BORJA, CITTA’ DI CONFINE
Hugo Pratt. Nonni e Fiabe
di Luigi Siviero

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Borja nel Perù è il confine fra le certezze della civiltà occidentale e il mistero. E’ l’ultimo avamposto di missionari, scienziati e schiavisti prima di entrare in una terra di stregoni e cannibali. E’ il punto più estremo che gli occidentali riescano a raggiungere, oltre il quale vedono una regione che sulle carte geografiche possono solo rappresentare col vuoto, quel vuoto che per gli esploratori è un limite, è il pericolo di fare passi falsi che continuamente è in agguato, è la soggezione nei confronti di ciò 
che non si ritiene sia comprensibile razionalmen- te e che alcuni indicano con Dio (o Madre de Dios). Quello stesso vuoto invece per gli abitanti della regione è un’infinita e amichevole foresta attraversata da tutte le sfumature del sole al tramonto, è un rapporto caloroso con ogni albero, fiore, animale. Per gli indios il vero passo verso l’ignoto è l’approdo nel mondo occidentale: gli indigeni catturati nella foresta e trasportati nelle città per diventare servitori non solo non riescono ad ambientarsi nel nuovo mondo ma finiscono addirittura con il dimentica- re le proprie tradizioni e gli insegnamenti della
foresta. In questo irreale ed evanescente teatro recitano i protagonisti di Nonni e fiabe, un racconto che ha come tema gli incontri, siano essi benevoli o spiacevoli. Non può che essere una terra di incontri e confronti questa Borja, così in bilico fra magia e razionalità. Non si può pensare che questi elementi si vedano e al contempo si ignorino, è impossibile immaginare che siano così guardinghi e fieri di (credere di) essere monolitici da non tentare nemmeno di sfiorarsi. Il racconto mostra come i due mondi apparentemente contrapposti non solo tentino il contatto ma riescano addirittura
ad amalgamarsi. ‘Vi sono due personalità importanti: i due nonni, entrambi medici. Ma l’uno è un chirurgo occidentale, l’altro è uno stregone indiano. (…) Le due medicine si completano: se il nonno indiano riesce a sopravvivere alle ferite è perché è stato curato con una giusta combinazione delle due medicine’ (1). La scienza e la magia (termine un po’ poetico per indicare tutto ciò che la ragione non riesce a spiegare) risultano quindi insufficienti se considerate singolarmente, ciascuna delle due mostra delle carenze, delle lacune che vanno colmate prendendo in considerazione l’opposto campo del sapere. 
 
C’è l’idea che ognuno di questi due sistemi di conoscenza non sia autosufficiente, non riesca a reggere la propria presunta capacità di abbracciare e spiegare la totalità dei fenomeni e così sia necessario il sofferto e difficile passo verso ciò che è estraneo, di cui si diffida e si ha sfiducia e timore. Credo che quest’apertura verso l’ignoto sia bene rappresentata anche dalla sequenza che descrive l’incontro fra l’affermato medico londinese e il suo nipotino cresciuto nella foresta. Il dottore, alla vista del ragazzino, rimane senza parole, lo guarda con diffidenza e lo squadra come se fosse uno sconosciuto, qualcuno con cui niente può 
essere in comune. Vede nel viso del bambino i tratti degli indios e i tipici tatuaggi e li percepisce come il segno tangibile della distanza incolmabile fra due mondi che apparentemente vogliono ignorarsi a vicenda. E’ solo una sensazione momentanea perché l’uomo riuscirà dapprima a riconoscere nel bambino i tratti somatici del padre e poi ad afferrare il filo invisibile dell’amore di un nonno per il proprio nipote. Borja è una terra di confine e questo confine non può essere ridotto ai limiti dell’occidente perché Borja ha una dimensione  
personale, individuale. E’ il primo passo di una  strada  che porta ciascun uomo a mettere in discussione le proprie convinzioni ed anche ad accantonarle, a superarle. Ogni uomo che giunge a Borja deve inevitabilmente affrontare un salto verso l’ignoto. 
