STORIE
DI IERI E STORIE DI OGGI.
Le
vecchie pagine ingiallite della storia ci raccontano avvenimenti, consuetudini e
tradizioni del tempo passato, quando le zuffe tra fazioni costrinsero Mantova a
correre ai ripari, mentre nella Venezia dei Dogi impazziva la “battagliola coi
bastoni al ponte di Santa Fosca”. Quelli erano i tempi dei “ Giottini
dell’età comunale”.
Per
rimanere sul tema, diciamo che la recente vicenda del G8 di Genova ha dimostrato
quanto sia difficile, in certe situazioni, mantenere l’ordine pubblico. “
Black bloc” di vario genere, guerriglia urbana, tifoserie impazzite negli
stadi sono ormai fenomeni a cui assistiamo con cadenza quasi regolare, che
testimoniano come il problema sia radicato e di non facile soluzione. Le
spiegazioni di sociologi, filosofi, etnologi, politici si sprecano, senza però
addivenire a nulla di concreto e non c’è da stupirsi, visto che gli scontri
fra opposte fazioni, spesso accompagnati dall’uso della violenza,
caratterizzano l’intera storia dell’uomo.
Una
ricerca storica di Ugo Boni, apparsa sulle pagine della Voce di Mantova, ci
spiega molto intelligentemente, che anche la storia mantovana è zeppa di esempi
in proposito. Basti pensare ai primi tempi del comune, in cui l’infuriare
delle fazioni di un servizio di ordine pubblico affidato ai cittadini “
maioribus et melioribus.. Qui
magnum statum pacificum et tranquillum diligunt civitatis”
(1).
Era costituito da 48 uomini, di cui 8 facevano da capi, scelti nella proporzione
di 10 uomini e 2 capi per ogni quartiere della città; inoltre, nei borghi di
Porto e di San Giorgio ne venivano scelti altri 5, al comando sempre di 2 capi.
Ciò non impedì che nel 1234 si arrivasse addirittura all’uccisione del
vescovo Guidotto da Correggio, trafitto al fil di spada da Uguccione d’Altafoglia
Avvocati insieme ai suoi “partigiani”.
Le
cose non andavano meglio a cavallo tra ‘400 e ‘500. Risse e ferimenti
accadevano ogni giorno; perfino i ragazzi, che non potevano portare armi, si
esercitavano nelle sassaiole e a loro si univano talvolta anche gli adulti. Una
grida del 20 dicembre 1470 ammoniva che il solo fatto di impugnare un’arma a
corte era sufficiente per essere condannati all'amputazione della mano: se in
castello, all’amputazione di entrambe e se sulle scale che conducevano agli
appartamenti del marchese, alla pena capitale da eseguire immediatamente (2).
A
volte, tuttavia, le città riuscivano
a incanalare l’animosità delle fazioni in eventi ludici di carattere
spettacolare, se non più facili da tenere sotto controllo almeno tali da
circoscrivere i danni. Uno dei casi più singolari è certamente la “battaglia
dei pugni”, praticata a Venezia fino all’inizio del Settecento. Il gioco era
talmente popolare nella Serenissima Repubblica che se ne trovano svariate
rappresentazioni.
Recentemente
è stato battuto all’asta proprio un grande quadro di ignoto pittore del
‘600 che raffigurava la cruenta battaglia ingaggiata al Ponte dei Pugni, per
il quale l’autore si sarebbe ispirato ad una celebre incisione di Pietro
Liberi. Le cose procedevano in questo modo: solitamente ci si scambiava la sfida
e si nominavano i padrini, che fungevano da arbitri (3). Spesso la loro foga era
tale che si accaloravano in lunghe discussioni, facendole degenerare in lite e
in rissa, col risultato di riscaldare anche gli animi dei combattenti e del
pubblico. Poi si sceglieva il ponte.
Se
la sfida era importante occorreva rafforzarlo w allora si scavava il rio
sottostante, perché molte volte i contendenti erano morti annegati nel fango. I
ponti più usati erano quello “dei Pugni” a San Barnaba, che ancora reca
sulla piazzola centrale l’impronta in marmo dei piedi che segnava la linea di
partenza, “della Guerra” a San Zulian (entrambi devono il nome al singolare
gioco)., Dei Carmini, di san Marzial e di Santa Fosca. Tutti i ponti comunque
erano buoni, specie per i ragazzi, che si azzuffavano tutto l’anno e non solo
nel periodo consentito, che fu per lungo tempo da settembre a carnevale.
Poiché
molti nobili trovavano appassionante assistere a queste zuffe, spesso furono
costruiti ponti di legno entro i cortili dei palazzi o davanti ad essi, nei
“campi” e in occasione di feste particolari. Venuto il giorno dello scontro,
disposti i padrini e le schiere, si avviava il gioco, il cui scopo ultimo era la
conquista della piazzola centrale del ponte. Le due fazioni prendevano il nome
di Nicoletti e Castellani, corrispondenti alle due estremità della città.
Sottrarre le insegne agli alfieri avversari, che li difendevano caparbiamente,
era motivo di particolare vanto, tanto che il più delle volte essi finivano
come trofei nelle case dei vincitori. Al suono di nacchere, pifferi, trombe e
tamburi avvenivano dapprima sfide e duelli individuali o a coppia dei più
rinomati pugilatori di ciascuna squadra: si chiamavano “mostre” e se ne
potevano fare anche decine ma di seguito all’altra; finché non si passava
alla “frotta”, consistente nel correre in massa al ponte. Mandando
all’attacco le schiere in cui ciascuna squadra si era divisa e organizzata.
La
mischia che ne scaturiva era furibonda e durava per ore. Chi veniva cacciato in
acqua o si trovava improvvisamente tagliato fuori e separato dalla sua fazione,
poteva riprendere il proprio posto o passando sulle barche che assiepavano il
rio per assistere allo spettacolo, o dal ponte più vicino. Via via che il gioco
procedeva era facile che il pubblico si sentisse trascinato a parteciparvi:
poiché per assistere all’evento si occupavano tutti i balconi disponibili, le
finestre, le altane e perfino i tetti, parecchie volte si ebbero lanci di
tegole, sassi, sedie, suppellettile e acqua bollente. Risultato: fughe nel
panico, duelli, e risse nella calca. Una decina di morti, in questi casi, non
meravigliava nessuno: si moriva stritolati o calpestati dalla folla, annegati
nel fango o nell’acqua, colpiti sulle barche di soccorso dal rovinare di nuovi
caduti, raggiunti da sassi o da altri corpi contundenti, sbattendo la testa nel
cadere a terra o sulle barche e così via.
Mentre
la tradizione della “battaglia dei pugni” continuò fino all’inizio del
Settecento ( la sua abolizione risale al 1705, ad opera del Consiglio degli
Dieci), le lotte coi bastoni, di gran lunga più irruenti, cessarono molto prima
e precisamente dopo la celebre battaglia organizzata nel 1574 per Enrico III di
Francia, con 300 combattenti per parte. Fu lo stesso re a chiederne
l’interruzione, avendo visto estendersi la contesa al pubblico delle barche e
delle rive, come d'altronde accadeva quasi sempre. Fortunatamente nella lotta
coi bastoni i contendenti si proteggevano il braccio con un panno arrotolato,
per parare alla meglio i colpi. Anche allora non scherzavano quanto a violenza.
Per
ricavare questa storia di altri tempi, ma che non era meno violenta di quelle
risse e devastazioni negli scioperi e sugli asfalti dei campi sportivi, che
succedono ai nostri giorni. Nello sciopero generale del luglio
di tanto tempo fa, e precisamente nel 1960, ci vide schierati
l’un contro l’altro , cioè forze dell’ordine e scioperanti del Pci.
Anche prima di quella data, naturalmente, mobilitare le masse e portarle sulla
via a sfidare provvedimenti e divieti del governo era stato tra gli strumenti
essenziali della presenza dei comunisti sulla scena italiana. Ricordo le grandi
battaglie fra i carruggi e sulle Piazze più importanti di Genova, dove si è
verificato di tutto: dalle finestre e dai tetti delle case dei carruggi, si ebbero lanci di tegole, sedie, suppellettili, olio bollette.
Risultato: fughe nel panico, gente che urlava, feriti, duelli e risse nella
calca. Quella fu una mezza rivoluzione: si rimaneva stritolati dalla folla e
disorientati. Anche quella volta, come in quest’ultima violentissima battaglia
con i Black bloc, vide ancora una volta come scenario di guerriglia la
bellissima città di Genova, con le varie
organizzazioni di destra e di sinistra. Adesso cercano un capro espiatorio.
Forse, come succede in questi casi, i veri colpevoli, guarda caso, sono le forze
dell’ordine, che hanno cercato di portare un po' d’ordine in quella città
semi distrutta dal vandalismo e dal disordine.
Da
liberi cittadini, ci sentiamo il dovere morale
di esprimere, a tutti Voi, la più sincera solidarietà per tutto quello che
avete fatto in difesa dell’ordine democratico
messo a repentaglio da una minoranza di facinorosi delinquenti che considerano
la “piazza” non un luogo dove si possa esprimere liberamente le proprie
opinioni in maniera pacifica ma il luogo dove dare sfogo alla violenza, al
vandalismo, alla delinquenza pura senza alcun rispetto per gli altri.
In
questi terribili momenti possono anche essere stati commessi errori ma, ciò, si
poteva benissimo evitare se le manifestazioni di protesta, legittime sotto il
profilo della libertà d’opinione, fossero rimaste all’interno delle più
elementari regole della democrazia e della convivenza civile”.
Per
i fatti , ai quali ci siamo riferiti in questo capitolo, e che si sono
verificati a Mantova e Venezia, come abbiamo visto non si trattava di disordini,
ma di puro divertimento, che qualche volta, anche il divertimento sfociava in
aspri litigi, con le note conseguenze. Ugo Boni, l’autore di questa ricerca, ha consultato i
seguenti volumi dell’epoca:
1)
C. D’Arco, Studi intorno al municipio di Mantova, vol. II,
q871 pp. 18 - 22;
2)
Mantova - La storia, le lettere, le arti, rist. 1981, vol.II pp. 448 e 465.
3) Cfr, in proposito, Pietro Longhi, Gabriele Bella - Scene di via veneziana, 1995, pp. 32 - 5, 240 - 1.
I
MOLTI VOLTI DELLA GLOBALIZZAZIONE.
Nei
due precedenti capitoli, ci siamo soffermati sull’ordine pubblico e sui gravi
fatti di Genova, in occasione della
riunione dei Setti grandi della Terra. In questo capitolo, ci vogliamo
soffermare sulla “Globalizzazione”, che tanto si sta parlando ma che pochi
conoscono il vero significato. L’uomo della strada, specialmente dei nostri
piccoli centri padani, come Campitello, dove noi viviamo da moltissimi anni,
fanno fatica a capire di che cosa si tratta. Noi, che frequentiamo i piccoli bar
del luogo, spesso, fra una partita a briscola o a tressette, succede che ci
troviamo a discutete con gli anziani come noi dei fatti del giorno.
Sovente, nei nostri
discorsi, oltre che a commentare le notizie apparsi sui quotidiani
della provincia, mi vengono rivolte delle domande e naturalmente esigono
delle risposte precise, come ad esempio, sulla globalizzazione, sul G8 e sui
gravissimi fatti di Genova.
Oggi,
ci soffermiamo appunto su di un argomento di scottante attualità, la
globalizzazione, cercando di capire, pur nella sintesi letteraria il suo vero
significato. Nella lettera “g” del Dizionario
della lingua italiana De Agostini, troviamo questa parola che è entrata di
prepotenza nel lessico linguistico, esso significa il processo conoscitivo per
cui un bambino percepisce la realtà con una visione d’insieme, e solo in un
momento successivo acquista la capacità di analizzarla. In poche parole, non è
altro che la strategia economica delle grandi aziende volta a offrire e
acquistare i propri prodotti o servizi in tutto il mondo, in poche parole, è la
diffusione mondiale di informazioni, mercati, cultura, costumi. Questo termine
è divenuto improvvisamente di dominio pubblico. I fautori dell’antiglobalizzazione,
che peraltro non si presentano come un fronte compatto, sostanzialmente fanno
leva su quello che essi ritengono essere l’eccessivo potere economico delle
società multinazionali, mentre i sostenitori della globalizzazione ritengono
che il commercio senza barriere porti benessere, in particolare proprio ai Paesi
in via di sviluppo. Tutti concordano sulla riforma di alcuni istituzioni
cruciali, come il Fondo Monetario Internazionale, e sul fatto che il mondo più
ricco vive una cronica condizione di squilibrio, e che l’Unione Europea ha
dato vita a un’integrazione economica e monetaria senza dotarsi ancora di una
costituzione comune.
Leggendo
l’editoriale della “Rivista il Carabiniere” del mese di luglio 2001, che
parla appunto “ dei molti volti della globalizzazione, l’articolista così
scrive “ La vera sfida sembra quindi essere quella del comune governare la
globalizzazione, unendo mercato ad etica, e innescando un processo in grado di
ridurre il divario tra Nord e Sud del mondo”.
“
Nel mondo globalizzato rientra anche una visione criminale trasnazionale. Non a
caso dedichiamo il nostro dossier all’arte rubata, cioè al mercato che
commissiona e gestisce i furti di opere d’arte depredando l’umanità di
patrimoni inestimabili. Un recente convegno organizzato dal Comando Carabinieri
per la Tutela del Patrimonio Artistico ha evidenziato come la loro
commercializzazione illecita abbia assunto allarmanti proporzioni
internazionali, al punto da rendere necessario che tutti gli Stati collaborino
per salvaguardare l’integrità. E’ poi fondamentale che tutti i Paesi che
condividono questa emergenza costituiscono organismi di polizia specializzati
nella tutela del patrimonio artistico e che si coordino con le analoghe
strutture già esistenti, creando una banca dati delle opere d’arte rubate in
grado di collegarsi con altri sistemi similari, velocizzando lo scambio di
informazioni e sostenendo in questo progetto anche i Paesi in via di sviluppo.
Molti
sono quindi i volti della globalizzazione, dal mondo produttivo
a quello della commercializzazione e consumistico. Si potrebbe continuare
all’infinito, ma “ la vera sfida sembra quindi essere quella
del governare la globalizzazione, unendo mercato ad etica, e innescando
un processo in grado di ridurre il divario tra Nord e Sud del mondo”.
Mai
come in questi tempi il termine globalizzazione è stato presente sui media,
carta stampata e televisione. Ma ancora non abbiamo risposto alla domanda, che
l’uomo della strada si pone da sempre, e specialmente in questo nostro tempo
tecnologico e consumistico. Ma, in effetti, che cos’è la globalizzazione? Il
termine iniziò, come scrive Sandra Silvera, a circolare all’inizio degli anni
Ottanta, nelle università americane della Columbia, di Harvard e di Stanford,
ma solo alla fine degli anni Novanta, dopo il crollo del regime comunista in
Unione Sovietica e la scelta della Cina di aprirsi al nuovo mercato, il processo
di globalizzazione iniziò a svilupparsi, poiché si erano create le premesse
per un sistema di commerci e di economie mondiali.
Tra
il 1870 e il 1915, il mondo occidentale aveva già vissuto una fase di intesa
circolazione di capitali e di merci. Addirittura, gli investimenti di
quell’epoca erano proporzionalmente superiori a quelli attuali. Ciò che
distingue quell’epoca dagli anni Novanta è che, per la prima volta nella
storia, oggi non ci sono più frontiere, non solo per la
libera circolazione di prodotti, di investimenti finanziari, di processi
produttivi e di capitali, ma anche per tecnologia
e idee.
In
sintesi, globalizzazione, come abbiamo detto sopra, vuol dire che tutti i Paesi,
anche i più poveri, competono con tutti e il mondo
è diventato un unico grande mercato. Questo ha comportato, per Paesi
come la Corea del Sud, Taiwan, la Thailandia, la Malaysia e l’Indonesia, un
netto miglioramento delle condizioni di vita. Un aumento della vita media, della
scolarità e una diminuzione della mortalità infantile. Da quando il mercato è
globale, in 100 nazioni la ricchezza prodotta è cresciuta, e in altre quali
India, Cina e Pakistan, la ricchezza è aumentata più della media mondiale.
