Dario Magnanini

OPERA DEL PADRE

Vol.I

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(vai al vol.II)

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Informazioni dell’autore

Per contattare l’Autore: dariomagnanini@libero.it

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ANTEFATTO

(Precedenti del coscritto)

Dicente

Uno

Già un intermezzo

Padre e madre

Figlio di Bepi...

...e di Maria Zanin

1892, Emilio coincide...

Rapporto rovescio

Così "L'Eco dei Soviet"

1900, Sorelle Gamba

Simmetria d’illusioni

"Il secolo nuovo"

"Chi del gitano..."

1904, sciopero

Enrico Ferri e il falegname

Guglielmo II

La "Norma"

Venezia proletaria

Elia Musatti

L’onorevole Ventimilalire

"Tripoli, bel suol..."

Seconda scapigliatura

 

Pacifismo, femminismo, riformismo

Anarchia

Lezione

G.M.Serrati

Quel fine ottobre del’26

Dante, "Edizione patriottica"

Amor di patria

Internazionale

Intermezzo privato

Importanza dei fatti

Importanza delle parole

Complementi d’informazione

Precedenti del coscritto

Emilio era convinto

Ogni specie

Crosta della memoria

Arrivo al comando

In caserma

Ricordi di Parma

Aria

Preparazione dei corpi

Preparazione degli animi

CAPITOLO I

(Album trentino)

Mistica professionale

L’altra faccia della mistica

A Nozza

Il nemico è ormai scelto

Patria e mondo

Verso la frontiera

"Va fuori d’Italia...!"

Latte per due patrie

Primi bivacchi, prime trincee

Muli, cuculi e falchi

Volontari

Poeti e camerieri

Case Rango

Don Luigi futuro

Mugnaio

Calzolai e trombettieri

Imprese del capitano

Promozione e partenza

Esistenza della natura

Esistenza del nemico

Frottole e improperi

Si conquista cima Palone

Piccoli camorristi

La cima in cappotto

Promemoria 1915

Si prepara la "Strafexpedition"

Lenzuola fresche

Ritorno in pianura

L’incontro

Ripresa

La "punizione" ha inizio

Val Lagarina

Italia contro Italia

Migliori e peggiori

Tre giorni sul monte Zugna

La buona stella

Termopili

Passo Buole

Ritorno alla Malga

Fortuna divisa e moltiplicata

Mulattiera, che passione!

Storia e verità

La "punizione" è fallita

Andata e ritorno

Parentesi

Il guiderdone

Ferito ufficiale e ferito semplice

Medicina di ieri

A proposito di destino e coincidenze singolari

A Serravalle cala la prima tela

CAPITOLO II

(Album macedone)

Litorale adriatico

Santa Barbara

Il mistero della Leonardo

Latte...

...savoiardi...

...e mare

Alto mare

Gorizia

Burrasca

Thessaloniki. Sbarco...

...e parata

Terra civile o incivile?

Terra straniera

In ventimila

Il sonno

Il rancio di Amleto

Anopheles maculipennis

 

 

Oasi di Bashanlì

Geografia e storia

Monastero di Deli-Hasan

I lupi

Vendetta dei lupi

Una piacevole invasione corazzata

Ancora un po’ di storia

Le mille e una marcia

Fino a Topci

Alessandro

La fame

Cosa vuol dire fontana

Forza del destino

Buona occasione

A Eksissù cala la seconda tela

Sonno duro sul duro

CAPITOLO III

(Album di Salonicco)

Il 151

Pesce fritto

La bolgia di Zeitenlik: l’impatto

La bolgia di Zeitenlik: l’inoltro

I tre sergenti

Astinenza

Ubicazione del campo e permesso di uscita

Via degli Alleati

Baraccopoli

Postriboli d’oriente

Metropoli d’oriente

Absinth

Caffè concerto

Discipliniamo la bolgia

Capricci slavi

Dall’alto del minareto

Tenzone degli intellettuali

Eleuterio Venizelos

 

 

Il Grande Trucco

Caffè "Nuovo Mondo"

Rassegna d’imboscati: in fureria...

...e altrove

Quartiere turco

Dervisci danzanti

Quartiere europeo

Stagione balneare

Si riparla del capitano

L’incendio di Salonicco: l’inizio

Avvio dei soldati

Fuga degli abitanti

Comportamento dei soldati e degli abitanti

Sistemazione degli sfollati

Polemiche

Visita del Re

La nuova Salonicco

CAPITOLO IV

(Raccordo)

Foglio azzurro

Valico Grecia-Albania

Lungo un’Italia diversa

Venezia

Saluto gerarchico

Ritorno in Macedonia

 

 

Angeli e topi

Crepuscolo di guerra

Da Zeitenlik a Vladova

Da Vladova a Zeitenlik

Fine della guerra

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Informazioni dell’autore

Benvenuti alla mia Personal Web Page. Troverete le informazioni che mi riguardano nella nota bio-bibliografica con relativa iconografia alla fine del Vol.II. Questo primo indirizzo può interessare in modo particolare i cultori di letteratura, storia generale, storia militare e saggistica politica.

Com’è noto, grandi sono le difficoltà che scrittori e studiosi che non siano noti a un vasto pubblico incontrano per pubblicare in carta stampata i propri lavori. Chi riesce a pubblicare, gratis o con profitto, appartiene per lo più a categorie privilegiate dalla posizione sociale o dalla professione, tanto che questa situazione, più o meno sempre esistita ma accentuatasi in epoca odierna, e che non è troppo denominare truffa culturale o, con linguaggio corrente, pubblicopoli, potrebbe indurre gli estromessi a ritenere, non del tutto a torto, necessaria una riscrittura della civiltà. Purtroppo, quello che è stato è stato, e non può essere più resa giustizia a nessuno.

Ma, a prescindere dalla necessità, a suo tempo confidatami da Franco Fortini un paio d'anni prima della sua scomparsa, che nel campo dell'editoria letteraria venga istituita la figura di un "garante", notiamo che oggi esiste questo nuovo, straordinario mezzo pubblicitario che è Internet, che non esclude nessuno, e che perciò migliaia di autori possono ora far giungere la propria voce a un pubblico più vasto della propria cerchia di amici.

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Questo libro è frutto di oltre dieci anni di lavoro e ricerche. In sintesi, si tratta della biografia di una persona alla quale sono stato legato da grande affetto e interesse: mio padre.

Seguire la guerra nelle vicende personali di un soldato, seguire questo soldato nelle vicende generali della guerra sono i compiti del primo volume, che mi sono prefisso secondo i due punti di vista generale e particolare che, a prescindere dagli specifici contenuti del caso, sono presenti in qualsiasi scrivere. Ad essi va aggiunta la presenza di un terzo momento in qualche modo unificante: il soggetto scrivente che sovrappone sempre all’oggetto qualcosa di sè.

Questo lavoro non è un romanzo in senso tradizionale ma un contenitore in cui ho fuso in libertà d'ampiezza e frequenza esposizioni di fatti, idee e ipotesi proprie del saggio, descrizioni e narrazioni proprie del racconto e momenti propri della poesia. Ho voluto discutere, descrivere, raccontare ed esprimere il materiale che avevo di fronte: il complesso dei documenti scritti e orali che mio padre mi ha lasciato. Ciò ne spiega il titolo.

Ora sono sessant’anni che mio padre mise insieme un complesso di memorie sulla prima guerra mondiale che intitolò "Appunti di un furiere". Vent’anni dopo diede mano a un secondo volume, stavolta sul periodo fascista e sul secondo conflitto così come li visse, non certo nelle divise di miliziano e militare, ma da borghese, anzi, da comunista. I due documenti coprono un arco di sessant’anni sufficiente a delineare una vita cui non ho aggiunto gli ulteriori ed ultimi venti che mio padre dedicò allo studio della sua città e alla poesia vernacola, perché privi d'interesse biografico. La vita di Emilio è stata singolare. Io non mi azzarderei mai a scrivere il romanzo della mia poiché non ho avuto storia essendo sempre vissuto inchiodato a una scrivania e conscio del fatto che, tolta la fanciullezza trascorsa nei rischi seminconsci della guerra e aggiunte la successiva pace, l’ordinario trascorrere delle cose e la mia avversione a qualsiasi avventura che mi possa sovraesporre, non mi è mai accaduto nulla di speciale. I racconti di mio padre e i suoi documenti mi hanno stimolato, ho sentito questo lavoro come l'impegno di confrontare con lui la mia diversa ma anche simile personalità, e di colmare una lacunosa conoscenza della sua esperienza e anche una certa debolezza d’affetto del periodo infantile.

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Emilio Magnanini nacque a Venezia il 28.8.1892 da povera famiglia arsenalotta. Il padre era motorista all’Arsenale e la madre casalinga. Si guadagnò il pane fin dall’età di otto anni facendo via via il garzone in un negozio di merletti, il garzone d'un fabbro, il portalettere e altri umili mestieri, ottenendo infine un posto d’impiegato al Genio della Real Marina. Imparò fin da bambino a conoscere in profondità la sua città nelle calli, nelle botteghe, nella gente operaia e artigiana. Dall’autunno del 1914 alla primavera del 1919 fu soldato. Dall’inizio della Grande Guerra fino all’estate del’16 fu nel Trentino e quindi fino alla fine in Grecia con un corpo di spedizione dell’Intesa. Ritornato al suo modesto impiego, scoprì, attraverso la comunanza e l’identificazione con le classi povere in un’epoca in cui anche l’esercizio delle libertà più elementari era considerato sovversione, la carica ideologica e messianica dell’anarchismo, del socialismo e infine del comunismo. Nel 1921, mentre a Livorno nasceva il nuovo partito proletario, fu primo segretario della Federazione veneziana del PCd’I. Fu direttore del periodico "L’Eco dei Soviet" che fu elogiato da Lenin unitamente a "L’Ordine Nuovo" di Gramsci, e de "Il Secolo Nuovo", il settimanale fondato da Elia Musatti. Sposato con una veneziana, ebbe quattro figli. Durante il regime fascista fu perseguitato e gettato più volte in carcere a scopo di prevenzione e di indagini, fortunatamente per brevi periodi. Coltivò una propria vasta cultura di autodidatta di cui la politica, l’economia e la poesia furono i tratti principali. Dal 1924 fu Procuratore dell’Ufficio Carboni in varie sedi d’Italia della Rappresentanza Commerciale Sovietica, incarico che lasciò nel’33 per diventare Pubblico Mediatore in Carboni. Visse e lavorò a Venezia, Roma, Genova e, più a lungo, a Milano. Ristabilitosi a Venezia nel’61, lontano dalla politica e dal commercio attivi, si dedicò interamente alla conoscenza del presente e del passato della sua città e allo scavo poetico dei suoi ricordi. Morì a Venezia il 27.2.76, commemorato nella sua vita di antifascista da un discorso del senatore ed ex sindaco di Venezia Giobatta Gianquinto.

Pubblicazioni: 1) articoli di natura politico-ideologica scritti negli anni Dieci sui fogli anarchici diretti da Enrico Malatesta, Ada Negri, Paolo Schicchi, Leda Rafanelli, e su periodici socialisti come "Il Secolo Nuovo" e comunisti come "L’Eco dei Soviet"; 2) "Il Prisma", ed. E.Magnanini, silloge di poesie in italiano pubblicate a Milano nel 1936; 3) vari articoli di natura professionale pubblicati sulla stampa specializzata economico-commerciale nel periodo postbellico; 4) "Questi xe i dogi...se ve piase", ed. Rebellato, Padova 1958, schizzi poetici in veneziano di tutti i dogi della Serenissima.

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Il libro. Anzi, i due libri, perché i documenti lasciati appartengono a due sfere d’esperienza distinte, la Grande Guerra e il Fascismo, anche se non autonome essendo stata la prima una delle premesse della seconda, sicché ho pensato di comporre due volumi ciascuno dei quali, pur nella necessaria continuità, è in sè compiuto. Ho voluto utilizzare questo materiale come occasione unica per edificare qualcosa che, oltre a interessarmi e piacermi, fosse il completamento della linea evolutiva di Emilio, quasi obbedendo a una continuità genetica. In altre parole ho voluto far mio il suo lavoro, calarlo nella mia personalità, a volte anche in contraddittorio con la sua, e mettere in evidenza il suo dramma che è stato quello di tanti suoi contemporanei: il dramma totale di un socialista della corrente comunista che affronta le progressive difficoltà d'un mondo esterno che via via lo entusiasma (la prima giovinezza), lo obbliga alla sordina per cause di forza maggiore (la Grande Guerra), lo sviluppa nel pensiero e nell’azione (gli anni della fondazione del PCd’I), lo ostacola, lo perseguita e lo costringe alla riservatezza (il Fascismo), e infine lo delude (seconda guerra, dopoguerra e politica rinunciataria del PCI) anche se mai, in nessun caso e in nessun momento, arriva a sconfiggerlo. Può darsi che la delusione patita d'allora in poi abbia provocato in lui negli ultimissimi anni anche un'incrinatura ideologica, come pare di avvertire da qualche sintomo (per esempio, nel paragrafo Estremo saluto al compagno Antonio Scappin del volume II). Se questo è davvero accaduto, è stato un cretto ben sofferto e nascosto. Emilio morì comunista, anche se più nel cuore che nella mente, portò fino in fondo il suo sentimento politico come il suo stesso corpo con la coerenza e l’onestà di chi non accetta compromessi. Ma, se avesse potuto vivere fino ad oggi, di quale natura e portata sarebbe stata la sua delusione? Immagino un salto dal comunismo mancato al comunismo impossibile. Di ciò non bisogna vergognarsi, perché solo sbagliando si conosce la vita e la via dell'errore è la via della verità a dispetto dell'orgoglio infantile di chi persevera, di chi si ostina. Di tale catastrofe ideologica chi ha colpa, il soggetto o l’oggetto? La debolezza della nostra ideologia o la fallibilità del mondo? A questa domanda, valida per qualsiasi estremo idealismo politico, nessuno potrà mai rispondere. Metodologia della scienza e politologia alla mano, possiamo affermare che non è possibile una coerenza tra ideologia e prassi, così come tra divino e umano. E’ un’incapacità che sta insieme nel singolo e nella società. La causa d'una tale debolezza è un mistero come il perché dell’uomo.

Il lato saggistico. Quando ne ho avuta l’occasione, ho avviato libere e brevi digressioni per meglio chiarire termini storico-politici, vocaboli dialettali, fatti e implicazioni e le stesse testimonianze di Emilio che possono essere considerate contributi storici. I fatti non vanno mai disgiunti dal loro significato. La comunione tra oggetto e concetto si ottiene per via espressiva o per via razionale, e questa può sostituire quella quando ne sia il caso o quando non si riesca a fare altrimenti. Per quanto riguarda questo primo volume cito le osservazioni contenute in alcuni paragrafi sul concetto di mera funzione professionale del lavoro (cfr. "Mistica professionale") o quelle sul nazionalismo e l’internazionalismo ("Patria e mondo") o i frequenti richiami storici ad alcuni precedenti della Grande Guerra o a suoi particolari capitoli come la Strafexpedition e in particolare la testimonianza di Emilio sulla battaglia di Passo Buole o su quella disgraziata avventura che, non avendo precisi elementi d'individuazione, ho immaginato d'identificare col tentativo compiuto dai nostri fanti il 30.6.1916 di espugnare il Forte Pozzacchio in Vallarsa (cfr. "Andata e Ritorno"), e altre testimonianze ancora come quella sull'affondamento della corazzata Leonardo Da Vinci, in merito alla quale (e per merito di Internet) ho ricevuto recenti e inaspettati chiarimenti dal lontano parente di un protagonista dell'episodio (cfr. la nota in calce al paragrafo "Il mistero della Leonardo").

Per comparare con gli accertamenti storici e geografici le testimonianze di Emilio sulle vicende belliche in Val Lagarina mi è stato di aiuto, tra i testi consultati, il diario dell’ufficiale austriaco Karl Schneller pubblicato in questi ultimi anni (Karl Schneller, "1916 - Mancò un soffio", diario inedito della Strafexpedition..., a cura di Gianni Pieropan, ed. Arcana, Milano 1984). Molto utili anche la "Grande Guerra" (Carlo Meregalli, "Grande Guerra" - 15-18 dal crollo alla gloria, ed. Ghedina & Tassotti, Bassano del Grappa, giugno 1996) e "Prealpi Venete e Trentine" (Storia e itinerari nelle località della Grande Guerra - di Walther Schaumann - ed.Ghedina & Tassotti, Bassano del Grappa, maggio 1988).

La descrizione e il racconto degli spostamenti e delle operazioni nelle Valli Giudicarie del 61º Reggimento Fanteria della Brigata Sicilia (cui Emilio apparteneva) sono forse una novità storica ma non di particolare rilievo poiché in quel settore, eccettuata la conquista del monte Palone (e naturalmente le operazioni svoltesi più a nord nella zona dell’Adamello), non accadde nulla di importante. Di originale rilievo storico ritengo invece siano senz’altro le testimonianze sulla nostra partecipazione alla spedizione dell’Intesa in Grecia partita da Taranto i primi di agosto 1916, e sulla quale non mi risulta che siano stati pubblicati né testi né materiale informativo. L’unica notizia riportata dai manuali è quella, probabilmente desunta dallo spoglio dei giornali dell’epoca, dell’intenzione del gen. Cadorna di organizzare tale partecipazione in alternativa alla spedizione militare in Albania caldeggiata dal ministro degli esteri Sonnino (cfr. "Storia d’Italia", cronologia 1815-1990, ed.De Agostini 1991, al giorno 16 ott.1915, ). La parata di Salonicco, le marce in terra macedone, la descrizione del campo italiano di Zeitenlik, della periferia e del centro della metropoli greca d’allora, quella dello stato dell’accampamento russo subito dopo la rivoluzione di febbraio, la narrazione del colpo di stato di Venizelos e la testimonianza dell’incendio che incenerì nel settembre del 1917 la capitale della Macedonia greca, sono i punti essenziali di tale contributo storico. E’ mio programma sostituire o aggiungere, tra qualche tempo, a questo primo libro il secondo volume, dedicato alle esperienze vissute da Emilio durante il ventennio fascista. [inizio Vol.I]

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Antefatto

PRECEDENTI DEL COSCRITTO

 

Dicente

Oggi ho urtato l’inizio. La testa andava col peso di una cerimonia in cui formare la voglia e ha chiesto all’astratto del passato, al buio cui dò del tu, tanto. Ha chiesto il nutrimento del presente al nulla di cui sono dipendente, participio, bocca dicente.

Mi ha risposto, si è rivelato concreto. E mangio quell’astratto che sa di tutto, bevo la sua aria tramontata dal goudron di lampone e vesto del suo vento, osservato dal numero di occhi del cielo super partes. (torna)

Uno

Cosa vuoi unificare, trovare il centro del tempo...Per capire dobbiamo distinguere e lasciare per nome ieri, oggi, domani. Ogni branca ha foglie e linfa proprie e ciò che valeva allora oggi è lettura. Viene da qualcosa oggi niente e ne porta l’impronta di punto, anello, chiusura oltre cui non succede altro. Non è così?

Non è così. Nel passato c’è un senso, concentrazione che va oltre, sostanza di filo che lega i tempi. Nasce dal niente che torna nel tutto mosso dal sentimento dell’infinito, dall’infinito del sentimento. Pervade le cose oltre i concetti, la loro diversità, la loro parità...Cosa vuoi distinguere migliaia di ragioni dentro anni invece uguali. Sento qualcosa che non è concetto, non è divisione ma osmosi. E’ il passato che insegna al presente. E il presente al passato. (torna)

Già un intermezzo

Quando insieme ci accorgiamo del giorno e ci mettiamo al lavoro, industriali e poeti, e ci distinguiamo uguali, poveri ricchi buoni cattivi, ciascuno su binari propri o la spirale del caos, il lavoro consiste nel non rispettarci. La vita è questa, la vita contro, se no tutto fermo e perfetto come un uno. Al chiaro le cose si succedono, accavallano, scontrano. Fatti e sensi vanno così, e se diventano concetti a spirale si allontanano credendo di espandersi.

Poi, verso sera, non nella convenzione del riposo ma perché è buio, tornano i rapporti e la compenetrazione. Ognuno si occupa di qualcun altro anche se è solo con un libro o con la TV. L’industriale ha finito e comincia il poeta. Ciascuno torna l’altro nella sera e nella vecchiezza della poesia. E ci eguagliamo diversi e insieme ci perdiamo nel comportamento della notte. (torna)

Padre e madre

Figlio, un po’ padre e un po’ madre, ma né l’uno né l’altra. Forse un incrocio X o una V che divarica inchiostro e senso. Pietrose parole di padre e madre, statue dure che in un divano diventano teneri mamma e papà mantenendo noi infantili e loro molli.

Un po’ A e un po’ B, sono e non sono una sintesi che guarda le cose e che nessuna logica sa digerire. E anche lui lo era, il nonno paterno dal socialismo nel bicchiere, mai conosciuti né il nonno né il socialismo. Ed anche lei, pura come cieca da vecchia, la nonna, lei sì conosciuta nel dolce odore di grembo e cucina.

Quando nacqui nacque la mia cronaca di cartone, custodia di oggettini, corpicino identico a entrambi e diverso da. E sono C, calcio di quelle ossa e combinazione. Ma non parlo di me ma dell’anello che ci lega e ci lega alle cose. Né di loro. Non è una questione di biografia: la prosa s’è già presa tutto in cimitero, la poesia ha attraversato i corpi e aspetta fuori. (torna)

Figlio di Bepi...

Un posto alto col nome. E gli piaceva bere al "motorista ai piccoli natanti della Regia Marina". Ma il mestiere si è perso nel bianco marmo casellario dove tutti sono raccolti in un unico lavoro.

Il gioco del labirinto con guida "Andiamo dal nonno!" in mezzo ai marmi curiosi di date e ai colpi freddi dei fiori. La coscienza si rizzava come palo, io, in piedi davanti all’idea di nonno e alla somiglianza della foto: strano, come se mio fratello fosse insieme in due luoghi (io ho più della mamma, e scrivo come se mio padre fosse lei che scrive).

Così per alcuni anni bambini. Poi, perché sei grande, non ti portano più e smetti. Torni da adulto e solo: non c’è più il labirinto e anche la foto è sparita, caduta giù, scopata via come una colpa, e il nonno resta un punto in riga dall’ordine alto, uno dopo l’altro, la successione dei numeri naturali. (torna)

...e di Maria Zanin

Casalinga dal cuore semplice, per la statistica scheda analfabeta, e in famiglia tante storielle da riderci sopra sul grembiulone blu sempre in cucina. Statua di papa Sarto al doppio del naturale: "No’l gera cussì grando co’l ga batizà mio fio!"1 .

Coi ditini invisibili le agitavo i ciapini [Nota 1] davanti al velo delle cateratte e neppure capiva che giocavo all’oculista. Io almeno la nonna l’ho vista in braccio alla pazienza del vestaglione ma mi ricordo solo il suo odore di cucina e un anziano tepore di ginocchia, minimo, come se mancasse poco, e gli occhi interroganti l’ombra delle presine trafitti dalla punta fredda del gioco. (torna)

 

1892, Emilio coincide...

