove,
disgraziatamente nulla é rimasto del frontale e del fregio. Nelle rovine vi
sono tracce d’incendio. Lo storico Fazello fu il primo che diede
a questo, come agli altri templi, il nome, perché prima si chiamava la
“ Torre delle pulzelle”.
“Secondo
Plinio, Zeusi dipinse per esso il celebre ritratto di Giunone e per modello gli
Agrigentini misero a sua disposizione cinque delle più belle fanciulle della
città. Cicerone però riporta lo stesso episodio nel quadro di Elena, nel
tempio di Giunone a Crotone”
Dai
gradini del tempi si abbraccia benissimo il circuito dell’antica città.
Vicino
a chi guarda si ergono le mura meridionali, formate dalla rupe naturale, come si
vede anche in qualche punto dell’antica Siracusa, dove a picco di una rupe
servì di muro.
Anche
il tempio della Concordia sorge su di una collina, in mezzo ad un pittoresco
insieme di rovine e di fichi d’India, mentre più in basso vi é una
piantagione di mandorli. E’ completo fino al tetto, che manca con le due
fronti e tutte le colonne. Anch’esso posa su quattro gradini ed ha 34 colonne.
Non
distrutto dai Cartaginesi, ha sfidato vittoriosamente il tempo e nel medioevo, essendo stato trasformato in chiesa,
se ne impedì così il suo deperimento. Quando nel secolo XV si fece della cella
una cappella, si introdussero nelle pareti laterali i due archi che rimangono
ancor oggi. In seguito la chiesa fu abbandonata, e nell’anno 1748 il principe
di Torremuzza restaurò il tempio.
Farzello
gli ha dato il nome di Concordia, con la quale non ha che fare nessuna divinità
dorica. Fra tutti i templi italiani e siciliani, nessuno ha conservato la cella
così intatta come questo: le scale che conducono dalla sua entrata orientale sul tetto sono rimaste intatte in
ogni loro parte.
Senza
dubbio, é il più completo dei templi siciliani, poiché quello di Sagesta
rimane incompleto, non scorgendosi in esso il minimo indizio di cella. Le
colonne maestose, i capitelli colossali, le belle proporzioni dell’architrave
che ha preservato gli ornamenti del suo triglifo, la grandezza semplice
dell’architettura, offrono il più puro godimento estetico. Come direbbe un
vero critico d’arte, la costruzione dorica
é certamente la più bella dell’antichità, certo non apparisse inferiore
alla plastica e alla poesia, la cui forza e la cui purezza viveva nell’anima
del popolo greco, che fu capace di trovare quelle semplici leggi
architettoniche. Guardando un tempio dorico non si può fare a meno di ricordare
in quali grandi e semplici ritmi si é sviluppata la vita dei Greci, se
l’intero modo di sentire nazionale, che quel popolo espresse nel modo più
originale ed evidente nell’architettura religiosa, si poté rappresentare in
simili guisa.
Noi,
che non siamo critici d’arte e d’architettura in particolare, comprendiamo
benissimo quest’armonia, che é così semplice come una relazione fondamentale
geometrica; però ancora non possiamo afferrare l’intero senso della sua
intima connessione con i costumi del popolo. Io, e non solo io, sono persuaso
che il duomo cristiano di Monreale (Palermo) sia il più bel contrapposto a
questo tempio della Concordia.
Come
scrive Ferdinando Gregorovius, in merito a questi due edifici, secondo lui, se
la Sicilia non avesse altro che questi due edifici, monumenti di due grandi
culture, rimarrebbe sempre una terra meravigliosa.
Il tempio dorico é l'effigie vivente del tenace ordinamento del mondo greco e
delle sue tragiche necessità; il caso, e tutto il fantastico é escluso da
questa prima forma; nessun principio pittorico predominante vi signoreggia, non
v’è ancora il lusso del disegno, né il gioco di diverse figure.
“Il
terzo tempio é quello di Ercole, un tempio il primo d’Agrigento, oggi una
massa gigantesca di rovine che giacciono fieramente accavallate. Una sola
colonna scannellata si erge da quel caos. Si contemplano con stupore quei
blocchi di pietra, quei bellissimi capitelli, le rovine dell’architrave, che
hanno conservato tutti le tracce della loro
coloritura purpurea, e quei pezzi
di colonna scannellata che giacciono miseramente all’intorno simili a
gigantesche pietre molari, sepolti per metà nel terreno e coperti da piante
incolte. Questo tempio, vicino all’Olimpion, era il più grande della città e
aveva fama mondiale: il suo porticato aveva 38 colonne doriche, di cui 6 sulla
larghezza e 15 per la lunghezza, numerando pure le colonne degli angoli. Il loro
diametro era di 8,5, 10 palmi, la loro altezza col capitello poco più di
quattro metri”.
Vivaci
colori, il rosso, l’azzurro, i il nero e il bianco, ornavano l’architrave;
il fregio era munito di teste di leoni nella scannellatura, e di decorazioni
floreali. La cella era ipatrica. In essa sorgeva l’Ercole di Mirone, in
bronzo; Cicerone narra che la base di questa statua del dio era levigata per i molti baci di coloro che
venivano a pregare nel tempo. Oggi possiamo fare la stessa osservazione
in San Pietro a Roma, dove i baci dei cattolici hanno consumato il piede del S.
Pietro di bronzo. Un altro caso del genere lo abbiamo riscontrato nella chiesa
francescana, della città di Innsbruck, capoluogo del Tirolo,
dove nella navata principale, vi é situato il monumento funebre del
principe Massimiliano d’Austria. Uno testicolo di uno dei quattro cavalli, che
si trovano ai quattro lati del
sarcofago, é consumato a furia di toccarlo,
a toccarlo sono le donne. Sembra che porta bene, e lo fanno per
propiziarsi la fortuna o di un nuovo
amore.