Ma
poiché nessuna crescita arriva senza conseguenze negative, la globalizzazione
ha voluto dire anche forti disparità. Insomma, i ricchi diventano sempre più
ricchi e i poveri sempre più poveri. Basta pensare che gli esseri umani che
vivono con meno di un dollaro al giorno sono diventati 1,3 miliardi; che con
meno di due dollari al giorno vive quasi la metà della popolazione del pianeta,
che il prodotto interno lordo ( Pil) dell’Africa è crollato in vent’anni
dal 4,5 all’1,5 per cento, e che la mortalità colpisce un bambino ogni 3
secondi. Questo stato di miseria e povertà, abbiamo avuto modo di constatarlo,
nella cronica dei nostri bravi giornalisti, che viaggiano al seguito della
carovana dei camion Trekking di
Overland, promossa e diretta dell’UNICEF, che ha fatto due volte il giro del
mondo. In questi ultimi giorni, dopo il lungo giro dell’Africa, stanno
viaggiando nei Paesi del Sud Est del mondo, toccando la Cina, la Corea del Sud,
Taiwan, la Thailandia, la Malaysia,
l’Indonesia e i Paesi del tetto del mondo: ovunque, hanno trovato povertà e
misera.
C’è
da chiedersi che cosa c’entra tutto questo con la globalizzazione, ossia con
la libera circolazione di beni, servizi, soldi. Ne 1976 la Svizzera era 52 volte
più ricca del Mozabico, nel 1997 lo era 508 volte, Colpa della guerra civile
monzabicana durata 16 anni, o colpa della fallimentare ricetta di sviluppo
imposta dalla Banca Mondiale, che spinse il governo del Mozambico ad aprirsi al
mercato senza più regole di concorrenza? Già, perché nel 1995, quando la
Banca Mondiale convinse molti governi africani ad aprirsi al mercato, moltissimi
imprenditori, industriali e braccianti non riuscirono più a competere con i
Paesi più ricchi, e si trovarono senza lavoro. Senza contare che negli ultimi
vent’anni la globalizzazione è stata accompagnata da un netto rallentamento
della crescita demografica nei Paesi più ricchi e da un forte aumento delle
disuguaglianze fra Nord e Sud.
Sandra
Silvera, così continua nel suo articolo, al quale abbiamo attinto, per spiegare
con maggior chiarezza questo nostro intervento, ma soprattutto, per dare una
precisa risposta alle nostre domande sui molti volti della globalizzazione: “
Ma sarebbe inesatto considerare la globalizzazione l’unica responsabile di
questi problemi. Il successo degli Stati Uniti, la ripresa della Corea del Su,
di Taiwan e della Cina, così come le difficoltà a decollare dell’Africa,
dell’America Latina, del Giappone, dell’ex impero sovietico, dipendono
anche da fattori interni.
L’analisi
di James K. Galbraith parte dalle considerazione che i sistemi che governano
l'economia mondiale hanno fallito la loro missione, tanto da riscuotere sempre
meno consensi tra l’opinione pubblica. Il cosiddetto “ popolo di Seattl”, le contestazioni di Washington,
Melbourne, Praga, Quebec City, Nizza, Davos, Goteborg, sono stati in parte
strumentalizzati da frange estremiste violente, ma sono stati anche indicativi
di un disagio sociale e giovanile diffuso. Sempre più governi sono infatti
concordi nel dire che il punto di disaccordo non è quello della riduzione del
debito dei Paesi più poveri, o di
stabilire la lotta alle povertà, alle malattie, alle nuove schiavitù,
all’inquinamento ambientale, ai cibi modificati geneticamente, ma quello dei
metodi violenti usati dai contestatori. Di tutto questo, ne abbiamo visto i
risultati del G8 di Genova.
Dall’esempio,
appunto ,di Genova, si è potuto capire che i movimenti di protesta, le
manifestazioni contro la globalizzazione non hanno un vero e proprio programma.
Esistono coalizioni guidate da sindacati, organizzazioni per i diritti umani,
associazioni cattoliche ed ecologiste, gruppi
“spontaneisti”. Protestano contro la perdita dei posti di lavoro, contro i
danni ambientali, ma nella prima fila dei loro “ obiettivi” ci sono
l’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), la Banca Mondiale, il Fondo
Monetario Internazionale ( Fmi). Seguono, tra i bersagli principali, le
multinazionali dell’industria e della finanza e i “ grandi della Terra”,
cioè i rappresentanti degli otto Paesi più industrializzati del mondo ( Stati
Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Germania, Francia, Italia, Russia).
Macroeconomia
a parte, se si chiede oggi ad un giovane che cos’è la globalizzazione, si
ottengono molte risposte, alcune delle quali anche contraddittorie. Per i più
è un “ qualcosa” di familiare, esattamente come il personal computer,
fabbricato in oriente e assemblato con pezzi provenienti dai quattro angoli del
globo; per altri è indossare le scarpe e i vestiti cuciti in Birmania e in
altre fabbriche del Sud - est asiatico degli stessi bambini che, per un salario
di miseria, fabbricano palloni di un’importante multinazionale. Per altri
ancora il simbolo della globalizzazione è tutto ciò che è contenuto in una
confezione da fast food, dove, tra un pupazzetto fatto in Cina o in Vietnam, un
sacchetto stampato in Germania o in Croazia, un foglietto di istruzioni made in
Hong Kong, una scatola di cartoncino italiano, si trova pure qualcosa di
commestibile.
Il passo di marcia sempre più veloce della globalizzazione suscita perplessità anche fra i più accesi globalizzazatori. Tutti i Paesi più industrializzati sono concordi nel considerare che sulla riduzione graduale del debito bisogna discutere le condizioni imposte ai 41 Paesi più poveri del mondo. I distinguo iniziano sui metodi dei dissidenti e delle frange violente dei contestatori.
ALLA
SCOPERTA DEL PONENTE LIGURE
Dopo
la pausa politica dei gravi fatti di Genova, provocati
appunto dai disordini del G8, ritorniamo ai nostri ricordi del passato,
di quel passato che fa parte della nostra vita. Senza discostarci molto,
rimaniamo sempre nel pianeta Liguria, per raccontare le nostre impressioni di
una regione che ha le caratteristiche della nostra Old Calabria.
Quindi,
sono ricordi di ieri, di oggi, di domani, di sempre. Il primo avverbio significa
i ricordi del passato, il secondo quelli del presente, il terzo quelli del
futuro, mentre l’ultimo avverbio significa la continuazione, ininterrottamente
del tempo. Se possiamo farci un’idea del tempo, quel solo punto si può
chiamare presente che non si può suddividere in particelle, per quanto
piccolissime. Ma anche quel punto trasvola così rapidamente dal futuro al
passato e dal passato al presente, come stiamo facendo noi oggi. Risulta però,
come ha detto Sant'Agostino, che futuro e passato non esistono. I tre tempi sono
più tosto il presente del passato, il presente del presente, il presente del
futuro. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è
l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa.
Dopo
l’esperienza umana e culturale della più bella Città mediterranea di Napoli,
dove all’alba del 2 giugno del
1946, dal piccolo borgo natio, posto sulle propaggini aspromontane, ho avuto
l’impatto con questa grande città che non conoscevo, ma che ho subito amato
per la sua meravigliosa bellezza. Dopo poco meno di un mese, il mio viaggio è
proseguito verso le città del Nord d’Italia, alla scoperta della meravigliosa
Liguria.
Quelli
erano tempi difficili, era il periodo postbellico di un
Paese in ginocchio come il nostro, completamente distrutto dalla Seconda
Guerra Mondiale: strade, ponti, ferrovie, industrie, intere città rase al
suolo, disoccupazione e gente sbandata che non sapeva dove andare e come
sbarcare il lunario. A Napoli, in quel tempo, l’unica industria che esisteva era
il mercato nero, la prostituzione e l’arte di arrangiarsi come meglio si
poteva. Prima di lasciare la città di Napoli, in una bancarella di Via Pre,
comperai una divisa militare americana color cachi, completa di anfibi , bustina
e persino il sacco da marinaio : una di quelle divise di cui erano dotati i militari
del nuovo esercito italiano, che avevano partecipato alla memorabile
battaglia di Montelungo e di Cassino, che fu il loro battesimo del fuoco contro
l’esercito tedesco, che si era
annidato fra quelle brulle colline rocciose . Quella divisa si distingueva da
quella dei Marines, per via dello scudetto sul braccio destro, che indicava i
colori del nostro Paese.
Ricordo
che quando lasciai Napoli diretto al Nord, indossai quell’uniforme, che mi ha
aiutato moltissimo durante il viaggio. Praticamente, il viaggio fino a Livorno,
dove c’era la base militare americana di Tombolo, l’ho fatto a bordo di un
camion americano, che faceva parte di una lunga colonna
che trasportava materiale bellico e derrate alimentari. Per tutto il
percorso viaggiai con un militare americano di colore
di nome Gionny Washington, : un
giovane molto allegro e di una grande magnanimità e molto generoso nel dare e
nel concedere. Con Gionny,
diventammo buoni amici, tanto che mi ha aiutato moltissimo a rimanere parecchi
giorni nel Campo Militare Americano di Tombolo: vasta Pineta della Toscana, che
sorge tra Marina di Pisa e Livorno. Consumavo
i pasti nella mensa della truppa e dormivo in un capannone con una squadra di
giovani Marines. In tutto quel tempo, nessuno mi ha mai chiesto chi fosse e da
dove venisse.
Il
giorno che decisi di partire per la Liguria, l’amico Gionny, mi ha riempito il
sacco da marinaio, con generi alimentari per il viaggio, sigarette, scatolette e
alcune stecche di cioccolato. Mi accompagnò con la Jeep fino alla stazione di
Livorno, e da quel giorno, non ho mai più visto l’amico Gionny Washington,
sergente dei Marines .
Mi
è dispiaciuto lasciare il Campo di Tombolo: una vasta pineta tra Marina di Pisa
e Livorno, dove era accampato l’Esercito americano d’occupazione in Italia,
ma lì non potevo rimanere molto a
lungo, perché prima o poi, mi avrebbero scoperto . Fuori il Campo Militare di
Tombolo, vi soggiornavano gente di
tutte le risme: commercianti, ladri e soprattutto prostitute. Era come una
grande città satellite, con sale da ballo, e bar improvvisati e negozietti di
souvenir. Ma il mio desiderio era quello di raggiungere al più presto possibile
la cittadina di Bordighera, dove abitava mia sorella Angela, fin dal 1936.
Per
via dei ponti rotti, da Livorno abbiamo cambiato treno alcune volte e siamo
giunti alla Stazione di Genova Principe, alle ore 22 circa. Ricordo che
nell’atrio della stazione di Principe, c’era la Croce Rossa, che con
vivande calde, si premuravano di rifocillare
tutti i militari che giungevano con
i vari treni. Anch’io, ho usufruito di quel servizio e del posto letto messo a
disposizione per chi ne faceva richiesta.
GIOCHI
D’EQUILIBRIO.
Finalmente,
dopo un lungo viaggio, ero giunto nella
meravigliosa Liguria, dove ho visto un cocktail perfetto tra il blu cangiante
del mare e i profili sfumati delle montagne: l’estremo Ponente Ligure. Dove i
giardini esotici di Villa Hambury e il borgo di Dolceacqua, le streghe di Triora
e la via degli innamorati a Baiardo, e poi ci sono i paesini da presepe
dell’interno che sono tante facce di una sola realtà.
I
RICORDI .
La
carrellata dei ricordi ci portano in quella terra di tante frontiere, c’è la
costa con i segni profondi di un capolavoro della natura, ferita però da
decenni di crescita urbanistica scriteriata. C’è il mare con le sue
mareggiate violente e i suoi blu cangianti, e ci sono i panorami verso nord,
fatti di un continuo sovrapporsi di profili di montagne. C’è l’atmosfera da
“ ombrellone, branzino al sole, discoteca e salto a Monte Carlo”, ma anche
quella di presepe di paesini in pietra. Tante facce della stessa realtà.
Nessuna più vera dell’altra.
Si
dice che la grande chance sia l’entroterra, perché il litorale non è quello
che abbiamo ammirato nell’estate del 1946, perché oggi è compromesso. Ma
neppure il sole più violento può accecare tanto da non vedere che dalla
Riviera piacciono tanto i bailamme festivalieri, l’aria fatta di rien ne va
plus, l’atmosfera vagamente
ambigua delle zone di frontiera. Forse perché tutto questo avviene sotto un
clima mite, forse perché quel
certo fascino della Riviera d’antan pare non voler morire. Fatto sta' che,
quando non è stagione di lunghi viaggi e di esotiche spiagge lontane, la
Riviera è lì, disponibile, in tutti i suoi aspetti, come lo fu all’epoca dei
nostri ricordi del dopo guerra.
IL
NOSTRO ITINERARIO .
Per sintetizzare la carrellata dei ricordi,
partiamo da Bordighera, e non solo in omaggio alla storia turistica della cittadina, che è
stato il nostro punto d’arrivo e di partenza nel nostro girovagare per la
Penisola Italica (che già alla fine dell’Ottocento vantava una colonia di 3
mila inglesi) in pieno centro, in corso Vittorio Emanuele, all’angolo con via
Roma ( che porta alla stazione), c’è il piccolo bar Nadia, che è stato ed è
una specie di crogiolo dei tanti modi di essere della Riviera, come la piazzetta
della città Alta, che da prima del 1936, fu
il punto d’arrivo della colonia dei calabresi e dei siciliani, dove le sere
d’estate si sedevano sui muretti di pietra attorno alle case,
per discutere e dare continuazione alla coltivazione dei fiori.
Ricordo
che il piccolo bar Nadia, rimaneva
aperto fino all’alba, e caffè, toast e cappuccini erano ordinati dal
“popolo della notte”, oltre ai
rari turisti, era frequentato dai
floricoltori che andavano (con il loro carrettino spinto a braccia) al mercato
di Sanremo.
Prima
di iniziare a parlare dei paesini limitrofi, vale la pena fare due passi sulla
vicina passeggiata a mare. Allora si chiamava soltanto lungomare, ma oggi si
chiama lungomare Argentina. Il nome ricorda la visita di Evita Peròn nel 1947,
e offre un bel panorama sulla Costa azzurra; nelle giornate limpide lo sguardo
può spaziare sino al “ panettone” dell’Esterel, dopo Cannes.
Io abitavo in Via Dritta al nr.9 della città Alta di Bordighera e sotto
le vecchie mura c’era la chiesetta di Sant’Ampeglio, proprio all’ingresso
orientale della cittadina, proprio lungo l’Aurelia, sugli scogli
dell’omonimo promontorio. La leggenda vuole che il santo arrivasse
dall’Egitto, all’inizio del V secolo, portando con sé - e seminando - i
datteri che inondarono la zona di palme. Insomma, in fondo è per lui che
Bordighera viene chiamata la città delle palme.
A
qualche decina di metri, ai piedi della pineta del Capo, c’è il monumento
alla regina Margherita, prima regina d’Italia. Monumento da cartolina, certo.
Però il vederlo, in qualche modo, serve a comprendere la fama di Bordighera.
Margherita visse a lungo nella cittadina rivierasca, così come Edmondo De
Amicis, il generale Cadorna e altri personaggi ancora. Al centro della stessa
pineta c’è una terrazza in cui troneggiano tre cannoni - Tiralogni, Butafuogu
e Cagastrasse i loro nomi popolari - e da cui si
gode un ampio panorama. Al centro di quel giardino, in quel tempo,
c’era un piccolo campo sportivo dove disputavamo qualche partita di calcio con
i militari inglesi di stanza a Bordighera, oggi non so se esiste ancora.
Nei
primi tempi della mia permanenza a Bordighera, non svolgevo alcuna attività
lavorativa, non perché non volessi lavorare, ma perché non
c’era proprio nulla da fare ed era difficile trovare alcuna forma di
lavoro anche manuale. Quindi, in
compagnia di Giovanni Torrengo, un giovane bordigotto della mia stessa età,
passavamo le giornate visitando i
paesi limitrofi, con una sola bicicletta.
SEMPRE
ALLA RICERCA DI VEDUTE MARINE.