...col PSI, stesso anno, stesso mese, sotto l’espressione singolare coincidenza perché agli astri piace che gli si creda. E sottilmente povero, così che l’idea di sole non si distinse dalla stella dei fatti avvenire perché allora trionfava il giorno con la fame, la lotta e tutto ciò che era suo: la forma del pane sul legno della tavola, la falce e martello e un libro aperto sempre in cucina. Oggetti fermi di ogni altra famiglia in attesa. Proletariato, vita dura e intera del giorno. La storia, che contiene anche le notti, è proseguita poi per altro conto. (torna)

Rapporto rovescio

Quando si è vivi il contatto è immediato e non del tutto vero. Sembra chiaro e facile come una nube che affronta il sole di petto. Così la presenza (vivere a fianco), onesto, orgoglioso, un po’ egoista, riflessivo e altri aggettivi di famiglia sostantivati nella serietà, accentati nella responsabilità. Famiglia, chiusura stretta con segno forte e grafia interiore più del comunismo. Tra noi c’era un rapporto che mediava e perciò differenza.

Più tardi, troppo come sempre, dopo che il diamante della stella ebbe tagliato il fragile gruppo padre-figlio, sono rimaste due schegge di vero. Oggi c’è il contatto con l’assenza, con l’altra parte dell’intero. E la tua vita, cui vanno aggiunti più di due decenni di morte, è ora tutta nelle mie mani, e la viviamo insieme in un rapporto rovesciato e fiorito, io di padre e tu di figlio, mia creatura che ha atteso un secolo prima di entrare in queste parole. (torna)

Così "L’Eco dei Soviet"

Andando sulla scia (non è viaggiare), tutti ripetono i passi. Senza domandare battezzano, servono messa e sposano. I genitori chiusi nella norma di debolezza affidarono il bambino al funzionario e uno spruzzo di benedizione del Sarto papa futuro indispettì la testina piegata, e mamma, papà e bimbo presero la forma del tempo.

Passò qualche anno di cui nessuno sa niente, finché al settimo giro indossò la rapida cotta e dondolò il lento turibolo ai fianchi di un parroco senza domandare (Parrocchia di San Martino).

Infine, intorno all’anno Ventuno la fidanzata gl’impose il patto in uso nell’espressione portare all’altare, e "se l’occhio di Mosca arrivasse a Venezia (così l’ "Eco dei Soviet"), vedrebbe la pazienza del compagno Emilio impegnata in questa terra di contraddizioni." Un cedimento perdonabile sotto un peso di chiesa e famiglia dentro la calma calca della tradizione. (torna)

1900, Sorelle Gamba

Venezia si trascinava stracca nei propri microbi, organici canali e un numero di turisti inferiore. Quasi sera, proletari e zanzare uscivano dai gusci verso le lampade di casa, i primi a riposare, le seconde ad affogare in bicchierini d’olio premuti sul soffitto. I bambini smettevano il grembiule e correvano incontro alla scarsa ricompensa dell’estate.

Per riconoscenza il parroco trova al chierichetto un posto di garzone in un negozio in prosa di merletti all’insegna "Sorelle Gamba" in Mercerie dell’Orologio, due zitelle in bottega e la terza, vedova, in casa a fare l’usata serva. Oltre ai pacchetti di lavoro in giro dicono i versi che Milio [Nota 2] doveva consegnare a mezzogiorno il pasto alle padrone.

Sole e gatti sono assopiti e separati nell’ora dritta sopra le calli e i campi. Uscito con la sproporzione del cesto il piccolo inciampa sui gradini di un ponte davanti agli occhi del lettore.

Quel giorno i gatti fecero festa (Campo Santa Maria Formosa), e gli occhi delle sorelle (Milio si era presentato con lo sguardo) si piegarono tristi in trattoria. (torna)

Simmetria d’illusioni

Venezia odorosa lavorava in Arsenale, Porto, Pescheria. Ogni bottega viveva, discuteva e scioperava incoraggiata da una gente che stentava di pane e pesce. La città bassa galleggiava in amore e gridava in alto con tutta la materia.

Partito per Milano col programma, Emilio, da vecchio ritornato quando non c’era più l’eguaglianza in cui credere, si dedicò ai canali dei fatti andati, ricordi verdeneri, disillusione in dialetto mentre le nuove generazioni, senza più artigiani e povertà, galleggiavano in parole, spremevano pistole e tiravano in basso dentro l’idea di morte. Sessantotto: i figli sdraiati sui prati di burro credettero di vendicare la fame dei padri. Ma lui si mise a sedere sui versi, scavare amici, bere osterie odorose di vero. (torna)

"Il Secolo Nuovo"

La prima ombra fermava la città. Milio finiva il lavoro e andava fra pieghe di calli e aperture di campi a conoscere la rinfusa degli abitanti. Una sera in un passaggio obbligato gli strilloni gridano con pacchi nuovi un nome nuovo dal contenuto sovversivo. Cinque centesimi, ma pochi infilano la mano nel taschino: gli occhiali avidi di qualche studente, gli occhi stanchi di qualche operaio.

"El zornal del diavolo!", segnano le vecchiette sui gradini la fronte ancora coperta dalla messa vespertina. Poliziotti in borghese e passanti dai bei vestiti diffidenti osservano. Milio divertito conta le copie vendute e pensa a un regalo a suo padre. Sul tardi un bambino stanco col pacco di copie rimaste e la cadenza ormai rauca gli sta davanti e si sente guardato. "Ciapa, [Nota 3] ’sto qua xe par ti, lesi e deventa socialista!". Milio pensò di esserlo già diventato. (torna)

"Chi del gitano..."

Mio papà di nove anni lavorava in un antro proletario con altri bambini compagni (che in veneziano vuol dire come lui), e prima di aprire la porta del comunismo era nel socialismo di una fucina col compito di arrampicarsi sulla catasta, sollevare il lembo dei calzoncini e invecchiare i ferri ogni due o tre ore per la civetteria di un letto da sposini o il lugubre di una cancellata. In quell’ambiente artigiano e solidale aiutava le opere cadenzate del padrone, incudini e martelli, amici del trovatore, cantando e pisciando in rima collettiva. (torna)

1904, sciopero

Un giorno d’afa di settembre Venezia era chiusa nel silenzio di un vaso. La polizia aveva appena sparato in Sardegna e nel Trapanese, e nessuno passava. I marmi lisciavano pensieri di sciopero. Banchi vuoti al mercato e sentore di pesce nascosto che gatti allungati cercavano. Le chiese sprangate. Il sindaco d’oro sotto scorta, e i giornalisti con in testa il maestro di scherma andavano al giornale col fioretto.

L’attualità era una fila di morti quando la libertà di oggi era sovversione e a sparare era solo la polizia. Ma gli attori erano sani, il proletariato soffriva senza uccidere e in testa non portava il casco della fiaba invertita di un’avanguardia che spara sui poveri per accaparrarsi i posti più prestigiosi.

Ma benpensanti, nónsoli [Nota 4] e vecchiette, ma quanta paura per quello sciopero d’acqua pura di mare e idee urlate nei comizi ondeggianti di sfrenatezza il cui effetto veneziano fu quello di far impallidire i liberali e i clericalconservatori della Giunta e allargare sui canali la fame dei gabbiani più bianca del solito. (torna)

Enrico Ferri e il falegname

Milio lascia ormai parroco e messa aspettare e annusa sempre meno legni di sacrestia finché non si presenta più a indossare la cotta. Un giorno Bepi lo mostra al padrone di una bottega dolce di colla dove schioccano gomiti e frusciano braccia nell’umido odore di segatura asciutta e di sempre provvisorie travi appoggiate che schiacciano i ragni in cerca di riparo sulle pareti. E’ un giovane ordinato rivoluzionario che impegna gli apprendisti in discussioni senza mai puzar el remo [Nota 5].

La domenica prima che i silenziosi cattolici entrassero nelle urne a mani giunte spingendone fuori i socialisti, andò coi garzoni alla scuola di San Provolo a sentir respirare con tremila bocche il cortile striato da mille punte d’edera intorno a Ferri, impalcato tra fiori rossi e tre bandiere. E questo molto prima che l'antropologo descrivesse la tipica, vecchia curva da rivoluzionario a riformista fino a sputtanarsi lusingato dalla proposta del Re (se ben ricordo, di farlo ministro), col suo "Se il Re mi facesse l’onore..."

Ma quella domenica tremila popolani sudati si eccitano calcando il cortile. Ferri lampeggia e la bocca socialista e spalancata del falegname ingoia e le orecchie si aprono al tuono delle accuse: sfruttare donne e ragazzini a poche lire! Proprio lui che, aitante titolare guardato in obliquo dagli occhietti di Milio, stracarica le spalle del suo aiutante quando si reca al lavoro a domicilio non reggendo fra le dita che il fumo di un toscano. (torna)

Guglielmo II

Il vascello è immobile come una decisione bianca nel nero del bacino dalla luce dei botti esaltato e sulla riga d’occhi del popolo lascia la forma lunga del potere.

Una modestia di migliaia di scialli, brache e orecchie sporche si affretta verso i lampioni dell’orchestra imperiale e in piedi s’incanta: prima gli elmi chiodati, poi lo sfarzo a pieghe dell’aristocrazia seduta a colori in prima fila. Umida e punta da salmastra invidia, nervosa in mezzo sta la borghesia e, dietro, il popolo coi piedi mormoranti al proprio posto come nel giusto di un quadro.

Stasera si inaugura una politica musicale. Fra i marmi e le acque della sonante Venezia tutti inneggiano alla Triplice finzione. Un inno scoppia e si conficca in cielo dove la mezzaluna ferma l’oriente. Il Kaiser sbarca bianco come la nave. (torna)

La Norma

Ma coi fóghi [Nota 6] il buon Grimani faceva senza volerlo il suo chiaro da sindaco agli intimi colloqui di Guglielmo col busto e il grasso morbido di un’illustre dama. Così diceva la Norma dal suo bordello agitando la penna di Musatti. La nobiltà obbligata e veneziana si è allora battuta per delega in duello rilasciata a un conte Brandolin contro il direttore de "Il Secolo Nuovo".

Il conte incalcò la parrucca, la disfida ebbe luogo e Marangoni se la cavò con una lieve ferita. Ma il popolo scaldato, compresi i bambini (Milio era al centro della piazza con le gote eccitate), diede fuoco a una sommossa (corsero brividi nell’aristocrazia dalle tempie spaventate) e gridò la sua quadrata indignazione contro i portici e i "Parrucconi assassini!" (torna)

Venezia proletaria

Stesa coi suoi broccati di pietra avvampati al sole o le croste nere impietrite di luna, Venezia giace coi pregi e i difetti dell’uomo di cui è socia, e suddivisa in tre collegi: elegante di marmi e individualista San Marco-San Polo, clericale nelle fresche chiese profonde Cannaregio-Santa Croce, laborioso e socialista Castello-Dorsoduro dove intonaci smessi, camicette e grembiuli vestono e sporcano il proletario dall’odore di vino e tabacco.

Tutto di muffa e cantina, paglia di sedie e fumo di sardelle in saor [Nota 7] di cucina, il marxismo integrale di cuore. Mentre in Italia è rallentato da un socialismo opportunista trascinato da capitalisti, ebrei e massoni, a Venezia c’è Elia che va per calli povere e sicure senza i compromessi che faranno espiare tutta la sinistra. Così in chiesa e al partito, in calle e negli androni il popolo sta insieme nel comune odore d’ingresso. (torna)

Elia Musatti

Col cappellaccio a cencio a falde larghe a imitazione, dicevano, di Enrico Ferri, ma più di lui coerente e con tutto il carisma che il vocabolo gli può assegnare, fondatore de "Il Secolo Nuovo" e di un'intera generazione veneziana socialista, poeta dei fatti del proletariato, sacrificò il patrimonio alla causa.

Io, che vivo dalle parole diviso da tutti, sento il vuoto incorporare la distanza che separa le mie tasche piene e cucite dal volto di mio padre, steso sui campi poveri in cui lo ascoltava cogli occhi intrisi di bisogno di progredire, e sempre insieme a qualcuno o a qualcosa, amici, bandiere, collettivismo dalla pietra calda, forse si può dire, miliare del cuore. (torna)

L’onorevole Ventimilalire

Venezia decadeva ancora viva fervente di lavoro nelle botteghe, e fremeva nei propri scandali. "Ho le prove nel cassetto!", gridava l’Alessandri socialista e direttore, e il popolo indignato godeva nel veder sputtanato il massone radicale Fradeletto, onorevole di San Marco, uomo di lettere e di nota onestà, che sarebbe stato corrotto con ventimilalire dagli interessi di un’Assicuratrice (e durante i discorsi diceva a memoria quello che aveva fonografato a tavolino, mentre almeno Giacosa leggeva).

Venezia era scissa nei colori d’alba e tramonto, vita e politica (e i poeti in ginocchio di fronte alle parole senza racconto, tacciono e taceranno), e il giorno scoccò che il tribunale aspettava. Le prove non furono presentate. Nel nuvolone della notte il direttore del Secolo Nuovo era fuggito all’estero, e il popolo tornò a rannicchiarsi sotto il proprio lavoro di pioggia.

Poi l’Alessandri, che diceva: "Il mio orologio segna sempre l’ora della rivoluzione!", rientrava in seno al popolo, entrambi non abbastanza umiliati, e veniva eletto deputato. Quando la monarchia tolse la maschera a tutti, ottenne da Benito l’iscrizione al fascismo. E pensare che persino i nemici lo ritenevano un vero socialista. Così va la storia, così vanno i poeti che non raccontano. (torna)

"Tripoli, bel suol..."

Al rombo del cannone Piazza San Marco si assolava più santa del solito e benedetta da ogni sorta di autorità. Oggi ne sento i palpiti con la pancia fiacca, ma quei monarchici giovani di culo trombavano l’aria tricolore salmastra e orgogliosa capeggiati dal portabandiera Busetto. I giovani socialisti senza occhiali affrontavano con le giacchette della domenica e armati di pugni e internazionale quel mucchio di studenti in suolo veneziano.

La polizia fingeva e picchiava i socialisti che picchiavano i monarchici che penetravano d'urli d’aria vergine il mattino. In fondo, la santa monarchia, in vetta, Busetto dal culino con dietro Raffaele Rapagnetta. [Nota 8] (torna)

Seconda scapigliatura

Dopo un’alba rosata come la rivistina "La Lotta", il signor Mussolini si reca in un ufficio odoroso d’inchiostri e sentimenti di popolo a piangere a Paolo i soldi per mangiare. Valera, che ama la vacuità della folla ma non conosce l’individuo che la compone, gli dà cinquanta centesimi per una trattoria del ventre di una Milano sconosciuta dove il proletario licenziato [Nota 9] Benito si possa sfamare. Il bandito, che odia la vacuità della folla ma ne conosce bene i componenti, ha già in tasca i milioni francesi e quelli dolci degli zuccherieri che il Resto del Carlino gli ha premuto in tasca. Così, il giorno dopo aver digerito quel pasto caritatevole, aziona le rotative de "Il Popolo d’Italia".

Questo succede ad essere tanto buoni da amare l’abisso del vizio e odiare il conforme borghese. Così ancora, dopo qualche altra alba rosata come la rivista sbarazzina, la polvere rosa d’amor per la plebe divenne un fasciato di nero polverone accecante dietro la carrozza arcana delle cose, che proprio chi la cerca non la trova. (torna)

Pacifismo, femminismo, riformismo

Lo stagno ignorante della carta d’Europa nel primo decennio del secolo inizia un curvo movimento di riscatto. Il sapere è bagnato dall’affluente catalogo dell’ "Avanti!". I proletari bevono il fiume russo e i russi agitano bei soggiorni in Italia. Nei campi veneziani le femmine applaudono Angelica Balabanoff, nelle piazze di Roma i maschi fischiano Nicola II. Nella fresca Svizzera no alla guerra, neanche a quella rivoluzionaria. Il socialismo sta nella donna e la donna sta nella pace. Ma i bolscevichi hanno seccato il cuore e gonfiato il cervello, mezzo secolo dopo, a Milano, Emilio vede il venerando lustro che Angelica dà al centro di una riunione di socialdemocratici scagliando insulti all’astuta dittatura dell’URSS. L’apprezza e la disprezza convinto che col riformismo siamo ancora fermi al soave pianto dei poveri in eterno ascolto della propria miseria.

Non sarà forse stata una vera marxista, ma un maschio maturo e convinto contro la proprietà è forse più vero di una vecchia femmina democraticamente in cerca dell’amore di un certo benessere? Viene in mente Angelo Tasca, il più sano di tutti i protagonisti del comunismo italiano, colpito da un ingenuo giudizio di Gobetti ("socialismo da letterato che alla società moderna sovrappone un sogno di virtù operaia piccolo borghese alimentata da abitudini moderate nella tranquillità della casa-giardino"). Moderazione che, oggi ormai lo sappiamo, ha una sola alternativa: la dittatura. (torna)

Anarchia

Dall’alto ti accorgi che anche l’eroismo si divide in rami e che nel tremore dei boschi come dentro un partito non c'è un’unica convinzione. Eroi come foglie, ciascuno cade dalla sua posizione sul sentimento della terra. Anarchici, comunisti, fascisti, ognuno produce speranze "non essendo lontano (come dice una sentenza anarchica) il giorno che con le armi proletariato e milizia faranno cadere quanto esiste di borghese, trono e altare."

Vogliono tutti la stessa cosa ma in modo diverso, e non sanno che il modo è la cosa, e non sanno che cosa, poveri e giustificati quando issavano la bandiera rossa e nera accanto a quella tutta rossa e avevano tutti torto e tutti ragione esclamando la direzione, e pure il Duce ha fatto la settimana rossa nelle Marche quando i carabinieri sparavano molto di più. E tutti, sentendo la stessa cosa, si scornano come caproni, e poi c’è la massa da guidare, senza pane ma con le bandiere e dappertutto gli infiltrati che vengono dalla sala-covo del trono e dentro ci sta il minuscolo Re dalla forza inaudita, la corte, i carabinieri e l’élite impregnata di stile dominante, magari stile rubato allo stile, falso come quello dei poeti fermi.

Borghi, Malatesta più altri, con tutto l’assurdo che allora ci voleva. Milio a tredici anni partecipa alle loro barricate e a sedici scrive su "Volontà" di Malatesta, "La Protesta Umana" di Schicchi, "Il Pensiero" di Negri, "Sciarpa Nera" di Rafanelli. Anarchia, mamma di comunismo e fascismo, figli degeneri e contrari, gonfi di volontà, protesta, pensiero e sciarpe, massa di buoni che fanno i cattivi fino a diventarlo. Ma Emilio ragiona in tempo e nel 1911 aderisce alla Gioventù Socialista seguendo da vicino i passi ponderati di Serrati. (torna)

Lezione

Negli strati di ricordi che mi hai lasciato c’è un andamento di rami uscenti dal tronco della convinzione che solo il macigno del tempo può tagliare. Nascono dall’ideologia, bestia affamata difficile da scostare dai piedi, compatta, scura di siero rappreso, intrisa di bisogno di roccia d’amore. Ma i rami hanno perso l’odore di terra e sono scoppiati in cielo ognuno in direzione di un proprio caso, senza ubbidire al progetto.

Così si parte, si crede, da un unico insieme, ma poi ogni puntino di massa resta solo nell’infinito. Così è normale l’ordine del caos, come un libro ragionato che ci attraversa. C’è una sola idea di terra, ma diversi sono i germogli ed estranei i destini che ci uccidono. Due generazioni e il mondo è nuovo, la terra sotto i piedi è cambiata e germoglia convinzioni future. (torna)

G.M.Serrati

La Svizzera. Quanta propaganda nei cocciuti boschi resistenti alla resina socialista. In quei paesaggi di cioccolato si cimentarono tutti, compreso Serrati che diceva di aver insegnato a Mussolini a lavarsi la faccia. La storia insegna a non far previsioni e a non credere troppo nel profilo degli altri, ma anche che dal nostro cumulo di difetti possiamo sporgere con un testone da eroi.

La barba eloquente (si andava ai comizi come a teatro) e gli occhi che guardano nel vuoto del dovere, il sacerdozio nelle pupille e l’autorevolezza-autoritarismo sulla scrivania, il ligure Serrati Musatti condusse dal suo al nostro mare e gli affidò il socialismo di Venezia. Con la sua difettosa dote di grande fu un sicuro sanguigno con la colpa di aver incattivito Mussolini più di una volta cacciandolo dall’ "Avanti!", seguendolo poi come un’ombra chiedente il contraddittorio (e in un teatro il soldato Emilio di ronda corse a difenderlo dai facinorosi parmigiani che volevano accopparlo) e, infine, dopo la disfatta elettorale e milanese del’19, scrivendo che era stato pescato nel Naviglio un cadavere putrefatto, che con labbra decomposte giurò vendetta. (torna)

Quel fine ottobre del’26

Serrati doveva acquistare un alloggio e si era fatto prestare i soldi da un "fidato" compagno (un capitano dei carabinieri travestito). Allora Antonio: "Il prezzemolo ammazza i pappagalli!". E Giacinto: "Ovunque lo veda, prenderò qual capitano a schiaffi!"

Gramsci stava dentro le brume del boschetto, sommerso dagli alberi e dai compagni, e intorno le foglie cadevano tragiche sulla insipida campagna di Sesto San Giovanni un mese prima del suo arresto. Tre a tre, quattro a quattro si erano radunati a festeggiare la rivoluzione attorno a quella voce sottile che le fragili foglie già commemoravano. A te vicino e a lui un compagno che non t’ispirava applaudiva ogni frase, ma a lui, addolcito dalle foglie che dal capo denso scivolavano commosse, piaceva. Poi, con le mani fredde fecero un tratto di campagna assieme, finché non venne subito assunto dalla Rappresentanza Commerciale Sovietica di Milano dove si rivelò, dopo aver fatto le sue vittime, per lo spione che era.

Non vuoi dirmi altro, neanche il nome, ma solo che anche l’esile Antonio aveva avuto il suo infortunio per colpa di quelle foglie ingenue che gli rotolavano giù dai pendii dell'eccessiva, onesta capigliatura. (torna)

Dante, "Edizione patriottica"

Durante il gusto della guerra, quando l’azzardo eccita o rassegna, chiedesti un libro per riempire il cuore cavo delle trincee. Non era Marx né Lenin i cui pericoli al fronte già conoscevi. Negli induriti dintorni di Salonicco il caporale postino gridò un pacchetto che aveva la forma di un cibo delicato. Quando il crocchio curioso dei commilitoni ti raggiunse, sorrisero di amicizia i colleghi furieri che con te dividevano tempo e dolore. La Divina Commedia rossa e tascabile addolcì le tue ore e ti rese solo con l’ingiustizia della guerra in attesa di riunirti ai compagni per qualcosa di giusto ma ancora da definire. Ti mandava i saluti personali di Serrati il suo segretario, firmato Ferrazzutto Bonaventura. (torna)

Amor di patria

Amore organizzato del secolo, pieno di rime come un bosco infestato da uccelli che reclamano il proprio ramo. Laccio del trucco per tanti nidi in cui ciascuno di noi è un povero sì e no volatile straziato. Mangia e respira nel bosco dei corpi il più incolto concetto di cultura che si traveste, vola e canta di più, il più falso vocabolo in ...ismo e nazionale.

Come un diavolo lo senti reale, come il diavolo lo senti non vero, sembra il respiro di chi dorme ed ami e invece ha le facce di una moneta. Dentro i vostri letti procura figli suoi e li fa schiavi degli aggettivi. Sotto il cuscino è sguainato il puro cazzo di un re o di qualsiasi cosa che sventoli, un imbroglio che ha ancora tanta storia da fare e letti di figli da disfare. (torna)

Internazionale

Il tempo è futuro, lo spazio alto. Sempre. Fuori della sfera di carne geometria dell’addome, da ciò che ne discende, e vorrebbe invece salire come signore al cuore, alla bocca, alle anatomie alte. Futura umanità, amore nuovo dal vecchio sapore cristiano e invece ebraicamente nemico delle patrie. Cera astratta dell’altro volto del secolo, cancro insinuante nel cervello che gli risponde come uno specchio.