Si
può rimproverare al tempo e agli elementi la distruzione delle opere d’arte,
se gli stessi lavori in bronzo sono così vergognosamente baciati?
Questa
singolare analogia di costumi non é del resto l’unica comune al paganesimo ed
alla Chiesa cattolica.
Le
pagine consultate del libro di Ferdinando Gregorovius, “ Sulle tracce
dei Greci”: uno dei più grandi “artisti” della storiografia di tutti i
tempi, sono una vera e potente e trascinante
“rivelazione” del Mezzogiorno al Mezzogiorno, del Mezzogiorno al Nord
e, soprattutto, degli italiani agli italiani. Da queste pagine abbiamo tratto
una significativa poesia in latino, che tradotta in italiano, così recita:
“Presente
sempre fu in guerra la valorosa gente degli ( Agrigentini.
Tu
sola degna veramente fra tutti i
popoli siculi di ( elevare .
Nello
stemma il trino segno de’ Giganti, portentosi ( per forma
fra tutti.
Ruinò
a terra l’altissimo muro, ed i cittadini più non (l’ebbero in cura.
Parve
a tutti la mole gigantesca della statua essere una divinità).
Nell’anno
quattrocento uno dopo l’anno millesimo.
Nel
nono giorno di dicembre cadde il monumento da (ogni parte.
Tale
riuina ebbe luogo correndo la quinta indizione”.
“
Girgenti continua a portare sul suo stemma i tre giganti e le rovine dell’Olimpion,
dal popolo chiamate col nome di “ Palazzo dei Giganti”.
Oggi
nel gran tempio non resta altro da vedere che la sua pianta, che si é potuta
formare per l’assetto dato alle rovine, e la sua grandezza mette stupore.
Ai
lati si é fermato un argine di macerie coperto di piante selvagge e di antichi
mandorli, che in gennaio rallegrano il paesaggio con i suoi meravigliosi fiori
bianchi e rosa.
Otto
giorni di sagra.
Ogni
anno Agrigento saluta, appunto, la fioritura precoce dei mandorli con una grande
sagra popolare che si tiene nella Valle dei Templi: é l’erede dell’antica
festa contadina nata con lo scopo di propiziarsi i raccolti fin dall’inizio
della stagione. Giunta alla sua 53’ edizione, la sagra si svolge quest’anno
dal 1’ all’8 febbraio, in concomitanza con il 43’ Festival internazionale
del folclore. In questa settimana la città sicula si riempie di migliaia di
visitatori che possono assistere elle esibizioni di gruppi folcloristici
provenienti da tutto il mondo. Il programma prevede spettacoli nella centrale
piazza Cavour e sfilate storiche
per le vie cittadine, ma anche suggestivi festeggiamenti nella Valle dei Templi:
come la fiaccolata, che seguirà la solenne accensione del Tripode
dell’amicizia davanti al millenario Tempio della Concordia, di cui ne abbiamo
parlato diffusamente, in questo nostro intervento storico.
Il
ricordo nel tempo.
Molti
anni prima, é precisamente negli anni Cinquanta, quando dal Piemonte, ogni
anno, mi recavo a trascorrere le mie ferie estive nella terra natia del vecchio
Sud. In uno di quei viaggi,
attraversai lo Stretto di Messina, e andai a visitare i paesi della Magna
Grecia. In quel tempo, il turismo di massa non esisteva o se esisteva, era un
turismo riservato per soli
studiosi, scarsi viaggiatori
stranieri e per gente come me, che andava per il solo piacere di conoscere
località e paesi nuovi. Per puro caso, a volte, mi trovavo in località
storiche come queste, e per me era
una vera gioia poter conoscere e apprendere maggiormente la storia antica, che
avevano contribuito a fare più grande il nostro meraviglioso Paese. E poi,
potevo ammirare i meravigliosi paesaggi che la natura mi offriva.
Ricordo, che quel giorno di luglio, appena sbarcato dal ferry -boat nella
bella Messina, a bordo di un pullman, raggiunsi
i luoghi storici e archeologici di Sagesta.
Prima
che il grosso torpedone si fermasse nel grande piazzale riservato a questi
grossi automezzi turistici,
improvvisamente, si parò dinanzi ai nostri occhi il tempio di Segesta; sebbene
fossimo ancora lontani, lo vedevamo ergersi solitario sulla scura pendice del
monte, da cui signoreggiava sul severo paesaggio dove crescono e fioriscono i
mandorli, bello di aspetto e tale da non poterlo dire rovina, poiché stava con
tutte le sue colonne e due suoi frontoni. La strada che porta colà é una
piccola strada quasi bianca e fiancheggiata per oltre un chilometro da piante di
rara bellezza, formanti come un viale fino al tempio che sorge sui fastigi di
una brulla e pietrosa collina. Oggi, quel paesaggio bellissimo, é stato
deturpato dalle costruzioni abusive.
“
Quella terra punteggiata da cardi selvatici, meschino pascolo per le capre;
quella profonda solitudine; i versi sonori di Virgilio; la guerra di Segesta con
Salinunte, che die’ origine alla spedizione degli Ateniesi contro Siracusa e a
tanti eventi storici; ogni cosa eccitava la nostra fantasia, come pure
nell’Ottocento, quella di Ferdinando Gregorovius, il grande storico tedesco,
che come tanti altri, visitarono il nostro meraviglioso Paese.
Qui
la solitudine é maggiormente pittorica che non quella di Pesto, e l’aria c’è
quasi satura di favole, di miti, di tradizioni, di memorie storiche. Sedendo
nell’antico teatro dissepolto dall’archeologo Hittorf, l’occhio raccoglie
in sé tutta quella regione di magica solitudine, di tragica serietà: si
scorgono il golfo di Castellammare, i monti di Alcamo; ai piedi si svolge una
valle selvaggia nel cui fondo corre il favoloso Krimolfo; all’opposta parte si
rizza il monte grigio di Calatafimi, ove vidi i garibaldini combattere
con fervore e con sentimento patriottico, per l’Unità d’Italia, e né
suoi fastigi si discerne la città di colore scuro e cupa.