Da
Bordighera, se si vuole scoprire
qualche cosa di bello, bisogna puntare verso Ventimiglia, più precisamente al
litorale tra questa e Mentone. Entrando nella città di confine da est, su corso
Genova si trova sulla destra il teatro romano, del II secolo d. C. Fu scoperto a
fine Ottocento ed è in ottimo stato di conservazione; peccato
non sia visitabile e risulti soffocato dalla strada ( l’Aurelia è
l’unica via d’accesso), dai treni e da quel che resta dall’impianto di
produzione del gas di città. Ventimiglia nuova è tutta in piano, con poco da
vedere, mentre arrivati sul Roja, il fiume che scende dalle Alpi francesi, si
hanno due panorami notevoli: la città medioevale, dominata dalla Cattedrale
dell’Assunta ( romanica, costruita tra l’XI e il XII secolo su un’antica
chiesa preromanica), e, verso nord, la chiesa di san Michele (XII sec). Sul
ponte che attraversa il fiume sembra davvero
una violenza alla vista la vista del recente viadotto che supera la
ferrovia, ma si può anche essere rapiti dalla veduta sulle Alpi. Un bel
panorama, che colpì Salvatore Quasimodo: una lapide sull’ultima casa sulla
riva destra del fiume, alla foce, ricorda la poesia “ Alla foce del fiume Roja”
ispirata al Nobel da quella veduta.
Proseguendo
verso la Francia, dopo il nucleo di Latte si deve scegliere tra la strada che
conduce a Ponte San Ludovico, il
valico di frontiera proprio sul mare. E quella che va verso Ponte San Luigi, il
vecchio valico, più in alto.
Lungo
la prima si va verso la pineta della Mortola e la zona dei Balzi Rossi, luoghi
adatti sia per distendersi al sole e fare il bagno, d’estate, sia per una
passeggiata durante le altre stagioni, come in passato, quando eravamo distanza
ad Andora, abbiamo percorso con Adriana
e la nostra piccola “ principessa”. In quel luogo non ci sono indicazioni;
per la pineta della Mortola bisogna parcheggiare tra un tunnel e l’altro e
prendere il sentiero che si snoda sotto i pini; per i Balzi Rossi si raggiunge
il piazzale del valico di frontiera e si prosegue a piedi. Siamo in una zona
preistorica di grande importanza. Fu abitata oltre 200 mila anni fa: nelle
grotte del Balzi Rossi sono stati rinvenuti fossili di animali, resti di
sepolture umane, strumenti di pietra. Un Museo preistorico dei Balzi Rossi
espone i reperti raccolti nei vari scavi, e una passarella permette di accedere
alle caverne che furono abitate 100 mila anni fa. Una delle grotte è di
proprietà dei principi di Monaco.
Se
a Latte si prende invece la strada di Ponte San Luigi, in quattro chilometri si
arriva a Villa Hambury, con i suoi dodici ettari di giardino di
acclimatiziazione in cui prosperano piante di ogni tipo, comprese molte specie
tropicali.
FASCINO
TRA I MONTI .
Val
Nervia e Valle Argentina: due profondi solchi che lasciano la costa e affondano
nel Medio evo.
Attraverso
Ventimiglia si arriva alla strada
provinciale della Val Nervia. La strada presenta subito l’altra faccia del
Ponente: un grande panorama, questa volta di montagna. E’ quello dei monti
Toraggio (1.970 m) e Pietravecchia (2.040 m). E’ la porta dell’entroterra
della Riviera.
In
pochi chilometri si è a Dolceacqua, con il suo vino Doc ( il Rossese) e la sua
uva bianca, che si raccoglie verso
Natale, il castello e il suo ponte medioevale. E’ una classica “ bella
cartolina”, ma non ha nulla di pasticcio. La vita del paese è genuina,
con l’attenzione al buon vino Rossese e all’olio d’oliva, prodotti sulle
colline circostanti. Ricordo che nel 1946, quando sono andato la prima volta,
sono andato per comperare l’olio d’oliva, per poi scambiarlo con il riso nei
paesi di produzione in Piemonte. In quel tempo, non c’era null'altro da fare
che arranciarsi con questo piccolo commercio, se si voleva sopravvivere. Ricordo
inoltre, che durante il periodo della frangitura , l’inverno, capita di vedere
pulire le olive sulla piazza principale, ai margini della provinciale. Nel
centro storico, al di là del fiume, ci sono i classici carugi liguri,
semicoperti di volte e archetti, con quello principale che sale sino al castello
che fu dei marchesi Doria, signori del borgo sino a quando nel 1815 passò ai
Savoia, parentesi napoleonica a parte. Proseguendo sulla provinciale della Val
Nervia, dopo un paio di chilometri si trovano Isolabona e il bivio per Apricale.
Il
paesino.
Il
paesino di Isolabona è come sovrastato da quello che viene chiamato castello, e
che in realtà fu una torre militare (sempre dei Doria), a controllo
della valle. Oggi è sede, a fine luglio, di un interessante Festival
internazionale di musica per arpa.
Digressione
dall’itinerario è Pigna. Fu un paese importante, per ragioni commerciali, ma
anche per motivi militari. Non per
niente il borgo è stato per secoli al centro di lotte tra Ventimiglia, Genova e
i Savoia. Il nucleo storico ( che ha davvero la forma di una pigna, con le case
in pietra costruite su un impianto di anelli concentrici) si apre con una sorta
di portico creato da un insieme di volte, era la Loggia del Parlamento. Dove si
trovano tracce delle attività commerciali del passato: due contenitori in
pietra che servivano per misurare le olive e altre granaglie ( sia per i
commerci sia per le decime). Poco sopra il paese, quasi a sovrastarlo, c’è
Castelvittorio, che nei secoli ha spesso avuto una collocazione politica diversa
da quella di Pigna, per cui gli scontri e le diatribe hanno riempito gli annali
della storia locale.
Da
Isolabona si raggiunge Apricale in un paio di chilometri e di qui è poi
possibile proseguire per Perinaldo, dove si trova anche un piccolo telescopio
astronomico, presso il quale durante l’estate si organizzano serate di
osservazione. La cosa non paia strana: qui nacque Gian Domenico Cassini,
l’astronomo dei Seicento che lavorò alla corte del re di Francia e insegnò
all’università di Bologna, dove progettò la meridiana che si trova sulla
Torre degli Asinelli. Le rete di stradine nell’entroterra di Perinaldo
consente anche oltre scelte: lungo la Val Verbone, si scende a Vallecrosia,
sulla costa, oppure a San Romolo, il cui nome, deformato - come scrive
Fabio Cortesi, in un suo articolo, apparso sulla rivista
dell’Automobile Club d’Italia - dal dialetto, ha dato luogo a “ San
Remo”. Da San Romolo la discesa alla città dei fiori è facile e rapida.
Prima però non va persa di “via degli innamorati” una strada sotto castagni
e conifere, che porta fino quasi a Baiardo, sulla punta di un colle a 900 metri
di quota. Da Sanremo l’itinerario passa alla Valle Argentina. Poco lontano
c’è Arma di Taggia, dove inizia la strada statale della Valle Argentina.
Sulla statale s’incontra poi il lungo ponte medioevale a 16 arcate che
attraversa il torrente Argentina, mentre sul versante
della collina che chiude la valle verso levante spiccano Castellaro e,
isolato, il santuario della Madonna di Lampedusa.
LA
STRADA SI SNODA
La
strada si snoda scorrevole e a circa sei chilometri da Taggia si trova
Badalucco. Ciò che spicca è il ponte di Santa Lucia, del ‘500, con il
sovrastante corpo di guardia trasformato in cappella. Ma il fascino maggiore
della cittadina sta nell’atmosfera dei suoi carruggi, tutti decorati da
murales e ceramiche a vista sui muri delle case, opera di artisti contemporanei,
che quando andai per la prima volta non esistevano, esistevano soltanto i
caratteristici carruggi.
La
successiva deviazione è per Montalto e per Triora. Quest’ultimo è un altro
borgo medioevale ricco di storia. Nei secoli passati, come ci dice la storia,
era chiamato “ il granaio della Repubblica” ( di Genova) per
le sue coltivazioni. Fu anche un importante presidio militare, grazie
alla sua posizione che domina la valle e controlla diverse vie di comunicazione;
il nome stesso è illuminante: tria ora, tre gole. Ma la ragione del suo
rilancio turistico degli ultimi anni è legata a tutt’altro: alle streghe.
Alla fine del Cinquecento vi si tenne infatti un lungo e tragico processo per
stregoneria che, rispolverato qualche anno fa da libri allestimenti teatrali, ha
dato smalto al paese.
Dopo
questo villaggio caratteristico, che affondano radici storiche , passando per la
tortuosa strada per Drego e il passo di Teglia, si raggiunge Rezzo. In cima
a quest’altra meraviglia naturale, c’è il palazzo - fortezza dei
Clavesana, del XVII secolo, non visitabile. Si scende poi la Valle Arroscia, a
meno di due chilometri da Pieve di Teco, da dove si può arrivare al mare per
due strade: una porta ad Albenga, l’altra ad Imperia, mentre da dietro la
chiesa, la strada statale: una strada molto tortuosa
e panoramica, che porta ai famosi Colli di Nava, dove germoglia allo
stato naturale la lavanda. Questi sono luoghi a noi molto noti, perché nel
1947, nella vicina cittadina di Ormea ( Cuneo) abbiamo trascorso i primi anni
della nostra lunga carriera militare nell’Arma Benemerita. Infatti.
Da
Pieve di Teco, scendendo verso valle, con i nuovi tunnel realizzati negli anni
’80 si arriva nella Valle Impero, un mare di ulivi che hanno dato luogo alle
innumerevoli attività industriali legate all’olio. Doveroso, nella zona,
citare Lucinasco. Per la posizione - Lucinasco: dove nasce la luce - e per il
magnifico santuario della Maddalena, in mezzo al bosco. Senza contare che
l’olio locale è tra i più
prelibati. Dalla quiete della Valle Impero, da cui prese il nome Imperia nel
1923, quando furono uniti i comuni di Porto Maurizio e Oneglia, si arriva così
alle propaggini della città. Il via dotto dell’autostrada, che squarcia il
cielo e romba di auto, pare simboleggiare il cambiamento tra le due Ligurie, e
soprattutto , direi ad un’epoca, all’epoca del nostro ricordo, che ormai fa
parte del nostro passato prossimo: all’epoca
a cui fa riferimento il nostro ricordo
di quel lontano 1946.
SANREMO.
In
questo nostro lungo viaggio nella memoria e alla scoperta del ponente ligure,
abbiamo citato per ultima la
Città di Sanremo, non perché ci siamo dimenticati e neppure perché ritenuta
meno importante, anzi, perché l’abbiamo ritenuta una città di grande
importanza turistica , naturalistica e internazionale, ma per chiudere il
cerchio del nostro tour di “ponente ligure”.
La
catena dei monti che parte dal Saccarello e scende a Ventimiglia si dirama ad
est in sette ridenti montagne: Gerbonte, Carmi Bianchi, Verdunno, Ceppo,
Colletazzo, Bajardo e Bignone. Quest’ultima stringe al mare due falangi
bellissime di fertili colline: ad ovest il Monte Caggio, il Pian Carparo e la
Colla; ad est la Costa di S. Zane, la Colpa e il Poggio Calvo, che formano
rispettivamente il Capo Nero e il Capo Verde. Nel centro sorge, bagnata dal
mare, inondata di sole, bella e maestosa
la città di S. Remo.
Si
divide in antica e moderna. Dalla Porta
S. Stefano, si accede al cuore più antico e suggestivo di Sanremo, il quartiere
di Pigna, con case alte, vetuste. Un labirinto di carruggi e scalinate, archi,
case appoggiate le une alle altre. Da girare in libertà alla scoperta di
un’atmosfera antica, con una sosta alla piazza dei Dolori e poi su, fino al
santuario seicentesco della Madonna della Costa, che domina la Pigna e tutto il
golfo. Vi si ammirano ancora gli
avanzi della Porta S. Giuseppe. La moderna invece si estende lungo la spiaggia,
sopra un terreno pianeggiante ed è ricca di monumenti di famose passeggiate
lungo il mare, di ville con giardini coltivati a diverse e rare vegetazioni.
Ha
grandi e lussuosi alberghi, un tempo dimora prescelta da principi e da re, oggi
è frequentatissima
dagli stranieri, che numerosi vengono a chiedere salute e pace al tiepido
clima sanremese.
Bello
è il monumento a Garibaldi di Leonardo Bistolfi e quello ai Caduti della grande
guerra; attraente la chiesa russa con splendide cupole dorate e ricca
decorazione esterna; imponente il Casinò, che per eleganza e frequenza di
giocatori, gareggia con quello di Montecarlo ed è fonte di un notevole cespite,
che da modo al Comune di accrescere il patrimonio di naturale bellezza e rendere
quel soggiorno sempre più delizioso e desiderato.
San
remo è l’antica Matuia dei Liguri; l’Aurora dei Romani; l'incantevole San
Romolo del Medioevo; la San Remo del XIV secolo, così chiamata a causa
dell’eremo e della tomba di S. Remo, ivi esistente.
Storicamente,
San Remo era floridissima al tempo della repubblica genovese e ancor prima che
da questa venisse soggiornata.
Appartengono
al Comune di S. Remo le frazioni di Bussana, Galdiroldi, Poggio, Ponte, San
Bartolomeo, S. Giacomo, S. Lorenzo, San Romolo e Verezze. All’epoca
in cui si riferisce la nostra scoperta, San Remo, era una cittadina
tranquilla come Alassio e Nervi. Non
era stata ancora scoperta dalla grande massa dei vacanzieri italiani e
stranieri. Insomma, non era la San Remo di oggi, con i suoi festival e le grandi
manifestazioni televisive con grossi personaggi della televisione italiana.
Vicino
al Teatro Ariston, c’è il palazzo dei duchi Borea d’Olmo, costruito tra il
XVI e il XVII secolo, con un elegante facciata stile rococò e interni affreschi
da artisti genovesi del Seicento e del Settecento. E’ l’edificio storico più
importante di Sanremo, sede del Civico Museo archeologico.
Per chiudere il cerchio di questa nostra passeggiata sul filo della
memoria, facciamo quattro passi e di fronte a noi si apre la piccola piazza
Bresca, costellata di negozi di pesce e ristorantini di mare. Siamo ormai nella
zona del porto: c’è solo d’attraversare la ferrovia, per giungere sulle
banchine del porto vecchio, costruito dai genovesi nel Settecento e fino a non
molti anni fa adibito a carcere;
sulla sinistra, la passeggiata di Portosole, l’altro scalo sanremese, dove
attraccano i grandi yacht. Si ritraversa poi la ferrovia ( c’è un
sottopassaggio) e si percorre un breve tratto di via Nino Bixio verso est,
arrivando alla fontana dello Zampillo,
che gli amanti del ciclismo conoscono per aver fatto da sfondo all’arrivo di
tante Milano - San Remo. In quella piazza, negli anni Sessanta, in quella
occasione, ho prestato servizio d’Ordine pubblico, in qualità di
sottufficiale dell’Arma, in quel tempo in forza presso il II Btg. CC di
Genova.
Dallo
Zampillo, per via Manzoni, si sale in piazza Colombo, che è il centro
nevralgico della città. Più avanti, nella piazzetta Nota, vi è una lapide che
ricorda lo scrittore Italo Calvino, che ha trascorso la giovinezza a Sanremo.
A
ovest, la passeggiata Imperatrice, costellata di palme delle Canarie, dono della
zarina Maria Alexandrovna. Proseguendo verso est, troviamo Villa Nobel, di stile moresco, dove visse e morì
l’inventore della dinamite.
Di
qui, proseguendo in direzione di Imperia, escursione speciale al nucleo
diroccato di Bussana Vecchia. Distrutta nel 1887 dal terremoto, Bussana è una
città fantasma dal fascino intrigante. Dagli anni Sessanta, si è insediata
nelle case semi distrutte una comunità di artisti e artigiani, e oggi Bussana
è un mix curioso di rovine e arte.
Negli
anni Settanta, con Adriana (fresca di patente) e la piccola “principessa”,
siamo saliti fin lassù con la nostra utilitaria
- Fiat 127 - per ammirare la
“città fantasma dal fascino intricante”. Fu in quella occasione, che ho abbozzato alcuni schizzi
preparatori e dai quali, ho
ricavato alcune litografie, che per la ricorrenza delle festa Natalizie del
1980, ho dato in omaggio alle Autorità
e alle persone più in vista del borgo Medioevale di Gazzuolo, dove per dieci
anni, abbiamo comandato quella stazione Carabinieri.