Fa finti figli veri, finte sfere di lacrime vere che bagnano vere sommosse di popolo finto. E mentre il domani sembrava salire, ieri tutto cadrà in basso e oggi è terra. Data la realtà dei morti, è come un agente provocatore, un imbroglio di cui sentiamo il bisogno, una guida stipendiata che ci mostra gli errori che attraversiamo e ci riporta nel chiuso delle nazioni. (torna)

Intermezzo privato

Un merlo lancia la voce prima dell’ alba e alle prime luci tace improvviso. Con le orecchie ne cerco il suono, con gli occhi ne indago il silenzio. Il pubblico si sveglia per le strade, appoggia il suo trambusto alla guancia delle case e si congiunge al privato del mio letto.

L’esterno è osservato dalla faccia del giorno, spinto dagli impulsi del sole, spruzzato dalle voci dei passeri svegli come un popolo che denuncia. Un gioco di fessure esitanti trasmette la vita, così si chiamano i raggi delle illusioni, la luce globale delle utopie.

Penombra, indecisione. Resiste l’attimo, la magia del movimento fermo. Mi sento interno, il becco inclinato nel caldo delle ali. E mi sento esposto, afferrato da tutto. Sono io che fingo solitudine o è il giorno che finge comunione? (torna)

Importanza dei fatti

L’inchiostro che mi guida lavora e si diverte, ma senza i fatti è acqua. I fatti gli affidano il rischio della verità, che le parole si riducano a un pugno di cenere e io di vanità con le memorie un vago contorno. Ma le parole sono tante da rendere concavi gli scaffali non volendo agitare i loro fuochi nelle tenebre di un cassetto. Così i fatti si travestono da ricordi. I più prepotenti escono di petto, i più timidi si affacciano, i più intimi si nascondono. Vorrei trovarli tutti nell’umido della scrittura. (torna)

Importanza delle parole

Le cose, col loro corpo massiccio, precipitano nel vuoto del dopo. I fatti, dopo il sudore, si restringono e seccano. Restano nulla come solo Dio sa fare e l’uomo subire. E mentre cresciamo si staccano dal corpo e li perdiamo. I vecchi sono attraversati dalla demenza del passato. Perso tutto, nel cuore del cervello devono morire e sono la morte che vive. Poi anche la morte muore.

Allora scrivere è fermare i fatti, riempire l’aria che hanno lasciato con una sostanza indegna ma eterna che guarda da sola l’infinito. Né viva né morta, lavora con lo sforzo del piacere ma senza ricompensa, si rattrista senza piangere, si diverte senza ridere, nasce nell’uomo ma non è uomo, la chiamano oltre, la chiamano parola cui lasciamo la punta della mano, scriviamo da lei, con lei, per lei, scriviamo attraverso per recuperare la nube di cose evaporate anche se rischiamo di perderci con loro in fondo all’inchiostro, dissolverci verso l’alto con la vacuità dell’alcool. Scrivere, riempire, avere coraggio di. Lavoro, ingranaggio, ritmo di lanciarsi e frenarsi, ardire trattenendosi, andare verso Dio restando uomini. (torna)

Complementi d’informazione

Dunque, abbiamo visto: chierichetto, garzone di merletti, fabbro, falegname. Poi, un lavoro serioso e stabile. "Si dichiara che il Sig. Magnanini Emilio di Giuseppe prestò servizio alle dipendenze di questa Direzione dal 21.9.1907 al 2.3.1914 in qualità di agente postale telegrafico." In sette anni ha conosciuto la città come nessun altro, ninsiol per ninsiol, [Nota 10] nome per nome, numero per numero, dolore per dolore e tutte le forme di auguri e felicitazioni.

Infine, "A richiesta (eccetera eccetera) ha prestato l’opera sua presso questo ufficio in qualità di scritturale avventizio dal 3 marzo al 31 luglio 1914." Firmato il capo dell’Ufficio Autonomo del Genio Militare per la Regia Marina, Venezia, 5 ottobre 1914, poco prima di partir soldato. "Nel qual periodo ha dimostrato attività e zelo." (torna)

Precedenti del coscritto

Animale da lavoro, ma il tempo libero impiegato nello zibaldone del sapere, classici, romantici e il futurismo dai malefici effetti. Patriota, poeta e veneziano fino a sfiorare voglie di autonomia repubblicana, ma più ancora pacifista fino all’internazionale. Riflessivo riformista socialista ma anche anarchico umanitario libertario. Groviglio giovane come chi dal niente di una cucina scopre il tutto di una biblioteca. Piegato sulla fame, dolore sociale, grido politico, ma anche inclinato sulla letteratura, un grumo di voglie ordinate in disordine, e quando una ha il sopravvento il centro del dolore tramuta tutto in ardore. Così, nonostante pacifismo, amor filiale e amore per la fanciulla amata, era contento di partir soldato affascinato da future, ignote esperienze.

Questo è essere sani, capaci di reagire perché si ha dentro qualcosa, una fabbrica di anticorpi, e la vita diventa un seguito di amori, il giusto amore dei contrari. Poi gli anni rizzano la scala su cui arrampichiamo per maturare. Significa che il tempo è passato, che siamo vecchi e abbiamo fatto le nostre scelte giuste o sbagliate ma sempre più univoche e stanche, finché perdiamo la facoltà di tramutare e dobbiamo solo pigliar medicine. (torna)

Emilio era convinto...

che avrebbe superato ogni prova. Il 25 marzo del 1912, nella piena stagione degli amori tra Italia e Germania (tresche le cui finezze sfuggono agli adolescenti), se ne era convinto. Quella mattina fuor del solito asciutta e ventosa, passeggiando con un libro socialista ai Giardini, fu attratto da una folla di soldati e carabinieri a colori. In quello spazio d’aria dolce luccicante sulle onde e frizzante sulla riva si svolgeva il diplomatico rito dell’incontro. Il colossale Guglielmo sbarcava col suo elmo d’acciaio seguito dal rachitico Vittorio Emanuele ombrato dal dispetto di una nuvola e allungato da un pennacchio bianco che solleticava l’orecchio imperiale sinistro.

Osservando quella scena inaugurale della Biennale e stringendo il suo libro quasi a difenderlo, Emilio provò la sensazione che avrebbe superato qualsiasi maleficio ordito da quei due. La Triplice Alleanza, [Nota 11] confezionata da quell’arte superiore del baro che è la diplomazia, si stava inutilmente consolidando alle sue spalle e a quelle di tutti gli italiani, festeggiata ogni sera da concerti, fiaccolate e bengala, bagordi e schiamazzi di soldati con e senza elmo e robuste gambe incerte in giro per le osterie della città. (torna)

Ogni specie

Emilio stava tra il riflessivo e l’estremo, riforma e rivoluzione. Col cuore si lanciava avanti in un sogno dove le punte verbose stendono trappole e rovi e le onde si misurano a decine di metri, ma con la mente stava fermo sulle proprie sponde di lago chiuso.

Socialismo, ma quale? Del mare o del lago? L’Europa con tutti gli accidenti della storia, carta, uomini e idee, ne conteneva ogni specie, dal pacifista internazionalista al militarista nazionalista. Non erano partiti socialisti quelli che approvarono in massa i finanziamenti della prima guerra mondiale? Hitler non si autodefiniva (nazional)socialista? E oggi, magica potenza delle parole, non si autodefinisce socialista un Tony Blair, discendente e discepolo della potenza più imperialista della storia? Socialista lo considerano i nostri governanti, cui la conoscenza dei secolari misfatti del borioso impero britannico e di quelli più recenti degli americani, che tengono sotto il giogo del loro capitale libero e selvaggio milioni di uomini, sembra far difetto. Quello di Emilio era invece autentico socialismo di idee e di cuore: mancava purtroppo quello dei fatti. (torna)

Crosta della memoria

Non ha mai preso appunti, e dopo altri quattro lustri di storia un vezzo seducente di passato che lo coglie nel pieno della noia fascista del’37 come voglia interna di libertà lo induce a ricordare a grandi linee e con qualche particolare. Immersi nella fiducia della sola memoria alleata di una guerra senza diario, i fatti si schiudono dalla crosta e svolgono fuori la propria forza. Dentro i rumori il silenzio e sotto la pioggia il tempo è un presente continuo.

Partenza da Venezia ore 18.00 del 10.10.14 con la valigia di cartone sorretta come un pezzo di casa. Con l’altra mano tasta la tasca che difende dalla pioggia i documenti: biglietto a tariffa militare Venezia-Parma, via Monselice-Suzzara, qualche lira di trasferta e la bassa di passaggio [Nota 12] valida per sè e altre due reclute affidate alla sua custodia. Diretto al 61° Reggimento Fanteria, Brigata Sicilia, è soddisfatto di ogni competenza a tutto l’11.10.14. Così nel linguaggio.

Il suo primo vero viaggio, venti ore con molte soste sotto una pioggerella neutrale che non sa ancora di guerra, preambolo di lunghe piogge future. Arrivo a Parma ore 14.00 dell’11 ottobre sotto un’acqua battente. (torna)

Arrivo al comando

Scende dal treno accolto dalla solitudine di qualche lampo. L’acquazzone gli distrae la tristezza. Chiede la strada e, seguito dalle due reclute, si dirige difilato al Comando di Reggimento, Caserma San Giovanni. Rasentano i muri. Emilio si sente lontano dalla ragazza e vicino a una guerra che fuori d’Italia sta già dilagando. Le vetrine alimentari gli ricordano le pasciute parole del maresciallo di Venezia: "Mangerai il vero formaggio duro!", e con mezzo sorriso entra al Comando. Qui lascia i compagni di viaggio, destinati altrove.

Lunga attesa, preambolo di lunghe attese future. Spaziani, caporale romano, arriva con viso bonario, parole di conforto e un pezzo di carta: "IIIº Battaglione, 12ª Compagnia, caserma Santo Spirito, Borgo Stalattiti, oltre il torrente."

Sera. Gronda acqua dal vestito e dalla valigia. Lo scruto da squarci di cielo, da finestre illuminate di famiglie sconosciute, dall’attenzione degli angoli. E sovrappongo sempre il mio al suo. (torna)

In caserma

Arriva col continuo della pioggia davanti alla statua delle sentinella. Entra. Al tavolino sporco in un angolo è seduto l’ufficiale di picchetto, fascia azzurra a tracolla, testa inclinata sulla gazzetta stesa sotto il buio di una lampada. Saluta. L’ufficiale ricambia meccanico con accento genovese, poi alza la testa per un magro colloquio tra due calate di mare.

Chi sei? Un coscritto. Dammi la bassa. Eccola. Come ti chiami? Emilio Magnanini. Di che classe? Novantadue. Come, in ritardo di due anni?, sei renitente? No, rivedibile. Perché? Debolezza di costituzione fisica. Non si direbbe. Eppure è così. Sei disinvolto, di che paese sei? Venezia. Di quel distretto, lo so, ma dove sei nato? Venezia, Sestiere di Castello. Per Bacco, sai leggere e scrivere? Sì. Sei sicuro?, che scuole hai fatto? Terza tecnica. Per Bacco...prendi la penna e scrivi qui quello che vuoi.

Fuori ha smesso di scrosciare, il silenzio concentra l’attenzione di entrambi curva sul giornale. L’ufficiale osserva il saggio sui margini ("Sono appena arrivato in caserma. Meglio la caserma che la solitudine."), e si alza soddisfatto. Salgono al piano di sopra e percorrono un corridoio. In fondo, un cartello inchiodato su un’erta: XIIª Compagnia. Passano sotto e varcano la soglia di uno stanzino sulla cui porta è incollato un foglio con una cubitale "FURERIA".

L’ufficiale grida a un certo Addari di avergli trovato il sostituto e se ne torna da basso a riprendere il filo di qualche articolo. Addari arriva con un viso da congedato, fa sedere Emilio allo scrittoio, gli mette davanti l’occorrente e gli fa subito compilare i permessi di libera uscita per domani, domenica. Fa larghi sorrisi responsabili e dimostra simpatia per la recluta. Fuori ha ripreso a scrosciare, ma Emilio si sente all’asciutto e a suo agio. Il primo permesso porta il suo nome. (torna)

Ricordi di Parma

Non ci sei più tornato. Vai dove ti mandano ma poi, se dipende da te, non ci torni più. Siamo nelle mani degli altri, Corona, generali, caporali. Che povero l’uomo, così strumento, così caso, così non curato. Qualcosa di più forte e fabbricato ti fa da terra, cielo e bussola, ti scava strada e fossa sotto qualunque clima. Non ci sei più tornato perché nessuno ti ci ha mandato. Così, dopo la guerra, una libertà di spazio si è aggiunta al piccolo gruzzolo che tutti hanno. Altre sono più avare, come il tempo, che deve lavorare. Altre hanno solo la forma, come la libertà di pensiero, vestito in cui dentro sta il debole corpo spinto e tirato da mille cose non scelte. Eppoi la gabbia del carattere, il temperamento, l’inclinazione...

I ricordi ne hanno risentito, selezione, deformazione. Non so gli affreschi di San Giovanni, giganteschi e delicati, ma il palazzo della Pilotta che chiami tetra caserma perché vicino alla tua vita militare. Il suo teatro, che dici grazioso teatrino, ristrettosi nella memoria, era stato uno dei più grandi del mondo. E il Duomo e il Battistero, che neppure nomini. Il romanico è schivo, tende a nascondersi e a farsi dimenticare come ogni cosa che non troneggia.

Invece ciò che è vissuto resta negli occhi in tutta la sua lunghezza, come il tisico torrente pieno di sabbia e ghiaia su cui s’incurvavano rudi e affaticati i braccianti, o nella sua ampiezza, come il pentagono della Cittadella coi depositi in cui andavi a prelevare gli equipaggi [Nota 13] o nella piccolezza, come l’intero centro, così raccolto che un gigante lo terrebbe sul palmo. E le fanciulle procaci, gli uomini lepidi e svegli, ospitali e gentili ma anche passionali e violenti, e i bagordi serali nei ritrovi rigurgitanti di soldati ancora così spensierati da non prevedere il proprio destino. (torna)

Aria

L’aria di guerra respirata dalla Corona e dalle classi elette scende viziata sul popolo. Anche i cattolici, nuovi alla politica, cominciano a familiarizzare col potere e già distinguono con concetto più diabolico che divino tra neutralità assoluta della Chiesa e neutralità relativa [Nota 14] dei fedeli, portatori di aspirazioni che opposti interessi non devono ledere. Affermare princìpi e il loro contrario è il gusto prolungato del potere, suggestivo, efficace, arcanamente contraddittorio.

Socialisti e mondo del lavoro si schierano in maggioranza per la pace proclamata neutrale (non aderire né sabotare),[Nota 15] ma partigiana dell’utopia internazionale. Di sotterfugi idealistici non hanno invece bisogno i facinorosi nazionalisti dalle igieniche, rivoluzionarie meraviglie della guerra, un composito insieme che vive di sensi, rabbia, denaro e passioni. Ma Giolitti tiene i piedi per terra sapendo che l’Austria ci darebbe il Trentino e dell’altro se restassimo neutrali. E tali il grande vecchio ci vuole al punto da crearsi tante ostilità monarchiche quante ne bastano per non tornare al potere.

Salandra [Nota 16] e Sonnino [Nota 17] studiano come ottenere più vantaggi: con la Triplice o con l’Intesa? Fingere e tradire è diplomazia di tutti i paesi, prepararsi alla guerra è un poker in cui tutti barano. Allora abbiamo battuto ogni record di diplomatica vergogna giocando su due fronti, offrendoci a chi pagava di più. Così abbiamo fatto in entrambe le guerre schierandoci coi ritenuti più forti, ma sempre col risultato contrario perché anche la Grande Guerra è stata più persa che vinta, è stata una vittoria mutilata. [Nota 18] E senza tener conto che subito dopo ci ha regalato il fascismo. Non siamo un popolo di eroi, [Nota 19] come non lo è qualsiasi altro. E un Re che minaccia di abdicare se non gli danno in mano il giocattolo della guerra, [Nota 20] è un nipote troppo viziato di un Giulio Cesare troppo lontano. (torna)

Preparazione dei corpi

Triplice e Intesa ci facevano la corte per accodarci alla loro macchina, o almeno perché evitassimo d’intralciarne i piani come un cane rompicoglioni. Ma l’Italia intendeva rompere, e molto, e più che scodinzolare da cane intendeva razzolare da iena ai danni dei probabili perdenti. Così si negozia con l’Intesa e si prosegue con la Triplice.

Estate del’14.La neutralità [Nota 21] è proclamata. Comincia la calamita del richiamo dei congedati e la patriottica anticipazione della classe ’94. Mobilitazione non per bandi ma con semiclandestina cartolina. Emilio, classe’92, è rivedibile e parte solo in ottobre. Primi del’15. Abbozzo di trattato con l’Intesa. Cadorna: l’esercito sarà pronto in due mesi. Ottimismo e oltre: la guerra va impostata sull’azzardo di un’offensiva dal Friuli fin che sul fronte orientale i successi dello zar paralizzano l’Austria. Come l’esperienza insegna, chi è competente sa bene il baule che ha studiato, ma davanti al nuovo, davanti a previsioni da formulare, perde intuizione o prudenza, e il sempre possibile ribaltamento di situazione finisce per spiazzarlo.

Ci si prepara. La gaiezza si attenua, i ritrovi serali diradano, il soldato si fa preoccupato. A Parma il dubbio diventa certezza quando le compagnie si vedono improvvisamente ammassate nel recinto della Cittadella per il rinnovo dell’intero corredo. Redingote, [Nota 22] calzoni bigi, berretto floscio blu a due punte, képi [Nota 23] con la mappina, uose [Nota 24] bianche e zaini a pelo vengono gettati a marcire nei cortili di marzo per la gioia dei gatti in amore e sostituiti con completo grigioverde, scarpe gialle, fasce mulattiere, berretto morbido e zaino a tela. Ufficiali e truppa, zotici eleganti, odorano di manifattura fresca e si credono più graditi alle ragazze ma col malinconico dovere di partire. Persa la sgargiante promiscuità delle tinte, la città diventa un’uniforme caserma. L’Italia sta per partire, destinazione: la più triste delle avventure.

Il furiere ha in forza trecento soldati, non solo anime: arrivi, partenze, equipaggi e un resto continuo. Quasi il solo a manovrare la penna, è il solo a restare in ufficio mentre gli altri sono obbligati ai corsi.

Quando, fine marzo del’15, il reggimento lascia Parma per il fronte, gli sembra di riapparire alla luce dopo un letargo. Solo allora si accorse di essere un soldato vero avviato verso una tragica incognita. (torna)

Preparazione degli animi

Lo Stato Maggior Militare prepara i soldati, lo stato maggiore politico i civili. Parma è battuta da una propaganda che induce i braccianti a vedere nella guerra un’evasione dalla povertà, a sperare nell’impossibile, a vedere quello che non c’è, magia dei capi. E i capi compiono le prime magie su se stessi e mutano pelle. I più accesi sono proprio quei dirigenti del mondo del lavoro che hanno tenuto fino a ieri cattedra di pacifismo con in pugno l’illusa massa dei diseredati disciplinata nel sindacato, carne interventista aizzata da una loquela che, se prima coi vasti scioperi di protesta ha provocato orizzontali ecatombi di bestiame, ora aruspica verticali ecatombi umane.

Davanti alle masse agricole di Parma sciolgono una lingua risonante i demagoghi più eminenti, Corridoni e Mussolini (Il piccolo D’Annunzio monta su sgabelli adeguati in luoghi evocativi e più raffinati, come Quarto). Benito, ingaggiato in tournée dal Re tramite ambasciate straniere, è sempre seguito dall’ombra di chi lo ha sostituito alla direzione dell’"Avanti!", Giacinto Menotti Serrati, futuro maestro di Emilio. Dopo la morte questo grande sognatore verrà dimenticato all’ombra invadente e ciarlatanesca dei dirigenti che l’URSS piazzerà sull’altare operaio italiano e che si metteranno improvvisamente a perorare quell’unità del movimento operaio che prima avevano sempre ripudiato, e per aver sostenuto la quale Serrati fu accusato di tradimento. E pensare che questo sacerdote del socialismo, colui che pretendeva che gli operai non reclamassero i propri diritti se prima non avessero adempiuto ai propri doveri, era stato l’unico dei nostri ad appoggiare, nelle conferenze dei socialisti in Svizzera (settembre del’15 e aprile del’16), la proposta di Lenin di creare una Terza Internazionale e di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria, lanciandosi ben oltre il pacifismo massimalista e riformista dei compagni di delegazione.

Un’ombra, dicevo, segue il futuro Duce in un teatro di Parma. Emilio è di ronda. Dopo il discorso l’ombra chiede il contraddittorio ma, appena aperta la bocca, si scatena il pandemonio interventista con rotture di seggiole e di teste, salvataggio di Serrati da parte della ronda e intervento della polizia.

Segmenti di virus, semirette di maledizione scagliate dal Signore hanno ormai violentato i sensi degli studenti e inoculata la prima febbre fascista. Libri di storia idioti, fronti stupide di maestri e geografia dei confini fanno esclamare dai banchi degli "Oh!!!" indignati o, più facile, pronunciare con la mano sul petto la "P" della Patria. Coi sentimenti delicati non si scherza, basta poco a deviarli verso fini impropri, basta un niente, una briciola, una scoreggia interpretata come palpito, ad accendere gli animi e provocare ecatombi. Ma l’abilità di quei due e del loro straordinario, ben remunerato servizio... Benito operava nel settore plebeo, Gabriele in quello aristocratico. Toccheranno il massimo nelle radiose giornate di maggio. [Nota 25] (torna)

 

Capitolo I

ALBUM TRENTINO

 

 

Mistica professionale

Soldato come sacerdote o artista fin nelle fibre intrise di vocazione, comanda la 12ª Compagnia il Capitano Depretis, maturo e tarchiato nobiluomo piemontese appena tornato dall’Eritrea, carico di famiglia e con la sola risorsa del grado. Gli piace apparire inflessibile e minacciare col frustino invocando metodi coloniali. Rimprovera, offende e aggiunge frizzi appropriati alla recluta presa di mira, che all’inizio ha l’impressione di essere stata umiliata, anche se non afferra bene dove, ma poi si sente elevata a figlio, ammessa alle confidenze di un buon padre, così che la compagnia passa dal timoroso silenzio alla rumorosa ilarità, tutto come previsto, temuto e benvoluto da vero ufficiale, individuo davanti all’insieme, uno di fronte ai numeri.

Soldato di stirpe, professionista dell'amor di patria, estraneo alla politica, pronto contro chiunque se comandato, come quando scioglierà le squadracce contro i braccianti e gli operai del Parmense guadagnandosi una nomina a Podestà.

