IERI,
UN SECOLO FA.
Il
mondo e la sua storia si richiudono a cerchio attorno a noi: è stata
Teresa mia madre, una mattina di primavera a svegliarmi molto presto,
perché avevo deciso di partire, di
andare lontano per conoscere altri lidi, altri paesi, altra gente, e perché no,
anche in cerca di fortuna. Partivo così alla cieca, senza alcuna meta, senza
alcuna conoscenza del mondo che intendevo visitare. Era la prima volta che
partivo, si, perché non ero mai uscito dal
guscio, dal piccolo borgo di Cosoleto, da quell’ambiente
ristretto e isolato dal resto del mondo e andare lontano, aprirmi agli
altri, viaggiare, conoscere altri luoghi, altre regioni, altra gente, altri
paesi, altre abitudini e altri modi di vita. Incominciava così la mia prima
avventura, se avventura la vogliamo chiamare, una vicenda che di solito
si svolge in modo imprevisto e straordinario, generalmente con lieto fine. Per i
tempi che correvano, era appena finito il grande conflitto mondiale e il nostro
Paese era stato completamente distrutto e, come si dice, messo in ginocchio, ma
la mia testolina di giovane incosciente, non voleva sentir ragione, dovevo
assolutamente partire, dovevo assolutamente evadere dal piccolo borgo
aspromontano, per trovare una vita migliore, un po' di me stesso.
Fin
dal mattino, appena aperta la finestra della mia piccola camera , lo spazio e il
tempo avevano assunto una sorta di trasparenza. Per uno di quei meccanismi pieni
di evidenza e di mistero, un cielo privo di nubi prometteva euforia e felicità.
Mentre attraversavo il piccolo borgo aspromontano addormentato, con in mano un
piccolo fagotto con il cambio della biancheria e la colazione sufficiente per
due giorni, pensavo al significato della vita: “ La vita, mi dicevo fra di me,
è uguale a un fiume che nasce come un piccolo rivolo sulle alte montagne dove
tutto è pace, purezza e silenzio”. Seguendo il suo corso sino al mare si può
conoscere la vita, ma io non conoscevo ne la vita e neppure il mare, ero un
ragazzo senza esperienza, ma con una grande voglia di evadere e di conoscere il
mondo.
Ero
partito all’alba, quando la natura ha ancora gli occhi semichiusi, e
nell’aria si avverte il respiro lento del Creatore che pensa al nuovo giorno.
Lungo
la strada che attraversa il borgo fra gli ulivi, a poca distanza dalle
ultime case, un profumo acre di rosmarino e nepitella, piccole piante
aromatiche, adoperate in cucina nella preparazione di alcune vivande, mi
ricordava giorni lontani della mia fanciullezza, quando con mia madre percorrevo
quella strada per andare al piccolo podere alla ricerca di qualche tubero e
della frutta da mangiare. C’era la guerra nel nostro Paese, ma nella nostra
regione non era ancora arrivata, ma un bel giorno
anche le nostre colline e i nostri paesi, furono invasi dalle truppe
italiane e tedeschi, che si ritiravano dalla Sicilia, perché
gli alleati erano sbarcati e
stavano occupando tutta l’isola. Sui piani dell’Aspromonte si era formato il
fronte e nel nostro piccolo paese si erano accampati i tedeschi con le lunghe
colonne di carri armati; le strade erano vuote e la gente quasi tutta scappata
sulle colline. Nessuno di noi
conosceva le atrocità della guerra e, vedendo
da vicino tutte quelle truppe, ci avevano spaventati e impauriti. Per
dire la verità, non era così per noi ragazzi. Come i ragazzi di ogni epoca e
latitudine, eravamo affascinati nel vedere da vicino i soldati, gli automezzi e
gli accampamenti defilati all’ombra dei secolari oliveti, dalla vista del
nemico. Vedendo tutto questo, ci entusiasmava di più il gioco della guerra, non
sapendo che la guerra porta spesso e dovunque, lutto e dolore.
Da
che mondo e mondo, si sa che la
curiosità dei ragazzi è stata sempre in primo piano, e anche noi, incuriositi
di quell’avvenimento, si, perché per noi è stato un vero avvenimento, vedere
da vicino i cannoni, i carri armati e i soldati e per soddisfare la nostra
curiosità, seguivamo da vicino gli avvenimenti della truppa. Qualche volta,
raramente, ci è stato dato del cibo. Le nostre truppe, come sempre, erano molto
generose, mentre i tedeschi , preferivano buttarlo via il cibo avanzato, anziché
darlo ai bambini che avevano fame.
Mentre
salivo sulla corriera che mi avrebbe portato molto lontano, affioravano in me
questi ricordi. Ma chi sono io? Mi domandavo. Alle prime luci dell’alba, un
falchetto roteava alto nel cielo. Che cosa cerco, e quale sarà il mio destino?