Non è un caso che nel corso della storia ci sia un confronto fra frate Sullivan e Levy Colombia. Il primo è un uomo che ha votato la sua vita a Cristo adottando lo stile di vita francescano, lontano dagli agi e dalla bella vita, mentre il secondo è un ateo ricchissimo alla caccia di nuovi tesori, in questo campo quasi insaziabile. Queste sono solo le apparenze dietro cui si nasconde più di una sorpresa. Il frate presta (solo apparentemente) il fianco quando mostra il suo attaccamento all’oro. E’ un affetto del tutto atipico, lontano dall’avarizia di chi vive per accumulare denaro; il suo è il desiderio di
arricchirsi per il solo scopo di aiutare il prossimo, per cedere ai più indigenti tutto e ritrovarsi subito nella situazione iniziale di bisogno. Potrebbe comportarsi altrimenti un uomo che ha deciso di donare la sua vita ai bisognosi assistendoli in prima linea? Sullivan è un abitante di Borja, vive nel luogo in cui le trame di mondi confliggenti si intersecano, ed è quindi naturale che il suo modo di pensare sia eclettico, che il suo sguardo non trascuri alcun
orizzonte. E’ un uomo che ha la fortuna di vivere nel paese in cui non mancano i contatti né col mondo degli indios né con quello degli occidentali e quindi ha l’occasione di non trascurare nessun punto di vista e di protendere le sue radici in più direzioni. Il frate viene apparentemente contrapposto a Levy Colombia. Quest’ultimo è un ricco cercatore di tesori che sembra (e vuole far credere di essere) un avido. A questo proposito è interessante una vignetta di Nonni e Fiabe in
cui il miliardario, mettendo in secondo piano il fatto che il bambino e il suo nonno indio abbiano attraversato indenni gli avvenimenti tumultuosi occorsi nella giungla, chiede a Corto Maltese se nel suo breve viaggio è riuscito a raccogliere informazioni che possano permettere una fruttuosa ricerca delle mitiche sette città d’oro. L’atteggiamento di Levy colombia può essere facilmente interpretato in modo negativo, questo personaggio può essere semplicisticamente etichettato come una
persona superficiale continuamente pervasa dal desiderio di afferrare tutto ciò che è materiale. Sono convinto però che il comportamento di quest’uomo possa essere visto da un’altra angolazione. L’episodio sopra descritto può essere visto come il pudico tentativo di celare agli estranei il desiderio di penetrare la foresta di Madre de Dios (intesa in senso metaforico) coprendosi con una patina di apparente quanto poco ingannevole egoismo. E’ un atteggiamento di apertura verso ciò che appartiene allo spirito, vissuto in modo problematico anziché dogmatico (come invece era accaduto – sempre metafori-
camente – ai compilatori della carta geografica che, come sottolineato in precedenza, avevano dapprima lasciato il vuoto nella zona occupata dalla foresta e poi avevano scritto lapidariamente ‘Madre de Dios’); c’è la speranza di ritrovare, oltre all’oro, qualcosa di ben più aureo e inestimabile. Risulta così palesato l’avvertimento iniziale con cui facevo notare che fra il frate e il miliardario c’era un apparente contrasto che nascondeva impalpabili analogie.
Corto Maltese è il protagonista di questo racconto. Per lui valgono tutte le parole spese per indicare l’essenza di Borja? Corto Maltese è cittadino di Borja! Durante tutte le sue avventure non ha mai smesso di essere in bilico lungo quella terra di confine, una parte di lui ha sempre vissuto in quel luogo magico. Una persona abituata a camminare lungo un confine così particolare è fortunata perché non appartiene a nessuna delle mille terre che da quel confine vengono separate: scegliere qualche volta di esplorare una di queste terre significa in ogni caso fare un passo nel vuoto, sentirsi avvolti dal mistero.
Luigi Siviero
(1) H. PRATT e D. PETITFAUX, All’ombra di Corto, Milano, 1992, pag. 64.
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gennaio ‘03