C’è l’arte per l’arte, la guerra per la guerra e qualsiasi cosa per qualsiasi cosa. Il potere sta in piedi su queste necessarie attività pagate non per pensare ma per agire, servire. Anche il pensare, ridotto a pensiero tecnico, a mera funzione professionale, significa solo fare. Il potere sta qui, e sotto i suoi piedi ci stiamo tutti, ci stanno le categorie del lavoro, esaltato purché neutrale. Il militare, il funzionario statale, il magistrato facciano solo ciò che impone la professione, senza sconfinare nella libertà di pensiero e tanto meno in quella dell'azione. E il maggior rendimento si ottiene convincendo il funzionario e le sue tasche all'obbedienza più acritica. (torna)

L’altra faccia della mistica

Il maestro di musica. Ma le necessità domestiche, esorbitando dal totale di stipendio, assegno e indennità, mettono il capitano in continuo imbarazzo. Sempre alle prese coi creditori, specie i propri soldati, che tacita promettendo gradi più alti per sè (l’interventismo ha dato impulso alle spese, sollecitato l’inflazione e acceso le speranze dei debitori). Ma non tutti si rassegnano ad aspettare e allora ricorre alle risorse del grado. Ai più servizievoli regala biglietti per la stagione d’opera al Reinach e induce gli altri a comprarne a prezzo di favore presenziando egli stesso il loggione per accertarsi che ci vadano: "Eccoti, perché al tuo paese non avrai mai l’occasione di vedere uno spettacolo come questo!". Così, riempiendo il loggione, i soldati contribuiscono all’educazione delle sue figliole allieve del maestro di musica interessato nell’impresa del teatro.

Il calzolaio. Il calzolaio del reggimento calza tutta la famiglia del capitano. I conti slittano dentro fantomatici elenchi di risolature scarpe e cuciture giberne. A Emilio, comandato di collaborare con l’artigiano, l’ufficiale dichiara di assumersi tutta la responsabilità.

Il sarto, e il resto. Col sarto, identico procedimento, e anche col proprio cavallo, nutrito col fieno dei muli. Lo stesso con le provviste di casa, arricchite di carne e caffè sottratti alle razioni dei soldati in forza o aggiunti come razioni inesistenti. A Emilio e al caporale di cucina: "La vita del soldato è una vita santa, ma il santo più furbo sarà il più beato, perché vale e sempre varrà l’antico comandamento: arrangiati! (torna)"

A Nozza

A metà marzo i corpi militari cominciano a risalire la geografia padana. Sul piatto dei campi si muove anche il 61° Regg., che alle prime rughe prealpine prende una strada propria: i tre battaglioni che lo compongono inforcano la valle del Chiese.

28 marzo. Il IIIº Batt. Si accampa a Nozza in Val Sabbia, provincia di Brescia. Grazie al capitano, la 12ª Comp. Alloggia al meglio occupando l’asilo nuovo. Sui pagliericci tutti riposano bene un paio di mesi, il tempo di smaltire le vaccinazioni preventive. Gli ufficiali seguono corsi, i soldati fanno esercizi.

Emilio impara la solitudine dei campi, gli odori agresti, i profili dei monti, l’andare e l’irrompere delle acque, li lega ai ricordi amorosi e invia all’amata poesie da notti stellate, rugiade brillanti, tepide fronde in germoglio. Non solo l’ansia precedente la battaglia, ma lo stesso timore precedente la guerra è assente. Calma e fiducia invece nel destino, anche se il conflitto non potrà spegnersi in pochi mesi come vogliono i facili profeti.

Le giovani reclute vedono con triste piacere la prosa della circostante natura, negli occhi i momenti con l’amata, nel cuore una distanza superata da una virtù che sopporta il sacrificio della separazione e si rassegna alla lontananza. Chi invece non alza lo sguardo sui colli, anzi, si mostra preoccupato e con un broncio permanente, sono gli anziani richiamati, sospesi nella tenaglia degli affari, rosi nello strappo degli affetti, chiusi nella tortura dell’astinenza. Non mostrano alcuna voglia di difendere la "civiltà" né di allargare i confini della patria né di vendicare i delitti che, si dice, il nemico perpetra ogni giorno. Nella veglia bellezza e pace brillano beffarde, nel sonno patria e dovere sbiancano come fantasmi. (torna)

Il nemico e’ ormai scelto

In Europa la guerra si contorce da otto mesi e gli italiani sentono che entreranno presto nella mischia. Ma contro chi? Nella grottesca del potere non è ancora ufficiale. Ma l’esercito scopato ai confini col Trentino e la Venezia Giulia è prova che il nemico prescelto è l’Austria e che per difendere la "civiltà latina" dalla "barbarie teutonica" ci si è accodati all’Intesa che sembra più forte e promette di più. La roulette russa giocata dalla piemontese Corona sulle tempie degli italiani è cominciata e solo trent’anni dopo finirà con la pistola girata contro le tempie di Casa Savoia.

Assicurano i veggenti: "Il nostro intervento deciderà le sorti in favore dei latini (latini anche gli inglesi?), e tutto finirà in tre mesi." Secondo gli scribi e i poeti raggianti nel prossimo maggio, gli Imperi Centrali sono già vinti, mangiano pane nero, usano scadente polvere nera, scarseggiano in cannoni perché i fronti si stanno enormemente allargando, e non hanno più uomini perché li hanno già mobilitati tutti. Dovendo e potendo ben tollerare tre mesi, i soldati italiani alzano le spalle, mugugnano ma si lasciano sospingere verso la frontiera. (torna)

Patria e mondo

Ma non erano affatto educati a quell’eletto sentimento chiamato amor di patria, che va con l’istruzione e il tenore di vita. Se era, come fu, il sentimento dei padroni, non poteva esserlo anche dei servi. E neppure dei mercenari che fanno la guerra per la guerra. Ai figli del popolo a scuola prima del conflitto s’impartiva con un’istruzione rudimentale una primitiva idea di patria esaltante la monarchia, che presto s’incrinava sugli spigoli del mondo del lavoro dove si andava affermando il nuovo concetto di internazionale. Nel secolo scorso asceti e propagandisti avevano unificato la cristiana fratellanza universale con l’idea anarchico-marxista, e un po’ romantico-zingaresca, di "la patria è il mondo." Operai e studenti restarono abbagliati da quel principio senza confini, splendida vernice spalmata sui grigi interessi. Gli apostoli di questa anarchia buona, i senza patria, vagarono pel mondo ostentando vessilli multicolori, diffondendo il verbo con cui stordire le nuove generazioni. Ma nei pressi dello scoppio della guerra queste vennero intontite dai botti della propaganda nazionalista, rilanciata da politici, poeti e da quegli stessi avventurieri sindacalisti e anarchici che già l’avevano respinta in nome di una pace universale cui inneggiavano sulle loro riviste e che si fecero subito cooptare nei ranghi redditizi delle classi dirigenti che andavano imponendo l’amor di patria alle moltitudini. In ogni nazione la patria distrusse l’internazionale e ridusse i popoli a massa di manovra alla mercé della strategia militare.

Nel nostro esercito l’idea di nazione contagiò soprattutto gli ufficiali, futuri quadri del fascismo. I soldati con un po’ d’istruzione e benessere (operai dei centri industriali del nord e agricoltori delle cooperative padane), restarono socialisti. Anonima restò la massa analfabeta di contadini e sottoproletari urbani.

Nazionalismo, sentimento elementare e aggressivo. L’Unione Sovietica, partita con l’illusione internazionalista, divenne presto sciovinista. Ogni giorno vediamo che le etnie si combattono fra loro ben più delle categorie sociali conviventi nel moderno stato democratico che vive di integrazione, mediazioni e regole, e oggi aspira persino a unioni sovranazionali.

La patria, sentimento ambiguo per l’illusione che può contenere fino a disintegrarsi ("Si crede di morire per la patria e invece si muore per gli industriali").[Nota 26] Ma anche l’internazionale (si crede di morire per il mondo e invece si muore per la Russia di Stalin o per un tirannico statalismo). Quanti patimenti anche per queste utopie... In Italia massimalismo, settarismo [Nota 27] (che mantenevano i capi in un limbo ideologico dove apparivano asceti piuttosto che difensori di interessi), imitazione del bolscevismo e dipendenza dalla Terza Internazionale distrussero ciò che il riformismo socialista era riuscito a costruire in anni di organizzazione e lotte razionali che avevano fatto del PSI un grande partito le cui cooperative erano la premessa di un florido sviluppo dei lavoratori e di una loro integrazione col ceto medio. Non appena il paese, sobillato dalla monarchia, ebbe bisogno di aggregare interessi attorno all’idea di nazione, il PSI si defilò in nome dell’internazionalismo comunista, e venne tacciato di disfattismo. Ciò lo condusse alla rovina e portò al potere il fascismo.

Dopo la seconda guerra anche i partiti comunisti presero un corso nazionale. La patria, cacciata dalla porta comunista, rientrò dalla comunista finestra, e il comunismo rivelò la sua ambiguità. Le vie nazionali al socialismo, che sconcertarono i vecchi compagni non meno degli stessi stati "borghesi", resero più concreta la politica dei partiti comunisti, ma neanche questo cambio di strategia poté salvarli a lungo dalla rovina, poiché le vie nazionali furono gestite dall’URSS allo stesso modo di quella che a suo tempo era apparsa la via internazionale. Dissoltasi la madrepatria, questi partiti sono entrati in crisi, e ora, completamente mutati, si riaffermano in un contesto di pragmatico socialismo democratico-liberale, una rivoluzione altrettanto importante di quella che portò al potere la borghesia con la rivoluzione francese e il bolscevismo in Unione Sovietica, ma pacifica. Ancora una volta l’algebra politica ha trionfato e ridato ai paesi interessati a questo processo un equilibrio stabile.

Internazionalismo proletario, utopia simile alla cristiana fratellanza universale, ma impossibile a realizzarsi perché presuppone la traduzione in prassi di un’ideologia, cioè di una concezione astratta, assoluta, di una perfezione che, come la felicità, non è di questo mondo. Un internazionalismo relativo è invece possibile rafforzando il ruolo delle organizzazioni internazionali. (torna)

Verso la frontiera

Nei due mesi di Nozza gli ufficiali del IIIº Batt. Fanno mensa in una locale osteria e il capitano Depretis è incaricato, o meglio si fa incaricare, di amministrare il cenacolo. Ogni settimana va con Emilio nel retrocucina dove l’ostessa gli consegna il conto. "Aggiunga", rivolto al furiere, "cinque lire per sè e divida il tutto in parti uguali." Attende l’esito dei calcoli, se lo mormora in bocca, poi esclama in piemontese il suo diritto a un compenso. Ma, poiché nessuno ha avuto la delicatezza di proporglielo, "Dovrò io stesso umiliarmi ad aggiudicarmelo, perciò divida la mia quota fra tutti gli altri e non se ne faccia appunto!" Tornato in sala, distribuisce i foglietti con le quote esibendosi in lunghe barzellette per non lasciar spazio a commenti.

12 maggio. Gli ufficiali vengono privati dei servigi del capitano poiché il battaglione viene retrocesso nella vicina Preseglie dove nei giorni successivi convergono gli altri battaglioni, il 62° Regg. Della stessa Brigata Sicilia e unità della 6ª Divis., arrivano e si organizzano equipaggi e attrezzature e le truppe si addestrano su e giù per le colline.

23 maggio. Si muove la 1ª Armata destinata al settore centro-occidentale del fronte. La 6ª Div. E la Brigata Sicilia affrontano il pomeriggio in pieno assetto di guerra con elmetti e maschere, dirette alla frontiera sud-occidentale del Trentino, altre unità risalgono la sponda orientale del Garda dirette in Val Lagarina, altre ancora imboccano la Valsugana. Al tramonto, dopo una breve deviazione a destra, la brigata di Emilio fa alt a Crone Idro, in riva al lago. La 12ª Comp. Si accantona in una chiesetta sconsacrata.

24 maggio. Con cronometrico rispetto del segreto Patto di Londra [Nota 28] firmato dall’Italia con l’Intesa il 26.4.15 a garanzia di grossi compensi territoriali, le nostre quattro Armate si attestano nelle rispettive zone di guerra: la 1ª ha un settore che spazia dallo Stelvio al Passo di Cereda (separante il Trentino dal Bellunese), la 2ª e la 3ª il settore isontino, la 4ª un settore che va dal Passo di Cereda al Monte Peralba (sorgenti del Piave) e comprende le zone dolomitiche orientali, e penetrano con facilità in territorio nemico per alcune decine di chilometri. I simboli stanno per liquefarsi in cose vere: la nostra guerra è cominciata. (torna)

"Va fuori d’Italia...!"

Il IIIº Batt. Ozia a Crone fino al 30 maggio soffocando con la propria invadenza i pochi abitanti, molestando e intorbidando le quiete acque del lago.

31 maggio. All’alba uno squillo lo mette in moto per ignota destinazione, preceduto e seguito da altri squilli di altre unità dei dintorni. Rifatta in senso inverso la deviazione, gli effettivi avanzano verso nord lungo la sponda sinistra del lago in tutta la loro integrità numerica. La 12ª procede in due file ai lati della strada che porta in Trentino. Ogni fila deve restare il più possibile al coperto, svicola e serpeggia sotto vigneti e filari di alberi chiari di foglie nuove, inciampa su zolle zappate di fresco e supera faticosi muriccioli. Non si capisce se vuol essere un’esercitazione tardiva o una preoccupazione superflua dal momento che il capitano, trotterellando sul suo ronzino in mezzo alla strada, squarcia il silenzio della campagna con ordini urlati nel megafono che porta a tracolla. Fruscii d’erba, deboli schianti di rametti, monotoni tintinnii di armi contro giberne, borracce e fianchi di zaini, sono percettibili qualche metro lontano, ma gli urli del capitano sono certamente udibili a sconveniente distanza. Il tronfio guerriero sarebbe il solo a compromettere l’operazione se mai il nemico, evidentemente occupato in altro o altrove, si trovasse nei paraggi.

Al confine di Ponte Caffaro le due file si riuniscono. Sforzandosi di apparire leggero in groppa a un cavalluccio basso e tarchiato come lui, il capitano si ferma spavaldo in mezzo al ponte facendo segnare il passo ai soldati man mano che sopraggiungono. Quando l’intera compagnia si è ammassata, le dà uno sguardo imperiale, ordina il passo di marcia, sprona la bestiola poco intenzionata a proseguire, imbocca il megafono e con tutta l’onda dei polmoni intona: "Va fuori d’Italia, va fuori o stranier! ".

Alle orecchie nemiche poteva però arrivare solo il suo fiato baritonale perché la voce dei soldati, che dovevano far coro, non riusciva proprio a uscire dalle gole secche e dai polmoni infiacchiti, impegnati a ossigenare i movimenti della marcia. Anche se mezzo secolo prima l’eroe di Caprera era passato proprio di lì, sul volto degli ufficiali si leggeva il disappunto per quell’imprudente omaggio ai garibaldini in una guerra che sarebbe stata ben diversa da quella vissuta da pochi scelti con baldanza di passo e adescante color di camicia.

Intanto, altre compagnie di altri battaglioni hanno già varcato il confine e si sono avventurate in terra nemica senza far tanto palco.

A lento passo di marcia la 12ª entra in un territorio fino a pochi minuti prima soggetto alle leggi dell’Austria. Letto un biglietto del colonnello, il capitano urla di proseguire in due file con le stesse precauzioni di prima, stavolta più sensate. Una fila si sgrana lungo il pendio del Doss della Croce, l’altra in mezzo al granturco delle Giudicarie. Il Chiese scorre a destra sotto il sole meridiano perdendosi ai piedi di un’alpe che emerge altissima in fondo alla valle. Da quell’occhio immane il nemico vede, segue e annota ogni movimento. (torna)

Latte per due patrie

31 maggio, pomeriggio. Viene occupato Storo, inizio della Val d’Àmpola, dove si organizza la base logistica del 61º Regg. Strade deserte. I paesani si sono ritirati in casa e spiano le truppe dalle finestre. Altri contingenti della Brigata sono inviati nei dintorni a formare avamposti. Il IIIº Batt. Ha come obiettivo le alture della Val D’Àmpola che da Storo porta a Tiarno. La 6ª Div. Continua le Giudicarie seguendo il Chiese fino a Condino. Le quattro compagnie del IIIº Batt. 9ª, 10ª, 11ª e 12ª, si inerpicano sui monti.

31 maggio, sera. Salita per la mulattiera di monte Stìgolo. La 12ª sosta in un cortile. Affacciate, alcune donne seguono con preoccupata compassione i movimenti dei soldati. Figli, mariti e fratelli parlano trentino ma al servizio dell’Austria e possono essere uccisi dai fucili di quei giovanotti che si stanno dissetando alla fontana o uccidere essi stessi quei ragazzi che stanno riempiendo le borracce con accenti veneto, lombardo, emiliano. Quando i fanti si allontanano, li salutano e li benedicono a voce alta e occhi lustri.

Per la prima volta Emilio affronta una vera salita e comincia presto a sbuffare come gli altri sotto uno zaino completo di coperta, telo da tenda individuale, vestiario, munizioni e viveri di riserva. Rallenta e un po’ alla volta vede allontanarsi quelli che lo precedono e oltrepassarlo quelli che lo seguono, finché non resta in coda con un gruppetto di affaticati. Grondano sudore e con le pupille stralunate bucano la sera. Piano dirada il gruppo lungo le tortuosità.

Resta solo quando avverte un improvviso profumo di camino. E’ assetato e gli si risveglia anche l’appetito. Un sentiero si dirama e sparisce in curva con l’odore. Lo percorre seguendo quel filo che sa di polenta finché sotto lo spazio nero del cielo non spunta la sagoma di una casupola. Avanza. Sull’uscio decrepito una vecchietta con lume lo guarda, fa cenni, si curva su un secchio e gli porge una sorridente scodella di latte che egli afferra avido e vuota d’un fiato. La nonnina è contenta che anche un italiano beva da quella scodella il latte della sua unica mucca che poche ore prima era stato bevuto da soldati austriaci in ritirata. E aggiunge: "Iddio benedica lei e tutti quanti! ". Intasca il prezzo con un sospiro e si ritira.

Emilio torna sulla mulattiera ristorato. La luna gli propone chiare le curve. Affretta il passo e raggiunge il battaglione che ha fatto sosta su uno spiazzo sassoso a Pian d’Onedo. (torna)

Primi bivacchi, prime trincee

31 maggio, notte. Falde occidentali dello Stìgolo in località Pian d’Onedo presso Rocca Pagana. Il battaglione ficca paletti, scava scoli laterali, accende fuochi e attende affamato l’arrivo del rancio. Le salmerie inviate da Storo con viveri, armi e attrezzature tardano ma arrivano. I cuochi accendono il fuoco sotto le marmitte, e dopo un paio d’ore fantaccini e ufficiali riempiono le gavette di fumante minestra, non troppo delicata ma piena di buone patate trentine e arricchita con pezzi di salsiccia.

Nel cuor della notte e dei sassi i soldati si coricano in tanti sotto ciascuna tenda. Per qualcuno amante delle comodità il materasso è uno strato di muschio strappato alle rocce. Umido e freddo. Pigiati l’un contro l’altro dormono fino a giorno pieno.

1º giugno. Dopo il rancio di mezzogiorno, mentre gli addetti ai servizi ritirano e ricompongono le attrezzature e preparano le salmerie al proseguimento, il battaglione s’inoltra nella sua carta di dati, un bosco in direzione di Malga Bislera. Nessuna orma del nemico. All’imbrunire attendamento su un morbido prato solcato da ruscello e circondato da fitte compagini di abeti a Rocca Pagana vicino a Cascina Mauser.

2 giugno. Ulteriore salita nei ricordi di Emilio e sullo Stìgolo e bivacco notturno a Cascina Paivel.

3 giugno. Arrivo a Malga Bislera dove chi ha denaro può gustare burro e formaggio di mucche che mangiano fiori. I vaccari, solo geograficamente austriaci, non solo non sono fuggiti ma hanno colto una buona occasione per fare un po’ di denaro facendo lavorare le loro vacche per la fanteria italiana. Vengono fissati i primi avamposti e improvvisate trincee con sassi racimolati. Inizia il servizio di vedetta. (torna)

Muli, cuculi e falchi

Le vettovaglie giungono due volte al giorno per un’altra mulattiera che sale dalla Val d’Àmpola, ma così stretta, ripida e scivolosa che dall’alto si vedono frequenti capitomboli di muli stracarichi. Sentiero da capre? Muli maldestri o bardati con poca esperienza? Fatto sta che alcuni animali, una volta giunti sotto la malga, si ribaltano lasciandosi ruzzolare sul pendio erboso di una valletta laterale e qui restano inanimati, e solo quando il mulattiere li raggiunge bestemmiando, li strattona e affibbia sulle loro culatte un codicillo di bastonate si rialzano e rifanno pazienti e dondoloni l’ultimo tratto impegnandosi stavolta con circospetta, sorprendente perizia.

6 giugno. Raggiunge il battaglione un gruppo di richiamati di provincie padane ed emiliane. Portano frammentarie, incerte e, come piace a chi viene da fuori e sa che chi l’attende è rimasto a lungo assente o isolato, esagerate notizie della guerra e del mondo. Anziani che hanno lasciato famiglia e lavoro e hanno dentro e fuori rabbia e tristezza. Accodati alle salmerie di Val d’Àmpola, hanno sbuffato come i muli e con essi si sarebbero volentieri lasciati ruzzolare sull'inclinazione del prato per restarvi e dimenticare.

Le compagnie si avvicendano nei servizi di guardia e trincea. Alla 12ª tocca la prima veglia, trascorsa senza rumori sospetti. Solo un cuculo non cessa tutta la notte di esprimere sorpresa per la presenza di tanti intrusi nel suo ambiente solitario. Nell’età dell’azione, Emilio sente libertà e concretezza chiuse in una gabbia dalle sbarre infinite d’alberi di un bosco che lo stringe in un’umida morsa di pazienza. E il tempo comincia a passare.

Un pomeriggio scorge un’ombra altissima in cielo, e si convince che è un aeroplano. Lo dice ai vicini compagni di gavetta, e presto l’intero accampamento in siesta alza la testa assonnata per osservare quel corpo scuro e vagante che solca un cielo chiuso da una penombra di rupi e che altro non è se non un falco come è presto evidente dal suo abbassarsi in lento moto circolare. Al che il capitano beffeggia il furiere fra le servili risate dei commilitoni molti dei quali non hanno mai visto un aereo, senza però cancellare la piccola vergogna di essere rimasto egli stesso naso all’aria e mano alla fronte per qualche tempo prima di accorgersi che si trattava di un’innocente creatura della natura.

Nei giorni seguenti, per mantenere la sicurezza di fronte agli occhi di cannone delle circostanti cime austriache e porsi al riparo in caso di incursioni, vengono scavate trincee in località Case Bisti su un costone prospiciente Tiarno, non ancora occupato dagli italiani. Il capitano, incapace di star zitto, continua a impartire ordini urlati nel megafono, sicuramente trasportati dal vento alle orecchie del vicino paese. Col senno di poi Emilio dedurrà che in quel settore e in quel momento gli austriaci difettavano di truppe e artiglieria o non erano interessati alla difesa. Ma il comandante del battaglione decide col senno del momento d’imporre al suo ufficiale di non usare oltre quel chiassoso strumento, che finisce nel fondo di un sacco col confessato sollievo dei subalterni. (torna)

Volontari

Pieno luglio. Nel petto del racconto le quattro compagnie tornano a tempi cadenzati a Cascina Paivel con l’ordine di proseguire per Case Rango, versante occidentale dello Stìgolo, dove il battaglione resterà dei mesi. Durante il trasferimento la 12ª è raggiunta da un gruppo di volontari di Parma.

L’aria del pomeriggio succhia calore dalle pareti che racchiudono la piccola valle contenente la mulattiera, e i croccanti pini silvestri vestono il pendio di marcia rossastri sotto un sole spietato che li accartoccia, quando al capitano è segnalato l’atteso gruppo dei volontari che arrancano in basso lungo un tracciato secondario e ripidissimo. Lo zelo patriottico li ha indotti a praticare la scorciatoia che ora stanno pagando. Non appena li vede il capitano ripone il binocolo, ordina il riposo e, invitando tutti a fare altrettanto, grida a squarciagola: "Evviva i volontari di Parma!". Il canto resta solitario, si perde fra le rocce, evapora al calore di pietre stanche di far eco e non fa effetto neppure sugli interessati che sopraggiungono affranti dalla fatica e dai dubbi che questa si trascina dietro, gli occhi spalancati su mille interrogativi.