Volgendo
lo sguardo ad occidente, si vede una catena di colline giallastre e, più
in alto, fantastici monti azzurri, i monti Erici, su cui s’ergeva, ora non più,
il tempio a Venere. Oltre sconfina il mare Egeo, che attira lo sguardo sulle
spiagge ove fu Cartagine e ricorda le guerre puniche.
Non indugerò a parlare del tempio si Segesta, già sufficientemente noto. Tutti quelli che sono stati in Sicilia per turismo, sicuramente sono stati anche loro a vedere il meraviglioso tempio di Sagesta ed hanno avuto la nostra identica impressione: una impressione fatta di storia, di leggenda e di regalità. Quelli sono i luoghi che ci richiamano alla storia antica, a quella storia che abbiamo appreso sui banchi di scuola. Senza volerlo, eravamo sulle tracce dei Greci, dei Romani e dei Cartaginesi. Luoghi che ci richiamano alle guerre puniche, le tre guerre combattute dai Romani contro i Cartaginesi tra il 264 e il 146 a. C,
I
LUOGHI DOVE CRESCE IL MANDORLO.
Dopo,
questo giro storico e paesaggistico, ritorniamo a parlare del mandorlo. Ma il
mandorlo non merita di essere ricordato soltanto nelle statistiche e negli
almanacchi semplicemente per il suo primatio
nella fioritura e per la celebre sagra che al suo fiore viene dedicata
ogni anno dagli agrigentini. Il vero prodigio di questa pianta, che ama i luoghi
esposti al sole, caldi e secchi, e resiste nei terreni pietrosi e sabbiosi, é
il tesoro che la luce e il calore fanno crescere sui suoi rami, un vero prodigio
della natura: la mandorla, una superstar tra i frutti della terra, anche se non
sembra questo il suo destino alla nascita.
Rispetto
alle sue bellissime, voluttuose e succose sorelle ( la pesca, l’albicocca e la
susina, anch’esse frutti di alberi del genere Prunus, appartenenti alla
famiglia delle rosacee) la mandorla, nudo seme in un involucro butterato, fa la
figura del brutto anatroccolo. Ma ha una vita meravigliosa. E contribuisce a
migliorare la qualità della nostra vita. Provate ad immaginare un mondo senza
gli amaretti, senza i confetti, senza il marzapane: lo vedrete molto meno
colorato e gustoso.
Per
fortuna, invece, il mandorlo ci accompagna da sempre: proveniente, nelle forme
spontanee, dall’Asia occidentale, é coltivato da tempo immemorabile in
Oriente: gli ebrei lo conoscevano parecchi secoli prima di Cristo e nelle pagine
della Bibbia gode di molto favore. Il suo nome ebraico, come apprendiamo dalla
pubblicazione settimanale di Linea Verde, in un articolo di Santi Urso,
significa “ colui che veglia”, per indicare la precoce fioritura. Nella
Genesi le mandorle sono incluse tra i più squisiti prodotti della natura e, nel
libro dei Numeri, il bastone di Aronne fiorisce per volontà divina e i fiori,
maturando, si convertono in mandorle.
Alla
diffusione in Occidente provvidero i Fenici, mentre furono i Greci, che lo
conoscevano già intorno al VI secolo a.C., a portare il mandorlo nella nostra
Penisola.
Più
robusto dell’olivo, ha conquistato tutte le regioni temperate dei due
emisferi: pianta longeva, entra in produzione dopo il sesto anno e dà
frutti fino a settant’anni d’età. Le impossibili descrizioni delle
enciclopedie dicono che “ le foglie lanceolate e con breve picciolo sono
denticolate ai margini; i fiori sono bianchi o rosati; i frutti sono drupe
ovali, acute a uno degli apici; l'ecocarpo é un mallo, verde grigiastro,
ricoperto di fine peluria,
contenente un seme o due, racchiusi in un guscio legnoso; i semi hanno polpa
bianca e contengono un olio dolce o amaro”. Ecco: quei semi dalla polpa bianca
hanno virtù nutritive che li rendono preziosi. Già il romano Apicio, raffinato
buongustaio, raccomandava di farne la base della farcitura della lepre. Nel XV
secolo si riteneva che le mandorle pulissero “ il superfluo degli intestini”
e aumentassero “ la sostanza del cervello”, nutrendo bene, facendo dormire
dolcemente e aprendo i condotti urinari. La chimica moderna ha rivelato che non
é tutta leggenda. Ricordo che quando ero piccolo, mia madre ne estraeva
l’olio da questo prezioso frutto e ce lo somministrava, per rinfrescarci
l’intestino. Quindi, oltre ad essere un rinfrescante, era ed é un olio
medicinale.
Ma
la vera gloria della mandorla si celebra in pasticceria. Viene preparata in
mille modi diversi, e non sembrano mai
abbastanza. Simbolo di prosperità da tempi antichissimi( per questo si
distribuivano alle nozze, e l’usanza é perpetua nei confetti), le mandorle si
sbucciano immergendole in acqua bollente per uno o due minuti. Per tostarle é
sufficiente stenderle su una placca da forno e poi imbiondire a fuoco moderato.
Per caramellarle, si immergono nello zucchero caramellato, nella proporzione di
uno a tre.