ANDORA.
No,
non ci siamo dimenticati di questo meraviglioso borgo marinaro, ma abbiamo
voluto chiudere il cerchio del “Ponente Liguria” proprio
con Andora. Non potevamo assolutamente
dimenticarci di questo luogo fantastico e meraviglioso, non solo per le sue
bellezze naturalistiche ma soprattutto perché proprio ad Andora, ebbe i natali
la nostra “ Principessa”.
Nell’autunno
del 1957, dopo il viaggio di nozze, che ci ha consentito di visitare l’Italia
centrale e la Sicilia in particolare, visitando Taormina, Messina e la Costa
Viola con la meravigliosa Reggio Calabria, approdammo da Alessandria, la città
che diede i natali ad Adriana, proprio in questo borgo marinaro, per ragione di
servizio. Infatti, da Alessandria, a nostra richiesta, siamo stati trasferito
appunto nella ridente Andora. Qui,
nel 1959, é nata Tiziana, la nostra “ Principessa”.
Incominciamo
col dire che Andora é formata da un complesso di una trentina di piccole
ridenti borgate, raggruppate in cinque frazioni o parrocchie: S. Pietro, il
capoluogo, S. Giovanni, Rollo, Conna e S. Bartolomeo, disseminate sopra un
territorio ora pianeggiante ed ora montuoso, ricco di olivi, di vigneti, di
foraggi, di legname, di ortaggi e di frutta. Abbondante vi é la pesca.
La
storia ci racconta che nel 967 l’imperatore Ottone I, perdonando alla propria
figlia Adelasia la fuga con Aleramo, assegnava a costui il Marchesato del
Monferrato, al quale incorporava il territorio di Andora, che successivamente
passò al Marchese Teti del Vasto, quindi ai Clavesana. In seguito poi a guerre
fra Genova guelfa ed Albenga ghibellina, i Clevasana, nel 1252, cedettero alla
serenissima il feudo di Andora per otto mila lire genovesi. Così Andora seguì
le sorti di Genova e quindi dei Savoia.
Andora,
prima di essere un feudo
dell’imperatore Ottone, fu una colonia Romana, da dove passava la Via
Aurelia, che portava e porta tuttora verso la Francia. In località Castello, in
quell’epoca romana, sorse oltre al castello fortezza, un villaggio con al
centro una meravigliosa chiesa, non più consacrata, ma che conserva tutte le
sue strutture come allora.
Quando
Tiziana, ha iniziato a fare i primi passi, la portavamo a passeggio su quelle
meravigliose colline, da dove si può ammirare, oltre alla meravigliosa costa,
una vallata stupenda, specialmente nel periodo primaverile quando fioriscono i
pescheti. Si ammirava un fantastico tappeto tutto rosa. Ho detto si ammirava,
si, perché ora non si ammira più, perché il piccolo borgo marinaro di Andora
non esiste più. In quella stupenda vallata, dove fioriva il pesco, oggi vi sono
i mega palazzi, gli alberghi e le ville. Alcuni anni fa, transitando
dall'Autostrada dei Fiori, che con un lunghissimo ed alto ponte, attraversa la
vallata, si ammira soltanto una città di cemento armato. Non c’è più la mia
meravigliosa Andora, quello
stupendo Borgo Marinaro, che ci vidi giovani
e felici sposi e poi amabili genitori.
Potrei
continuare a descrivere il resto della Liguria, con i suoi borghi marinari, le
sue splendide cittadine rivierasche, ma tutto
questo é stato oggetto di altri
interventi, come pure della meravigliosa Genova, che dopo l’esperienza di
Andora, per ragioni del nostro servizio istituzionale, abbiamo raggiunto nel
lontano 1963.
Rimembranze
di un viaggio in una Sardegna aspra, selvaggia e rocciosa, eppure profumata da
una verde vegetazione e dalle spiagge di sabbia impalpabile, o dai bianchi sassi
levigati da un’acqua cristallina, o dagli scogli contro i quali si infrangono
spumeggianti onde e c’è una Sardegna meno conosciuta, ma altrettanto bella.
E’ quella delle bianche strade che a volte seguono il tracciato delle antenate
romane, quelle dei sentieri dei carbonai che, tra cespugli di cisto e mirto, si
inerpicano inesorabilmente sino alla cima dei monti. Qui, dove il tempo sembra
essersi fermato e la solitudine dei pastori erranti è uno stile di vita,
insieme al matriarcato s’impone la realtà artigiana. Che diventa un modo di
esprimere grandi passioni e segreti pensieri.
Subito
dopo Nuoro, sulla strada che ci porta a Baunei e a Santa
Maria Novarrese, incontriamo Oliena, dove scoprimmo
un mondo che, se non tutelato, potrebbe scomparire, così come la civiltà
mineraria dell’isola, ormai “ musealizzata”. Oliena, l’Atena sarda, che
ha dato i natali a tanti personaggi illustri, come il Nobel Grazia Deledda e il
poeta Sebastiano Satta, è un paese di campagna sotto il Monte Corrasi, di
fronte a Nuoro. Tutto il nuorese è famoso per i suoi casi letterari: in passato
Gavino Ledda, pastore - autore di Padre padrone, e Salvatore Setta de il giorno
del giudizio; oggi le storie “ noir” di Marcello Fois, di Maria Giacobbe, e
quelle artistiche di Gavina Giusi.
Come
ha scritto Benedetta Scatafassi, in un suo articolo, apparso sulla Rivista il
“ Carabiniere” del mese di aprile 2001: “Prima del Seicento l’isola era
in una condizione di estrema
arretratezza. Si stava prevalentemente in montagna, vivendo alla stregua degli
animali. Era il tempo dei re e dei servi - pastore, ma era soprattutto il
periodo dell’oscurantismo sardo. Per questo, i gesuiti partirono alla volta
dell’esotica terra per evangelizzare “ i barbari”. Nel 1544 -45 i
missionari sbarcarono, occupando la diocesi di Oliena. Prima un collegio, poi la
foresteria. Con loro iniziò il cambiamento del modo di vivere, cambiò la
mentalità, tranne a Orgosolo e
Mammoiada, terre aspre che rimasero lungamente isolate, e ancora oggi si
presentano diverse dai paesi limitrofi. Orgosolo riuscirà un po' a riscattarsi
per merito del baco della seta, allevato nei gelsi della zona. Tuttora le donne
producono e ricamano il pregiato filato, di cui i fazzoletti del costume sono
esempio concreto. Oliena era stata scelta dai gesuiti per la sua posizione e la
grande quantità di olivastri, più volte innestati dai preti, laboriosi a tal
punto da dar vita alle belle piantagioni oleicole odierne. I gesuiti costruirono
scuole e prigioni, scoprirono Su Gologone e portarono l’acqua di quella
montagne in città, studiarono la zona. E trascrissero tutto nei libri: molti,
purtroppo, venduti a causa dell’incuria dei nostri tempi
La
Barbagia ( in verità sono le Barbagie), costituite da quattro zone montane, è
un’isola tra le isole che compongono la multiernicità caratteristica della
Sardegna, un universo distante, ma pieno di dignità e cultura. L’area del
Sopramonte è la più aspra, e anche quella che appare più violenta agli occhi
estranei. Oggi tristemente famosa per i sequestri, nell’Ottocento lo era per
la guerre leggendarie fra banditi e carabinieri. Due mondi opposti, eppure così
rispettosi l’uno dell’altro, non foss’altro perché carabinieri e
latitanti conducevano e conducono tutt'oggi la stessa vita estrema, tra montagne
coperte di corbezzoli, querce e tassi, nell’aria profumata di mirto, rosmarino
e timo.
Ma
questo universo ai confini della legge ormai rappresenta una minoranza, troppo
spesso pubblicizzata, rispetto a intere popolazioni agro pastorali. In questa
nostra escursione con gli amici del CAI di Mantova, abbiamo potuto constatare
che rare e tortuose strade conducono gli abitanti di Baunei e Santa Maria
Novarresi a un isolamento forzato. Poco, quindi, lo sviluppo
industriale e fortissima la solitudine. A Santa Maria Novarrese, dopo una
lunga attesa si è
incominciato a fare qualche cosa, naturalmente con gli interventi dello
Stato: questi risultati sono visibili con la costruzione di un porticciolo,
laddove non esisteva nulla. A
Baunei, abbiamo visto solo la costruzione del nuovo Municipio. Ma l’uomo, lassù
fra i monti con le sue pecore, la donna nella sua casa, con le sue
arti applicate. Quelle arti considerate “minori”, ma che le permettono di
aspettare l’uomo amato, oggi forse non più solo pastore, ma quasi sempre
lontano.
Dopo
la sosta di una notte a Sassari: una città di provincia quasi nascosta
fra le sue colline, in quella città
anonima, dove venne tenuta segregata Silvia Melis, in una casa nel centro
storico ed a l’ombra del campanile della parrocchiale, dopo la sua lunga
segregazione trascorso in una
grotta del Sopramonte , un vecchio pullman, che si potrebbe definire un residuato
bellico, oppure un pezzo da museo o un mezzo degno di essere soltanto rottamato,
ci ha condotti sul piazzale del Su
Gologone e poi a Santa Maria Novarrese.
Le
colline coperte di macchia
mediterranea sono illuminati solo dal bagliore della luna. A pochi chilometri da
Oliena, che è un paese antico,
parzialmente intatto, con le sue case poste a livelli asimmetrici e le cortes, i
ricordi, ancora pregni di vita di campagna, ai piedi del Supramonte , che da uno
spacco nella montagna affiora un fiume sotterraneo dalle acque gelide, che tra
salici e platani si congiunge al Cadrino, importante fiume che sbocca nella baia
di Orosei. Tra i vigneti di
Cannonau, decantati persino da Gabriele
D’Annunzio, ce appunto la sorgente del Su Golugone, misteriosa fonte
dalla portata cospicua anche in tempi di siccità. Non se ne conosce
l’origine, e leggenda vuole che nasca addirittura dalle Alpi. Di certo, la
fonte ha un’acqua trasparentissima ed è frequentata da trote albine intontite
dal freddo. Dalla sorgente prende il nome l’albergo che si trova a pochi
passi, proprio subito dopo l’ampio piazzale ombreggiato da alti eucalipto,
genere di grandi piante che possono raggiungere anche i cento metri di altezza;
originarie dell’Australia, sono oggi coltivate in molte regioni del nostro
Paese, poiché da esse si ricava un olio usato in medicina come antisettico.
Quelle del piazzale di Su Golugone, sono piante ancora giovane e sono state
piantante per ombreggiare il piazzale, forse nel periodo del fascismo.
Sul
piazzale di Su Golagone, c’erano i
ragazzi Mariano Lai, Antonio Cabras, Gino e
l’altro Mariano della Cooperativa Goloritzé del Golgo, che con grande
professionalità, hanno accompagnato il nostro gruppo sui sentieri del
Sopramonte. Questi intraprendenti ragazzi che, sicuramente tra tante difficoltà,
ti hanno fatto vivere una simile esperienza.
Il
piccolo gruppo dei non escursionisti, dopo
il saluto degli amici del “trekking nel cuore della natura”, come lo ha
definito l’amica Tiziana Vivian, in un suo articolo, apparso sulle pagine
della “Gazzetta di Mantova”, sempre a bordo del vetusto pullman, ci siamo diretti verso Santa Maria Novarrese,
percorrendo la statale che si inerpica inesorabilmente sino alla cima dei monti
e poi percorre costoni e gole profonde: una strada che scende verso
la valle sommersa da oleandri in fiore. A Baunei, ci siamo fermati e
abbiamo fatto uno spuntino, perché l’ora di pranzo era passata da
un bel po' e il nostro stomaco incominciava a reclamare. Questo borgo
antico, è il Capoluogo di Santa Maria Novarrese, che dista pochi chilometri dal
mare.
Baunei,
è un primitivo centro di pastori, deve probabilmente il suo nome al greco
Baynos, fornace per fondere i metalli, dall’uso che di questi si faceva nella
zona.
Secondo
il Lilliu nella zona sembra confermata l’esistenza di una o più officine
artigianali di fusione e di modellazione del bronzo, ad un livello tecnico
elevato. L’accesso naturale dal retroterra alla valle di Golgo avviene
attraverso Genna Arramene ( Porta del rame), e può essere non casuale
l’attinenza con un componente del bronzo, anche se non è da scartare
l’interpretazione secondo cui il rame cui si riferisce il toponino sia il
colore assunto dai monti al tramonto ( in analogia con la Serre Lattine).
In
bronzo, comunque, erano alcune fra le più famose sculture della cultura
nuragica.
La
ss 389 che abbiamo percorso, si diparte appunto
da Nuoro verso sud inoltrandosi nel cuore della Barbagia. Giunta a Fonni gira a
sinistra per l’incantevole passo di Correboi (m.1246) dal quale comincia
un'interminabile discesa. A Lorusei si gira ancora a sinistra scendendo fino
alla piana di Tortolì, il paese di Silvia Melis. Noi abbiamo percorso la
ss.125, che attraversa un vertiginoso andirivieni sulle montagne della zona
orientale fino a giungere a Santa Maria Novarresi. In questo vecchio borgo
marinaro, si possono ammirare l’antica torre e la gigantesca Perda Longa,
Arbatax è alcuni chilometri più a sud con il suo porticciolo e le possenti
Rocce Rosse in eterna lotta con i flutti.
LA
COSTA DI S. MARIA NAVARRESE.
La
costa immediatamente prospiciente l’abitato di Santa Maria Novarrese consiste
in una serie di spiaggette sabbiose, qua e là contornate da scogli fino ai
piedi della scarpata di Sa Cadrea, su cui sorge l’ostello, contraffortato da
brutali murature in cemento a vista, privo cioè di quelle finiture che
contribuiscono ad armonizzarlo con l’ambiente. Costeggiando in barca fino a
Padra Longa, l’orizzonte interno è delimitato dal torrione calcareo di Monte
Scoine (m.674), separato da una sella dalla solitaria falesia di Monte oro
(m.669). Le due emergenze sono collegate alla costa da un insieme di scarpate
cespugliose, solcate da ripidi baccus che da Genna Candela, attraversando le
distese di Masolce e Sa Trempa e su lettu, si gettano a mare in prossimità di
Pedra Lunga.
All’inizio
degli anni Sessanta, Folco Pratesi e Franco Tassi, nella “Guida alla natura
della Sardegna”, a proposito del Golfo di Orosei affermavano che “forse non
c’è altrove nel nostro paese un arco di costa così ampio e così
sconosciuto: 40 chilometri di bastioni e falesie calcaree, appena interrotti qua
e là da poche calette, probabilmente il più bel tratto di litorale italiano in
senso assoluto e senz’ombra di dubbio il più aspro e selvaggio”.
Ancora
oggi, come l’abbiamo vista noi, che non siamo critici e neppure naturalistici,
possiamo affermare che è, indubbiamente, la più selvaggia e incontaminata zona
costiera italiana: inestimabile di paesaggi dalle risorse naturalistiche
assolutamente eccezionali.
L’intero
Golfo, dominato dalla roccia calcarea è formato da coste prevalentemente alte e
strapiombanti su acque profonde, incise e modellate da cadule, forre, grotte e
caverne, in un susseguirsi di salti scoscesi ed elevati da poche decine a
diverse centinaia di metri. E’ questa la parte terminale del Sopramonte di
Baunei, che con un immenso piano
inclinato si protende verso il
Tirreno, flessuoso profilo a palizzata strapiombante nel più limpido e azzurro
dei mari con una sequenza di falesie. Vero e proprio baluardo torreggiante,
interrotto solo da poche e incantevoli spiagge, per di più difficilmente
raggiungibili. Le più importanti, Cala Elune e Cala Sisine, rappresentano la
parte terminale delle omonime cadule, paesaggi eccezionali e tipici di questo
tratto della costa orientale sarda.