Giovanissimi e anziani, studenti e avvocati, operai e persino sindaci, tutti di fede sovversiva, socialisti rivoluzionari e sindacalisti tranne uno, quasi bambino, autentico nazionalista. C’è anche il cugino di un tenente della 12ª ma tra i due non corre buon sangue. L’ufficiale, serio e posato, non vuole salutare e neppure vedere il parente che, internazionalista da sempre, si è improvvisamente convertito in un gagliardo patriota. Pentirsi al momento buono e buttarsi dalla parte vincente è pratica cui i vogliosi di far strada, insofferenti di restare fra le quinte o recitare la parte dei perdenti, oltre ai voltagabbana di professione, si son sempre dedicati. Così si esprime aperto col proprio furiere il diffidente cugino tenente. (torna)

Poeti e camerieri

Di quei volontari Emilio ne toglie due dall’ombra. Il primo è Gino Grazioli, giovane etereo di neanche diciannove anni, l’unico a nutrire verace amor di patria e gran voglia di servirla. Gli altri, con una scusa o l’altra, si son poi defilati svicolando sulla via del ritorno, sparendo nel dedalo delle retrovie o incollando il culo negli uffici degli alti gradi per riemergere in seguito, qualcuno più ambizioso degli altri, con una stelletta sulle spalline.

Il secondo lo colpisce perché è un rivoluzionario, almeno a chiacchiere, ma al tempo stesso uno scansafatiche. Basso, naso schiacciato, mento piatto e piedi da poliziotto, mostra animo faceto apparentemente bernesco ma in realtà servile. Cameriere di corpo e di spirito, si è arruolato in cerca di fortuna o di gradi ma si è subito accorto di aver fatto un errore e adesso, pentito, cerca un posticino tranquillo. Così confessa al furiere cui si è subito raccomandato, che lo adibisce ai servizi di piantone.

Anni dopo, durante lo svolgimento di delicati compiti per il partito, Emilio lo ritroverà nel periodo più sfacciato della dittatura: il cameriere, dicendo di aver lasciato il sindacalismo rivoluzionario e di essersi votato al comunismo, rivelando in ciò un insospettato coraggio, si mostrerà imbarazzato nel rivedere l’amico furiere e ora compagno in missione segreta al cui cospetto aveva svolto il servizio volontario, perché considera sic et simpliciter la cosa incoerente con le sue nuove idee quasi provando vergogna della propria giovinezza. Lo incontrerà ancora alla caduta del regime: il suo volontariato è diventato un titolo d’onore sull’onda di amor patrio improvvisamente sollevata dal partito di Togliatti. Insomma, uno dei tanti seguaci passivi che, per opportunismo, accettano modelli prestabiliti di concezioni ufficiali. A meno che, bisbigliava il cuore sempre sospettoso di Emilio, non nascondesse fra i piedi piatti qualcosa di peggio.

Ben diverso quell’altro, anima candida di giovinetto, patriota e poeta in un momento in cui non soltanto l’amor di fanciulla ma anche l’amor di patria faceva diventare tutti poeti. Sempre in cerca di disagi e dei rischi della trincea, un paio d’anni dopo, ufficiale sul campo, cadrà fra i desolati monti di Macedonia. (torna)

Case Rango

Accampamento a Case Rango, complesso di stalle e fienili a ridosso dello Stìgolo fra prati e boschi a due, tre chilometri d’aria dai nidi asburgici. Le vacche sono state sloggiate e al loro posto vengono installati, dopo una furibonda pulizia, i vari comandi. Il fienile più bello è allestito per il comandante del battaglione. Al capitano della 12ª tocca una stalla piccola ma con vista sui monti nemici. Emilio e la fureria possono giovarsi della propria mansione nel fienile retrostante la stalla del capitano. Anche gli altri ufficiali vengono accomodati al meglio. La truppa deve ancora accontentarsi di tende fredde e anguste ma almeno prive dei bucolici residui odorosi di cui è ancora impregnato il complesso.

Bisogna fortificare e presidiare un tratto del fronte che da Condino porta a una vetta chiamata Cima Borele, con l’intento d’impedire al nemico di uscire dalle valli Giudicarie o di scendere per la Val d’Àmpola. Di qua e di là del tratto il IIIºBatt. È in contatto con le altre unità della brigata e con quelle della 6ª Div. Che, tutte insieme, formano nodi di una catena in tensione in attesa che il nemico si faccia vivo. Su Condino incombono le robuste postazioni austriache del forte di Lardaro. Cima Borele svetta nuda sull’accampamento e ha di fronte cime austriache più elevate: monte Giovo, Cima Palone, Monte Mozzolo e, più alto e fortificato di tutti, il Monte Cadria, ritenuto fortezza inespugnabile.

Per qualche settimana silenzio assoluto, solo incidenti a qualche pattuglia in ricognizione rientrata incompleta per essere inciampata in trabocchetti di bombe collegate a fili posti di traverso ai sentieri o precipitata in bocche di lupo. No tracce del nemico in persona. Sono in compenso attivi gli abitanti nel mettere in salvo le bestie e le cose che hanno in giro per le malghe. Riferiscono che gli austriaci stanno fortificando Monte Mozzolo e che fanno la spola tra questo e Cima Palone dove hanno piazzato un agguerrito osservatorio, e ogni tanto scendono a Tiarno a requisire viveri e internare i civili.

Il lavoro più intenso ferve nelle retrovie mentre i servizi di vedetta e trincea sono di tutto riposo. Non è giusto che la truppa continui a dormire nell’umidità delle tende e perciò i soldati liberi dai turni vengono impiegati per abbattere gli alberi necessari a costruire capannoni-dormitorio. In breve, lo splendido bosco di abeti rossi e pini silvestri a nord di Case Rango è ridotto a uno squallido pendio di tronchi mutilati. Moltiplicando lo scempio per le decine di reggimenti stanziati nelle Alpi centro-orientali, ci si può fare un’idea di quale ferita sia stata inferta alla natura dei luoghi. Ma ogni guerra è giocata intorno ai pronomi mio e tuo e, secondo un certo istinto, meglio qualcosa di distrutto di qualcosa che non è mio. A complemento di questo: "E pensare che si potrebbe rimanere tutti tranquilli in pace se gli uomini non fossero sempre invasi dal prurito di prendersi la roba degli altri!" Così Cadorna, in una lettera casalinga del 28.6.16. E, un capoverso prima: "Stamane andai sull’Altopiano di Asiago...Che spettacoli orrendi!/ C’erano molti cadaveri ancora da seppellire. Oh, la guerra!". Questo a distanza di un mese da un’altra lettera, al gen. Lequio, comandante la zona degli Altipiani, una lettera per la lettera nella guerra per la guerra, un esempio di schizofrenia professionale dei sentimenti dopo un nostro malaugurato ripiegamento senza resistenza: "L’E.V. prenda le più energiche ed estreme misure: faccia fucilare, [Nota 29] se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enorme scandalo..." (torna)

Don Luigi futuro

Dal fienile della fureria si vede, a nord, la catena culminante nel Doss dei Morti e, più lontano, il mortifero candore dell’Adamello. L’orizzonte sordo e solenne è appena disturbato da deboli echi di cannoni che lanciano muti proiettili in direzione del ghiacciaio. Rispettosi di quella pace apparente, tutti sono inclini a un parlare sommesso, compreso il capitano che ha ormai dimenticato il meccanico gesto di afferrare il megafono.

La truppa impiega i turni di riposo in rapide discese a valle e dure risalite con strumenti e materiali in spalla in aiuto ai muli. Di sera, quando tutto rientra in corpo, i soldati si ritirano nelle nuove, resinose baracche, e un po’ alla volta si scaldano. Ricevono visite da unità vicine con allegre bottiglie o cibi in scatola offerti da qualche generoso, offrono a loro volta bicchieri di vino e si sciolgono in chiacchiere ravvivando le ore introverse che precedono il sonno, restando al chiuso contenti smuovendo dentro il tempo fermo sui monti.

Emilio resta misantropo in ufficio e quando non lavora pensa o discorre con una recluta che si è scelta come scritturale, un seminarista prossimo a dir messa. Lo chiamano già don Luigi, un pezzo di giovanotto lombardo dalla bontà pari alla mole, sorridente e simpatico a tutti anche perché ghiottone più di un vivandiere. La sera siedono sull’uscio a confrontare le loro idee opposte ma non contrapposte, missioni e sentimenti diversamente giustificati ma tesi a un medesimo fin di bene, l’uno attraverso Dio, l’altro attraverso il socialismo, sognando le stesse cose e concludendo ogni confronto allo stesso modo. Effetto del silenzio, del buio e del comune pericolo incombente, ridotti a operazioni di sopravvivenza e ad accomunare gli animi per difendersi dall’inesorabile che li sovrasta. Differenze e contrasti sorgerebbero in altre più complesse situazioni, quando non l’uguale pericolo della morte ma il diverso impegno della vita mettesse a prova la bontà delle idee. Applicare le idee è la prova del fuoco che brucia piedi e testa dei popoli quando le idee vengono dal cielo di una religione, più padroneggiate dal caso e dal sentimento che dalla ragione, o piovono dalla nuvola di una ideologia priva di agganci con la realtà. Lassù, prete e socialista sono disposti a confrontarsi affettuosamente in una mistica parvenza di superamento di difficoltà e differenze. Ma lassù non c’è nulla da provare. Quel mondo di stelle dal profumo ormai estivo gravita surreale e senza peso unificando le diverse scritture del cuore e della mente. (torna)

Mugnaio

Al campo c’è uno di Colorno, piantone alla mensa, mugnaio di mestiere, esperto e lesto nel portar sacchi di farina, pasta, ceci e pagnotte. Si chiama Fadani, bello di viso e di corpo, cosa singolare per un emiliano. Snello, dritto nel portamento, sembra che abbia rubato il meglio da ogni regione. E’ anche arguto e faceto, e questo non è singolare, e forse un po’ strambo, e questo è normale. Il contrario di Emilio e Luigi, se si può essere il contrario di due cose diverse, ma fa con loro l’armonia di un terzetto non nel parlare, ma nell’ascoltarne i discorsi di cui tocca in superficie il tono seducente e la dialettica che egli trasferisce abilmente nella propria baracca e nel lambrusco dei compaesani sfoggiando un’eloquenza tutta rurale e spinta, fiorita di metafore inventate su fatti veri e carnali.

Vino e astinenza lo stimolano a raccontare amori che sicuramente ha vissuto come testimoniano fisico ed estroversione. Fra i biondi sacchi di grano e i morbidi sacchi di fiore ne ha combinate tante che sembrano invenzioni, ma le precisazioni di cosce bianche di farina a due a due, a quattro a quattro, nude, lisce, ritmate dalle pale, sanno di verità. Gli ascoltatori chiedono sempre nuovi particolari cui egli risponde con dovizia e, in presenza di qualcuno di riguardo, con gesti e ammiccamenti come giocasse a scopa, e quelli giù a sudare come fossero dietro i sacchi a guardare con gli occhi dilatati e a faticare di piacere finché il circostanziato riferimento alle parti più delicate e l’orgasmo declamato da una bocca senza freni fa esplodere tutti in una risata liberatoria che per quella sera basta e avanza. Con quei racconti intende adescare, secondo lui svegliare, lo stesso don Luigi, spesso presente nelle baracche a gustar dolci e a tentare di elevare il tono dei discorsi con argomenti che poco possono sui rubicondi astanti che col mugnaio condividono astinenza e voglie. (torna)

Calzolai e trombettieri

In un capanno in fianco alla fureria han trovato posto due calzolai ferraresi. Uccelli ciarlieri, rallegrano l’aria odorosa di cuoio scambiandosi battute e affettuosi improperi tra una tirata di spaghi e una leccata di chiodi, un’impiastricciatura di pece e un colpo di martello sopra un tacco appoggiato al ginocchio, che è la zoppicante insegna di ogni ciabattino. Cantano sottovoce canzoni sporche e bislacche di cui, chiunque non sia compaesano, non riesce ad afferrare il senso, e che si sono certamente estinte con loro.

C’è poi un trombettiere romano paffuto e scarlatto che non si separa mai dal suo strumento perché tenerselo al petto lo conforta e lo conferma nella propria identità. Certo è che gli mantiene integro un eccezionale appetito. E’ la disperazione del caporale di cucina Pizzamiglio cui sa estorcere razioni supplementari con occhi e bocca così convincenti che il graduato si sentirebbe un verme se non cedesse a quello che più di un capriccio sembra un bisogno. La sua baracca si è trasformata in dispensa e puzza di cibo. Nello zaino e ovunque si trovino tasche, sacchi e recipienti, ci sono scatolette di carne, avanzi di formaggio e fette di pane abbrustolito in previsione di una lunga carestia.

Per quella tromba Emilio è perplesso. Ogni mattina fin dall’alzabandiera c’è da guardarsi intorno e interrogare i confini. Incredulo: il megafono del capitano è pur finito nel sacco, le vacche di Case Rango sono andate a muggire altrove, ma allora, la tromba? Assurdo: perché nessuna disposizione è ancora arrivata a far tacere quel pericoloso fiato? Fantastico: sei volte al giorno penetra d’argento i boschi e come cavallo alato ne esce cavalcando rupi e scavalcando cime per sbalordire il nemico e rivelare la nostra presenza. Presuntuoso: forse una vacca o un megafono sono meno marziali o dicono troppo poco al nemico, mentre un fiero squillo lo impressiona come una maschera le antiche orde? Umoristico: d’ora in poi procederemo solo alla luce del sole, magari in forma di testuggine romana o addirittura previ accordi coi crucchi. Grottesco di frontiera: l’austriaco ha certo già capito che gli italiani sono di qua e il nostro Comando che gli austriaci sono di là, perciò tanto vale lasciarla suonare. Incosciente: il punto dove siamo non conta, tanto i cannoni sparano a caso. Preoccupato: ma il caso può costarci caro, e se i binocoli fossero buoni e gli austriaci precisi? Il fante Emilio ogni mattina ci ragiona sopra, ma di alzo [Nota 30] e strategia non capisce gran che, forse come lo stesso Comando.

Il trombettiere fa bene il suo mestiere. Appetito e polmoni non gli verranno meno finché, un giorno di quelli che capitano, ferito al braccio, sarà trasferito a non far nulla in un ufficio dell’Italia Centrale, essendo nella 12ª l’unico cittadino del Cupolone. E dal giorno in cui non potrà più far sfoggio del suo brillante ottone, entrerà nel tempio di una profonda malinconia. (torna)

Imprese del capitano

Col passar dei giorni il capitano è diventato irascibile. Quando fa bello dice che gli piace stare in montagna, ma un batuffolo che avvolga il luogo in umide spire basta a renderlo insopportabile e a indurlo a lagnarsi di essere stato esiliato in un posto tanto squallido e lontano dall’abitato. Esce dalla stalla, fissa il nulla della nebbia e poi guarda a terra come pensando a qualcosa di pratico, finché non lancia una mano aperta verso l’alto con impotente gesto di rabbia come per dar schiaffi al destino, finché non si ricompone soffiando come un mantice. Ma il vero motivo dell’insofferenza è l’impossibilità di allungare le mani su qualcosa di utile. Se almeno fosse in paese, farebbe incetta d'ogni ben di Dio, ma in quella maledetta malga, più che burro e formaggio...

A dire il vero, è riuscito a rimediare qualcosa anche lassù. Qualcuno dei suoi protetti gli fa pervenire ogni tanto in groppa ai muli, in aggiunta ai vecchi crediti e per il tramite delle proprie famiglie, polli, conigli, culatelli e altre prelibatezze caserecce, tutta roba che viene spedita in copia anche a sua moglie, rimasta a Parma con le figlie. Lo scopo di questi crediti supplementari e in apparenza a fondo perduto, è connesso con le missioni che Emilio compie ogni cinque giorni a Storo, dove va a prelevare la cinquina [Nota 31] per la truppa, trattenendosi in paese fino al giorno dopo, e a volte anche un paio di giorni per espletare pratiche al Comando di Reggimento. Allora il capitano affida al furiere la compagnia e la custodia di un soldato che vuole favorire con una tranquilla passeggiata o un riposante soggiorno a valle. E si tratta invariabilmente di qualcuno di Parma le cui leccornie hanno il magico potere di evitargli lunghe notti in trincea o veglie in vedetta o i calli della scure, e soprattutto pericolose missioni di pattuglia, deviando altrove qualche pallottola peregrina.

Ma, poco soddisfatto di tali omaggi, l’ufficiale non si dà per vinto. Un giorno di temporale che isola il campo in un imbuto di pioggia e fa volare i monti con le nuvole, esce accigliato dalla stalla e chiama un tenente. Sguardo duro e voce decisa sottintendono che il tempo passa senza che accada nulla d’importante. Al subalterno, sull’attenti con tutto il proprio dovere, comanda di apprestare una pattuglia, perlustrare le malghe dei dintorni e requisire (il verbo giusto sarebbe razziare), qualsiasi cosa trasportabile: perché no? Gli austriaci, incattiviti con la popolazione locale colpevole di essere italiana, non fanno forse lo stesso? Anzi, fanno di più, internano i civili.

L’impresa gli frutta, oltre a svariati oggetti rustici e attrezzi di vaccheria, numerosi mestoli di ottone e paioli di rame che si affretta ad affidare ai muli e spedire al proprio legale domicilio pieni zeppi di scarpe nuove e molte altre cose non propriamente frutto della razzia ma in dotazione alla compagnia e quindi appartenenti al ministero della guerra. Perciò l’impresa viene golosamente ripetuta giorni dopo a più ampio raggio e con maggiori risultati. Stavolta però, per timore d’irritare il colonnello, che è paziente ma non fesso, decide con più decenza di non farsi veder spedire subito la merce, e di riempire per intanto la mangiatoia della stalla, anche perché sente odore di gradi e di trasferimento. (torna)

Promozione e partenza

Suo maggior tormento è l’attesa. La promozione è imminente, ed è bene non compromettere col poco di oggi il tanto che il futuro gli riserva. Mentre si smangia dall’impazienza, tocca proprio ad Emilio, una mattina che si trova a Storo, trasmettere il bramato fonogramma al radiotelegrafista di Case Rango. Il colonnello, ancor più contento di lui, si affretta a recapitarglielo personalmente. Partenza il giorno appresso sotto un inizio di pioggia dopo le consegne al tenente più anziano e il tempo necessario a far caricare su una mezza dozzina di muli gli effetti personali e il bottino di guerra. Nel frattempo è ridiventato loquace e si muove irrequieto e leggero come un ballerino. Va a salutare il superiore e poi si ferma a confabulare coi creditori. Tutto è pronto. I galloni di maggiore li ha già in serbo da chissà quanto. Rientra in stalla, se li appunta sul berretto e la giubba, ed esce fingendosi assorto. Gli ufficiali sorridono e ammiccano alla compagnia che, ammassata sul prato in attesa, ridacchia. Qualcuno grida l’attenti, e i soldati diventano seri. Il capitano salta sul ronzino dal quale fa un lacrimoso saluto d’addio, e i soldati si commuovono. Qualcuno ha gli occhi lucidi. La pioggia non smette e gli alberi cominciano a sgocciolare. La carovana si mette in moto al grido di: "Urrà per il capitano!". Tre volte, mentre un vento si alza a scuotere i rami, e l’ultima coda di mulo sparisce lungo il sentiero.

Da allora, e per almeno un anno, il suo posto sarà occupato a turno da vari tenenti, ufficiali solo nel grado, scialbi e senza personalità militare i quali, privi della titolarità del comando, non sapranno imprimere alcun particolare carattere alla compagnia che, a dispetto della contraria e soddisfatta impressione del colonnello, sembrerà più vuota. (torna)

Esistenza della natura

In cima all’avamposto, dirimpetto alle fortificazioni e al possente potenziale bellico di un nemico che mostra solo silenzio e pare inerte, Emilio conduce una vita contemplativa. Il paesaggio avvince ed evoca sentimenti ascetici. I piccoli e istruttivi risvolti della natura inducono a tante osservazioni. Mentre sul fronte arrossato dell’Isonzo infuria la battaglia, egli trascorre ore nei boschi a coglier ciclamini e variopinte erbe e profumate per farne un mazzolino per un bicchiere della fureria, osserva funghi di cui non si fida, e sosta sui naturali balconi erbosi a fissare le cime concatenate che dal Doss dei Morti si allontanano fino a confondersi con l’Adamello il cui ghiacciaio, alzato un po’ lo sguardo, apre il cielo come un’immensa chiave. Uccelli e fiori fanno al suo animo il resto.

Amore in un nulla che è tutto. In questo ho preso da lui, e un giorno chiesi a un amico e noto critico musicale (avrebbe preferito esserlo letterario) se gli interessassero funghi e coleotteri. Mi guardò, anzi, guardò avanti con le seguenti possibili espressioni: pietà per l’infante, un po’ di affetto per l’ingenuo ignorante, un po’ d’imbarazzo per ciò di cui con lui..., e compassione per il mio amor delle scienze che forse intendeva tutte al crepuscolo come il pianoforte. Anzi, peggio, niente di tutto questo, due secondi e passò oltre.

Per godere di vista e spazi più ampi e col pretesto di pagare la cinquina ai soldati di guardia che in quelle solitudini non potrebbero mai spendere un centesimo, affronta a volte il ripidissimo sentiero che da Case Rango sale a Cima Borele da dove si ammira una marea di vertici che con disuguaglianza si accavallano e premono l’un contro l’altro come se ciascuno aspirasse al massimo. (torna)

Esistenza del nemico

Pieno agosto. Una mattina buon’ora in cui la frescura dà vigore alle gambe, meditando il pretesto della cinquina e senza preavvisare nessuno, Emilio si arrampica fino a quella vista seducente e si mette a chiacchierare col comandante del posto di guardia, caporal maggiore Funari. Tutto è fermo, colore e pace. Unica cosa animata il vento, che asciuga fronte e camicia di chi mette piede sul cucuzzolo. Le parole che si scambiano soffiano via e lasciano una scia di silenzio. Funari sta indicando col braccio una probabile linea di trincee nemiche. Ma di colpo un lampo abbaglia la roccia vicina, così veloce che ai due è sembrato più d’immaginarlo che di vederlo. Segue uno scoppio che pulsa sui timpani come una mazza su una baritonale pelle di tamburo. E un gran fracasso di pietre che rotolano a valle. "Giù! Il nemico! Al sicuro!", grida Funari ai soldati che bighellonano in giro fumando. Gesticolando di voler subito discendere al campo, Emilio si allontana saltellando sul sentiero, emozionato come un bambino e seguito da altri proiettili che sembrano cercarlo e s’infrangono su un vicino costone senza danno ma con un frastuono ripetuto da echi che crea scompiglio lungo tutta la linea presidiata. Case Rango ode per la prima volta il cannone nemico.

Riapparso di corsa fra le malghe, il furiere è chiamato dal colonnello che per prima cosa lo rimprovera di essersi spinto lassù senza permesso e poi gli richiede dell’accaduto. Le vedette sospese su un vicino precipizio con grossi cannocchiali gridano che i colpi provengono da Monte Mozzolo. Il comandante guarda nella direzione indicata, poi osserva perplesso Cima Borele.