Antonio
Piccinardi, nel suo Dizionario di gastronomia ( edito da Rizzoli), ricorda: “
Le mandorle possono essere dolci o amare, in base alla presenza della emigdalina:
quelle amare sono generalmente più piccole e contengono meno grassi di quelle
dlci. Costituiscono un elemento fondamentale della pasticceria, dove vengono
usate intere o tritate, pralinate o ridotte in polvere, per la preparazione di
biscotti, costate e sfornati. Sono inoltre utilizzate per la produzione di
ottime bevande, la più famosa delle quali é il latte di mandorle, fatto con
mandorle dolci, zucchero e acqua di fiori d’arancio”.
Fra
tutte le preparazioni la più straordinaria é senza dubbio il marzapane, che
non senza ragione si é guadagnato
il nome di pasta reale. Prodotto
tipico del mondo arabo, é uno dei più antichi dolci conosciuti: oggi, dalla
Sicilia, arriva nelle pasticcerie e sulle tavole di tutta l’Italia in
magistrali simulazioni di frutta e in allegre figurine di animali, il più
famoso dei quali é l’agnello pasquale.
Si,
lo so, che mi sono spinto un po’ oltre, ma era necessario spiegare, oltre al
fiore, l’origine della pianta e della
bontà del suo frutto, ma soprattutto dei dolci, che arrivano sulla tavola sotto
forma di dolci, confezionati in
tantissime forme.
Oltre
al mandorlo, in Sicilia e nella Old Calabria,
troviamo un’altra meravigliosa pianta: il melograno. La storia ci
racconta, che fu Plinio il Vecchio, nel I’ secolo dopo Cristo, a definire
questa pianta “Maelum punicum”, melo cartaginese, forse perché nella zona
di Cartagine ne prosperavano bellissimi esemplari. Il termine, “ granatum”,
in realtà, non si riferisce ai grani, ma al color granata ( rosso acceso) dei
fiori e dei chicchi. Originario dell’Asia occidentale, il melo grano che ha un
portamento arbustivo, da maggio a settembre si ricopre di fiori di un bel rosso
- aranciato, solitari o riuniti in gruppi di due o tre. Ha foglie oblunghe,
caduche, con la pagina superiore di color verde brillante. I frutti, melegrane o
granate, raggiungono la maturazione dalla fine dell’estate a dicembre: sono
bacche tondeggianti, commestibili, grandi più o meno come una mela, dalla
buccia pergamenacea di color giallastro tendente al rosso, suddivise in tante
logge, irregolari. Contengono numerosissimi semi sfaccettati, coperti da una
polpa trasparente, succosa e acidula, di colore rosso. Soprattutto nella varietà
nana ( Punica granatum nanum), nota anche come “ melograno delle Antille”,
si presta a essere coltivata con successo anche in vaso. Noi, la coltiviamo nel
nostro giardino, qui in Val Padana, nella patria della nebbia.
Vicino
a questa deliziosa pianta, vi germoglia un solitario ed alto cipresso,
originario anch’esso dell’Asia centrale, dalle foglie di un verde cupo, che
in questi giorni della grande gelata notturna, “ la galaverna”, lo
ha trasformato in una trina: un
merletto meraviglioso, che con le altre piante del giardino ci ha regalato un
suggestivo paesaggio da presepe: un paesaggio che non ammiravamo da moltissimi
anni.
TREKKING
SULLA NEVE
A FOLGARIA.
27
gennaio.
Creativo
é scrivere, plasmare la creta, dipingere, scolpire un’immagine, ma é anche
camminare, fare del trekking sulle nostre meravigliose montagne del Trentino o
degli Appennini, osservare da vicino la natura, gli orizzonti,
guardarsi intorno per ammirare le meraviglie del creato. E’
meraviglioso, si, è veramente meraviglioso, sostare vicino ad un querulo
ruscello e osservare il risveglio della natura e pensare, pensare alle meraviglie della natura, che
la Madre Terra ci offre. Cerchiamo quindi di non alterare o inquinare tutte
queste bellezze. Tutto questo, oltre ad essere creativo, é sensibilità nei
confronti della natura che ci circonda.
Klipling
ha affermato che chi va in montagna “ va verso sua madre”. Con questo a
significare che la montagna é anche un luogo spirituale, un luogo che, tra
l’altro, consente di rigenerarci. Eppure nei suoi riguardi l’uomo ha
dimostrato un atteggiamento che, pur mutando nel corso del tempo, ha generato
una graduale ma costante metamorfosi della sua natura originaria.
Se
ci soffermiamo a riflettere, come facciamo
sempre quando ci arrampichiamo su
per queste meravigliose montagne,
sull’attuale immagine della montagna, ci accorgiamo che non sempre siamo in
grado di comprendere fino in fondo, in modo tangibile e trasparente, il reale
valore e il significato. Ci si chiede se ogni cosa sia la stessa descritta dai
poeti e dagli scrittori dell’Ottocento e del primo Novecento, affascinati dal
suo ambiente incontaminato, nonché il soggetto delle sublimi composizioni di
musicisti quali ad esempio Ludwig Van Beethoven ( “ Sinfonia Pastorale”) o
Richard Strauss ( “ Eine Alpensinfonie”).
Nel
passato la montagna era anche alla base di sentimenti di esaltazione, grazie
alle imprese alpinistiche che, in qualche caso, si spingevano ai confini
dell’impossibile.
Le
richieste nei confronti di questo
ambiente si sono fatte sempre più pressanti, allo scopo di soddisfare le
crescenti esigenze dell’individuo, ma spesso non ci siamo mai resi conto di
quale potesse essere l’impatto del continuo sfruttamento del suo territorio.
Nonostante le presenze, la montagna é ormai entrata a far parte della Terra,
gli effetti prodotti dai cambiamenti climatici a da tutte quelle attività umane
che in qualche modo danneggiano la natura: l’inquinamento atmosferico, la
deforestazione, l’uso irrazionale del territorio e del turismo di massa, sia
esso invernale che estivo, azioni che rendono sempre più difficile il
ripristino degli equilibri naturali preesistenti.