Mentre
il torpedone proseguiva verso la città
di Reggio Calabria, la mia mente si apriva, e anche gli avvenimenti lontani mi
apparivano molto vicini: credevo di ascoltare le parole di mia madre, perché
mio padre morì nel 1936, quando io ero un fanciullo, quando
mi dava i primi insegnamenti della vita. I ricordi di mio padre erano
vaghi e lontani che si perdevano nel tempo.
Osservavo
dal finestrino il paesaggio, come del resto lo faccio tuttora quando viaggio, le
montagne che vedevo erano nascoste fra le nuvole bianche. La sua vetta era
viola, il suo profilo assomigliava a quello di un animale addormentato. Mano a
mano che la corriera attraversava
gli oliveti e i castagneti, la vegetazione si faceva sempre più scarsa e la
visione del meraviglioso paesaggio aspromontano più chiaro e luminoso.
Gli
alberi, le felci, le siepi si diradavano, apparivano qua e là nude rocce
dell’altopiano. Ogni tanto, quel solitario
e aspro paesaggio, veniva illuminato da un raggio di sole che riusciva a
bucare le nuvole biancastre, più in giù c’era il mare immenso; lontane
velate, scorgevo anche le isole Eolie ed in primo piano, con il suo pennacchio
fumante, faceva bella mostra di se Lo Stromboli, avvolto fra le nuvole basse e
biancastre e le coste
frastagliate della Sicilia. Queste isole e isolette, punteggiano il
grande mare, il pelago degli antichi. Esse sono le preziose pietre che il dio
Nettuno ha staccato dalla collana e gettato a ventaglio intorno alla Sicilia per
adornarla con una corona. Vedendo
quelle meravigliose isole si pensa come le vide Ulisse. Ci si sofferma a
osservare l’immagine sfumata e avvolta dalle piccole nube. Quelle sono le
isole dei miei sogni, i famosi “Giganti Fumanti” della mia fantasia . Tutto
quel mondo silenzioso e disabitato aveva l’apparenza di un sogno. A tratti una
voce pareva ripetermi le parole di Khalil Gibran:
Forse
hai sentito parlare della montagna
Benedetta.
Qualora tu ne raggiungessi
Mai
la cima, proverai un solo desiderio:
Scendere
e ritrovarti con chi abita a valle.
Ecco
perché si chiama la montagna benedetta,
La
montagna fumante”.
Avevo
intrapreso quel viaggio che desideravo da tempo al fine di cercare una
spiegazione all'inquietudine, all’angoscia della mia esistenza di una
fanciullezza spazzata via dagli eventi bellici nel nostro Paese.
Forse
non ho mai saputo che cosa sia la felicità; tante volte ho perduto il treno
della serenità per cercare altri lidi lontani, e perdermi nel nulla.
Quando
ero bambino sparivo spesso di casa e mi rifugiavo sopra il secolare ulivo. Era
il mio rifugio, la mia consolazione. Mi arrampicavo sui suoi nodosi rami che
conoscevo a memoria, e restavo lì per ore, a pensare ed ad ammirare quella
lunga striscia grigia all’orizzonte, che non sapevo che cosa fosse: quello era
il mare della vita. Quel vecchio e secolare ulivo nodoso era un rifugio sicuro,
un punto di riferimento per la mia vita che non aveva bisogno di molte cose per
esistere.
Come
scrive Romano Battaglia: “ A otto anni si capiscono molte cose, ma il mondo ha
ancora il fascino misterioso della novità, dell’attesa, delle carezze, delle
parole buone. Un bambino che riceve tante carezze sarà un uomo sereno, un
bambino che non ne riceve sarà un uomo triste. Io appartengo alla seconda
categoria perché i miei genitori, pur essendo molto buoni , non erano espansivi
con me, e non mi raccontavano mai delle favole. Ecco perché mi
rifugiavo su di un vecchio pino, mi acquattavo fra i rami per lunghe
ore.” Io invece appartengo a quelli della prima categoria, i miei genitori
sono stati sempre buoni con me, ero coccolato da mia madre e dalle mie sorelle,
ma anch’io mi appollaiavo sul vecchio ulivo, non perché mi sentivo solo e
triste, ma perché volevo sempre sognare un mondo nuovo da scoprire, per
apprendere i suo segreti: ero e sono rimasto un sognatore.
“Tutta
la nostra vita dipende dai giorni dell’infanzia. Anche il nostro carattere è
frutto di quel tempo lontano: quando veniamo al mondo siamo piccole piante
delicate nate sotto il cielo assieme a tante altre creature palpitanti. Se i
germogli ricevano le cure necessarie e vengono protetti dal vento e dalla
pioggia, le piante cresceranno sane e sicure, pronte ad affrontare il cammino
futuro. Se la semina invece è stata arida e la crescita non ha avuto amore né
cure, allora le piante saranno deboli e incerte.
