Era il 1972 e il concetto di “Manga” non sarebbe stato più lo stesso. Dopo qualche esperienza come fumettista comico (“Abashiri Ikka” e “Harenchi Gakuen”), Go Nagai iniziò la sua opera più importante, il capolavoro ineguagliato, la sua “summa poetica”: “Devilman”, sequel ideale del precedente (ed incompiuto) “Mao Dante”. 
Ad un tratto stilistico ancora rudimentale, in più occasioni influenzato dalla passata esperienza di caricaturista comico,  si contrappone una sceneggiatura profondamente potente, un flusso narrativo di incredibile robustezza che riesce non solo a compensare la carenza del disegno, ma a dar vita con 
esso a quello stridore che si crea tra i poli di un’antitesi “infantile/adulto”  (ma anche “elementare/elaborato” o più semplicemente “Bene/male”) che è il dna della storia dell’ uomo-diavolo (fin dal titolo, l’antitesi…). Questa discrepanza non fuoriesce solamente dall’opposizione significato vs. significante (la storia vs. il disegno), ma serpeggia un po’ per tutta l’opera, nello sviluppo della storia; sì, perché in Devilman ci si imbatte in quel disagio profondo, qualcosa di simile al raccapriccio, che nasce nel realizzare il “fuori contesto” delle cose (surrealismo?), il capovolgimento dei ruoli nella società… 
E allora ecco che il mondo è nelle mani di un 
adolescente, ecco che gli adulti perdono la lucidità molto più facilmente dei loro figli…
La storia di Devilman nasce proprio, come molte altre opere di Nagai, come una faccenda tra ragazzi fuori dai cancelli del liceo, non senza i soliti teppistelli,  per poi evolversi a tutto il Giappone, e in ultimo a tutto il mondo. 
Akira Fudo, vive ospite dei  Makimura, la famiglia di Miki, la ragazzina con cui divide un amore adolescenziale. Un giorno, fuori dalla scuola, il suo amico Ryo, gli propone di andare a casa sua: deve mostrargli un inquietante segreto. Si tratta di un’antica maschera che il padre di Ryo ha lasciato al ragazzo prima di suicidarsi. Questa maschera risale a tempi remoti, precedenti la presenza dell’uomo, quando erano i Demoni a dominare la Terra. Ryo propone ad Akira di fondersi con un demone, per diventare un uomo-diavolo: infatti secondo le teorie del padre, un noto archeologo, sarebbe vicino il ritorno dei Demoni. Akira accetta, e diventa Devilman: il suo compito è combattere l’orda di 
demoni che sta per infestare il Giappone. La sua potenza è sovrumana, ma il suo cuore rimane quello di un uomo, e anche i suoi sentimenti. 
Dopo un epico scontro con l’Arpia Silen, lo scenario si allarga e da Tokio, la resistenza dell’uomo contro il male, coinvolge in poco tempo tutta l’umanità… 
In linea con quanto detto sopra, l’intreccio alterna 
Ryo Miki momenti decisamente distesi come la “love-story” tra Miki e Akira a  scene di puro splatter, sangue e interiora in “primo piano” dove Nagai può dar sfogo al più rivoltante dei suoi bestiari. Protagoniste assolute tra le numerose comparse, la bellissima Arpia Silen e la terribile Psychogenie.  Numerose le citazioni “alte”,  riferimenti di un certo peso culturale; molti i rimandi alla Bibbia, alla Commedia di Dante (la collocazione tra i 
ghiacci del Dio del male è suggestione dantesca…) e alla guerra atomica. 
Last but not least,  c’è una cosa, forse la più semplice e immediata ma che più d’ogni altra contribuisce al monumento di Devilman ed è l’umanizzazione della bestia e la bestializzazione dell’uomo. Nagai, fa cadere il velo che divide il Bene dal Male, l’angelo dal diavolo, il vincitore dal vinto. Così, dopo averci illuso per tutta la storia con stridenti antitesi, ci spiega in realtà come stanno le cose. Gli opposti, gli ossimori, le antitesi  non esitono in natura o meglio, non sono altro che divertenti esercizi retorici di scissione di un’unica miscela. Tanta salita quanta discesa. Dio e il Diavolo? Proiezioni della duplice (ma unica) natura dell’uomo, al contempo protone ed elettrone nel nucleo di un atomo chiamato Universo. 
Era il 1972 e il concetto di “Manga” non sarebbe stato più lo stesso.
Janquito
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