Il
giornalista Giovanni Di Vecchia, ci da un esempio di questi equilibri: “ Basta
soltanto citare alcuni di questi fenomeni per capire quanto l’integrità
dell’ambiente montano sia a rischio: pensiamo ad esempio all’arretramento
costante dei ghiacciai, alla costruzione o all’ampliamento di rifugi e baite,
anche in alta quota, trasformati in alberghi o ristoranti, alla deforestazione
effettuata, tra l’altro, anche per la costruzione, in alcuni casi irrazionale,
di impianti di risalita e di piste da sci innevate artificialmente (con
ulteriore consumo di risorse idriche), alla trasformazione di territori agro -
pastorali in cattedrali del cemento”.
Creativo
é anche il pensiero filosofico,
che ti porta all’indagine della ragione rivolta alla conoscenza dei problemi
fondamentali della vita, e che ti permette di sopportare serenamente le avversità
di ogni giorno. Creativa é la poesia della vita, dei ricordi della
fanciullezza, che ti scuotono la polvere della loro vecchia amicizia. Pensando a
tutta questa infinità di cose ed osservando la natura che ti circonda, che poi
non é altro che la forza che genera e governa tutti gli esseri dell’universo:
e ti porta a scoprire le leggi, i segreti della natura.
Questa
mattina di fine gennaio, la valle Rutiliana si presenta umida e brumosa, come
del resto é nella sua natura e nella sua veste invernale, con le sue
caratteristiche geometrie dei suoi vigneti e frutti, che sono pronti per la
potatura primaverile. Attraversato
la grande valle alpina, il pesante torpedone ha imboccato la SS. Nr. 350, che
porta agli altopiani di Folgaria, per proseguire poi verso il
Passo Coi, per poi raggiungere l’altopiano dei Setti Comuni e quindi
Asiago. Anche quest’aspra montagna, con i suoi contrafforti e i suoi tortuosi
tornanti, é quella di sempre, che ormai ci é familiare.
Mentre
il torpedone sale a velocità ridotta, abbiamo modo di osservare quel paesaggio
brullo e bruciato dal grande freddo, ma soprattutto dalla prolungata siccità di
questi mesi invernali, che ha messo in ginocchio tutte le regioni del nostro
Paese. Superato il costone e giunti in prossimità delle prime case di Folgaria,
abbiamo potuto constatare che i prati erano bruciati dal gelo e appunto dalla
siccità. Insomma, si presentava davanti ai nostri occhi un paesaggio desolante,
tanto che per un momento, ci é sembrato un paesaggio bruciato dal sole, come
quello africano.
Superato
il Fondo Grande, il paesaggio che
prima brullo e secco, stava cambiando gradualmente: la neve che era caduta in
questi ultimi giorni, ci dava il senso della vera montagna. Don Enrico, il
nostro parroco di Campitello, che aveva organizzato la gita, tra l’altro ha
detto, con un filo di grande soddisfazione: “ Avete visto, che anche
quest’anno la montagna non ha
tradito le nostre aspettative? Guardate, quanto sono belli gli alberi imbiancati
di neve, sembra un vero presepe. Sono sicuro, che alla fine della giornata,
saremo tutti felici e contenti”. Egli aveva veramente ragione.
Il
Fondo Piccolo, dove ci siamo fermati, era avvolto da nuvole basse, da nuvole
nere e fredde, che facevano poco sperare. Un vecchio proverbio così dice: “
La speranza é l’ultima a morire”. Tutti gli impianti di risalita
funzionavano a pieno ritmo e gli sciatori , anche con le nuvole basse, che più
che nuvole a me sembrava una fitta nebbia che avvolgeva tutta la montagna e la
vallata, continuavano a sciare nelle piste innevate da neve fresca. Anche il
nostro piccolo gruppo, composto da una decina di escursionisti, in fila indiana,
ci siamo avviati su per un comodo sentiero ed in poco tempo, abbiamo raggiunto
la nostra meta: il rifugio Camini, che sorge a quota 1700 metri, in cima alla
montagna imbiancata di neve
fresca.
Dopo
un lungo, lunghissimo inverno freddo e ghiacciato, siamo usciti all’aria
aperta per respirare una boccata d’aria pura fra queste montagne meravigliose
del Trentino. Nei giorni scorsi, nella grande e brumosa Pianura Padana, é
piovuto sufficientemente, dopo un lungo periodo di siccità, mentre su queste
montagne ondulate e scoscese aveva nevicato un poco, ma il sentiero
era coperto do un sottile strato
di candida neve fresca, non più alto di 20
centimetri. Il sole, già del suo sorgere ,é apparso vigoroso e i suoi raggi ci
hanno fatto ben sperare di una bella giornata, ma le nuvole basse hanno oscurato
la grande vallata. Non so se si può dire nebbia quella che avvolgeva quasi
tutta la zona alpina. Era come quella che qualche volta ci sorprendeva in
montagna e ci faceva perdere il sentiero tra i mughi; più che nebbia erano nubi
basse che si arrampicavano sulle montagne, come é successo questa volta. Ma
quella di Alessandria, in tutti gli anni che vi ho soggiornato per via del mio
lavoro, come la ricordo! Era fredda e umida la camerata nella caserma
Scappaccino; alla sera si andava a letto e pareva di entrare tra coperte bagnate
nel Fiume Tanaro. Al mattino, come pure alla sera, non si vedeva ad un palmo dal
naso. Era una nebbia unta e densa come quella che vediamo ora alla Tv: un
nebbione tetro anche perché non si può insaccare e portare via in discarica;
nemmeno certi trattamenti chimici hanno dimostrato efficacia. Magari fosse solo
nebbia come massa di vapori acquei condensati vicino alla terra: con questi ci
sono tutti i miasmi che la nostra civiltà produce e così, oltre che far stare
al suolo gli aerei e rendere lente e pericolose le autostrade, infierisce
malanni ai polmoni di chi la respira. Me ne rendo ben conto quando vedo
gli automobili delle città e dei paesi della
Padana, dove noi oggi viviamo da moltissimi anni, talmente lordi da non
poter distinguere il colore della carrozzeria. Tante volte mi sono domandato, ma
come si fa ad abitare in luoghi simili? Nel nostro caso, sono state le vicende
della vita: una successione di cose, di avvenimenti che si alternano tra loro, e
che ci hanno portato a questi lidi.
