La verità si troverebbe nel mezzo. Nient’affatto. Solo nella profondità.- Arthur Schnitzler

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Il ragazzo che leggeva Grant Morrison
Beast, Phd Henry McCoy Sino ai 15 anni, contrariamente ai suoi amici e coetanei, non aveva mai avuto un mito. Non un cantante, non un calciatore, non un personaggio famoso da ammirare, sognare ed emulare. Tutto ciò, verosimilmente, era dovuto ad una certa fiducia di fondo nelle sue capacità, all’immatura voglia di apparire più maturo degli altri ed al troppo lento incremento delle sue conoscenze. In sostanza, aveva un ego smisurato ed una scarsissima cultura generale, caratteri che mal si sposano con l’adolescenziale adorazione per le star. Poi, un’estate, la fulminazione: Invisibles. Chiuso in camera sua a leggere, steso o appollaiato in posizioni improbabili sul divano, ne divorò avidamente i tredici volumi in meno di un mese. Il fatto che si trattasse di un fumetto evidentemente ricchissimo di significati, spunti di ricerca e materiale di riflessione, unito al non averci capito
Professor X, Charles Xavier assolutamente nulla, lo eccitò a tal punto che decise a tavolino di fare dell’autore di una simile opera, Grant Morrison, il proprio idolo: d’altra parte, nessuno mai prima d’allora era riuscito ad invogliarlo con tanto magnetismo alla meditazione, all’uso dell’LSD ed allo studio di altre culture (non necessariamente in quest’ordine). Cominciava persino a sentirsi attratto dai libri, ed avvertiva l’impulso ad ampliare i propri orizzonti musicali e cinematografici, ma d’altronde era un ragazzo che non cedeva tanto facilmente alle lusinghe delle tentazioni, e perciò si guardò bene dal lasciarsene ghermire, anche stavolta. Ad oggi, è passato quasi un anno dall’illuminazione, e non solo l’imberbe fanciullo continua a seguire con immutata passione le gesta narratorie di quella che considera la sua guida spirituale non ufficiale, ma porta avanti una sana venerazione per il 
White Queen, Emma Frost Maestro  e per le sue opere, e non dimentica il progetto di un pellegrinaggio a Glasgow, città natale dello scrittore. Tuttavia, siccome non è completamente ottuso dalla propria infatuazione, ha scelto di non abbracciarsi ciecamente a ciò che, col tempo, potrebbe rivelarsi una bufala, e tiene zelantemente sotto stretto monitoraggio la creatività contenutistica e linguistica dell’unico autore di fumetti che vorrebbe sinceramente veder assurgere ad icona della cultura pop. A suo dire, è un piacere farlo. Nonostante impegni tutta la propria volontà per non essere prevenuto nell’avvicinarsi alle storie di Morrison, infatti, non passa pagina senza che un fremito gli corra lungo la schiena, e la consacrazione a vate dello scozzese più fascinoso dopo Sean Connery prosegue incrollabile, divellendo ogni ostacolo lungo la strada. Avere un simile culto e trattenersi dal diffonderne
Wolverine il verbo è umanamente impossibile, e così il ragazzo che leggeva Grant Morrison non può esimersi dal provare a rendere partecipi del suo entusiasmo i propri conoscenti. Ad esempio, quando gli viene oziosamente domandato per quale ragione si senta così coinvolto da quell’artista in particolare, risponde che mentirebbe, se sostenesse che per lui il creatore di gioielli come Il Mistero di Dio o Flex Mentallo non è genericamente un genio, e più propriamente un autore eclettico, carismatico ed immaginifico, ripetitivo solo nello stupirlo e nell’esaltarlo con idee deflagranti e simbolismi mirati a consentire per ogni suo lavoro più
Jean Grey, Phoenix livelli di lettura. Naturalmente, aggiunge sempre che mentirebbe in egual misura se non ammettesse che le abilità dell’attuale sceneggiatore di New X-Men vanno molto oltre il rapido e scarno tratteggio che ne ha dato. Un modo come un altro per implorare tacitamente l’interlocutore di chiedere di più, di pretendere spiegazioni approfondite, di dichiararsi pronto a fare un giro sui carboni ardenti pur di farsi prestare un’opera di quel tanto decantato poeta pop. Ma c’è poco da fare, e la discussione non riesce nemmeno a trascinarsi al di là del primo, infimo, traguardo. Ci sarebbe da uscire frustrati da continue esperienze di questo genere, ma la fede permette di resistere a questo ed altro, ed un giorno, si augura il ragazzo, tutti comprenderanno la gloria di Grant Morrison. Nell’attesa, il giovincello parla di se stesso in terza persona e, non sapendo far altro che
Scott Summers, Cyclops predicare ai convertiti, ha deciso di condividere con il pubblico di alcuni siti che trattano di fumetti le riflessioni e gli spunti di discussione che gli sono stati suggeriti dal primo anno e mezzo di impiego del poliedrico scozzese sulla più venduta serie mutante del momento.