In quel punto la nostra linea, forse per la prolungata latitanza del nemico, pare abbandonata. Non ha quasi trincee né ridotte e non è protetta da nessun cannone. Non si vede un artigliere in tutta la zona. Per fortuna anche il nemico non ha proiettili da sprecare, e quella batteria che pare essersi accanita al solo scopo di guastare la passeggiata di Emilio è stata probabilmente ceduta a prestito a Monte Mozzolo per quel giorno e quindi ritirata e dirottata altrove dove possa fare più danno perché nei giorni seguenti torna nella zona Re Silenzio. Evidentemente il nemico ha soltanto voluto ammonire che esiste, è ben dotato, e non ci venga in mente di tentare avanzate. L’effetto-risposta all’eloquente sorpresa è quello di dotare la nostra linea di un medio calibro che viene installato a Cima Stìgolo e comincia a funzionare con parsimonia sopra le teste degli accampati di Case Rango, e di un grosso obice che, piazzato in Val d’Àmpola, fa udire a lunghi intervalli il sibilo dei suoi proiettili che vanno a schiantarsi su Monte Mozzolo facendo più strazio di prati che di austriaci. (torna)

Frottole e improperi

L’estate non può che declinare e l’autunno affacciarsi arrugginendo i latifoglie più in basso. Le intermedie abetaie restano inossidabili. In alto, i larici sbiancano.

La posta è regolare e con essa i giornali col loro carico di frottole trionfali per l’andamento di una guerra che già perde sangue dalla lentezza. Sull’austriaco odore dell’Isonzo sono già morti migliaia di italiani e l’Austria non arretra di un metro. Sul fronte occidentale la marea imperial guglielmina, sospinta dal vento della divisa "Deutschland über alles in der Welt", [Nota 32] si è impantanata in una palude in cui tedeschi e anglo-francesi si sparano solo dalle trincee. Sul fronte nord-orientale gli austriaci, dopo essere colati indietro fino ai Carpazi sotto una tempesta russa, vengono riscattati dall’alleato d’acciaio insieme al quale respingono lo zar a est e a nord. Fronte sud-orientale: avanti e indietro di Austria e Serbia, blocco turco dei Dardanelli, entrata in guerra dei bulgari a fianco degli Imperi Centrali. La Romania, paralizzata dagli insuccessi russi, non si muove. La Serbia, liberatasi dall’Austria, è intenta a sbranare l’Albania in compagnia di montenegrini e greci, e a farsi promettere dall’Intesa compensi nei Balcani a danno dell’Italia. Il caos balcanico, la rivincita teutonica sui russi e il mancato coinvolgimento di serbi e romeni in appoggio all’Italia hanno ormai vanificato la fantasia di Cadorna d’invadere l’Austria dalle colline di Picolit del Friuli e dai noceti della Carnia, e permesso agli Asburgo di mantenere il loro potenziale sull’Isonzo.

Sui giornali Intesa e Italia vincono sempre e ovunque, un passo in là diventa un chilometro, un chilometro in qua si riduce a un passo. Oltre alle esclamative bugie stampate per ringalluzzire, se sanno leggere, o far ringalluzzire da chi lo sa, se non lo sanno, coloro che la natura ha beato limitandone le facoltà intellettive allo stretto necessario per vivere (e quanti non ce ne sono anche oggi che si limitano a succhiare acriticamente la propaganda televisiva!), i giornali sfornano improperi contro i socialisti italiani, rei di aver diffuso proclami contro la guerra. In settembre i socialisti nostrani si sono infatti incontrati in Svizzera coi bolscevichi e hanno respinto a maggioranza l’idea di Lenin, improponibile in Italia, di convertire la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, ma hanno condannato i colleghi europei per la loro adesione al conflitto, e Serrati è riuscito a divulgare sotto il naso della polizia un gagliardo manifesto contro il bellicismo patriottico del quale è caduta preda l’Europa. (torna)

Si conquista Cima Palone

Col primo fresco di ottobre gli austriaci cominciano a dar noia al fronte delle Giudicarie. Dall’eccellente osservatorio di Cima Palone le loro vedette segnalano alle batterie di Monte Mozzolo, stavolta ben rifornite, i passaggi obbligati dei rifornimenti italiani. Al Comando di Storo giunge allora l’ordine di espugnare l’odiata postazione. Se ne incarica il nostro battaglione. La notte tra il 19 e il 20 ottobre il colonnello ordina l’attacco. La 12ª è di rincalzo e trattenuta in attesa di ordini a Monte Giovo. Il maggiore Corridoni si mette alla testa dei plotoni d’assalto che s’inerpicano sui fianchi del Palone col passo fresco dell’ultimo buio, ma una delle prime fucilate nemiche lo colpisce casualmente e mortalmente. L’attacco, ormai avviato, è però stato condotto con veloce abilità facendo avanzare la truppa in ordine sparso e un po’ da tutti i lati. La semioscurità impedisce agli artiglieri nemici di bersagliare il Palone senza rischiare di colpire i loro stessi Kriegskameraden. [Nota 33] Gli austriaci, colti di sorpresa, non ce la fanno ad arginare tutti quei fanti che salgono con decisione formando un anello sempre più stretto attorno alla cima, e restano accerchiati.

Ma, per rabbia o per vergogna, non si arrendono. Le prime luci chiariscono la sproporzione delle forze: un’ottantina di asburgici con gli occhi ancora assonnati sono racchiusi in un piccolo cerchio di quattrocento savoia. Dei due calibri lasciati come ricordo sulla cima non sanno più che farsene, e le mitragliatrici affogate nei mughi sporgenti dagli orli sono già in mano italiana. Il nostro capitano più anziano grida in tedesco agli accerchiati di arrendersi. Un coro di "Nein!" trabocca dai bordi e si spegne sui fianchi. Allora il capitano dà il "la" alle baionette. Una quarantina di eroici crucchi, fra i quali tre o quattro ufficiali, si gettano nella mischia riuscendo a far breccia e a discendere precipitosamente il pendio lato nord lasciandosi dietro più di una divisa riversa sul luccicore della rugiada, per poi intraprendere la risalita fino al Mozzolo dove li accolgono sconcertati i colleghi artiglieri. Ma gli altri quaranta, fantaccini e graduati cui la fuga non è riuscita, ora sembrano volersi arrendere, e si lasciano catturare a prezzo di qualche ferito. Le nostre perdite complessive non sono gravi. Grave e dolorosa è però stata quella del maggiore Corridoni, soldato onesto e coraggioso.

Ai catturati il capitano che parla tedesco chiede informazioni sul nemico, ma danno risposte vaghe. L’ufficiale dà loro dei bugiardi, e quelli, come una nenia, "Nein Lügner, Lügner nein!" [Nota 34] e si mettono a ridere. Il capitano insiste con altre domande e si lagna che quegli sfacciati non vogliano ammettere che l’Austria cominci a soffrire di scarsità d’armamenti e penuria di viveri, e tanto meno di detestare un paese che, anzi, esaltano con ardore patriottico, ardire imperialistico e una compassionevole luce negli occhi che irrita i nostri, assiepati attorno ai prigionieri come a delle bestie rare. Patriottismo contro patriottismo, il capitano deve arrendersi a sua volta e desistere, anche perché metodi più persuasivi non sarebbero in quel momento di buon esempio alla truppa. Li affida a dei sottufficiali e li avverte che saranno reinterrogati al Comando facendo loro notare che, ad onta del vantato coraggio austriaco, gli ufficiali che li comandavano, anziché farsi catturare con onore, se la sono data a gambe col resto del gruppo. Non c’è verso di convincerli, i loro tenenti sono eroi che solo dopo aver affrontato a viso aperto le baionette e averle travolte, sono riusciti a fuggire. Eroismo o viltà? Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? (torna)

Piccoli camorristi

Espugnata Cima Palone, i rifornimenti sono meno strozzati e il battaglione viene trasferito a Monte Giovo, più vicino alla linea del fuoco. Si costruiscono le necessarie baracche sacrificando anche qui un fitto bosco. L’inverno si annuncia e domanda di entrare, l’aria anticipa ricordi di basse temperature e, intorno, le cime sono già bianche senza distinzione di patria. La 12ª registra: trasferiti sul fronte isontino alcuni veneti e friulani che, per loro disgrazia, ne avevano fatto domanda; trasferiti a Parma due creditori del maggiore Depretis; trasferiti ai servizi logistici del Comando un paio di volontari; trasferito ad altro battaglione della zona il mugnaio Fadani con tutti i vogliosi ricordi dei suoi rustici amori. Il suo posto è occupato dal fratello minore del caporale di cucina, giunto fresco fresco con quelli della classe’95. Originari del napoletano, i due fratelli vengono dal mantovano e noto per i deliziosi meloni paese di Commessaggio, dove lavorano nell’azienda agricola del padre. Il nuovo Pizzamiglio ricostituisce un terzetto con Emilio e don Luigi praticando la fureria dove, nascosto tra i fascicoli delle pratiche e i tamponi della burocrazia, c’è ogni ben di Dio, tanto che i tre non hanno alcun bisogno di frequentare il rancio serale.

Qui si gode di una zona franca, e il terzetto diventa un quartetto con la provvidenziale aggiunta del caporale di cucina che viene a far compagnia al fratello portando con sè tutto ciò che può dalla dispensa. E’ naturale che di sera si aggiungano amici sottufficiali a consumare insieme le economie della giornata, piccole dosi di tutto sottratte alle razioni della truppa che, messe insieme, fanno qualche bidone di vino, un barilotto di marsala, qualche chilo di formaggio-latteria e molte scatolette di carne. Alla tavola fa spesso rubiconda cera il chierico Luigi che, temendo il freddo, sente sempre bisogno di doppia razione di vino e marsala, peccati di gola cui non sa resistere ma che sa perdonarsi. Gli ufficiali, che dal canto loro si procurano altri privilegi, non solo sanno di quei banchetti, ma li sostengono comparendovi ogni sera prima del silenzio a fare un brindisi con bottiglie private e buoni salumi, dando al simposio una tinta di consacrazione massonica che legittima la presenza dei sottufficiali e soddisfa la presunzione dei graduati dando loro l’impressione di distinguersi dalla truppa, solleticando l’umano servilismo degli inferiori.

Un po’ per la presenza degli ufficiali e un po’ per la nativa ignoranza dei commensali, poco si parla del conflitto, pochissimo delle sue cause e per nulla di politica. Dopo abbondanti libagioni, l’ottimismo è spontaneo, e la guerra, così come vissuta fino a quel momento, non pare tanto pericolosa. "Ci siamo già spinti molto avanti in Trentino", dice qualcuno. A chi osserva che in altri settori meno fortunati si muore come le mosche, gli ufficiali rispondono che la guerra durerà poco."Quanto più sapremo vincere", concludono con l’ultimo bicchiere in mano, "tanto prima finirà. Dipende tutto da noi." L’ufficiale di picchetto esce quindi dalla baracca a fare l’unica cosa che davvero dipende da lui: ordinare al trombettiere di suonare il silenzio. (torna)

La cima in cappotto

L’inverno del’15 è molto rigido e attorno a quota 1500 feroce. Risparmiato dal cannone e dalle baionette, il battaglione è colpito dall’inclemenza della natura. Moltissimi i sofferenti di malattie nasali e bronchiali e molti i colpiti da un principio di congelamento ai piedi.

31 dicembre, sera. Emilio si arrampica fino a Cima Palone per consegnare la cinquina al posto di guardia con le bottiglie di spumante e gli auguri del colonnello. Così, sopra i 1600 metri e sotto l’incubo dei cannoni di Monte Mozzolo, le guardie avranno l’impressione di ricevere dallo Stato qualcosa in cambio del rischio della vita. Dopo una festicciola brindata tra l’intima forma di uno sgabuzzino riscaldato dal fiato e l’esterna interiorità dello spazio stellato, il furiere si corica sotto una tenda messagli a disposizione dal capo posto, rizzata sullo spiazzo dove un paio di mesi prima l’assalto dei suoi compagni si era concluso con la cattura di una quarantina di nemici.

Nel roccioso silenzio immagina il chiasso di quella battaglia e conta gli austriaci come le pecore, sdraiato sulla terra nuda che il gelo ha pietrificato, steso sotto il soprabito che si è gettato addosso come coperta. Per fortuna ha alquanto brindato al nuovo anno, non avverte particolare disagio e dorme sodo per tutta la notte. La trasparenza del primo giorno dell’anno che filtra dalla tenda lo sveglia. Avverte qualcosa di duro sopra il corpo. Dato uno scossone all’ingombro, si alza e constata ad occhi spalancati che il cappotto, inumidito dai vapori del vino e della notte, si è completamente congelato e, sollevato e appoggiato a terra, resta minacciosamente ritto davanti a lui come un nemico. Eppure si sente benissimo, se ne compiace ed esce fuori a respirare con voluttà quell’aria di vetro che taglia i polmoni. (torna)

Promemoria 1915

Per concentrare in modo più razionale le forze su un fronte meno contorto e dispersivo, gli austriaci si son fin dall’inizio delle ostilità parzialmente ritirati da tutto il confine, consentendoci una relativamente facile ma modesta avanzata fin dal primo mese di guerra.

Scadente nel settore isontino, dove sarà seguita da una serie di sanguinose e poco redditizie battaglie, la nostra avanzata si trasforma presto in guerra d’attesa nel saliente trentino.

Siamo entrati nella regione da più punti. In senso antiorario: da ovest (Cevedale, Val Vermiglio, Presanella, Adamello); da sud-ovest (Ponte Caffaro, Valle Giudicarie, Monte Altissimo, Val d’Àmpola, Bezzecca e Val di Ledro fin quasi a Riva del Garda); da sud (Val Lagarina fino a oltre Serravalle, Zugna, Zugna Torta, Pasubio, Cima Maggio); da est (alcune cime dolomitiche da dove incombere sulla Val d’Adige); da nord-est (Ampezzano e Monte Cristallo fino a minacciare Dobbiaco e la Val Pusteria).

Fine 1915. L’Italia è saldamente nella regione e, in attesa che più favorevoli eventi europei le consentano di penetrare in profondità, continua la guerra di posizione. Ma le cose vanno male sull’Isonzo dove, tra morti e feriti, perdiamo il 25% del contingente.

Febbraio 1916. Dopo alterne vicende di nuovo in vantaggio sul fronte russo, l’Austria distoglie da questo, dall’Isonzo e dai Balcani e concentra in Trentino 14 divisioni per punirci del voltafaccia che ci ha reso partigiani della causa dell’Intesa, risolvere il problema italiano e aver più mano libera in Europa. (torna)

Si prepara la Strafexpedition [Nota 35]

Mattina di fine febbraio 1916. Sole pallido. I soldati trascorrono gli ozi di un riposo fra i tiepidi silenzi di Monte Giovo, quando si ode da nord un ronzio appena più intenso di uno sciame d’api che gradatamente si trasforma in un rombo. Squadriglie di aeroplani nemici assordano le Alpi in direzione delle retrovie italiane. Volano alti e suscitano la reazione dei soldati che, lanciando furibonde invettive, sparano colpi di fucile che si perdono nel latte del cielo e ricadono sopra i bucaneve e le altre primizie primaverili. E’ la prima volta (e sarà anche l’ultima) che il furiere e ormai caporale Emilio adopera un’arma da guerra. Solo formidabili antiaeree potrebbero del resto fermare quei bombardieri che proseguono indisturbati il volo fino a Verona rovesciando il loro carico sulle donne e i bambini che a quell’ora rallegrano il mercato di Piazza delle Erbe, seminando una morte che rapprende la crema dello scrivere.

Non è che un prematuro e terroristico assaggio di quella che nel prolungato freddo di quell’anno sarà la primaverile Strafexpedition organizzata da Conrad von Hötzendorf, capo di Stato Maggiore austriaco, che in febbraio ha concentrato nel saliente trentino 14 divisioni, salite poi a 20-22, per sfondare tra Adige e Brenta e poter dilagare in pianura col disegno di prendere alle spalle il nostro esercito schierato sull’Isonzo. (torna)

Lenzuola fresche

Le missioni a Storo diventano gite e compensano la regola dell’attesa. Attendono tutti la fine della guerra, e vuol dire ritorno alle normali preoccupazioni. Emilio vola sui sentieri scorrenti sul versante occidentale dello Stìgolo innevato, confluenti in una mulattiera che da un gruppo di baite scende in Val Giudicarie dominando il bianco paesaggio decorato da morbidi ricami di rami, soffici orli di tetti e cascatelle ghiacciate dalle capricciose decorazioni ferme sulle rupi e sulle fontane dei cortili. Frena ogni tanto le gambe accaldate voltandosi a guardare vincente i buchi impressi con irruenza sul fresco della neve che cerca di attardarlo. Una mite chiesetta in bilico sul precipizio è un gioiello adagiato come un rito sulla bambagia. Storo, borgo di vita patriarcale ai piedi dello Stìgolo, è disteso in un angolo morto, le Giudicarie a sinistra, la Val d’Àmpola a destra, al bivio di due arterie che puntano a Trento, l’una attraverso Tione, l’altra Bezzecca. Gli abitanti, cui è vietato salire sui monti occupati e impedito di coltivare la vallata ingombra di baraccamenti, infermerie, carri e depositi, vivono aiutando i militari dai quali sono largamente ricompensati. L’esercito non è composto tutto di predoni come il capitano Depretis, ma di gente onesta di cui gli abitanti si fidano. Ogni casa ospita ufficiali e graduati, ogni cucina ha madia e credenza fornite di ogni nostalgia casereccia, ogni camino diffonde il profumato tepore del faggio.

Quando scende in paese il furiere alloggia da una famiglia che affitta l’unica camera disponibile e si è ritirata in granaio. Alla bellezza dei luoghi fa eco quella del cuore semplice di una coppia di nonni sempre occupati a far legna, rimestare polenta e lavare lattughe invernali, e di una giovane madre che fa con dialetto e ritrosia gli onori di casa con un figlioletto neonato pieno di capelli nerissimi al quale è stato imposto, non per opportunismo ma per sincera vocazione all’italianità, il nome di Vittorio Emanuele, mentre il padre è stato trascinato in Galizia a combattere i russi. Emilio può allora godere di una buona cena, di una rilassante sigaretta davanti al soliloquio del camino e di una notte fra lenzuola fresche di bucato, sprofondato in un materasso di piumino in una stanzetta linda e odorosa di cirmolo, pur dovendo la mattina dopo, quando risale all’accampamento, ripagare al Signore tutto il piacere ricevuto. Ma si sente lo stesso appagato dall’apoteosi di splendore che ansima sotto il suo sguardo.

Naturalmente non tutto è così idilliaco e puro. Ci sono anche i bisogni del corpo con le conseguenze che la loro pratica comporta. Al seguito di ogni esercito c’è sempre un apparato di donnine disposte a vendersi, e anche il Trentino non sfugge. Così, mentre Emilio e tutti quelli come lui che hanno il cuore impegnato aborriscono la sola idea di praticare il sesso fine a se stesso, altri, che non hanno impegni o li distinguono dalle necessità fisiologiche, quando scendono a Storo vanno dritti a fare la coda davanti a un piccolo casino ai limiti del paese. Le poche ragazze che vi lavorano sono formose montanare, bianche e rosa come fiori e, così si dice negli accampamenti, sane come il formaggio fresco. (torna)

Ritorno in pianura

Dopo tanto tempo, la giovane voluttà del nuovo fa sì che ogni voce di trasferimento venga accolta con curiosità e piacere. La primavera ha tirato in lungo l’inverno come un’unica notte che si accorcia senza scaldare il mattino. La neve insiste e si rinnova allungando il biancore dei pendii finché si scola per forza mettendo a nudo cereali e dolori di una nuova stagione di guerra.

26 aprile 1916. Dopo undici mesi di permanenza fra i boschi, ecco l’ordine di avvicendamento. Il battaglione rientra a valle attendandosi per una notte a Ponte Caffaro nuovamente in vista del nero del lago, il giorno dopo raggiunge Barghe in Val Sabbia, poi Villanova sul Clisi e il 30 aprile, al primo intiepidirsi dell’aria, si accampa a Virle Treponti, pochi chilometri da Brescia.

Emilio torna in pianura sentendo di aver percorso solo la prima curva di un ciclo che presto riprenderà movimento come qualcosa che gira e torna a ricalcare l’inizio, e si chiede per quanto tempo ancora dovrà fare la spola tra pianura e monti prima d’imboccare la via di casa.

Il 61º sosta a Virle un paio di settimane. Non c’è che una piccola caserma, e molti soldati vengono accomodati in edifici pubblici e privati. Stimolati dal ritorno a una vita civile, dall’età e dalla primavera, si trastullano (giusto verbo di Emilio) con le ragazze del posto, che li seguono e li stuzzicano coi loro vezzi e capricci. La fureria della 12ª è stata ricavata al piano terra di una casupola privata. Le ragazze fanno spesso capolino dalla porta e rivolgono ai furieri facezie paesane ed inviti al passaggio. Un tardo mattino di sole un gruppetto di fanciulle appena uscite da scuola, tutte sui quindici anni, si presenta chiassoso davanti all’ufficio del furiere che, spalancato l’uscio, le fa entrare, le dispone in riga secondo l’altezza, e mette sulle labbra di ciascuna una sigaretta accesa invitandole a cantare qualche canzonetta. Porta e pareti vibrano per le risate e gli squilli canori delle ragazzine e attirano la curiosità di vicini e passanti. A un certo punto, un anziano ufficiale superiore entra in fureria con tutta la decisione della sua autorevole e preoccupata curiosità ma, vista e valutata la scena, le sue baffute labbra si contagiano e si allargano in una baritonale risata. Ricompostosi, se ne scappa via per non indugiare in quella situazione imbarazzante.

Invece, una sera dal vinoso tramonto, Emilio ed alcuni commilitoni stanno scherzando con la padrona di una locanda, bella giovane formosa, bionda e dal roseo incarnato, con la quale il furiere ha una dimestichezza che sa fermarsi appena oltre l’innocenza. La locandiera, ritta sull’odore del faggio infuocato, rimesta polenta nel paiolo di rame pendente sul focolare attrezzato di fornelli dai quali si sprigionano profumi di intingoli, ed Emilio le accarezza i bianchi muscoli delle braccia in movimento quando entra di corsa un compagno di fureria che grida rivolto all’uscio aperto: "Signore, è qui suo figlio!".Il padre di Emilio entra, e la scena licenziosa si trasforma in patetica. Tutti ammutoliscono e fissano con commozione l’abbraccio. Il giorno dopo Bepi deve tornare a Venezia a riprendere il lavoro nel marittimo Arsenale militare, ma promette che tornerà molto presto con tutte le donne di famiglia.

Infatti, dopo qualche giorno, un’altra dolce sorpresa, per la verità già sollecitata per lettera, resa possibile dalla prolungata permanenza del battaglione a Virle e organizzata da suo padre subito dopo il ritorno, viene a ritagliare una pausa sottile tra un capitolo e l’altro della sua vita militare. (torna)

L’incontro

15 maggio. Emilio si reca a Rezzato, due chilometri da Virle, e da qui si porta per tempo alla stazione, altro chilometro. La primavera è finalmente esplosa e intiepidisce la stazioncina il cui capo cura le aiuole con lo scrupolo di chi vuol vincere concorsi floreali. La tettoia di piccolo ferro dell’ingresso è sorvolata dall’arcobaleno di un glicine, cespi di rose e peonie, cascate di gerani e macchie di pelargoni arrossano il marciapiede del primo binario, quello dei treni da Milano. Di fronte, siepi pettinate e una vigna appena in boccio stampata su un reticolato verticale, fan bella mostra davanti ai treni che sbuffano da Venezia (a quell’epoca un paio di orgogliosi accelerati si fermavano anche a Rezzato).