Parlando
ancora della nebbia, ricordo che da
noi, nella Old Calabria,era rarissima; quella di novembre aveva un odore di
neve, di bosco marcescente e di fumo della legna secca che bruciava sui focolai,
dove la sera la famiglia si riuniva attorno al fuoco. Quella di marzo aveva un
buonissimo odore di primavera, come di terra amorosa, ed era bello giocare
dentro la nebbia in quelle rare sere che scendeva dalle colline aspromontane.
Quelle erano le bianche nuvole che
annunciavano la pioggia.
Non
é la prima volta che saliamo fin quassù. Anche l’anno scorso, nello stesso
periodo, con la stessa comitiva di amici, ci siamo venuti per una breve
passeggiata. Abbiamo da poco lasciato il resto degli escursionisti, quelli
amanti dello sci, mentre il nostro gruppetto,
passo dopo passo, ci siamo inerpicati per il sentiero scosceso che si
snoda intorno al monte. Superato le prime ondulazioni, cioè i piccoli
mammelloni della brulla montagna, e seguendo un sentiero appena spruzzato di
neve, abbiamo avvistato un filo di fumo che usciva dal piccolo rifugio alpino,
ciò voleva significare che quello era il
Rifugio “ Il Camino”, dove l’anno precedente ci eravamo rifocillati. Il
sole stentava a bucare le nuvole, mentre l’orizzonte incominciava a
schiarirsi. L’amico Pierino e Alfio, che in fila indiana precedevano il
piccolo gruppo, ci hanno fatto osservare, che fra non molto avremmo raggiunto il
bianco rifugio, sito sul pendio del costone. Siamo giunti all’ora di pranzo.
Appena entrati, siamo stati investiti da un piacevole tepore, ma anche
le nostre papille olfattive hanno subito la stesa cosa: un profumo di
stracotto , di polenta arrostita e di luganighe
arrostite si diffondeva nel locale che ci deliziava i sensi e ci stimolava
l’appetito. L’allegra compagnia, prendeva posto nel solito tavolo lungo, un
tavolo rustico d’abete posto dietro la grande vetrata che dava sulla
valle. Le nuvole basse si erano diradate e da quella
finestra panoramica, si poteva ammirare un paesaggio delizioso,
lievemente biancheggiato da un sottile strato di neve fresca. Adriana mia
moglie, ha detto alle altre donne: “ Se osservate bene, da questa posizione,
non vi sembra di ammirare un quadro dipinto da un grande pittore del Settecento?
Con le sue meravigliose montagne sfumate verso l’orizzonte e finemente
incorniciate dai verdi abeti. Ella aveva veramente ragione. Si, é vero, da
quella posizione si domina un paesaggio stupendo, un paesaggio da favola, da
dove l’occhio poteva spaziare all’infinito.
Appena
vedi il Rifugio Camini, ti da
l’impressione di vedere un grosso Trullo, uno di quei caratteristici edifici
coniforme pugliesi, per via della sua caratteristica costruzione tondeggiante e
con il tetto a punta. Più che un trullo, vedendolo da lontano, immerso in
quella massa di nuvole basse e biancastre,
mi dava la sensazione di
scorgere la prua di una nave in un mare in tempesta .
Entrando
in questo locale rustico e caratteristico della montagna Trentina, sul lato
destro, fa bella mostra di sé una
grossa teca, dove sono stati sistemati moltissimi uccelli e animaletti
imbalsamati, caratteristici della montagna. Che richiamano l’attenzione
degli escursionisti di passaggio e specialmente dai bambini. Anche noi,
cioè Alfio, Pierino , Tullio ed io, come la volta precedente, ci siamo fermati
per ammirare quelle piccole creature imbalsamate. Ogni volta, osservando bene,
si scoprono dei nuovi animaletti che prima non avevi mai visti e, allora fai una
piccola riflessione, una considerazione attenta, un esame approfondito che la
mente rivolge a quella particolare cosa: alla bellezza della natura.
Sull’estrema
destra della teca, contenente decine di rari uccelli, e di mammiferi, vi era un
trespolo ricavato da una radice contorta di abete, ove era stato sistemato un
raro esemplare di rapace: il falchetto reale, che qualcuno degli astanti aveva
scambiato per una piccola aquila. Nel
pensare alle meravigliose aquile che con molta grazia volteggiano sulle cime dei
picchi dolomitici, mi é venuto in mente un brano di Romano Battaglia, che avevo
letto molto tempo fa nel suo libro il “Fiume della vita”, edito da “Rizzoli”.
“..... Un’aquila volteggia intorno alla vetta e nell’aria sento quasi il
sibilo delle sue ali. Forse mi ha notato e, sospettosa, fa la guardia al suo
nido nascosto tra le rocce. E’ raro che qualcuno venga sin quassù: la mia
presenza la rende inquieta.
Qualcuno,
non ricordo chi, mi ha raccontato che anche le aquile possono morire d’amore.
Quando il suo compagno viene ucciso dai cacciatori, la femmina vola alta nel
cielo, e poi si lascia cadere, con le ali chiuse, nel vuoto, precipitare sulle
rocce con un lamento straziante che lacera l’aria. L’uomo non può capire il
loro dolore.