Ovunque
siamo stati, abbiamo ammirato una fitta vegetazione, del tutto caratteristica,
con formazioni derivate dalla foresta primaria mediterranea, si afferma
splendidamente lungo tutta la costa, con aspetti fisionomici fra i quali
predomina la macchia foresta, con il leccio dagli esemplari talora monumentali
ed irraggiungibili che possono contare centinaia di anni. Ovunque è presente il
ginepro, dai tronchi antichi e contorti che spuntano tra le crepe della roccia
negli angoli più scoscesi delle falesie, o raggruppato in formazioni a
boscaglia che dominano l’intero Capo di Monte Santo.
Antonio
Cabras, quello che tutti chiamavano l’uomo burbero della Cooperativa Goloritzé
del Golgo, in effetti, è un
giovane molto affabile e senza dubbio si può fare affidamento in ogni senso.
Con la sua Jeep, da Santa Maria Novarrese, ci ha portati nell’altopiano del
Golgo, dove abbiamo incontrati gli amici “caini”, che hanno preso parte al
Trekking. “Quando si arriva a Golgo ed appare la bianca ed antica chiesetta di
S. Pietro con i suoi caratteristici ricoveri per i pellegrini, il forno ed i
maestosi olivastri, si respira misticismo e pace. Però non spiace interrompere
l’atmosfera con una gustosissima “pecora in cappotto” cucinata con patate,
verdure e accompagnata da buon vino locale, finendo come al solito, con un
spiritoso mirto, mentre il giorno prima, si, perché noi, siamo saliti due volte
nell’altopiano di Golgo, ed abbiamo visitato alcuni nuraghi, alcuni privi di
interesse perché ridotti a cumuli di rovine. Di un certo interesse risulta
invece il sistema difensivo dell’altopiano di Margine, anche questo in
prossimità di terreni coltivati per la presenza di discreti suoli e di vene
d’acqua.
Proseguendo
verso nord, oltrepassati i resti dell’ennesima tomba dei giganti, su un
promontorio basaltico dominante il Bacu, ancora un nuraghe di un certo
interesse: Orgoduri, circondato da una fitta macchia e da alberi secolari che lo
nascondono alla vista. Mariano Lai, che ci accompagnava nel nostro giro
archeologico, ci disse che fino a
qualche anno fa era usato come ricovero per
gli animali, da qualche tempo è soggetto ad una campagna di scavo effettuato
d’intesa con l’Amministrazione comunale e Soprintendenza archeologica. Prima
dell’avvio di queste operazioni, nella primavera dell’83, durante un
sopralluogo effettuato con amministratori comunali e un’archeologa della
Soprintendenza di Nuoro era stato
casualmente trovato, a pochi metri dal nuraghe, uno spillone di bronzo,
impreziosito da decori in rilievo, che ha seguito la stessa sorte di tutti i
ritrovamenti archeologici “mobili” avvenuti in questo territorio,
attualmente custoditi al Museo di Cagliari o alla Soprintendenza di Nuoro.
Il
fascino di Golgo però non risiede solo nei nuraghi. In prossimità della chiesa
campestre di san Pietro, infatti, una serie di basse colline, se osservate con
pazienza e occhio attento e, soprattutto, con la giusta luce, denunciano una
conformazione non naturale, ottenuta con filari concentrici di macigni basaltici
disposti a sostegno di ripiani, sui quali non è improbabile che i primi
abitanti del Golgo praticassero delle vere e proprie forme di coltivazioni.
Quello
che ha attirato l’attenzione di Adriana, e non solo di essa, è stata la vasca
delle fucine, dove secondo una leggenda, veniva stemperato il metallo dopo di
essere stato forgiato. Attorno a quella vasca, stazionavano alcuni asini
bianchi, che con i loro cuccioli si abbeveravano. Quelli sono animali molto
docili, tanto che venivano a prendere il cibo dalle nostre mani, evidentemente,
erano abituati dai numero turisti, che ogni giorno arrivano sull’altopiano del
Golgo.
Dopo
la lunga visita, ci è stato offerto il pranzo, ma che pranzo! Sul tavolo
rustico, fatto di legno di ulivo, faceva bella mostra di se, un porceddu allo
spiedo, vino Cannunao e dolcetti sardi.
Come
recita un antico proverbio cinese: “tutto bene quello che finisce bene, e
l’ultimo chiude la porta”, perché , come diceva Antonio Cabras, da queste
parti l’ospite e sacro e non deve
essere disturbato da nessuno.
“Dopo
sette giorni di villeggiatura, in quella terra selvaggia e meravigliosa, si ha
la netta sensazione di rituffarsi nel solito mondo di tanti problemi, ma si è
consapevoli di aver vissuto una indimenticabile avanza con i cari vecchi e nuovi
amici del Cai”.
In
un altro contesto letterario, abbiamo descritto quelle località in modo
particolareggiato, che descrive e tiene conto dei più piccoli particolari che
abbiamo riscontrato e che erano degni di essere citati. In quest’intervento,
sulla scia dei ricordi, ci siamo soffermati sulla parte storica e geologica di
quell’antica terra chiamata Sardegna.
Stuoie,
gioielli e antiche contaminazioni.
Ma
non si può parlare di Sardegna senza parlare di tappeti: stuoie annodate di
colore naturale, a volte con aggiunta di celeste o di rosa. La stuoia è così
antica da ritrovarsi anche in alcuni nuraghi; però, come la intendiamo oggi,
nasce solo cinquant’anni fa, quando la Regione decise di promuoverla fuori
dell’isola: A quei tempi il 90 per cento dei sardi e non solo dei sardi, ma di
buona parte delle popolazioni delle altre regioni del nostro Paese, specialmente
nei borghi antichi e nei piccolo paesi di campagna, viveva in tuguri, senza
mobili, con la cassapanca che fungeva sia da dispensa che da armadio e la massa
dormiva su stuoie colorate, sui fienili e in caverne con gli animali domestici,
coperta da vesti d’orbace e pelli di pecora. I colori che si ritrovano nelle
stuoie sarde ( sebbene quelle antiche prediligano il nero, il senape e il rosso
cremisi) sono quelli di un’isola famosa per i suoi contrasti: il mare, i monti
e soprattutto i fiori, che tingono il territorio di giallo e di viola. Tra i
motivi ricorrenti: pavoni, eclissi, rose, spighe, alberi della vita, motivi
presi dalla cultura greco - bizantina, che dominò per qualche secolo l’isola.
Il tessuto barbaricino, comunque, non ha le preziosità del vicino cagliaritano,
più opulento e ostentato. La ricchezza cagliaritana vede l’apice nella scuola
orafa realizzata da Filippo III, re di Spagna, agli inizi del Seicento.
Nonostante
si dica che i sardi abbiano sempre cacciato gli invasori, moltissime sono ancora
le contaminazioni. Le troviamo nei tappeti, nelle cassepanche, nei gioielli,
nella lingua, ma soprattutto nella testa della gente, che in verità, notizia
confermata poi dagli storici, cacciò gli invasori contro la propria volontà.
L’oro facevano capire da che famiglia si preveniva, ma comunque tutti lo
avevano sui bottoni per l’abito; solo i più poveri ricorrevano all’argento.
Infine,
la ceramica, che tutti pensano faccia parte della tradizione locale. In realtà
la produzione fu introdotta nel 1963 dall’Aga khan, e principali ispiratori
furono tre architetti francesi, che si rifecero a motivi tradizionali sardi. Purtroppo non c’è sviluppo
artistico nei tappeti. Oggi si ripropongono ancora i disegni dell’antichità,
e domandandone a un esperto il motivo, ci risponde: “ La nostra è sempre
stata una società molto simile a quella africana. Ogni volta che c’era una
novità, saltavano in piedi i vecchi, autorità indiscusse, che dicevano: questo
non lo abbiamo mai connottu, conosciuto, dunque è alieno. Neanche la tutela
dell’artigianato sardo ha portato alla promozione di nuovi disegni, ma ci si
augura che l’attenzione dei forestieri possa portare novità, superando gli
antichi tabù.
I
secolari olivastri, le brughiere del Sopramonte e dell’altopiano del Golgo,
come pure la macchia mediterranea e le impervie coste, con le sue caverne e le
antiche borgate in pietra e le aperti panorami dall’interno sul quel mare che
continua a cambiare colore di minuto in minuto e ci regala dei tramonti meravigliosi su quel mare cangiante...
In queste immagini è l’essenza di quella
antica terra chiamata Sardegna. Tutte quelle ricchezze paesaggistiche che una valle povera nasconde nelle
pieghe dei suoi valloni rocciosi e impervi,
che attendono di essere capite ed apprezzate dagli intenditori e degli
amanti della natura.
Onde
blu, coni neri, faraglioni, piccole spiaggette e mille fiori, queste sono le
isole del vento: le isole del dio Eolo. Sono rimaste come le vide Ulisse, da
allora non è cambiato assolutamente nulla, ecco perché sono meravigliose ed
invitanti.
Il
titolo stesso di questo contesto letterario, ci ricorda che stiamo parlando di
ricordi di ieri e di oggi, perché
noi, come ha scritto qualcuno, viviamo di ricordi e di rievocazioni. Si, è
vero, ma di fronte a montagne vere
come le Dolomiti, le Alpi, l’Etna, Aspromonte e il Sopramonte; le Eolie sono
poco più che scogli, ma che scogli! Sono gioielli di grande valore, disseminati
in un mare di un blu turchese e cangiante.
Questi luoghi mitologici e incantati, hanno destato in noi
grande impressione per le loro rare
bellezze; queste impressioni, li abbiamo riportati in un altro contesto
letterario, ma oggi, non possiamo fare a meno di non ricordare, sia pure
brevemente, quell’esperienza unica.
Non
si tratta di un
allotropo o di una ripetizione. E’ una rivisitazione, è come rileggere
criticamente i testi di uno scrittore, di un poeta, o anche un periodo
culturale, storico, ma vuol essere anche una rievocazione di quei luoghi meravigliosi, perché ogni volta, nei meandri
del nostro cervello, emergono nuovi ricordi e nuovi impressioni e allora, senti
il bisogno di ritornare indietro con la memoria nel tempo.
Così,
un mattino del mese di giugno dell’anno scorso, sotto un cielo privo di
nuvole, le prime luci dell’alba
di colore rosato che assume il cielo a oriente, immediatamente prima del sorgere
del sole, ci ha colti sulla tolda della nave traghetto, che da Napoli ci portava
a Lipari. E’ meraviglioso osservare i primi raggi del sole con i suoi riflessi
sulle onde di quel mare blu cupo, con all’orizzonte lo spettacolo della luce,
che da prima gialla e man mano che il sole saliva diventava rosa e poi rosso
fuoco. Per un momento, mi è sembrato di ammirare un quadro del Settecento
veneziano, dipinto di Canaletto o di Carlevaris, ma quella non era la
Laguna veneta, ma l’isola di Stromboli con Strombolicchio ed in cima alla
montagna, usciva un filo di fumo del “Gigante fumante” dei miei sogni di
fanciullo.
Dopo
due ore circa di navigazione, davanti alla prua della nave distinguevamo Lipari,
l’isola principale del piccolo arcipelago, che si stacca da Vulcano, mentre
alle nostre spalle emergevano le forme regolari di Salina. Lontane alla nostra
sinistra Panarea e Stromboli, che da poco avevamo superato e, nei pressi
Alicudi e Filicudi.
Appena
siamo scesi nel porto ci è venuto
incontro Francesco, biondo normanno sorridente ed estroverso. Non ha avuto
nessuna difficoltà di individuare il nostri gruppo, non essendo certamente
usuale lo sbarco a Lipari di una sessantina di mantovani curvi sotto il peso di
grossi zaini, borsini e piccole valigie, con gli scarponi legati allo zaino, e
poi, c’era il nostro presidente Sandro Zanellini, che conosceva Francesco.
Il
giorno successivo, svegliati dallo sfavillio di infiniti riflessi sulle
increspature del mare, ci avviamo con spirito molto turistico verso il
porticciolo, dopo di aver attraversato le piccole stradine della cittadina
dell’isola. Senza alcuna fretta ci accomodiamo ai tavolini dei bar affacciati
sulla piazzetta del piccolo porto per una ricca colazione con spremute fresche,
cornetti alla panna, caffè e brioche. Quindi facciamo conoscenza con la
Celentano, il battello che ci porterà sulle altre isole.
Il
mare era liscio come una tavola, il Celentano ci ha portati a Filicudi,
affrontando la traversata più lunga. Costeggiamo sotto le cave di pomice che,
bianche come neve immacolata, evocavo un ripido nevaio che scivola nel profondo
blu del mare. Francesco e don Ciccio, quest’ultimo un vecchio lupo di mare e
dai suoi lunghi trascorsi sui mari del Sud America e dell’Argentina, ricordano
il gioco ormai vietato dello scivolo su quelle ceneri impalpabili, fino a
tuffarsi in mare. Il mare aperto,
per quanto benevolo, seleziona il gruppo dei lupi di mare, tranquillamente
seduti sotto coperta, il gruppo degli oziosi, sdraiati sul ponte come lucertole
al sole, ed il gruppo dei sedentari e delle donne, che sempre più pallide,
misurano il lento trascorrere del tempo nell’impaziente attesa dell’attracco
succhiando fette di limone. A questa categoria faceva parte Adriana mia moglie,
Maria Artusi, Inge la signora tedesca, trapiantata a Mantova da moltissimi anni,
ma che non ha ancora perso il suo gutturale accento tedesco.
Dopo
una lunga navigazione, sotto la brezza di un venticello grecale che spruzzava le
piccole onde sulla prua della barca, con grande piacere e con la gioia delle
nostre donne, mettiamo piede su quest’isola tuttora appena sfiorata dal
turismo. Ci siamo divisi in piccoli gruppi. Adriana, Maria, Inge ed io,
subito iniziamo a salire lungo una mulattiera a picco sul mare, che ci
mostra le sue colorate trasparenze, tra grandi agavi e piccoli borghi di bianche
casette immerse in un esplosione di colori e profumi. Con passo lento da
turista, raggiungiamo la piccola sella che divide Fossa delle Felci, il
principale cono vulcanico dell’isola, dalla Montagnola altro rilievo di
evidente origini vulcaniche. Proseguendo il sentiero verso sud, ci immettiamo in
una piccola pineta, al centro della quale c’è l’ultima villetta bianca,
costruita proprio sul precipizio. Guardando in avanti, siamo nuovamente
abbagliati dai mille riflessi blu del mare che bagna la costa sud. Siamo soli,
mentre il grosso del gruppo, dopo di aver raggiunto la cima della montagna, con
un altro sentiero, ci ha raggiunti e
superati. Un poco più avanti, il sentiero li ha condotti giù sulla spiaggia,
seguendo il sentiero delle capre, dove si sono tuffati in quel mare meraviglioso
dai mille soffioni che sgorgavano dall’acqua.
Da
quel balcone panoramico, da dove l’occhio spazia nell’immensità del mare,
che fa da sfondo in lontananza, il meraviglioso Stromboli con il suo pennacchio
di fumo grigio che si disperde nell’aria. Scendiamo quindi verso Pecorini,
dove il nostromo e Francesco hanno portato la barca, lungo le scalinate che si
snodano tra le tipiche case eoliane, piccoli cubi bianchi affacciati sul mare
attraverso terrazze coperte da pergolati sostenuti da colonne rotonde come
quelli che recintavano la villa sulla cima del colle, immersa fra
i pini e più in baso, fra gli ulivi, il mirto, le agave e i cespugli di
capperi, che germogliano fra i muretti a secco del costone.
Il
paese è sdraiato sul fianco della montagna, che arriva a toccare la spiaggia.
E’ un paese pressoché deserto, l’attraversiamo in una dimensione che sembra
priva del tempo. Si, è vero, il tempo da quelle parti, si è effettivamente
fermato ai tempi di Ulisse prima e dei greci
e romani dopo. Vicino alla spiaggia nera, due muli ed un asino bianco, ci
vengono incontro, ci leccano le mani in cerca di cibo. Una donna ancora giovane, avvolta da un velo bianco, ci
offre dei fioroni: i primi fichi
che maturano nel caldo sole dell’isola.
Sulla
barca “ Celentano”, raggiungiamo la Canna di Filicudi, esile dito di roccia
rossa su uno sfondo blu turchese. A proposito di quella punta di roccia rossa,
il nostro amico Zanellini, l'organizzatore della gita alle Eolie, ha detto: “
Questa punta, sarebbe adatta per una vertiginosa arrampicata sospesa tra cielo e
mare.