Nella nervosa mezzora d’attesa, Emilio ha passato in rassegna quattro, cinque volte i colori delle aiuole e fumato più di una sigaretta. Un ferroviere improvviso esce da uno sgabuzzino, inforca la bici e va a girare il macaco [Nota 36] dello scambio d’ingresso. Trilla una campanella. Pochi minuti, e il convoglio è in fondo dove i binari convergono in un solo punto contro un cielo sostenuto da pioppi, avanza a fatica, fischia e rallenta finché si arresta in tutta la sua frenante dolcezza. Scendono in parecchi. Da una carrozza di terza scendono con precauzione suo padre e, subito dopo, aiutate da lui e in preoccupata confusione, sua madre, la fidanzata con una sorella e la futura suocera. Abbracci e baci, il tempo di accorgersi che l’unica carrozzella disponibile è già partita stracarica, e un chilometro a piedi fino a Rezzato sul bianco della polvere fra campi più verdi di una bandiera. Da qui, trovata con calma una carrozza, i due uomini e le quattro donne trottano per i due chilometri che mancano all’alberghetto già prenotato.

Nel corso della giornata Emilio riesce a scambiare sì e no qualche sguardo appassionato con la fidanzata, perché deve dedicare la maggior parte del tempo alle effusioni materne e alla affettuosa invadenza delle altre donne che continuano a chiedergli dei pericoli e dei disagi e della paga di caporale, tutte cose su cui ha già riferito per lettera, e della futura destinazione che continua a ripetere di non conoscere. Suo padre sta zitto, dicendosi solo preoccupato perché la guerra non è ancora finita. (torna)

Ripresa

La mattina dopo, mentre siedono sulle panchine di un prato comunale a intingere biscotti nel marsala e a guardarsi con occhi dolci di reciproca pazienza, si ode in lontananza lo squillo dell’adunata. Una ronda li raggiunge e ordina al caporale di prepararsi a partire immediatamente. Restano tutti con mezzo biscotto in bocca, il sogno di un più lungo soggiorno svanisce e un paio d’ore dopo Emilio rivede la stazione senza più aiuole né colori, soffocata dal grigio dei militari dell’intero reggimento, pronto a partire per ignota destinazione. L’attività febbrile del Comando e gli sguardi preoccupati degli ufficiali lasciano intendere l’urgenza del trasferimento. Gli austriaci, si bisbiglia, devono aver sfondato da qualche parte e si rende necessario un intervento immediato.

Abituato a un riposo quasi spensierato, il volto di ogni fante esprime contrarietà e quello dei parenti, ai quali è stato sbrigativamente concesso il trasporto con la truppa fino alla stazione, interroga l’angoscia. Le bocche appena impresse dalle innamorate tacciono esangui, le gote arrossate dai baci materni riprendono il pallore dell’incertezza. Sugli occhi dei figli restano ferme di virile amor proprio le lacrime che vorrebbero scendere. Quelle dei genitori e delle spose sgorgano copiose non appena il treno si muove. (torna)

La "punizione" ha inizio

15 maggio. In ritardo di un paio di mesi sul progetto primitivo per il perdurare dell’inverno, è cominciata la Strafexpedition. Concepita nella primavera del’15 dal ten. Col. Schneller, e stimolata dai successi austriaci conseguiti sul fronte russo verso la fine dell’anno, la spedizione era stata fatta propria dal feldmaresciallo Conrad nel segno di un profondo sdegno nutrito nei confronti del voltafaccia italiano. Cadorna, anche se preoccupato dalle notizie allarmanti portate da disertori nemici bene informati, ma scettico e incredulo fino al giorno dello scatenamento dell’operazione, non aveva dato troppo credito alla possibilità di un’offensiva in grande stile in un settore che riteneva marginale. Ma aveva fatto i conti senza Conrad.

Sarà stata una fatalità ma non si sa, si fa per dire, per colpa di chi noi italiani abbiano dovuto recitare per ben due volte la parte dei traditori e i teutoni quella dei vendicatori, così come non si sa, si fa sempre per dire, se fossero più stupidi loro a fidarsi della nostra lealtà o fossimo meno onesti noi a cambiar partito all’ultimo momento. In realtà non erano affatto stupidi asburgici e tedeschi a tenere un occhio sempre aperto sui nostri veri intendimenti, così come noi non siamo stati né onesti né scaltri a voltar loro così tardivamente le spalle, e non solo in occasione del primo, ma anche e soprattutto del secondo conflitto mondiale quando, se dopo l’armistizio avessimo fatto affluire l’esercito al Brennero e fatto saltare le gallerie e i ponti alpini (nota), [Nota 37] avremmo fortemente ostacolato, se non addirittura impedito la tragica invasione nazista del paese. Ma abbiamo facilmente ritrovato il bandolo della matassa che in entrambe le guerre è stato l’imperialismo opportunista della nostra monarchia, smaniosa di elevarsi al rango delle maggiori Case d’Europa, ma dimostratasi fra le più grette della storia. Con padroni di questo genere a un popolo non resta altro che piangere i propri morti.

Conrad aveva cercato di coinvolgere nella spedizione i tedeschi, ma il loro capo di Stato Maggiore Falkenhayan, assai meno indignato del suo collega contro l’Italia (che ancora non aveva dichiarato guerra alla Germania), e molto più preoccupato della situazione sul fronte russo e francese, aveva rifiutato. Allora Conrad, sperando in una gloria tutta sua, aveva deciso di agire da solo e messo in campo trentino tra 1ª linea, servizi e riserve, almeno 380.000 uomini (il c.d. Gruppo di Armate dell’Arciduca Eugenio) contro i 450.000 italiani, ma con un numero di mitragliatrici, obici da 380 e 420 mm e cannoni modernissimi (tra cui uno da 350 mm che tirava fino a 35 km), assai superiore al nostro parco di mezzi obsoleti.

All’alba del 15 maggio l’11ª Armata austroungarica, munita di oltre un migliaio di pezzi d’artiglieria, apre il fuoco contro la 1ª Armata italiana tra Adige e Brenta. Le nostre prime linee, disposte in uno schieramento più offensivo che difensivo, vengono svuotate. Inizia quindi l’attacco della fanteria contro le nostre divisioni (34ª, 35ª e 37ª) operanti tra la Val Lagarina e l’Altopiano dei Sette Comuni, con lo scopo di aprire un varco tra il Pasubio e gli Altipiani che consenta l’invasione della pianura vicentina. Tra il 15 e il 20 maggio le nostre truppe arretreranno con pesanti perdite e il pericolo di un’invasione della pianura si farà concreto.

Dopo il primo cannoneggiamento, gli austriaci si muovono da Rovereto e cominciano a rioccupare le zone da cui si erano ritirati all’inizio del conflitto e dove dal 24 maggio del’15 gli italiani erano penetrati. Espugnata il 15 maggio la Zugna Torta, nel giro di qualche giorno conquisteranno il Colsanto, penetreranno in Vallarsa e in Val Terragnolo, e dal Passo della Borcola dilagheranno in Val Pòsina in direzione di Arsiero e dell’Altopiano di Asiago. La parte alta del Pasubio, impraticabile per le eccezionali nevicate, verrà aggirata: gli austriaci occuperanno le pendici del massiccio, finché l’arrivo di un battaglione della brigata Volturno non riuscirà a fermarne l’avanzata: i famosi Dente Italiano e Dente austriaco si fronteggeranno qui per tutta la durata del conflitto.

Il 16 maggio una provvidenziale pausa nell’azione nemica permette di apprestare la difesa del monte Zugna, minacciato sia dal lato della Zugna Torta, sia dalla Vallarsa. Se ne occuperanno i due reggimenti (61º e 62º) della Brigata Sicilia (Riserva della 1ª Armata), provenienti dalla zona tra Rezzato e Sabbio Chiese, dei quali è preannunciato l’arrivo. (torna)

Val Lagarina

16 maggio 1916. Il treno marcia con circospezione. Ogni tanto rallenta e si ferma. Lunga sosta a Desenzano e altra a Peschiera, col lago intenso e fermo. Il Baldo lancia piccole, bianche pipate di cannone in direzione nord-est. Il treno si arresta prima di Verona, e dopo una sosta lunghissima riprende la corsa senza attraversare la città. Allora tutti capiscono di essere diretti in Val Lagarina. Il viaggio termina ad Ala dove è stabilito il comando amministrativo. I tre battaglioni del 61º proseguono la marcia fino a Pilcante, dove si accampano. Alcune ore dopo giungono anche i tre battaglioni del 62º. E’ sera, si sentono lenti colpi di cannone in direzione di Rovereto. L’indomani, in numerosi tronconi di fila indiana, un po’ sotto i frutteti e le vigne e un po’ allo scoperto sulla carrozzabile, il IIIº Batt., comandato da un maggiore, procede lungo i fianchi dello Zugna fino a Santa Margherita, seguito a lunghi intervalli dalle restanti unità. Al tramonto dura arrampicata fino al campo di Malga Zugna (m 1612) vicino a una località detta I fortini dove, in vista della probabile guerra con l’Italia, gli austriaci avevano iniziato a costruire un forte che avevano abbandonato all’inizio delle ostilità per ritirarsi a Rovereto .

Dopo una sbrigativa colazione al sacco, è concesso un breve riposo durante il quale c’è trambusto per l’improvvisa apparizione di alcune pattuglie. Hanno raggiunto la Malga scendendo a precipizio dal Coni Zugna, e vogliono riferire al maggiore. I soldati si fanno intorno, afferrano qualche parola e vengono presi da uno sconcerto che contagia il resto della truppa addossato alle pendici percorse da brividi. Di bocca in bocca circolano le ipotesi più sconfortanti: che gli austriaci abbiano catturato l’intero presidio dello Zugna, che abbiano rotto il fronte anche sugli Altipiani e stiano marciando su Vicenza e che tutto il Veneto orientale sia minacciato alle spalle. Voci non del tutto infondate. Dall’ossessivo accanimento con cui, secondo il racconto delle pattuglie, il nemico sta portando i suoi attacchi dal Pasubio a Serravalle, si deduce l’importanza che attribuisce allo sfondamento di quel settore.

In questa partita, con più forza e fortuna all’attacco (ma anche con maggior debolezza della difesa italiana), con l’impiego di cinque o sei divisioni in più o il coinvolgimento dei tedeschi di Falkenhayan, l’Austria avrebbe ottenuto una rapida vittoria e un grande vantaggio sui fronti europei portandovi più uomini, bombe e linguaggio. Ma la storia prende la piega che vuole. La storia è come la vita, la si capisce solo quando è terminata. (torna)

Italia contro Italia

Dicono che le truppe nemiche sono salite sulla Zugna Torta espugnandola, che lo stesso Monte Zugna e il vicino Coni Zugna siano minacciati e che ora gli austriaci siano impegnati a trasportare le artiglierie sulle nuove posizioni. Bisogna approfittare di questa pausa per ricostituire le difese. Nessuno ha però un’idea precisa di dove il nemico si trovi. Gli ufficiali discutono su quanto avanti possano essersi spinte le pattuglie austriache, e del rischio di venire accerchiati. Il maggiore è disorientato, incerto sul da farsi e da quale parte difendersi, se da nord (Zugna Torta) o da est e sud (Vallarsa). Si muove a scatti guardando per terra senza più ascoltare pareri. A un certo punto, memore di qualche manuale o convinto di una propria invenzione, ordina a tutti di sedere a terra, disporsi in tanti quadrati e vigilare, fucile alla mano, con quella disposizione a scacchiera per tutta la notte. Poteva scegliere anche triangoli o circoli. I soldati obbediscono e pazientano, sforzandosi di restare svegli, cosa che riesce facile perché a una cert’ora odono spari e sentono fischiare pallottole sopra le loro teste, e allora rispondono a quelle raffiche di fucileria che partono da misteriosi dintorni con altrettante scariche puntate all’impazzata contro l’oscurità. Nessuno ha il coraggio di muoversi. Il maggiore sembra impaurito, non capisce la posizione di un nemico che sembra sparare ora da nord, ora da sud e perfino dai fianchi. E’ però soddisfatto che i suoi quadrati servano a difendersi da tutti i lati.

All’alba del 18 maggio tutto torna tranquillo. La luce del giorno spegne nervi e timori. Vengono mandate in giro pattuglie a prendere contatto con le altre unità che si sono accampate nei paraggi, e si scopre che per tutta la notte i nostri soldati si sono sparati fra loro, per fortuna senza conseguenze. Contatti, rapporti e luce del giorno permettono di chiarire le posizioni. Ma il nemico non si fa vivo. Per la prossima notte si decide di dare allo schieramento un ordine più razionale facendo riposare i soldati e dando alle vedette l’incarico di segnalare la presenza di un nemico che, da qualunque parte dovesse piombarci addosso, non pare sia ancora riuscito a salire sullo Zugna e ad accerchiarci. (torna)

Migliori e peggiori

La 12ª è in quel momento agli ordini del tenente Zuffardi, ingegnere minerario di Parma, colto, affabile, fervido credente e patriota per educazione familiare, ma non ossessionato dall’arte della guerra. Emilio si onora di averlo per amico ed evita con lui discussioni ideologiche per non turbarne la sicurezza e lo schietto cameratismo con cui tratta anche le reclute più imbranate.

Purtroppo nell’economia della vita i migliori devono prematuramente perire per restare esempi rari e ricordati sopra la massa degli uomini comuni. E’ forse solo un’impressione dovuta al fatto che la scomparsa di quei pochi fa grande effetto sulla memoria di chi ha saputo stimarli? E se fosse invece la massa a subire la sorte peggiore? Dopotutto è la più manovrabile e la più esposta al massacro. Se i pochi migliori sono eroi per vocazione, i tanti comuni mortali lo diventano per forza di cose quando sono in prima linea. Eppoi non tutti i migliori periscono, né la qualità di un uomo si misura solo dal suo modo di morire. Sono cose relative. Però, col qualunquismo del relativismo finiamo col non saperci più orientare tra buono e cattivo, tra migliori e peggiori. E allora? Diamo una buona definizione accettabile da parte di tutti i disputanti e poi... "Calculemus!", [Nota 38] esclamerebbe il barone von Leibniz. Tuttavia, il nostro calcolo sarebbe giusto ma estraneo ai sentimenti mentre la vita è più guidata da impressioni e stati d’animo che da ragionamenti, e l’impressione di Emilio è che il suo superiore sia il migliore e basta. E la sua morte precoce confermerà presto la sua appartenenza a questa rara specie.

Lo stesso non può dirsi del comandante del IIIº Batt., lo stratega dei quadrati, che ha imparato a fare la guerra a tavolino, e che dopo quell’episodio si chiuderà in se stesso ma aprirà a tutti la povertà e la vergogna di un animo meschino e pauroso. Ebbene, il maggiore è il peggiore, specie altrettanto rara: tremante di paura, finirà per trascorrere quel mese e mezzo di guerra trentina nascosto in una caverna dalla quale non uscirà quasi mai se non di notte per i propri bisogni, preso da un panico da cui per fortuna, e forse proprio per questo suo isolamento, la truppa non verrà contagiata.

A distanza di tempo ci si può stupire che quel codardo non sia stato destituito o sostituito ma, più che mettere in moto la rischiosa burocrazia di una denuncia, ufficiali e truppa dovevano in quel momento pensare a salvare le pelle, e con essa una parte dell’Italia. Perciò finirono con l’ignorarne l’esistenza, e quello, la cui unica virtù era la coscienza della propria inferiorità morale, finì col lasciare ogni decisione operativa ai subalterni. Questo, almeno, fino ad un certo giorno... (torna)

Tre giorni sul Monte Zugna

La catena dello Zugna (che da nord a sud unisce le cime di Zugna Torta, Monte Zugna e Coni Zugna) è strategicamente importante: chi la possiede domina, da un lato, la Val Lagarina da Ala a Rovereto e, dall’altro, la Vallarsa, che gli austriaci tentano continuamente di percorrere sotto il tiro delle nostre postazioni come corridoio per confluire in Val Pòsina e raggiungere Arsiero e la Val d’Astico. Dopo la furibonda esplosione di artiglierie del 15 maggio e fino alla fine di quel mese il nemico non cesserà di colpire la catena dello Zugna e di tentare di traversare la Vallarsa, nonostante il fuoco dei nostri fanti appollaiati sulla cresta della catena e quello indirizzatogli dalle nostre artiglierie appostate a Brentonico (propaggine nord del M.Baldo). Il 18 maggio il Comando italiano è costretto a ripiegare dalla Zugna Torta mentre gli austriaci avanzano in Vallarsa portandosi fin sotto il Coni Zugna. Dal 19 al 31 maggio gli Artilleriste [Nota 39] sputano dal Biavena [Nota 40] sulle nostre difese aggrappate alla catena dello Zugna innumerevoli bombe che percuotono il terreno palmo a palmo. Per la tormentata orografia e le difficoltà incontrate dagli ufficiali osservatóri, il tiro è regolato da aerei che volano indisturbati a bassa quota.

19 maggio. Il 61º Regg. È inviato, assieme a unità della Brigata Taro, a presidiare la zona dei fortini dello Zugna seriamente minacciato. La 9ª e la 12ª Comp. Sono destinate al rincalzo e ammassate in un aspro canalone sotto gli avanzi del Forte.

Pezzi di vario calibro si accaniscono sulla nostra postazione affossata tra le fondamenta, centrandola più d’una volta e facendo strage d’uomini. A ogni colpo che invece infrange le rocce circostanti, cascate di pietre sprofondano nel canalone investendo i soldati di rincalzo e uccidendone qualcuno cui non è bastato l’elmetto. Col passar delle ore e la complicità degli aerei, obici ben guidati hanno imparato ad alzarsi in modo giusto e a cercare anche le compagnie di rincalzo, e i fanti hanno imparato a distinguere e temere il loro caratteristico sibilo e a gettarsi a terra rannicchiando le spalle e stringendosi gli uni agli altri. Dopo ogni scoppio, qualcuno alza la testa e pronuncia parole di sfogo che si traducono in un collettivo conforto. Così per tre tormentose giornate. Ogni sera i cannoni tacciono e allora tutti temono l’attacco della fanteria, ma poi, sfiniti, finiscono con l’addormentarsi sdraiati sotto le stelle a dispetto dei turni di veglia. Ma la terza sera la bussola del cielo si vela di nubi e i suoi cardini restano impressi soltanto nella memoria di quei pochi che sanno restare svegli e orientarsi nella tenaglia della notte, e temono di vedere da un momento all’altro le ombre degli Infanteriste [Nota 41] scavalcare i cancelli dello Zugna, mentre gli Artilleriste dormono sul cuscino del Biavena dopo aver caricato le bocche del giorno dopo. Gli amici della Brigata Volturno tengono intanto fermo il Pasubio. (torna)

La buona stella

Piomba nel sonno anche Emilio, e così sodo da non accorgersi che un acquazzone notturno lo ha tutto inzuppato. Al risveglio, il canalone è deserto di vivi e frusciante sotto una diagonale insistenza di pioggia. Alcuni corpi giacciono intorno sfiorati da vapori radenti e neri piumaggi di corvi che razzolano con lentezza. Pensa che tutti siano scappati lasciandolo giacere credendolo morto come quei poveri corpi dagli elmetti fracassati. E’ indeciso se ispezionarne i volti quando, bucando il vuoto delle nuvole, il bombardamento riprende brutalmente con bombe Schrapnel. [Nota 42] Scappa fra i macigni e si ripara sotto le contorsioni di un albero che i proiettili hanno sfrondato. Una cascata di pallini gli sfiora l’elmetto e finisce contro un sasso poco distante. Alcuni gli cadono fumanti fra i piedi. Riprende la corsa finché ritrova alcuni commilitoni che, allontanatisi durante il temporale, si sono riparati in un anfratto dove se ne stanno ammucchiati in silenzio con occhi quasi assenti, come rassegnati a una cattura. Senza fiato, s’infila nella grotta mentre altri ne escono a sgranchirsi in una pausa del fuoco. Ma il nemico è razionale e, prima di lanciare la fanteria, vuole la strada sgombra e non dà tregua. Un proiettile di obice, piovuto a sorpresa da un cielo disturbato da rumori di fondo, asporta di netto un braccio a un soldato e sprofonda senza esplodere sollevando una poltiglia che imbratta i compagni. Piovono altre bombe e rotolano altre rocce. La situazione è insostenibile, occorre ricoverare le truppe. Viene suonata la ritirata che, udita nel canalone, induce anche le compagnie di rincalzo a scendere verso la Malga Zugna sotto un torrente d’acqua e fuoco trascinando a braccia o a spalle qualche compagno ferito, mentre più tragica sorte attende quelli che corrono giù dal forte, più esposti al cannoneggiamento. Molti si salvano avventurandosi a precipizio fra le granate fino a ricongiungersi coi loro compagni più in basso.

Per ora è necessario rinunciare ai fortini, un’altra giornata in quelle condizioni sarebbe fatale e un assalto della fanteria nemica completerebbe la carneficina. Ma finora hanno tuonato solo i cannoni, i fanti non si sono visti. Forse si stanno preparando, ma intanto lo Zugna resta italiano e pure il Pasubio di fronte. I superstiti scendono alla Malga. E’ affidato alla Croce Rossa il recupero dei cadaveri e dei feriti rimasti.

Alba del 23 maggio. Da nostre vedette, appostate a sud dello Zugna in località Selvata, è giunta notizia che la notte scorsa truppe nemiche sono riuscite, nascoste dai boschi, a penetrare in profondità in Vallarsa, e stanno inerpicandosi sui fianchi dello Zugna insidiando Passo Buole, da dove potrebbero riuscire a conquistare il monte per aggiramento a tergo, accerchiandoci.

Ecco l’ordine di lasciare Malga Zugna per portarsi, due o tre chilometri più a sud, sullo strategico passo. La zona non viene però abbandonata ai grappoli di dinamite nemica: restano incaricate di presidiarla altre unità tra cui il 208º fanteria della Brigata Taro, che all’inizio dell’offensiva austriaca aveva invano cercato di difendere la Zugna Torta. (torna)

Termopili

La minacciosa situazione in Trentino ha indotto Cadorna a organizzare rinforzi, ma più per scongiurare una propria sostituzione che per convinzione. Il Capo aveva ritenuto improbabile un’offensiva di grandi proporzioni in un settore così vasto e tormentato da ostacoli naturali e perciò di difficile penetrazione. Si può dire che sull’inopportunità per l’Austria di concentrare tante forze in quella regione distogliendole da fronti più impegnativi Cadorna la pensasse come Falkenhayan, che si era rifiutato di partecipare alla spedizione e non certo per delicatezza nei nostri riguardi, ma perché riteneva che per realizzare il piano occorressero più divisioni al momento non disponibili: quando lo sarebbero state le avrebbe infatti inviate, provocandoci il disastro di Caporetto.

Al culmine dell’offensiva, dopo che gli austriaci avranno occupato Arsiero, la Valsugana e l’Altopiano dei Sette Comuni da cui godersi il panorama della pianura veneta, Cadorna si affretterà a racimolare e piazzare una quinta armata di riserva tra Padova, Cittadella e Vicenza. Per tirar la coperta sul viso delle Alpi trentine dovrà però scoprire la punta dei piedi dell’Isonzo prelevandovi otto divisioni di fanteria. Anche questa misura sarà adottata, oltreché per un sopraggiunto assennato timore di sfondamento austriaco, a scanso di danni personali e di una crisi ministeriale. Ma il governo già medita la sostituzione del generale il cui dispositivo originale, basato sullo sfruttamento delle iniziali vittorie russe sul fronte orientale e quindi più sull’offensiva che sulla difensiva, è entrato in crisi. Il governo cambierà idea e il maresciallo resterà in carica fino a Caporetto grazie al ritiro di numerosi contingenti austriaci dal fronte trentino dovuto all’ennesimo rovesciamento di situazione sul fronte russo: la prima offensiva di Brusilov (giugno del’16).