“Quante
creature sono fragili piante nel
gran campo della vita! Noi camminiamo insieme a loro e in mezzo a loro e spesso
ci domandiamo quale sia stata la loro origine e la loro crescita. A volte
condanniamo il loro comportamento, giudichiamo e critichiamo senza sapere cosa
nasconda il loro passato: avete mai notato i gatti? Se sono nati randagi avranno
paura e soffieranno se cercherete di accarezzarli. Se sono venuti al mondo in
una casa calda, protetti e al sicuro, saranno docili, buoni, sereni e non
graffieranno.
La
montagna dei contrasti.
Mentre il torpedone attraversava l’altopiano, chiamato “ Piani Corona”, che sorge al vertice dell’antico borgo di Seminara, per poi scendere verso il mare che lambisce la cittadina di Bagnara, che prende nome “ Costa Viola”, per via dei suoi fondali limpidi e profondi, io vedevo le cime dell’Aspromonte, dove c’è un’immensa piramide che si erge fin quasi a toccare i 2000 metri di altitudine. Vista da quella distanza, che poi non era molto lontana in linea d’aria, rivela una morfologia estremamente semplice. Su lati, a partire dall’imponente acrocoro centrale, che culmina nella tozza mole del Montalto ( 1955 metri), scendono a raggiera verso il mare lunghe dorsali, separate, una terra piena di contrasti che pochi italiani conoscono e che, come scriveva nel 1915 il naturalista inglese Norman Douglas, merita il nome che porta. Sul suo territorio, erose pendici con enormi querce secolari si alternano a dense selve di pini, abeti e faggi; valli tappezzate da pascoli ed estese praterie si contrappongono a gole incassate e buie; una natura a tratti rigogliosa lascia spesso il passo a zone brulle e riarse dal sole. Una montagna difficile insomma, se non addirittura ostile all’uomo, al punto che, fino a qualche anno fa, correva voce che nessuno fosse mai riuscito ad attraversarla da un versante all’altro. Nei secoli la storia le ha conferito un alone antico. Da lei, Locri Epizephyurii e Rherion, due grandi colonie della Magna Grecia, traevano legname, selvaggina e soprattutto l’acqua che consentiva di irrigare le pianure costiere. Durante le incursioni dei primi turchi e saraceni divenne rifugio delle genti in fuga dai villaggi della costa. In seguito fu la montagna sacra dei monaci basiliani che vi stabilirono i loro romitaggi, mentre nell’Ottocento fu la dimora di briganti e banditi. Di recente é stata luogo in cui nascondere le vittime della fiorente e atroce “ industria” dei sequestri. Oggi, finalmente rappresenta la speranza del riscatto civile e sociale di una popolazione che, attraverso il Parco Nazionale dell’Aspromonte, si sta riappropriando della
sua
identità e delle antiche origini. Una rinascita che potrà essere anche
economia se si riuscirà a conciliare il turismo con le straordinarie bellezze
di una natura quasi incontaminata.
Sotto
il profilo geologico l’Aspromonte é del tutto particolare. La sua struttura,
atipica rispetto a quella dell’Appennino, richiama quella di alcune zone delle
Alpi. Non é costituito, infatti, da rocce calcaree, ma da graniti, arenarie,
scisti micacei e quarzosi, che appartenevano alla Tirrenide, un’antica massa
continentale prima sprofondata e poi risollevatasi a partire dalla fine del
Terziario ( tra 10 e 1 milione di anni fa).
L’area
protetta ( ufficialmente istituita nel 1989, ma entrata in funzione solo nel
1994) copre un’estensione di oltre 78.520 ettari, coinvolge 36 comuni, tutti
in provincia di Reggio di Calabria. Il Cuore del Parco é l’acrocoro centrale,
un vasto altopiano circondato da versanti scoscesi, dominato dal Montalto, da
quella meravigliosa montagna che io ammiravo dal piccolo borgo di Cosoleto, e
dalle altre vette vicine ( Puntone, l’Albara, Monte Fistocchio, Monte Scorda,
Monte Misafumera, Serra Jucari, Serra Carassia). I suoi lati sono contrassegnati
da irti crinali e spesse dorsali, tra cui si dipanano i letti sinuosi e i
ghiaioni aridi delle fiumare, che costituiscono la più nota tra le
caratteristiche fisiche dell’Aspromonte. Non mancano gole, forre, canyon
profondi ( sull’alto corso del San Leo, della fiumana Butramo e nel tratto
terminale della La Verde) e
inattese cascate, anche di oltre ottanta metri di altezza ( bellissime quelle di
Maesano, nell’alto corso dell’Amendolea,
quelle del torrente Aposcipo e quelle di Forgirelle, sul Ferraina). Poi
ci sono i grandi altipiani, che circondano a settentrione e a occidente il
massiccio. Tra i più importanti quelli di Zillastro, Zervò, Carmelia. Essi
scendono, pianeggianti o leggermente inclinati, in enormi gradini geologici
separati da ripide scarpate. Si tratta di veri e propri terrazzi marini, la cui
origine é da ricercarsi nel
sollevamento del terreno, nel sedimentarsi dei materiali provenienti dai rilievi
soprastanti nell’azione erosiva e spianatrice del moto ondoso. E’ assai
probabile, come ci spiega la rivista “Airone”, infatti, che intorno alla
fine del Terziario, la parte sommitale della grande montagna dell’Aspromonte,
che all’epoca era un’isola ( della Calabria emergevano solo questa zona,
parte delle Serre, della Sila e della Catena Costiera), dopo aver raggiunto il
limite massimo di abbassamento, abbia iniziato un graduale inalzamento lasciando
al mare il compito di scavarla e modellarla.