La
Celentano, ha puntato la sua prua verso Lipari, che ci ha regalato un
meraviglioso ed emozionante e
variopinto tramonto tra i
faraglioni.
SALINA:
E’
l’isola più verde dell’arcipelago Eoliano, famosa per il suo nettare: il
malvasia. Enrico Bruschi, scrivendo di quest’isola, l’ha così definita:
“L’isola, vista dal mare, con i suoi due regolari coni vulcanici separati da
un seno, ha veramente un aspetto sensuale, che evoca la fertilità. Questa
impressione si trasforma in realtà nel fitto mantello verde che copre
l’intera isola, la prima ad aver cessato l’attività eruttiva”.
La
barca Celentano, pilotata da Luigi, un verace napoletano trapiantato da molti
anni in queste isole meravigliose che il dio Eolo, ha disposto una ad una al
loro posto giusto: sono le perle preziose che ha staccato dalla sua collana ed
ha disseminato in questo bellissimo mare cangiante e profondo. Siamo sbarcati
nel piccolo porticciolo di Santa Marina, da dove una strada carrozzabile
si inerpica subito ripida. Le numerose donne, che componevano il piccolo gruppo,
hanno optato per salire con la piccola corriera che porta fino al Santuario e
negli altri piccoli borghi barbicati nei costoni. Dapprima, partendo dal piccolo
piazzale del porticciolo, attraversa le case, poi tra vigneti, infine raggiunge
l’altopiano dove è ubicato il Santuario dedicato alla Madonna. Il nucleo
maggiore del nostro gruppo raggiunge la cima, la più alta dell’arcipelago:
con i suoi 962 metri, che per alcuni di loro, come ci ha suggerito l’amico
Carletto Borghi, che oltre ad una ottima guida, è il cineasta del CAI di
Mantova, ha rappresentato una specie di Everest.
Nel
cortile del Santuario, una fresca fonte miracolosamente presente, mitica la sete
dei pellegrini e di noi escursionisti, o meglio dire turisti meccanizzati. Di
lassù, si può ammirare un panorama meraviglioso, un panorama mozzafiato, dove
l’occhio spazia tra cielo, terra
e mare. Ritornati a Rinella, dopo un tonificante bagno in un mare trasparente e
cristallino, abbiamo consumato il nostro cestino da viaggio, davanti al piccolo
e ombreggiato bar. Nelle prime ore del pomeriggio, partiamo in barca per Pollara,
costeggiando la parte più selvaggia dell’isola che, ripidissima, cade in mare
interrompendo il suo verde mantello con profonde spaccature di roccia. Dalla
suggestiva spiaggetta sovrastata dall’incombente parete di arenaria e
di rosso basalto, dove Neruda ritrovava la solitudine, una scala scavata nella
roccia porta in breve alla casa resa famosa da “ Il postino”, che evoca
l’atmosfera sognante di questo film di Troisi con la meravigliosa e
conturbante Cucinotta . Quello è un villaggio
da dove l’occhio spazia fra cielo e
mare, e dove, molti attori del cinema, si sono costruiti la villa, per
vivere il loro tempo libero, fra quella meravigliosa natura aspra e selvaggia,
lontani dal caos delle nostre invivibili città.
VULCANO:
LA
FUCINA DEGLI DEI.
In
meno di mezz’ora la Celentano, ci ha portati a Vulcano, in questa sorta di
girone dantesco. Appena sbarchi in quest’isola sacra agli dei, sei investito
dall’acre odore di zolfo. Subito dopo l’imbarcadero, dietro la montagnola
gialla, costituita da minerali di zolfo, raggiungiamo uno stagno fangoso dove,
immersi come ippopotami, stanno vecchi,
donne e bambini, che ne escono completamente grigi di fango curativo e come le
tartarughe vanno dritti verso la vicina spiaggia che ribolle di getti di acqua
calda. Alcuni del nostro gruppo si sono immersi e subito confusi con la massa eterogenea di gente di diversa
nazionalità. C’era un brulichio confuso di vari linguaggi: gente venuta da
chi sa dove. Provata l’esperienza di questi bagni singolari, per un lungo
tratto, seguiamo il gruppo degli scalatori che si dirigevano verso il grande
cono vulcanico rosso - giallastro percorrendo una stradina immersa nei fiori:
dai canneti che costeggiano la strada emergono profumati grappoli di bellissime
rose. La vegetazione lussureggiante finisce improvvisamente contro il ripido
fianco vulcanico, tagliato in diagonale dalla linea retta del sentiero battuto
da un sole impietoso ed è stato
allora. che il nostro piccolo gruppo, ha desistito
di proseguire. Abbiamo salutato gli amici e siamo ritornati nel piccolo
villaggio, costituito da bellissime villette infiorate. Nella vallata , poco
distante del centro abitato, si intravedeva la villa di Mike Bongiorno e più
oltre altre ville di attori noti.
Da
quella distanza, potevamo osservare il fumo che usciva da fessure
incrostate di gialle concrezioni sulfuree. Si vedeva benissimo che lassù non
esiste vegetazione. Una desolata montagna di pietre laviche circonda il cratere
ellittico. In attesa dei nostri amici escursionisti, ci siamo diretti verso la
spiaggia nera e dopo un rinfrescante tuffo in quelle acque limpide, ci siamo
crogiolati al sole. Quando abbiamo lasciato l’isola di Vulcano, il sole faceva
capolino tra una nuvoletta e l’altra. Sulla via del ritorno, Francesco ci ha
fatto scoprire i mille volti dell’isola di Lipari: infatti, la barca ha
circumnavigato il perimetro di questa stupenda isola, facendoci scoprire
gli angoli più belli e caratteristiche, con i suoi faraglioni, falesie,
spiaggette, dirupi e persino la costa con le fasce un tempo coltivate. Nelle
vallette della montagna, si scoprono piccole case bianche e piccoli poderi
coltivati ad oliveti e vigneti. Quando la barca è entrata nel porto di Lipari,
il sole stava tramontando dietro le colline, offrendoci un meraviglioso tramonto
sul mare.
LE
CAVE DI POMICE.
Il
giorno successivo, Francesco e la sua ciurma, ci consigliano una breve
escursione. Ci ha consigliato l’escursione alle cave di pomice dove, ricorda,
fece la comparsa nel film “ Caos” dei fratelli Taviani. Anche qui i
contrasti sono fortissimi: il blu intenso del mare si infrangeva su di un
candido pendio, interrotto da complicati impianti da archeologia industriale.
Vedendo quella montagna bianca, ti dava l’impressione di vedere un grande
ghiacciaio dolomitico con grandi seracchi. Gli scarponi affondano ad ogni passo
in questa polvere bianca. Dal bianco accecante balenano qua e là scintillanti
riflessi neri. I raggi del sole rimbalzano sui blocchi di ossidiana, la famosa
pietra lavica dalle nere trasparenze cristalline, tanto tagliente da essere
utilizzata nell’antichità anche per costruire i bisturi.
ALLA
SCOPERTA DELLE ISOLE MINORI.
Prima
della serata più importante , quella della salita allo Stromboli, abbiamo
effettuato un lungo giro in mare , alla scoperta delle isole e isolette che
vengono chiamate le isole minori dell’arcipelago eoliano, che poi non sono
altro che caratteristici spuntino di roccia, piccole cale e caverne posti come
tante pedine in mezzo a quel mare
azzurro e profondo. Quelle isole e isolette, che per la loro costituzione, non
sono mai state abitate dall’uomo e si trovano nell’estremo sud, da dove si
può osservare in lontananza l’isola di Ustica. Ma Ustica non è quel punto
isolato nel mezzo del basso Tirreno? Chi la conosce potrà ribattere che mi sto
confondendo con qualche altra isola: io invece dico che in quel puntino, che
allungo ho osservato dalla prua del “ Celentano”, di qualche
chilometro di superficie camminare è possibile ed è sicuramente pure bello.
Francesco, parlando di quell’isola,
mi diceva, che è priva di ogni fonte di contaminazione e eutrofizzazione e
mantenere una situazione simile è dovere del nostro Paese E’ da anni così
che Ustica, i suoi mari e le sue coste fanno parte di un’area protetta, la
Riserva Naturale Marina ma non è tutto. Là dove questa termina con i suoi
confini, inizia la Riserva Naturale Orientata, con aree contornate
e dedite al ripopolamento faunistico. La maggior parte di noi, la
conosciamo soltanto per il disastro aereo di alcuni anni fa, dove perirono
moltissime persone, per cause che non sono date a sapere, ma comunque, dietro
quelle morti, vi è una cortina di ferro, un muro di gomma da dove rimbalza e si
attenuano le vere cause e responsabilità. Si, perché, vi sono molte
responsabilità e altrettante coperture , deviazioni ed omissioni da chi sa, ma
che per ovvie ragioni non può parlare. Lasciamo questo annoso problema a chi di
dovere e, noi ritorniamo alla nostra escursione sulle isole eoliane, che sono la
perla del Tirreno.
LO
STROMBOLI
Questa
bellissima Isola, con il suo impressionante
“ Gigante fumante” che la caratterizza, in questo nostro viaggio
escursionistico, l’abbiamo vista tre volte: la prima volta si è presentata
con la sua veste più bella, illuminata dai primi raggi del sole nascente. La
seconda volta, è incominciata con una sorpresa: Francesco ha sostituito la
Celentano con la potente “ Regina dei Mari”, più adatta ad affrontare il
mare spesso burrascoso di Stromboli, che con la sua forma circolare, non offre
punti d’approdo protetti, con la quale nelle
prime ore del pomeriggio l’abbiamo circumnavigata . Alla fine del nostro
viaggio esplorativo, che è stato molto bello e nello stesso tempo
interessantissimo, siamo sbarcati sull’isola, dove sbocciò e si concretizzò
l’amore di Roberto Rossellini con la bellissima attrice svedese Ingrid Bergman,
dove ha girato il fil Stromboli,
nel 1950.
Lo
sbarco nel piccolo porto di Stromboli dal barcone sbattuto dalle onde dà un
senso di precarietà che ci abbandona solo quando posiamo i piedi sulla terra
ferma. Sul molo, vediamo tante bancarelle colorate, che ci affrettiamo a
comperare le magliette con la scritta “ Stromboli”, per gli omaggi a parenti
e amici. Per la prima volta in queste isole dell’arcipelago, ad eccezione di
Lipari, vediamo una pattuglia dei carabinieri, che presenziano l’arrivo dei
natanti e poi si allontanano con la loro piccola macchina a batterie: una di
quelle macchine che adoperano gli albergatori per trasportare i turisti e i loro
bagagli. Oltre a queste piccole macchine, sull’isola non ci sono altri mezzi
di locomozione, perché non esistono strade, ma ripidi viottoli del
paese tra bianche casette
affacciate su uno sfavillante mare blu con la lunga spiaggia nera fino a
raggiungere l’ampia sterrata che porta all’Osservatorio di Punta Labronzo .
Attraverso questi vicoli stretti, ombreggiati da basse piante d ‘ulivo, fico
d’India e fiori, si giunge sul piazzale della Chiesa, che è un vero balcone
panoramico su quel mare infinito.
La
maggior parte dei nostri amici, con zaino a spalla, casco e bastone, si avviano
verso la stradina, che da dietro la chiesa, porta all’Osservatorio. Da qui il
sentiero, inizialmente ben lastricato, si fa sempre più ripido fino al vertice
del vulcano. Quelli che non abbiamo preso parte alla scalata del “Gigante
fumante”, siamo rimasti seduti sulla terrazza del bar, per gustarci, oltre al
meraviglioso paesaggio, anche un ottimo gelato alla frutta.
“
La Regina dei Mari”, fece ritorno al porto di Lipari, ed al suo posto, c’era
ad attenderci la “ Celentano”.
Quando il sole è tramontato, ci siamo allontanati dal villaggio e la barca ci
ha portati a largo, per assistere all'evoluzione notturne del Vulcano. A bordo,
troviamo un’ottima spaghettata e l’emozione dell’avvicinamento alle bocche eruttive del vecchio e ruggente vulcano. Alle
nostre spalle il sole incominciava a nascondersi dentro un mare che cambia
colore di minuto in minuto, e s’incominciava ad
intravedere gli spruzzi di fuoco che uscivano della bocca del vulcano,
ogni 20 minuti precisi. Il vulcano non si sbagliava mai, era ed è sempre
puntuale con i suoi fuochi d’artificio. Eravamo tutti in piedi sulla
tolda della Celentano, eravamo incollati
davanti a quella montagna incantata, che con
lo sguardo seguivamo le
sue evoluzioni sempre più interessanti e pensavamo ai misteri della vita.
L’ultima
volta che abbiamo ammirato quel “ Gigante fumante”, fu nel viaggio di
ritorno, mentre la nave traghetto scivolava dolcemente su quel mare mitologico
alla volta di Napoli.
Nello zaino di ciascuno di noi c’era qualcosa: c’erano un po’ dei
profumi e dei sapori di questa terra meravigliosa delle Eolie: la malvasia , i
profumati limoni ed i famosi capperi di Salina. Ma nei nostri occhi e nel nostro
ricordo, ci sono le bellezze e le meraviglie naturalistiche di quei luoghi che
ci hanno stregato, affascinato e sedotto come lo sguardo di una bellissima
donna.
Viaggiando
lungo Po, il fiume più grande del nostro Paese, oltre ad aver scoperto
“angoli verdi”, borghi dal
sapore antico, alti campanili che
svettano e si confondano nelle immense
pianure della bassa Padana, abbiamo compreso che il Veneto, non è soltanto una
regione dai colori velati dalla nebbia, ma è un susseguirsi di panorami
incantevoli e sensazioni suggestive, quasi al limite dell’irreale.
La
bianca e moderna motonave, che è salpata dal borgo antico di Boretto, naviga
dolcemente lungo il serpentone del vecchio
fiume, scorrendo nell’immensa pianura e descrivendo meandri e ampie curve,
fino a sfociare nell’ampio Delta nell’inquieto Adriatico.
Questa
è la terra dei lunghi argini, contrargini, golene, pioppeti, casolari sparsi e
cascine, dalle perenni alluvioni, di infiniti canali e di paludi, ma è anche la
terra di un’antica miseria. E’ la terra di scrittori, pittori e
traghettatori di gente e di animali, di accaniti agricoltori in perenne
conflitto con il grande fiume, ma nonché di
pescatori di frodo. In questi luoghi si ispirato Guereschi, che ha
scritto la commedia senza fine di
Peppone e don Camillo, ma anche di Bacchelli, che ha girato e scritto il suo
film più bello: il Mulino del Po, ove racconta una storia del Novecento, una
storia di altri tempi, i tempi appunto della miseria e della povertà. Sono i
luoghi delle interviste, dei lunghi documentari e reportage
postbellici, girati e commentati da
Mario Soldati, che l’ha percorsa in lungo e in largo, raccontandoci la storia
e nello stesso tempo la miseria di un popolo
in continua lotta con il grande fiume.
Questo
lungo e impetuoso fiume, attraversa molte regioni, iniziando dal Piemonte
ed avendo fine sul delta, mischiando le sue acque con quelle salmastre
dall’Adriatico, attraversando paesaggi dolcissimi fatti di argini e sentieri
solitari, di vegetazione pressoché unica, di angoli pittoreschi e suggestivi
che caratterizzano il paesaggio fino alle valli di Comacchio.
Quando
la nave bianca è transitata da Ferrara, il sole era alto nel cielo e illuminava
i campi fertili, coltivati a granoturco, cereali, vite, frutta e barbabietole.
Quello è un paesaggio unico e meraviglioso ed osservato dalla tolda della nave,
assume una caratteristica particolare non consueta, ma che si differenzia dagli
altri percorsi sui sentieri che
fanno parte delle abitudini quotidiane degli
escursionisti della domenica.
Seguendo
le varie insenature del grande fiume, il paesaggio verso l’orizzonte é
immerso nel grande mare verde dei
rigogliosi campi, canneti, pioppeti e qua e là, si vedono spuntare e
punteggiare nella grande pianura soltanto la
cuspide dei campanili gotici. Sono pochi qui, gli elementi salienti del
paesaggio: pare di trovarsi in un deserto d’acqua, dove i villaggi e i
campanili sembrano quasi dei miraggi, dove il gioco delle maree crea
“barene” e dove l’uomo si limita spesso a costruire “casoni” di
paglia, effimeri come la terra che li sostiene.