Impressioni sparse – e un po’ convulse – su New X-Men
Sergej Bubka, saltatore con l’asta, stabilì primati su primati facendosi alzare l’asticella di un centimetro alla volta, nonostante avesse la consapevolezza di poter saltare molto oltre. Grant Morrison ragiona
New X Men 140 alla stessa maniera, e questa filosofia del non tentare l’exploit inconsulto ad ogni occasione, pur passando di record in record, è qualcosa cui bisogna plaudere senza indugi, in quanto giova a tutte le parti in causa: se l’autore può permettersi di convogliare i propri sforzi su pochi punti focali, sviluppandoli globalmente, il lettore avrà vita facile e felice nel concentrare solo su di essi la propria puntuale attenzione, per poi avere una più agevole visione d’insieme del fumetto stesso, che dal canto suo risulterà armonicamente omogeneo, pur nella sua screziatura. In sostanza, questo ineffabile scrittore ha colto l’essenza del fumetto seriale e l’ha messa in bella mostra: che l’intento sia filantropico, didattico o autocelebrativo, a noi poco importa. A voler approfondire la problematica della concezione che il britannico dal multiforme ingegno ha del fumetto mensile (quando non addirittura quindicinale), vengono rapidamente a galla le diverse componenti che lo scozzese ha ritenuto opportuno
New X Men 142 inserire nel suo ciclo di New X-Men affinchè avesse un successo giustificato dalla qualità del prodotto. In primo luogo, ha compreso la necessità di mantenere costanti tra un episodio e l’altro direzione e verso del fluire della vicenda, non consentendole in alcuna occasione di deviare durante la propria corsa, in modo da non costringere il lettore a ripassare periodicamente l’accaduto per non perdere il filo dell’intreccio. Niente fill-in, niente episodi unicamente retrospettivi o introspettivi, che dilapidino la tensione accumulatasi in precedenza: se lo scioglimento della trama si allontana nel tempo, è solo perché accadono nuovi eventi imprevisti, secondo una struttura narrativa a gradini, non perché le spiegazioni vengano posticipate di alcuni mesi al fine esclusivo di allungare il brodo e vendere di più con meno fatica. Altra intuizione di rilievo, in merito all’adeguamento delle storie alla loro periodicità, è l’introduzione nel fumetto di una tecnica di regia che si potrebbe definire di presa diretta in pseudo-soggettiva di gruppo: in
New X Men 138 modo quasi spiazzante, invece di descrivere momento per momento ciò che avviene in ogni luogo dove siano presenti mutanti, Morrison sbatte spesso davanti al lettore il fatto compiuto, comunicato attraverso le parole dei personaggi, oppure solo sottinteso e destinato ad essere desunto da fattori esterni. Da ciò e dall’assenza di flashback, ellissi o sbalzi temporali superiori alle poche ore all’interno dei singoli episodi, con assoluta naturalezza e posto per assunto che il tempo nell’universo Marvel scorre più lentamente che nella realtà, scaturisce l’impressione che ogni numero di New X-Men racconti gli avvenimenti susseguitisi in un certo lasso di tempo, diciamo la giornata stessa in cui il fumetto viene pubblicato, e che a noi non sia dato conoscere direttamente quanto prodottosi nel frattempo. È evidente che questo metodo di affrontare una narrazione destinata ad una pubblicazione cadenzata getta le proprie basi nella coerenza e coesione di atmosfere, personaggi e situazioni tra un numero ed il 
New X Men 139 successivo, offrendo peraltro ragione di digressione verso la dibattuta questione della continuity: premesso infatti che essa è indispensabile alla conservazione dell’identità stessa del fumetto americano, migliaia di storie da conoscere a menadito per poter raccontare la propria sono un deterrente immotivato per qualunque autore scelga di accostarsi ad una serie complessa come X-Men; pertanto, lo scrittore britannico ha risolutamente preferito orientare la fucina della propria inventiva in direzione della costituzione di presupposti che potessero dare origine ad una nuova epopea, destinata indistintamente a vecchi e nuovi fruitori, caratterizzata da una ferrea continuity interna alla gestione particolare. Ma la destituzione d’importanza di un’azione di pedante adesione alla tradizione precedente non è l’unico punto di attrito fra lo sceneggiatore dal lucente cranio rasato e certo genere di fan. Non di rado e con alterne motivazioni, infatti, gli si muove la critica di stare scrivendo degli Ultimate X-Men, piuttosto che degli 