Ora
l’aquila ha volato basso, per osservare meglio i miei movimenti. Continua a
roteare sfiorando la parete della montagna. Siamo soli al cospetto del cielo:
lei, con l’intento di proteggere i suoi piccoli, io, col desiderio di arrivare
dove nasce il fiume. Due creature spinte dallo stesso amore per la vita.
Se
avessi dei figli racconterei loro la mia storia, di quando mi sono incamminato
verso la montagna, la grande fatica per trovare le risposte ai miei perché. Mi
ascolterebbero in silenzio. Forse se esistessero e mi amassero non avrei bisogno
di cercare le origini e il senso della vita”.
Anche
Dostoieski insegna che “ vi sono momenti in cui l’uomo vive e impara più
che in anni interi”. Lo scrittore, nella sua solitudine della vita, come
succede a moltissime persone, si era incamminato su per gli impervi sentieri
della montagna per ritrovare se stesso e i giorni del suo passato,
alleggerendosi dei momenti più pesanti. Lungo il cammino la sua visione del
mondo si é allargata come la pianura e il mare, che sono laggiù, lontani.
Io
ed Adriana, siamo innamorati della montagna e quando possiamo, cerchiamo di
raggiungerla, per vivere questi momento e, soprattutto, per respirare a pieni
polmoni quest’aria frizzante e
godere delle meraviglie del creato, lontani dal caos delle nostre città
invivibili.
Un
antico proverbio africano dice che “ una montagna va salita passo dopo passo,
la ricchezza si acquista passo per passo, la saggezza si raggiunge passo per
passo”. Anche Giacomo Leopardi cercava il perché della vita e trascorreva ore
sul suo “ ermo colle” ad ammirare dall’alto la pianura e il mare lontani:
fu più sfortunato di tanti altri perché non ebbe la gioia di essere amato. Fra
lui e l’amore c’era la lontananza. Lo contemplava da distante: a lungo,
teneramente, si struggeva alla vista di Silvia che ricamava. Visse il suo
disperato amore alla finestra.
Leggendo
le sue poesie, abbiamo compreso quell’amore grande nella sua immaginazione di
poeta, tragico e non corrisposto. La vita stessa gli appariva un limite, mai
avrebbe potuto scalare questa e tante altre montagne incantate, come quelle che
abbiamo scalato noi nelle nostre escursioni dolomitiche. Si, é vero, bisogna
essere forti fisicamente, sani, integri, per camminare a lungo sotto il sole
dell’estate. Negli anni precedenti, lo abbiamo fatto, oggi le nostre camminate
sono diventate delle semplici passeggiate, tenendo presente l’antico proverbio
africano. Questo proverbio, lo troviamo anche nell’ABC del CAI, che
pressappoco dice la stessa cosa: “La
montagna va salita passo per passo”. Non c’è fretta di raggiungere la cima,
perché quando non te la spetti, é proprio davanti a te: superba, bella e
meravigliosa.
Le
Alpi tra le montagne della terra sono uno dei luoghi dove l’ambiente naturale
é stato nel corso dei secoli più profondamente trasformato dall’uomo. Nel
Trentino, dove oggi noi ci troviamo, per effettuare questa breve e leggera
passeggiata, già da tempo, strade e funivie, alberghi e rifugi hanno rotto
l’incanto che per secoli ha regnato sovrano fra le meraviglie naturali ancor
oggi tra le più belle e superbe del mondo intero.
Nel
bene o nel male ora tutto é più accessibile ma la bellezza rimane. Ed é
proprio grazie all’accessibilità resa dalle
seggiovie, cabinovie e quant’altro, ognuno di noi può raggiungere
località impensate come il nuovo ed il bello può essere anche
straordinariamente vicino!
Queste
comode e veloci cabinovie, che trasvolano da un picco all’altro, in pochi
minuti ci portano sulle cime più belle delle Dolomiti, per godere di quella
pace e di quella serenità che la natura ci offre. Sembra
che sono state fatte a posta per noi anziani, altrimenti non avremmo mai
sognato di raggiungere le alte quote. Ricordo,
che due o tre anni fa, quando con Adriana, Maria Artusi ed
altri amici del CAI di Mantova, da Madonna di Campiglio, salimmo sul Crosté, su
quel balcone panoramico di meravigliosa bellezza, che con un solo sguardo
abbraccia un paesaggio incantato, immenso e meraviglioso. Mentre stavo guardando
un rivolo d’acqua scorrere fra le rocce del massiccio, allontanavo la realtà
della vita quotidiana per inoltrarmi nel sentiero incantato , dove i pensieri
cattivi si infrangono sulla scogliera della fantasia.
Una
piccola creatura, una taccola nera, é venuta ad abbeverarsi, farfalle bianche
volavano sulla superficie del piccolo rigagnolo. Avvertivo il dolce palpitare
della natura che in sé mantiene il potere della rigenerazione. Tutti gli uomini
disperati hanno ritrovato, grazie alla natura, l’equilibrio e l’umanità che
avevano perduto. Lamartine aveva ragione di scrivere che...
“La
natura ti invita e ti ama: riposati nel suo seno, che essa ti apre sempre:
quando tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso sole sorge
sui tuoi giorni”.
Dopo
questa breve pausa di ricordi e di riflessioni, ritorniamo a parlare di questo
anomalo inverno, secco e gelato, che ha prodotto tantissimi danni
all’agricoltura del nostro Paese.