Stiamo parlando del Delta
del Po. Solo 2000 anni fa questo paesaggio non esisteva: il Mare Adriatico si
spingeva alle porte di Comacchio e la sua costa, quasi rettilinea, giungeva sino
a Contarina. Adria era un attivo porto fluviale molto vicino al mare e
l’intrico di “valli” e canali, sacche e isoloni cominciava appena a
delinearsi. Ci troviamo di fronte a una terra relativamente giovane con il suo
fronte marino sempre più in evoluzione. Il paesaggio sembra monotono: solo i
filari degli alberi e, come abbiamo detto poc'anzi, le cuspidi dei campanili
interrompono la linearità degli orizzonti. Noi, che veniamo dal mantovano, non
siamo abituati a queste bellezze, a queste meraviglie create dalla natura in
migliaia di anni, e tutto questo, ci appare come un altro mondo e con un’altra
dimensione: una dimensione apocalittica, fatta di isole, isolette, canali e
lagune, con al centro Porto Tolle. Questo paese, sviluppatosi proprio a ridosso
del Po, è stato più volte danneggiato dalle inondazioni del fiume. E’ noto
per la fucilazione, ad opera degli Austriaci di Ceceruacchio, del figlio
tredicenne e di altri sei compagni (1849). E’ base per visite naturalistiche
al Delta del Po. Un distinto signore, un escursionista come noi, con il pizzetto
bianco e i capelli lunghi alla bohémien: una di quelle persone che conducono
una vita libera, stravagante di artisti o letterati che per scelta rifiutano di
accettare l’ordine sociale, sentito come conformismo, ci ha detto, che a Porto
Tolle, é allestita una raccolta di oggetti legati alla pesca e al mondo
contadino, degna di essere vista. Ma noi, quella mostra, come anche tante altre
cose molto interessanti, non li abbiamo potuto visitare, comunque, è stata
un’ottima indicazione, di cui ne terremo conto.
Ascoltare
le persone di qualunque estrazione sociale essi siano, fa parte della nostra
indole, della disposizione e dell’inclinazione del nostro animo e della nostra
natura, quindi, parliamo volentieri con tutti. Dopo il distinto bohémien, nel piccolo bar della motonave,
incontriamo il Signor Gino Colombo:
un anziano come noi di Milano, ma innamorato
delle valli di Comacchio, e quando può, lascia la città caotica e si rifugia
da queste parti. Parlando del Po e dei lidi ferraresi, ci ha indicato
un'itinerario, che parte da Ferrara e arriva appunto a Comacchio. Il Signor
Gino, continua dicendo: “In questi 140 km. di strada, ci sono
un’infinità di cose belle da vedere.
Tralasciando gli arcinoti monumenti
di Ferrara, prima di arrivare ad Argenta ci si imbatte nell’oasi di Campotto,
costruita dalle residue valli d’acqua dolce di Campotto e Santa, dove il
paesaggio dolcissimo è punteggiato da grandi distese di ninfee. Le visite
all’oasi sono ammesse dal 1’ aprile al 30 novembre ( giovedì e domenica);
il permesso va richiesto al comitato di gestione presso il Comune di Argenta
Proseguendo
sulla statale Adriatica fino a san Biagio e deviando poi per
Filo, Longastrino e Anita, s’imbocca l’argine Agosta, ampio e
solitario, che corre tra la valle Fossa di Porto e le terre bonificate del
Mezzano. Anche a Fossa di Porto c’è un’oasi, animata da oche selvatiche e
folaghe, che vivono tra canne di palude e ciuffi di giunco. Attraversando le
bonificate valli Pega e Trebba, prima di arrivare a Comacchio si percorre la
zona archeologica della città etrusca di Spina”.
Con
piacere, ne abbiamo preso atto delle sue preziose indicazioni, per un’altra
eventuale escursione in un prossimo
futuro.
COMACCHIO.
Dopo
la sosta al porto di Comacchio, dove il nostro gruppo si apprestava a scendere,
la bianca motonave fluviale, riprendeva la sua corsa, puntando la prua verso
Venezia. A si, Venezia, la meravigliosa città dei sogni, la città per
eccellenza degli innamorati, l’antica Repubblica marinara dei Dogi. Questa
città meravigliosa ci ricorda bellissime giornate trascorse fra laguna,
isolette, calli, piazze e monumenti.
Dall’alto del Campanile di Piazza San Marco, avevamo sotto gli occhi il
più celebre e il più bello tra tutti i paesaggi urbani. Il bacino di San Marco
si stendeva davanti a noi. A sinistra, la riva degli Schiavoni che conduce
all’Arsenale, protetto da tutte le sue belve di pietra, asimmetriche oltre
ogni dire: tre da una parte, una sola dall’altra. In lontananza si distingueva
l’isolotto degli Armeni che Lord Byron, malgrado il piede zoppo e forse
proprio a causa di esso, un tempo si ostinava, come ci ha raccontato la nostra
guida, rabbiosamente a raggiungere a nuoto, e, dietro ancora, il
Lido, dove in estate delle tende a righe nascondevano le merende, le sieste e
spesso gli amori dell'aristocrazia dei bagnanti. Guardando dritto davanti a noi,
avanguardia della Giudecca, l’isola di San Giorgio innalzava il suo alto
campanile di fronte alla Piazzetta e alle due colonne sormontate dall'effigie di
san Teodoro e del leone di san Marco. A destra la Dogana marittima e la chiesa
della Salute, monumento propiziatorio e commemorativo della fine dell’ultima
pestilenza, segnavano l’inizio del Canal Grande che srotolava poi fino a
palazzo Labia il suo inverosimile corteo di splendori e di favole tagliato a metà
dalla schiena d’asino del ponte di Rialto.
Lasciamo
i ricordi e ritorniamo al presente . Appena sbarcati dalla motonave,
quella era anche l’ora del
pranzo e l’uomo non vive soltanto di ricordi e di bellezze paesaggistiche, ma
ha bisogno anche e soprattutto di
rifocillarsi. Al principio del paese, la comitiva era attesa in un modesto
ristorante. Da quelle parti la dominante gastronomia è il pesce, soprattutto
l’anguilla: qui ci sono gli allevamenti più rinomati d’Italia. Ecco perché
non c’è trattoria o ristorante che non la offre, naturalmente alla sua
maniera, come antipasto ( marinata), come “primo” ( nel risotto oppure sotto
forma di brodetto accompagnata da una fetta di polenta calda) e come
“secondo” (alla griglia o in umido).
Subito
dopo il pesce viene la cacciagione, mentre non si possono dimenticare i primi
piatti, dai cappellacci di zucca ai
cappelletti in brodo. E come vino, il vin di Bosco, un rosso che si accompagna
anche col pesce. Questi sono i piatti, che a richiesta, ci vengono serviti.
Quali i locali? Sono tutti all’altezza della situazione. Per
il nostro gruppo, la maggioranza dei quali sono più anziani di noi,
l'organizzazione ha prenotato, con
molto anticipo, presso l’osteria del “ Pescatore”, una di quelle osterie
che espongono ancora la famosa “frasca” sopra la porta, che sta' per
indicare che in quel locale si può
mangiare e bere, rispettando le vecchie tradizioni venete.
Adriana
mia moglie, ha scelto come primo i cappelletti e per secondo piatto una frittura
di triglie, i famosi pesci rossi di
scoglio, che a lei piacciono tanto, mentre io e gli altri nostri amici, abbiamo
deciso sui risotti e, e come “secondo” un’abbondante razione di
anguillette allo spiedo, molto magre e gustosissime, innaffiati da quel generoso
vin di Bosco, che si sposa molto bene con quel gustoso piatto.
Dopo
questo inciso culinario, vogliamo disegnare una volta tanto con
parole nostre, anziché con la matita, le bellezze di Comacchio. E’
adagiata su tredici isolette, ha nelle vallate un ambiente naturale di rara
bellezza. E nei suoi vicoli si scoprono botteghe artigiane dove il tempo sembra
che si è fermato. Le mura delle
case in mattoni rossi, sono corrosi dalla salsedine, come pure le inferiate
delle finestre, mentre l’intonaco,
per l’azione del tempo e degli agenti atmosferici, si va sgretolando sempre più,
creando delle chiazze che sembrano tanti piccoli mosaici. La cittadina lagunare
è pittoresca, costruita su tredici isolette separate da canali e congiunte da
ponti. Abbiamo visitato inoltre, il tipico quartiere del Carmine, frequentato
dai barcaioli. Poi il celebre ponte dei Trepponti (formato da cinque grandi
archi aperti su canali e sostenuti da pilastri a volta. La gente di Comacchio,
è molto affabile ed è di una grande cortesia. Ovunque vai, ti accorgi subito
che sei ben accetto, perché da queste parti, il turista è il motore trainante
dell’economia locale.
Comacchio
è città lagunare di antiche origini, eppure ancora poco conosciute. Dal
millenario isolamento nelle sue valli, infatti, è uscita di recente, con
l’esplosione delle sue spiagge come mete turistiche. Ambiente naturale di rara
bellezza (specialmente nella parte privata di Boscoforte), le valli di Comacchio
(salata l’acqua, scarsissima la profondità) sono il regno di aironi, folaghe
germani, sischioni, alzavole.
Ovunque
ti trovi, ovunque guardi, che vedi? Opere create
della natura in milioni di anni, grazie all’intervento, alla maestria e
alla genialità dell’uomo lagunare, di quell’uomo che ha nel suo DNA, il
sapore salmastro del mare e della laguna.
In
Liguria si chiamano “carruggi”, qui a Comacchio si chiamano “calle”, le
stradicciuole, le viuzze strette e solcate da un canale e sormontate da un
piccolo ponticello. Ovunque guardi, vedi piccole botteghe dove si lavorano a
mano il ferro, il rame, il peltro, la ceramica, che hanno il sapore dei tempi
andati; si annidano per lo più nei vicoli di Comacchio o si affacciano sulla
strada Romea. Mesola è ricca di artisti nella lavorazione del legno, frutto di
una tradizione secolare che ha le sue radici nella presenza dello stupendo
bosco. Ancora viva, a Goro e Gorino, il paese che ha dato i natali alla celebre
cantante dai lunghi capelli rossi: Milva. Oltre alla pesca, vi è la lavorazione
di canne ed erbe palustri, raccolte alla foce del Po. Molti di noi turisti,
abbiamo acquistato, infine, anche l’anguilla marinata e le sarde sotto sale o
sotto olio, ma non ci siamo dimenticati di portare a casa qualcosa che ci
ricorda l’artigianato locale.
Adesso,
dopo una lunga e meravigliosa giornata trascorsa in Laguna, non ci rimaneva
altro, che attendere l’arrivo della motonave che ci riportava nella bella e lussureggiante Lombardia.
Siamo
tutti qui sul molo, siamo quasi schierati come un manipolo di soldati pronti per
l’imbarco, ma non c’è nessuna spedizione militare, ritorniamo soltanto a
casa. Oggi, è stata una bella giornata da ricordare, ma per noi, cioè, per
Adriana ed io, è stata una giornata di
rievocazioni: abbiamo festeggiato
in sordina il nostro anniversario
di matrimonio, avvenuto molti anni fa. Oggi, è stata un giornata di
rievocazioni, ma anche di nuove impressioni di questi luoghi stupendi della
Laguna.
Mentre
il sole sta per tramontare sulla bellissima Laguna, io sono qui, davanti a te,
dolce fiume che ti disperdi nella immensa laguna. Fra poco non ci vedremo più.
Le mie labbra tremano e i miei occhi sono lucidi di pianto. Sono giunto a te
sino alla foce, dove la tua vita si fonde nell’immensità del mare. Ma il mio
viaggio non è finito. So che dovrò ancora camminare come tu mi hai insegnato.
Come
ha scritto Romano Battaglia: “vorrei essere una barca per seguirti
oltre il confine col mare e sentire ancora la tua voce”. Mi mancheranno le tue
parole, il tuo respiro, il rumore fresco dei gorghi, dell’acqua che
s’infrange contro le fragile insenature dei lunghissimi argini e la frescura
degli alti pioppi nelle golene.
Qui,
di fronte a me, che è la fine del tuo viaggio le tue acque sono chiare come
all’origine. Il principio e la fine hanno la stessa luce.
“Ricordo
quello che mi dicesti all’inizio: “ Nacqui in un giorno di primavera fra le
montagne bianche di neve e il silenzio assoluto delle grandi altezza del
Monviso. Nella pace della montagna, di quella montagna che tante volte ho
scalato o ho cercato di farlo,
percepivo il respiro del Creatore” E quel respiro che non ti ha mai
abbandonato lungo il percorso, mi ha guidato verso la serenità.
“Ti
devo molto, fiume.
“
Se ho avuto qualche momento di tristezza mi hai consolato”.
Se
sono stato incerto nel sentiero da seguire, mi hai guidato; e sono sicuro che se
mi fossi perduto, mi avresti ritrovato.
Adesso
che non ci sei più, che il viaggio è finito, mi dovessi allontanare troppo dal tuo corso, richiamami. Non
lasciarmi solo. Fammi sentire la tua voce, in ogni momento della vita.
Addio
Laguna, addio mare, a momenti arriva il battello che ci riporterà al
piccolo borgo padano di Boretto, io mi fermo qui, al confine tra cielo terra,
tra laguna e mare.
Quel
giorno, come da migliaia di anni, scorreva placito il vecchio fiume, mentre
dietro di se la piccola nave bianca, illuminata dagli ultimi bagliori del sole
calante, lasciava una lunga scia spumeggiante, mentre sugli argini i lunghi
filari di pioppi chiassosi, raccontavano e raccontano vecchie
favole e nuovi racconti: le favole della vita della bassa Padana.
Addio
vecchio fiume della vita!
Il
tuo ricordo sarà sempre con me.
“Passerà
il tempo e del fiume rimarrà
solo
un
sogno o una voce che giunge
dall’infinito.
Quando
non si udranno più
le sue
parole
a
guidare il
nostro cammino, allora
anche
noi diventeremo
un sogno, il grande
sogno del fiume della vita”.
LA “PORTA ORIENTALE” D’ITALIA.
Prima
di oggi, conoscevamo soltanto l’estremo lembo orientale della Pianura Padana,
che è considerata la “porta Orientale” d’Italia, una costa piatta e
incerta, sempre alla ricerca di un equilibrio tra terraferma e mare, che lascia
improvvisamente il posto a dirupi incombenti sulle acque dell’alto Adriatico.
E all’interno l’uniforme pianura friulana termina contro i bastioni, non
elevati ma sicuramente compatti, dell’altopiano carsico. Quella è una terra
di contrasti, dovunque, sottolineati anche dalla presenza di culture diverse,
come testimoniano certi squarci goriziani che ricordano le città d’oltralpe,
le chiese di vari riti attorno al Canale di Ponterosso a Trieste, i nomi delle
alture e dei paesi, con le loro componenti illiriche, germaniche, carniole,
anche se in questi luoghi la lingua franca è rimasta quella veneta, un idioma
tutto italiano. Ma una gita di queste parti sembra condurre alle porte, non solo
geografiche d’Italia.
Da
Dublino a Muggia, gemma del mare.
Muggia,
una delle “gemme del mare” ricordate da Carducci, può costituire la boa
attorno alla quale virare per compiere una visita approfondita del Golfo di
Trieste. Il nostro ricordo, mentre
siamo seduti davanti al nostro computer, ci porta in dietro nel tempo e ci fa
rivivere giorni sereni in quella terra italianissima, ci ricorda che siamo
partiti da Duino, sovrastato da un castello costruito su un roccione a
strapiombo sul mare, e costeggiando la Baia di Sistiana
siamo giunti ad Aurisina, base per la visita alla Grotta
di Pocala. Quindi, prima di giungere a Trieste, volendo si può ammirare
il grandioso castello di Miramare, fatto costruire dall’arciduca Massimiliano
nelle forme proprie dell'eclettismo ottocentesco. Dopo Trieste, con la visita
sulla collina che sovrasta la città, abbiamo ammirato il Duomo
e il campanile di San Giusto, le colonne
e i resti di quella che fu una residenza romana, una città di cui ne
parla la storia, raggiungendo Muggia,
ormai ad un tiro di schioppo dal confine di Stato. Effettuando il ritorno lungo
la strada interna, si possono ammirare i diffusi fenomeni carsici, con doline e
inghiottitoi, grotte e campi carreggiati. Una breve diramazione per Borgo Grotta
Gigante consente di visitare la più ampia sala sotterranea d’Europa: alta 115
metri, lunga 130 e larga 65, ma
che, secondo il nostro punto di vista, è il doppio di quella di Frasassi, che
nella sua cavità ci potrebbe stare benissimo il Duomo di Milano, e poi,
quest'ultima, è più ricca di stalattiti e stalagmite, che in milioni di anni,
hanno creato delle architetture ricamate, che la mano dell’uomo non avrebbe
potuto fare così perfette. Quello è un vero museo naturale, che si
rimane veramente incantati davanti a così
tanta bellezza.