Un’ultima,
ma importante componente del paesaggio sono le “pietre”, grandi monumenti
naturali di roccia, scolpiti dal
vento, dal ghiaccio e dalla pioggia, che costellano gli spartiacque tra una
valle e l’altra. Ce ne sono di spettacolari: le alte guglie delle Torri di
Canolo, l’imponente complesso dei simmetrici Tre Pizzi, gli impressionanti
corrugamenti delle Rocce degli Smalidetti, la maestosa sfinge di Pietra Cappa,
forse il più solenne tra i monoliti della regione, le Caldane di Roghudi e la
vicina Rocca del Drago, poi ancora Pietra di Febo, Aria di Vento Monte Pinticudi.
Luoghi straordinari, che gli eremiti basiliani, di origine bizantina, intorno
all’anno Mille, avevano eletto a dimora. Forse intuendo in quegli scenari
inquietanti la rappresentazione dell’ardua via necessaria per avvicinarsi a
Dio”.
Ecco,
che cos’è, per chi non lo
sapesse, la grande “ Montagna dei contrasti”, il massiccio
dell’Aspromonte, che domina due
mari: quello Ionico e quello del
Tirreno, con le meravigliose vallate, le
sue infinite insenature e le sue bianche spiagge, dove l’uomo può sognare
delle bellissime vacanze, in un paesaggio incantato, un paesaggio da favola. I
miei occhi, all’alba di quel lontano e limpido mattino del 2 giugno 1946,
hanno ammirato tutto questo. Mentre il torpedone mi portava verso la città di
Reggio di Calabria, e guardando ancora una volta il massiccio dell’Aspromonte,
che era illuminato parzialmente dai primi raggi del sole, forse, nella ridda,
nella confusione dei miei pensieri, che mi frullavano e si dibattevano per la
mente, è
emerso nei miei ricordi il
sublime pensiero di Lucia Mondella, nei Promessi Sposi,
quando attraversava sulla barca quel ramo del Lago di Como, per
raggiungere Pescherenico, dove li aspettava Padre Cristoforo, e pensando alle
sue traversie e alla sua mala sorte, mentre il sole stava tramontando in quel
braccio del Lago di Como, e rivolta alle sue montagne, per dare
l’ultimo saluto, pensando alla
sua terra natia, alla sua giovinezza, e
perché no, anche alla sua modesta casa, ha
pensato mentalmente: “.... Addio, monti sorgenti dall'acque , ed
elevate al cielo; cime ineguali, note a chi é cresciuto tra voi, e impresse
nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari;
....” . Quella, é una delle più belle pagine dei “ Promessi Sposi”, che
il grande Alessandro Manzoni, abbia mai scritto.
Il
mio pensiero era diverso, ma pressappoco,
aveva lo stesso significato. Il mio non voleva essere un addio, ma un arrivederci, perché
l’amore per la propria terra,
dove si trovano le nostre radici, per il proprio paese, per i luoghi che ci
videro gioire non conoscono la sua profondità finché non arriva l’ora del
distacco. E poi, io non scappavo, come stava facendo Lucia e Renzo, ma
per mia libera scelta, mi avventuravo in un viaggio pieno
di insidie e di rischi in un Paese che era alla deriva, dopo una lunga
guerra devastatrice.
Il
grande massiccio aspromontano si allontanava sempre di più, rimaneva l’ultimo
tratto collinare che era di una bellezza infinita e la natura, tra maggio e
giugno, era nel suo massimo splendore. Lungo gli argini che fiancheggiavano la
strada che portava al mare, c’erano fiori di varie specie e colori, il loro
profumo, sicuramente era intenso, ma io non lo percepivo, inebriava il cuore e
faceva bene all’anima.