New X Men 141 X-Men: un simile apprezzamento, contrariamente ai propositi di chi ne è convinto assertore, dimostra che è avvenuto il pieno raggiungimento degli obiettivi che lo scozzese si era prefisso, e che quindi i suoi mutanti sono perfetti interpreti del mondo attuale. Nel tanto contestato Morrison Manifesto, per l’appunto, tralasciando i passi nello specifico, il concetto di fondo era la demistificazione. Per ottenerla, a mio parere, le strade possibili da seguire erano due: o collocare gli X-Men in un contesto di realismo e quotidianità da letteratura del secolo scorso, privandosi però di una vasta gamma di alternative, oppure sfruttare integralmente la sospensione dell’incredulità del lettore. È lampante quale linea sia stata seguita in New X-Men: dalle ceneri di quarant’anni di storie e dal pizzico di senso del concreto che può essere utile al progetto, è stata plasmata una realtà spassionatamente fantascientifica ed aliena alla nostra, che tuttavia appare come perfettamente credibile a chi le si avvicina, al
punto da essere facile all’immedesimazione. Questo perché la primapenna del parco-testate mutante è riuscito a sviluppare un cast di comprimari folto e funzionale alle storie raccontate, un clima di generale evoluzione rispetto al passato, nuove nemesi, nuovi conflitti interni ed esterni ad ogni singolo personaggio ed al gruppo in toto, ed ha imposto un ritmo serrato alla narrazione, con continui colpi di genio, numerosi cambi di inquadratura e passaggi repentini e sincopati da una scena all’altra. Complessivamente, quindi, la vera abilità dello scozzese si è manifestata nella conduzione dell’operazione di riabilitazione di un gruppo di supereroi che aveva perso la memoria di
se stesso: le rivoluzioni apportate ex novo da Morrison, infatti, non sono state tante quante le modifiche a ciò che già c’era ma mal funzionava, attraverso un’attenta e consapevole trasformazione delle potenze in atti. La visuale profondamente critica che l’autore ha dovuto adottare nel rapportarsi a personaggi ormai dotati di vita propria lo ha convinto della convenienza – se non addirittura dell’ineluttabilità – di conservare invariate le tematiche di fondo, pur alleggerendole delle appendici cancrenose che avevano portato al declino di quella che era stata la punta di diamante qualitativa (e quantitativa) della produzione Marvel per decenni. Nel concreto, gli X-Men sono sempre stati degli emarginati, e nelle loro storie è sempre stata presente – talvolta in modo spropositato e ridondante o assurdamente innaturale – la problematica del razzismo. Con il nuovo millennio, l’apertura delle frontiere, la globalizzazione ed internet (e faccio questo elenco con tono lucidamente qualunquista), era quasi
venuto a cadere il momento “pedagogico” nelle avventure dei figli dell’atomo, e di conseguenza il nuovo sceneggiatore, conscio dell’esigenza di mantenere il comic book ancorato ad un solido messaggio, ha ampliato il concetto di diversità abbassandolo di livello, inserendo finalmente nella scuola di Westchester mutanti raccapriccianti, insostenibili alla vista, al tatto o all’olfatto. Riassumendo, la New X-Men di Grant Morrison ha numerosi motivi di esistere: oltre ad essere una serie prodiga di innovatorii aspetti programmatici, racconta – con innegabile classe e soffusa ironia, per giunta – storie intriganti e mozzafiato, popolate di personaggi peculiarmente caratterizzati, in grado di trasmettere emozioni e modelli di pensiero mai scontati, mai stereotipati e soprattutto mai statici. In sostanza, infatti, è proprio il dinamismo ad impregnare ogni vignetta di questo fumetto, ed a far crescere di attimo in attimo nel 
lettore  l’ansia di arrivare all’ultima pagina “per vedere come va a finire”, e poi riprendere daccapo a leggere con la stessa passione di prima, ma stavolta con la mente attenta a cogliere ogni finezza dispensata dall’autore, e l’orecchio teso ad auscultare la vita che pulsa tra le fibre della carta stampata.
Youngest

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giugno 2003 - logo titolo: Janquito