Da
oltre 50 anni, che viviamo tra
Piemonte, Liguria e Lombardia, non
abbiamo mai visto un inverno così siccitoso e arido, anche se gennaio ,
mediamente é il mese con meno precipitazioni. Quello del 1955 - 1956, ricordo,
fu un inverno senza neve, ma senza neve sui mille metri perché a Natale una
bonaccia l’aveva sciolta e dopo non
si vide una stilla o una goccia d’acqua fino a marzo; la montagna era però
bene innevata e si poté sciare nel bel sole su neve ottima. Quest’anno
niente. Un po' di neve era venuta ai primi di dicembre, poi sereno, freddo e il
vento del nord la disperse, mentre in questo mese di gennaio, una grande gelata
notturna, ci ha fatto rivivere un avvenimento insolito, un avvenimento che non
si verificava da moltissimi anni. La nebbia notturna, per via della famosa
“galaverna”, ha regalato ad ognuno di noi un paesaggio eccezionale, un
paesaggio da presepe, con i suoi merletti ricamati, come un bellissimo abito da
sposa.
Che
venisse un inverno freddo lo avevano indicato alcuni segnali: un amico esperto
di montagna, l’amico Sandro Zanellini del CAI di Mantova, con il quale più
volte ci siamo trovati sui sentieri innevati, mi aveva segnalato che i camosci,
quelli che avevamo ammirato l’anno scorso sui costoni del Gran Paradiso, in
Val di Notre Dame, avevano anticipato di quindici giorni la stagione degli
amori; anche il poeta Ferdinando Bandini, osservatore del mondo degli uccelli,
scriveva di aver notato i pettirossi tra gli alberi della sua città molto in
anticipo sugli anni passati; lo scricchiolo sul melograno del mio giardino era arrivato a settembre. Ero
incredulo!
Ora,
in pieno inverno, camosci, cervi, caprioli, lepri, tetraonidi hanno boschi e
montagne liberi da neve fino alle alte quote dove trovano spazi da camminare o
da volare alla ricerca di cibo senza essere disturbati. Ma se per loro la
stagione va bene così, per noi umani, no: é brulla, secca, soggetta a incendi
la montagna d’inverno senza neve. Oggi, 27 gennaio, siamo sulle montagne di
Folgaria, ma di neve, grazie ad una breve nevicata di questi giorni,
c’è né pochino e sommata a quella
prodotta con i cannoni, é sufficiente solo per sciare. Il freddo e il
vento fanno screpolare la pelle delle dita, i polmoni e la gola risentono la
secchezza nel respiro. Sarà ancora peggio in città, con tutti quegli automezzi
puzzolenti e la polvere nell’aria. Anche la nostra città di Mantova, come
pure le altre città della Lombardia, sono state chiuse al traffico per via
dell’inquinamento da polvere e dallo smog. Poveri bambini. Se a questi
inconvenienti si può in qualche modo rimediare , é difficile o impossibile
rimediare alla mancanza d’acqua. Il grande fiume Po, é sotto il segnale di
guardia di ben 7 metri, la navigazione fluviale é in pericolo ed in pericolo
sono anche i campi di quest’immensa Valle Padana.
Così
scrive in un suo articolo Mario Rigon Sten: “Mai, guardando dalle finestre, a
mia memoria, mai ho visto le
montagne intorno così nude a gennaio: il Pasubio grigio e ferrigno, la Cima XII
brulla e pulita; solo nei canaloni c’è un po’ di neve portata dal vento più
che dalle nubi. Il Cevedale e le Dolomiti di Brenta si mostrano meno bianche che
d’estate! I torrenti sono asciutti non perché il freddo li ha fermati ma
perché dall’alto non scende acqua; in certi paesi del Cadore, leggo sul
giornale, sono costretti a portare l’acqua con le autobotti..
Allora
che fare? Intanto non sprechiamo l’acqua che esce dai rubinetti per non
rimpiangerla dopo. Gli addetti al nostro acquedotto mi assicurano che mai le
sorgenti sono state così in magra. Anche perché il trascorso autunno é stato
avaro di piogge. Speriamo in febbraio. Di solito febbraio é il mese della neve
e ben lo sanno i pastori. Abbiamo bisogno di fare riserva d’acqua ma anche i
prati, i pascoli, i boschi soffriranno a rinverdire a primavera.
Un
nostro vecchio proverbio dice: “ Viel
snean viel obe” ( molta neve, molto fieno; ma se l’economia dei pascoli e
dei prati montani é povera, non é così per le risaie, i frutteti, le vigne, i
seminati e gli erbai di pianura”.
Creativo
é anche svagarsi.
Quando
il piccolo gruppo degli escursionisti é giunto al “Fondo Piccolo”, il
pallido sole, che durante la giornata
a stento si era fatto vedere, ora era là, sulla cima della montagna,
come legato ad un filo di lana , che da un momento all’altro sarebbe tramontato. In quell’angolo tranquillo di pace e di serenità,
quasi distaccato dagli impianti di
risalita, i bambini si divertivano moltissimo con lo slittino. Alcuni del nostro
gruppo, sono stati per così dire influenzati, da quel semplice svago praticato
dai più piccoli ed hanno voluto provarci anche loro.
E’
proprio vero, a volte, per divertirsi basta
poco. In questo caso, é stato sufficiente un telo di nailon. Raggiunto il
vertice della piccola collina, sistemato il telo di nailon sulla neve, si sono
seduti uno dietro l’altro, formando un piccolo treno, che per via d’inerzia
scivolavano verso valle, assumendo la forma buffa di un bruco. Quello é stato un divertimento anche per
noi che assistevamo alla loro performance improvvisata.
Quello
che é stato molto interessante: scoprire il lato buffo della
loro performance improvvisata. Le cadute si susseguivano una dopo
l’altra, rendendo allegro e divertente questo semplice
divertimento da bambini. Ma quello che maggiormente mi ha fatto riflettere: quello di ritornare ad essere bambini
anche noi.
Intanto
la Luna che era alta nel cielo, piano piano sparisce nella foschia che ha
ricoperto le vallate e le pianure, qualcuno dice che forse pioverà, perché il pianeta ha la gobba in giù,
pare una barchetta. E il gelo? “Vedremo”,
dicono, perché devono ancora arrivare “ i giorni della merla”, a fine mese.
I più freddi dell’anno.