Da
Aquileia i resti del Milite Ignoto.
Rimanendo
in quella regione dell’alto Adriatico, ci ricorda l’escursione che abbiamo
effettuato alcuni anni fa a Redipuglia, ad Aquileia e a Grado. Incominciamo
dicendo che Aquileia, fu colonia romana divenuta capoluogo di regione e sede di
patriarcato, la cittadina conserva pregevoli monumenti. Spicca la basilica
romana del XI secolo, con il più vasto pavimento musivo dell’Occidente
cristiano, che abbiamo mai visto. Sono cospicui i resti della città romana:
porto, foro e un mausoleo. In quella nostra escursione, abbiamo avuto modo di
vedere il ricchissimo materiale che è ordinato nel Museo Archeologico
Nazionale. Inoltre, la storia ci racconta, che questa città, fu espugnata e
distrutta da Attila, re degli Unni
(452) dopo un lungo assedio e aspri
combattimenti; dopo l’incontro con il Papa Leone I, decise il rientro in
Pannonia ove morì.
Spogliando
le pagine ingiallite della storia, dalle quali abbiamo approfondito le nostre
conoscenze storiche, come pure dalla lettura di articoli letti sulla stampa, uno
di questi, quello di Nicolò
Mirenna, apparso sulle Fiamme d’Argento, ci ha dato un quadro completo sulla
storia Millenaria di
Aquileia.
Incominciamo
col dire che la città sorge nel 181 a. C. Come baluardo romano contro le tribù
dei Galli transalpini. Diventa municipio verso il 90 e raggiunge un rilievo
altissimo di prosperità sotto Augusto, che ne amplia la cinta di mura, diventa
sede invernale per le legioni, base logistica di rifornimento dell’esercito
romano sul Danubio e della flotta dell’Adriatico. Sono fiorenti a
quell’epoca le industrie della lana, della
porpora, ella pietra, del legno, del bronzo e del ferro, le arti di
mosaico e del vetro soffiato Allo sviluppo della città contribuiscono anche le
vie di comunicazione ( la via Annia, che univa Aquileia alle altre vie
dell’Italia settentrionale e la via Gemma che la univa a tutta la valle del
Danubio). Utilizzando queste vie e le arterie fluviali e marittime, Aquileia
esporta i suoi principali prodotti e riceve in cambio bestiame, pelli, ferro,
oro e ambre.
Ma
a caduta dell’Impero, segna l’inizio della decadenza. Nel 169 d. C. Deve
lottare contro Quadi e Marcomanni e nel 238 contro l’imperatore Massimino,
ucciso sotto le sue mura. Ne 410 é minacciata da Alarico, nel 452 é devastata
da Attila, sotto la cui invasione gli abitanti si rifugiano su alcune isolette
della laguna veneta sulle quali sorge poi Venezia. Nel 568 é distrutta dai
Longobardi; risorge dopo il Mille, grazie all’importanza assunta dal
patriarcato: Una vita politica molto intensa quella di questa piccola città,
nel cui territorio, già intorno alla metà del sec. III, per le frequenti
relazioni con Roma, avviene una rapida penetrazione del Cristianesimo.
Nella
pianura friulana, c’è un punto in cui il cordone litoraneo comincia a
degradare nella laguna di Grado: vi sorge una cappella ottagonale, dedicata a S.
Marco. Secondo la tradizione, quella cappella indicherebbe il luogo in cui il
Santo sarebbe approdato “ diretto a predicare il Cristianesimo all’opulenta
e famosissima città di Aquileia” che
ben presto diventa sede di un Vescovado. Alla fine del secolo successivo, il
vescovo ottiene la dignità di metropolita ed estende la sua autorità su tutti
i vescovi delle regioni circostanti.
Ma
anche in Aquileia si diffonde l’eresia di Ario e i diversi tentativi del papa
Damaso e di S. Ambrogio, per ridare pace alla Chiesa, non riescono a sedare la
questione teologica. Sotto la pressione di Giustiniano, il papa Vigilio, nel
554, condanna a Costantinopoli i Tre Capitoli, provocando però una rivolta
soprattutto nell’Italia settentrionale. Il metropolita di Aquileia, con i suoi
seguaci, si ribella alla condanna e assume il titolo di patriarca. Nel 569, con
la penetrazione longobarda, Paolino I, metropolita di Aquileia, si rifugia a
Grado. Il suo successore, Elia, erige poi nella città la basilica di S. Eufemia
e indice un concilio per attrarre a sé un maggior numero di suffraganei,
persistendo nel suo scisma nonostante le pressioni del pontefice romano e
dell’esarca di Ravenna. Solo nel 606, morto il successore di Elia, Severo, é
eletto, in accordo col papa, il patriarca cattolico Candidiano, che non é però
riconosciuto dagli scismatici soggetti ai Longobardi, sostenitori del patriarca
Giovanni. Dopo quasi un secolo di divisione
fra gli scismatici e i cattolici, il patriarcato dell’abate Giovanni
abiura finalmente lo scisma; e le due sedi di Grado e di Aquileia sono
riconosciute dal papato. Successivamente, con le generose donazioni di Carlo
Magno, inizia la potenza politica del patriarcato. Nella prima metà del sec. XI
il patriarca Poppone fa risorgere la sede di Aquileia, trasportata prima a
Cormos e poi a Cividale; ottenendo tra ‘altro, dall’imperatore il diritto di
battere moneta. Nel 1077 l’imperatore Enrico IV da al patriarca
l’investitura della contea del Friuli e delle marche di Carniola e d’Istria
e si afferma così pienamente il potere temporale del patriarcato. Da quel
momento, il patriarcato di Aquileia é coinvolto in una serie di lotte politiche
e territoriali, finché é occupato da Venezia ( 1420). Nel 1445 risorse in
seguito a un trattato tra Venezia e il patriarca, cui era riservato solo il
dominio di Aquileia e dei castelli di S. Daniele e di S. Visto al Tagliamento.
Ma nel 1509 la stessa Aquileia é occupata dall’Austria e viene quasi
annullata del tutto la giurisdizione ecclesiastica del patriarcato, finché con
la bolla “Iniuncta nobis” del 6 luglio 1751, il patriarcato é
definitivamente soppresso. Dal 1501 Aquileia é dominata dalla casa d’Asburgo
e dopo la soppressione del patriarcato, perduto l’antico splendore, si riduce
a villaggio.
In
seguito alle ostilità italo-austriache nella guerra 1915 - 18, viene occupata
dalle truppe italiane, passando poi definitivamente all’Italia.
Ai
mille motivi di considerazione e di ammirazione per questa cittadina così ricca
di cultura e di arte, se ne aggiunge un altro, che stimola la nostra sensibilità
di Italiani: dietro la Basilica
romanica, sorge il “ “Cimitero degli Eroi”, nel quale riposano i resti di
dieci soldati ignoti, delle undici salme prima radunate a Gorizia e poi
trasportate ad Aquileia, raccolte nei luoghi dove la battaglia era stata più
accanita - dalle cime delle Dolomiti al mare.
L'undicesima
salma - scelta dalla madre di un caduto ignoto nel corso di una toccante
cerimonia - deposta su apposito carro, é avviato verso Roma, fatta oggetto,
lungo il percorso ferroviario di costante, devoto omaggio floreale e del pianto
silenzioso delle popolazioni. Ma l'apoteosi avviene a Roma dove il Milite Ignoto
é salutato nella Basilica di S. Maria degli Angeli con una suggestiva e
toccante epigrafe: “ Ignoto il nome - folgora il Suo spirito - dovunque é
l’Italia - Con voce di pianto e d’orgoglio - dicono innumerevoli madri: é
mio figlio”.
Il
4 novembre 1921 il Milite Ignoto viene tumulato nell’Altare della Patria, alla
presenza del Re, delle bandiere di tutti i reggimenti, delle rappresentanze dei
combattenti, delle vedove e delle madri dei Caduti.
L’ordine
del giorno che annuncia all’esercito il conferimento della medaglia d’oro
alla memoria al Milite Ignoto conclude così:
“Soldato senza nome e senza storia. Egli é la storia: la storia del
nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”
La
cittadina di Grado.
Alcuni
chilometri oltre Aquileia, vicino al mare, abbiamo trovato la cittadina di
Grado, che è situata su uno dei lidi sabbiosi che chiudono verso il mare la
Lugana di Grado, l’abitato, dove abbiamo pranzato in un tipico ristorante,
conserva un nucleo antico con caratteristiche vie strette. Notevole il complesso
paleocristiano ( V - VI sec.) che comprende il battistero e la basilica di S.
Eufemia e di S. Maria delle Grazie.
Quella
è l’ultima laguna dell’alto Adriatico, ed è costellato, a partire dalle
Valli di Comacchio, dove ha avuto termine la nostra bellissima escursione
navigando lungo il Po, da ampi specchi
lagunari: le deboli correnti marine non riescono a portare al largo tutti i
sedimenti che i fiumi trasportano con sé. E la terra avanza nel mare,
costruendo quei “ lidi” che rinserrano le lagune. La più orientale è
quella appunto di Grado. Sono pochi, qui, gli elementi salienti del paesaggio;
pare di trovarci in un deserto di sabbia finissima e d’acqua, dove gli alberi
sembra siano stati cancellati dalla natura, mentre gli alberghi e i campanili di
Grado sembrano quasi dei miraggi, dove il gioco delle maree crea “barene”(
zone di terra che emergono dalle acque durante la bassa marea)
e dove l’uomo si limita spesso a costruire “ casoni” di paglia,
effimeri come la terra che li sostiene.
Quel
grande deserto di sabbia, costituito di piccole dune, l’immensa
spiaggia dorata che brilla sotto i raggi del sole, con all’orizzonte il
gioco delle maree, la mancanza di alberi, di
vegetazione, dove gli alberghi e campanili sembrano quasi dei miraggi, mentre i
piccoli muretti bianchi che cingono l’estremità del deserto sabbioso, dove
l’uomo si limita a costruire “casoni” di paglia, che da lontano sembra un
cimitero di cose morte alla deriva. Tutto questo, ci ha
fatto pensare per un momento
al grande deserto di sabbia infuocata di Alamein, (Egitto), località costiera
mediterranea a W di Alessandria,
nota per la battaglia risolutiva (1942) della guerra in Africa tra Italo -
tedeschi e Inglesi, vinta da questi ultimi. A pochi chilometri di quel deserto
bruciato del sole, c’è il mare azzurro, mentre in una di quelle vallate
depresse, sorge il più grande cimitero di guerra, fatto di
migliaia di croci di marmo bianco di Carrara, che brillano sotto ai raggi
cocenti del sole del mattino.
In
un momento di pausa e di riflessione su ogni forma di vita sulla madre Terra, il
nostro pensiero, quell’attività propria della mente con la quale l’uomo si
forma immagini e idee, di un avvenimento o di un ricordo, perché di un pensiero
e di un ricordo si tratta, leggiamo in un’Apocrifa Eva, morendo, che chiede di
ricongiungersi con - Adamo che l’ha preceduta e insieme al quale ha vissuto,
trasgredito ed espiato, goduto e perduto il Paradiso terrestre - e la terra in
cui chiede di essere accolta è come un grande corpo, una carne amata, come del
resto hanno desiderato gli eroi di Alamein, vivere l’eterno sonno uno affianco a l’altro, in
quel infocato deserto , dove hanno combattuto per una guerra che non
hanno voluto.
In
questa nostra similitudine, in questo nostro modo di vedere ed esprimere le
cose, consistente nel paragonare una cosa ad un’altra per meglio chiarire o
dare risalto al nostro modo di pensare,
che cerchiamo di esprimere questo nostro
concetto sulla vita e sulla morte. In questo nostro esempio, anche il deserto di
sabbia della Laguna di Grado, dove le deboli correnti marine non riescono
a portare al largo tutti i sedimenti che i fiumi trasportano con se , dandoci la
sensazione di un immenso cimitero di cose morte. La stessa cosa succede nel
grande cimitero nella foresta di Stoccolma, nonostante tutto, anche qui c’è
il trionfo della morte sulla vita, seppure tanto più generoso - e più ambigui
- dei mausolei di pietra. Certo , è facile dire che la vita è più forte della
morte - ci sono germogli, gemme, fiori. Se è per questo, la vita è anche più
forte della saggezza e dell’intelligenza. Asplund e Levverentz , i due
architetti, artefici del Cimitero nella foresta di Stoccolma e di quel paesaggio
che dovrebbe insegnare a superare ogni smarrimento e ogni miseria individuale
dinanzi alla grande legge del Tutto, finirono per litigare penosamente, in un
miserevole scontro che emarginò Lavverentz, il più dotato dei due. La
meschinità quotidiana è più universale
- e più forte - della morte e della vita.
Mentre
nel piccolo e medioevale cimitero abbandonato che sorge dietro la basilica di
Aquileia, come pure in quello di
Alamein, circondato dalle dune infuocate dal sole e, i lidi che rinserrano le
lagune, dove gli elementi salienti del paesaggio sono completamente annullati,
sono luoghi di preghiera e di pace, mentre invece, il cimitero nel bosco
di Stoccolma, che circonda, invade e copre la pietra tombale e la croce,
in cui sembra trionfare l’irregolarità della vita.
Si,
lo so, avete ragione, che questo mio pensiero è poco suadente nella sua interpretazione, ma è un pensiero
puramente filosofico, rivolto
alla conoscenza dei problemi fondamentali della vita
e della morte. Ma sovente, ognuno di noi si domanda, che cos’è la
vita?
Oh,
si, la vita, è la meraviglia di stare a mondo e contemplarlo. E’ la duplice
bellezza, quella della natura e quella dello splendore delle creazioni del genio
e della storia. E’ la rievocazione di un momento lirico attraversando i
deserti infuocato, i villaggi, la
laguna , i sentieri e le città più
belli del nostro Paese.
Pensando
a tutto questo, giorno dopo giorno, ci da la forza e la gioia di vivere e di
continuare a percorrere i sentieri
meravigliosi della natura, perché per noi, l’alba di un nuovo giorno,
rappresenta la primavera della vita. Per questo motivo, abbiamo voluto iniziare
questo lungo viaggio indimenticabile lungo il fiume della vita, un viaggio dove
il reale e l’onirico, la realtà e la fantasia si fondono in ogni momento e
dove l’una è il falso riflesso dell’altra. E’ stato un grande viaggio
alla ricerca e alla scoperta di un sogno e soprattutto, perché volevamo capire,
conoscere noi stessi e la grande metafora della esistenza umana, che poi non
altro che la vita stessa di ogni
giorno di ciascuno di noi.
Non
ricordo il suo nome, ma era sicuramente un grande poeta spagnolo, che ha scritto
questi versi meravigliosi sulla vita:
“
La vita :”
“
Ma cos’è la vita?
La
vita è fragile e leggera,
E’
come una piuma di una capinera
Ferita
e di valle in valle portata
Dal
vento che tutto trascina,
E’
come una nube piccina,
Debole
e pallidina.
Dalla
nascita alla vita,
Al
tempio dell’amore
Come
pure nel dolore.
E’
come plasmare la creta amica,
Come
sull’ara per la preghiera
E
il melodioso canto d’una capinera
Che
si propaga nell’infinito.
Sembra
che la tocchi con un dito,
Ma
ti sfugge e vola via”.
Diceva
Goethe: “ Nell’osservare la natura, io mi domando: è l’oggetto che si
esprime qui o sei tu?” E
concludeva: “ L’uomo non comprenderà mai quanto egli sia antropomorfico”.