Per fortuna dell’Italia (e dei Savoia) il momento culminante della Strafexpedition potè essere superato perché anche il Trentino ebbe le sue Termopili che impedirono al nemico la conquista di Passo Buole, e con esso dell’intera catena dello Zugna, e quindi il libero transito in Vallarsa, in Val Pòsina e il conseguente facile accesso in Val d’Astico e nella pianura vicentina, e magari anche la sua diretta discesa in Val Lagarina e nella pianura veronese (come recita la lapide commemorativa posta sul passo dalla cittadinanza Parmense, memore dell’impresa). Termopili, non perché a Passo Buole vi sia stato un Leonida, ma perché, anche senza contare la nostra scarsa artiglieria, poche migliaia di fanti armati di fucili e baionette e dotati di poche mitragliatrici, fecero il miracolo di fermare un nemico più numeroso e vendicativo (l’intera divisione tirolese dei Landesschützen, [Nota 43] forte di oltre 9.500 fucilieri), ma meno disperato. L’Austria usò mezzi imponenti per espugnare un varco che poteva consentirle la rapida conquista di tutta l’Italia Nord-Orientale.

Non era la prima volta che l’Impero Asburgico veniva fermato da una compagine di eroi. Altre Termopili avevano impedito nel XVI secolo a Massimiliano e ai suoi mercenari di impadronirsi dei territori della Serenissima. I Lanzichenecchi avevano tentato di forzare l’alta valle del Piave, ma gli zattieri bellunesi e cadorini difesero strenuamente e a prezzo di ammirevoli sacrifici il passo fluviale, e con esso l’intero patrimonio boschivo della Repubblica. Termopili in Tessaglia, Piave in Cadore, Passo Buole in Trentino, tre passaggi strategici, tre porte di sangue su cui sono corse leggende ma anche cifre di storia. (torna)

Passo Buole

Il passo (m 1460) è inciso nella lunga catena dello Zugna che, partendo a sud di Rovereto, divide la Val Lagarina dalla Vallarsa. Spiccano da nord a sud la Zugna Torta (m 1256), il Monte Zugna (m 1864) e, vicino a quest’ultimo, il Coni Zugna (m 1772). Tra la Zugna Torta e il gruppo Coni Zugna-M. Zugna si trova la Malga Zugna (m 1602), praticamente dove, subito dopo l’offensiva austriaca, passava la linea di massimo arretramento italiano.

Al passo si arriva a piedi in circa tre ore dal paese di Marani in Val Lagarina. E’ in posizione adatta alla difesa, ben collocato sulla cresta da cui si domina la Vallarsa, ma munito solo di qualche antiquato pezzo di artiglieria e di tre sezioni mitragliatrici. La lotta per difenderlo o espugnarlo costerà perdite e sacrifici inauditi a entrambe le parti: i fanti della Brigata Taro e quelli della Brigata Sicilia (provenienti in prevalenza dalle caserme di Parma), per un probabile totale di 5-6 mila uomini da un lato, e gli oltre 9.500 tiratori scelti della Divisione Landesschützen dall’altro. Naturalmente, nulla di così parziale come le testimonianze rilasciate alla storia dalle due parti: ciascuna ritiene di aver agito in condizioni di inferiorità, di aver fatto più sacrifici e di aver combattuto più eroicamente dell’altra, e poiché anche le stesse cifre e i dati c.d. oggettivi si possono interpretare e manipolare a piacimento, per fare storia non resta che tirare delle somme algebriche.

I Landesschützen tentano un primo assalto al valico e alle attigue postazioni (Costa Mezzana e Costa Selvata) il 22 maggio. Lo ripeteranno il 23 sotto una violenta pioggia, riuscendo ad occupare il contrafforte di Loner (m 1332) immediatamente sotto il passo. Il 24 le azioni del nemico verranno sospese per le sempre più avverse condizioni atmosferiche (sul vicino Pasubio sono caduti due metri di neve), e per trainare in avanti le artiglierie, ma riprenderanno nei giorni seguenti, seppur con minore impegno, finché il 30 maggio non verrà tentato l’ultimo grande assalto.

23 maggio. Non appena il 61º Regg. Proveniente da Malga Zugna raggiunge il valico, la 9ª e la 12ª Compagnia vengono piazzate lungo la mulattiera che da Passo Buole porta a Coni Zugna, a pochi metri dal passo. Sono anche stavolta di rincalzo (12 e 9 diventeranno candele da portare alla Madonna), protette dalle fucilate ma non dalle cannonate, e meno ancora dalle bombarde. [Nota 44] Lungo l’intero costone che collega da nord a sud Costa Selvata, Passo Buole e Costa Mezzana sono dislocate quasi tutte le altre compagnie della Brigata Sicilia e quelle della Brigata Taro. In particolare, i commilitoni del 62º Regg. Si trovano sul passo in silenziosa attesa del nemico. I fucilieri tirolesi salgono dalla Vallarsa per boschi e mulattiera in fitte, eccitate colonne di "Hurrà!". Quelli che avevano occupato il sottostante contrafforte di Loner sono ora costretti a uscire allo scoperto per superare il centinaio di metri di prato che li separa dal ciglio del valico. I nostri fanti, inferociti da giorni di isolamento, angoscia, digiuno e cannoneggiamento, li respingono più volte con rabbia di fucili, mitraglie, baionette, e gravi perdite. (torna)

Ritorno alla Malga

L’unica strada che dalle nostre retrovie sale al Passo Buole è una mulattiera che parte dai Marani in Val Lagarina, poco più a sud di Santa Margherita e nella parte bassa è allo scoperto salvo l’iniziale, esiguo riparo delle stazioni di una Via Crucis. Dal Biavena gli austriaci la dominano e vi sparano sopra con largo spreco di munizioni inseguendo anche un solo soldato o qualsiasi cosa si muova. Perciò è percorsa dalle salmerie soltanto di sera o di notte. Anche la parte alta, che è riparata da boschi e come serpe entra in gola allo Zugna, è sottoposta a ciechi bombardamenti.

La Val Lagarina è sconvolta dai grossi calibri, e le borgate dei Marani, Santa Margherita e Serravalle all’Adige sono state rase al suolo, compresi i posti di soccorso e gli ospedali da campo malgrado le vistose insegne della Croce Rossa. Sui campi e sulla carrozzabile gli obici hanno scavato buche enormi che con la pioggia sono diventati fangosi laghetti.

25 maggio. All’alba le artiglierie austriache dirigono un intenso fuoco sulle balze del Coni Zugna, in particolare contro un punto strategico chiamato il trincerone di Cisterna. Dall’altra parte dell’Adige i cannoni italiani rispondono. In breve, su tutte le rocce circostanti si rovesciano tali ritmi di dinamite che i monti fumano emergendo come vulcani da larghe fasce cineree. Il bombardamento è di tale violenza ed estensione che interrompe tutte le comunicazioni e provoca la morte e il ferimento di alcune centinaia di fanti del 208º (Brigata Taro) rimasti a presidiare la zona della Malga. La postazione non può essere persa per non compromettere, stavolta dal lato della Zugna Torta, la salvezza del passo che con enormi sacrifici stiamo salvando giorno per giorno. Per integrare le perdite subite, si decide di trasferire di nuovo a Malga Zugna le compagnie 9ª e 12ª che solo due giorni prima erano accorse in difesa del passo. A compensare i nervi sfibrati da questi continui spostamenti, sono nel frattempo arrivati sullo Zugna per la mulattiera che sale da Santa Margherita, provenienti a marce forzate dallo Stelvio e dal Carso, dei rinforzi di fanteria armati di qualche mitragliatrice e alcuni artiglieri che trascinano due vecchi obici. Questa è la spontanea testimonianza di Emilio, anche se in un proprio rapporto il Gen. Cletus Pichler, Capo di SM dell’11ª Armata austriaca scrive: "In V. Lagarina intenso fuoco di artiglieria da parte italiana...si poté osservare la salita di ingenti rinforzi dalla V.d’Adige verso la Zugna (nota). [Nota 45] ". A parte l’esagerazione di quegli ingenti rinforzi, vero era che quella mattina le montagne e le valli della zona echeggiavano anche in italiano. Infatti, dal rapporto dell’ufficiale Alberto Quarra: le due compagnie (9ª e 12ª) vengono fatte transitare per un sentiero protetto che passa tra lo Zugna e i Coni, ma, quanto al trincerone, la fanteria nemica non riuscì neppure ad avvicinarsi ai reticolati poiché "le formidabili raffiche delle nostre artiglierie postate oltre Adige (quelle di Brentonico) sgominarono e distrussero i reparti approntati per l’azione (nota) [Nota 46] " (torna)

Fortuna divisa e moltiplicata

30 maggio. I Landesschützen tentano l’ultimo grande assalto al Passo Buole ma, come testimonia l’esistenza del sottoscritto, la buona stella di Emilio, pur sottoponendo il furiere ad altri gravi pericoli, gli risparmierà ogni mortale rischio di fucile o baionetta. Il nemico lancia all’assalto del valico interminabili colonne di fucilieri che, continuamente ricacciati, si rimpinguano subito di nuove colonne. Ma il nostro schieramento è ormai completato e sufficientemente robusto. L’assalto si risolverà in una carneficina per entrambe le parti, ma il passo resterà per sempre in mano italiana.

La 9ª e la 12ª Compagnia vengono subito rispedite al valico. La 12ª si è appena rimessa in marcia che il tenente Rizzardi ordina ad Emilio di uscire dai ranghi e recarsi ad Ala per urgenti pratiche di rifornimento. Il furiere si affretta. Mentre scende verso Santa Margherita e passa lungo una postazione italiana, un ufficiale lo ferma a pistola puntata, lo interroga burbero sospettandolo di diserzione e si accerta sulla scorta dei documenti che dica la verità. Si scusa e lo lascia proseguire. Romagnolo di Lugo, sarà poco dopo destinato proprio al comando della 12ª, e gli diverrà amico.

A sera Emilio giunge a valle assieme a qualche isolato colpo di cannone, ed è attirato dall’unica casa di un borgo rimasta in piedi in mezzo al proprio orto. La porta d’ingresso è spalancata. I proprietari sono fuggiti lasciando in dispensa uova, farina e olio, e in cantina un bel po’ di vino. Emilio entra e trova che alcuni militari dei servizi speciali han già preso possesso d’ogni cosa e si stanno cucinando profumate frittelle. Con cameratismo sa unirsi alla brigata e cena con focacce d’uova e farina e un rosso frizzante frutto del vigneto di casa.

Tarda notte e tempo buono. I cannoni tacciono, e dietro l’uscio infuriano solo i grilli. Emilio saluta gli altri che continuano a stappar bottiglie, si getta sopra un letto di foglie di pannocchie trovato al piano di sopra e piomba in un sonno assoluto. Ai primi raggi spalanca gli occhi come svegliato di soprassalto da un incubo nel mezzo del suo russare e si accorge impietrito che mezza camera, giusto a partire dai margini del suo giaciglio, non esiste più, e che con essa se ne è andata mezza casa. Intorno, un firmamento di polvere traversata dal sole e impregnata di acre odore di calcinacci. In fianco, direttamente lo stormir di fronde di un albero del cortile. Si riprende dal primo stupore. Attento e determinato, si toglie dal letto badando a mettere i piedi dalla parte giusta, scende in cucina per la scala ancora integra e corre fuori: il casolare è stato tranciato di netto e con tal precisione che pare segato. La parte asportata giace in cumulo sotto l’albero del cortile a fianco della metà intatta. "Ti xe vivo anca ti?". La voce veneta e laconica alle sue spalle è di uno dei militari coi quali aveva cenato. "E i altri?". "Quali altri? I se la ga mocada [Nota 47] tuti stanote!".

A Emilio, cui le cose sono finora andate bene, viene da pensare di non essere l’unico fortunato di tutta la guerra, e che il velenoso intruglio filtrato dalle reali e imperiali Case europee ai danni dei reciproci popoli è giusto che risparmi anche altri. In quell’attimo uno scoppio assordante e un irresistibile spostamento d’aria scaraventa i due a terra avvolti in un rovinio di cose e in un nuvolone dolciastro di zolfo e cartone, che in pochi attimi dilegua aspirato dai mulinelli del vento: anche l’altra metà della casa è sparita, tradotta in un cumulo che giace a fianco del precedente. Emilio si rialza, si stropiccia gli occhi che bruciano e sente un dito toccargli la spalla: "Dame rèta a mi, tagemo la corda, ’dèso che no ghe xe più gnanca la casa, da copar no restemo che nualtri!". Corrono fuori da quel borgo in rovina e si gettano sui campi in direzione di Ala. (torna)

Mulattiera, che passione!

Attorno alla provinciale si è riacceso un fragore di granate. Ai margini di Ala i due vengono attirati dagli scoppi metallici di quattro bei pezzi finalmente di artiglieria italiana. Nuovi di zecca, sparano a brevissimi intervalli in direzione dell’odiato nord. Dopo quelle acute esplosioni che rimbombano sul petto di Emilio come un sollievo, i pezzi si ritirano in fretta verso Pilcante. I due compagni di strada percorrono l’ultimo tratto di gran carriera preceduti e seguiti da granate nemiche e centrati dalla benigna stella del sole. Entrato in paese, Emilio saluta il compagno di fortuna ed entra al Comando. E’ ormai così coinvolto che tutto ciò che è italiano lo conforta e tutto ciò che sa di austriaco lo deprime e lo soffoca in una rabbia che comprime il livello della paura e affiora sul suo innato pacifismo. L’Austria gli sembra più imperialista dell’Italia e più nemica della civiltà perché vuol tenere assoggettati tanti popoli, compresi gli italiani, da considerare ora umanamente superiori. Sente di dover parteggiare non già per la colpevole monarchia ma per i propri innocenti compagni così duramente provati. Immerso nell’inferno e organizzato nelle unità militari, approva non le ragioni della guerra ma le necessità della difesa.

Terminato il lavoro e mangiato alla buona nella cucina del Comando, prende la via del ritorno direttamente verso Passo Buole dove sa che i suoi commilitoni sono continuamente impegnati a respingere gli assalti dei tirolesi. Ai Marani intraprende la mulattiera che sale a zigzag e ad ogni svolta del suo primo tratto celebra la passione di Cristo con capitelli in muratura nelle cui nicchie riposano piccoli affreschi. Raggiungerebbe volentieri ogni stazione con la fatica e la calma di un dopo pranzo, ma deve sveltire il passo per timore di percepire un sibilo di obice o di non accorgersi di qualche più vicina e ben mirata fucilata di possibili cecchini. Si consola al pensiero di potersi in qualche modo riparare dietro le storie di Gesù, e abbozza dentro un sorriso all’idea di percorrere una propria passione e spera, sorridendo stavolta sugli occhi, che la sua storia abbia un esito diverso da quello del Salvatore. Intanto guadagna metri. Oltrepassato l’ultimo capitello, mormora un grazie ma si accorge subito con angoscia che il resto della strada, affidato a un pendio erboso, è allo scoperto di fronte e alla mercé di montagne tutte austriache. Ma prosegue lo stesso nel coraggioso sole pomeridiano.

A sinistra la Val Lagarina spazia ricciuta di frutteti e solcata da un Adige riverberante, traboccante di noncurante bellezza. A occhio nudo i paesi sono indistinti, e non si individuano bene le macerie. In fondo, case e campanili di Mori sono un presepio estivo. Più in là, Rovereto giace raccolta e impaurita dalle vicine esplosioni. Sopra la città misteriose montagne osservano ogni cosa. Fra queste il minaccioso Biavena dove sono annidate le più possenti artiglierie austriache e da dove in quel preciso momento gli osservatóri puntano i cannocchiali. Quella stradina percorsa in solitudine diventa un immediato bersaglio. Ma il furiere gioca d’astuzia, ora correndo avanti, ora fermandosi di botto, ora retrocedendo, seguito e preceduto in tutta la loro sproporzione da uno spreco di cannonate. Raggiunta la più sicura gola del monte, si siede, stanco come la strada, su un tronco a riposare e sorseggiare vino dalla borraccia nascosto dal fitto amore del bosco mentre il cannone continua a tuonare cieco e rabbioso. Stima prudente attendere finché non ritorna un rinunciatario, austriaco silenzio. (torna)

Storia e verità

Procede nella pausa del tramonto, raggiunto adagio da una colonna di muli con le salmerie per il presidio. La segue a breve distanza. Ogni tanto, per evitare d’incappare nelle intenzioni dei cecchini, sale un pendio di traverso, fra macigni ed erbe selvatiche. Poi, in uno stabile silenzio di oscurità e artiglierie, preso da una stanchezza che sostituisce la paura, si aggrappa alla coda di un mulo. Arriva al valico che la sinfonia austriaca è ricominciata, perché nel buio vedette nemiche devono aver notato qualcosa, temuto l’arrivo di rinforzi e deciso di vendicare il vuoto della notte con qualche cannonata casuale. Tornato al suo posto, gli viene raccontato il tremendo assalto del giorno prima, costato la pelle a tanti suoi compagni che contro i cocciuti assalitori avevano opposto in cima al costone un vero e proprio muro d’arma bianca, e viene a sapere che anche nel tardo pomeriggio di oggi, mentre egli si ingegnava a scansare gli obici nemici, i Landesschützen avevano sferrato un altro e inaspettato attacco al passo dal contrafforte di Loner, ma che erano stati ricacciati a valle dal Iº/117º fanteria della Brigata Padova, giunto fresco fresco a dare il cambio ai sui eroici commilitoni del IIIº/62º. Non può far altro che raccontare, a confronto, la sua modesta, duplice, involontaria ma pur sempre degna avventura del giorno, la casa tagliata in due e, sulla strada del passo, il "solo contro obice". L’importante è, in fondo, che la vita resti appesa a un filo, magari molto tenace.

Pare che all’inizio dell’offensiva austriaca il Comando della 1ª Armata non abbia dato alcuna particolare importanza al Passo Buole. A quanto Emilio ricorda, il valico non era neppure indicato sulla carta del Trentino distribuita agli ufficiali operanti nel settore. Eppure si rivelò uno dei cardini della nostra difesa. Inoltre, secondo la testimonianza del nostro caporale, fu esclusivo merito dell’arma della fanteria l’aver impedito al nemico di espugnarlo. Pochi giorni dopo quell’eroica resistenza, grazie al ritiro di molti contingenti che le erano più necessari sul fronte dell’Europa orientale per arginare l’avanzata dei russi di Brusilov, l’Austria perdeva ogni speranza di cavalcare le nostre pianure, e la 1ª Armata poteva passare alla controffensiva sull’intero fronte trentino e vicentino.

Pare anche che il nome e il ruolo del passo siano stati quasi del tutto ignorati dai testi scolastici e dalle enciclopedie popolari. Inoltre, in una enciclopedia degli anni Venti (nota) [Nota 48] che almeno vi dedica qualche parola, il nome del passo sarebbe rimasto celebre per l’eroica resistenza opposta al nemico dal corpo della penna nera. Ma il fante Emilio, nel raccontare i fatti di cui è stato protagonista, non ne fa cenno e, anzi, precisa che oltre a un paio di pezzi di artiglieria non ha visto operare a Passo Buole altro che la fanteria. Dobbiamo credere più a un estensore di voci enciclopediche seduto dietro a una scrivania o a chi ha partecipato a tutto il corso dell’azione?

Oggi la storia ha reso giustizia a Emilio. Grazie a documenti diventati di pubblico dominio solo da pochi anni, Strafexpedition, quadro delle forze in campo e Passo Buole non hanno più misteri. E’ assolutamente vero che alla difesa delle nostre Alpi hanno contribuito in quasi tutti i settori, e in grande ed eroica misura, anche gli alpini, di solito impegnati sulle più alte e difficili vette, ma nel caso di Passo Buole l’orgoglio di Emilio è quasi del tutto giustificato. Quasi, perché nei pressi del valico, assieme e a fronte di qualche migliaio di fanti operò anche una compagnia del 6º Alpini, e precisamente sull’altura a sud di Costa Mezzana chiamata Jocole, col compito di difendere l’altura stessa e tenere i collegamenti con la 44ª Div. Operante in Vallarsa. Probabilmente Emilio, dal punto in cui si trovava (di fianco a Passo Buole, lato Costa Selvata) non la poteva vedere.

Ad ogni modo, di là di ogni attribuzione del merito ai corpi, a combattere e a patire sono stati semplicemente i nostri soldati a dispetto della strategia dei Comandi, delle diatribe interne allo Stato Maggiore, dei suoi contrasti col Governo e delle ambizioni della monarchia, tutti abituati a manovrare uomini come pedine, a giocare alla guerra sulla pelle del popolo. (torna)

La "punizione" è fallita

Primi di giugno. L’Austria, tradita dal fronte russo, si trova nei guai. Cadorna organizza la controffensiva e allerta la 5ª Armata che dal compito originario di contrastare il nemico in pianura ora potrà passare al suo inseguimento. Gli austriaci, che già meditano un generale ritiro su posizioni più arretrate, decidono di rinunciare al Coni Zugna pur mantenendo in Vallarsa i Landesschützen. A fondo valle continuano le piogge e sul Pasubio continua la neve.

Anche i cannoni austriaci perseverano e scavano infaticabili il nostro terreno. Il 5 giugno i fanti del 79º Regg. Della Brigata Roma sono rannicchiati nelle loro fangose trincee intorno al muretto di cinta del cimitero di Parrocchia, su una scarpata della Vallarsa, sotto i pendii del Pasubio da un lato e dello Zugna dall’altro, quando un grosso calibro, centrato in pieno il povero pezzo di terra consacrata, li fa saltare in aria in un groviglio di casse squarciate, salme smembrate e poltiglia. Qualche ora dopo subiscono anche l’assalto della fanteria. I sopravvissuti sistemano alla meno peggio il cratere del cimitero e vi aggiungono i propri morti: questa la guerra che i giovani interventisti d’Italia, dal culo fresco, il cervello ridotto e il cuore drogato sono stati indotti dall’alto a volere.

Falkenhayan comincia a litigare con Conrad: in Italia non ti mando alcuna divisione perché mi servono tutte per fermare Brusilov, mandami invece tu le tue e smetti di tentare impossibili avanzate in Trentino. Al loro confronto, concentrati al tavolino dello scacchiere bellico, i campioni di scacchi Petrosian e Karpov sarebbero stati dei dilettanti. Anzi, peggio: ordine emanato il 6 giugno dal Comando Austriaco del Trentino: "La battaglia sul teatro di guerra russo rende per il momento impossibile l’invio dei previsti rinforzi...Per questo motivo il Comando Supremo desidera che su tutto il fronte venga controllato il consumo di uomini e di munizioni... (nota) [Nota 49 ] ". Ciò fa pensare ai soldati, più che come dignitosi pezzi da scacchi, come modeste pedine da dama non solo italiane e austriache ma di molti altri paesi coinvolti in una guerra estranea. Si racconta di soldati polacchi costretti a combattere per gli Imperi Centrali, caduti in combattimento contro i nostri nel Trentino, che avevano portato nello zaino un pugno di terra patria che i nostri soldati sparsero pietosamente sulle loro tombe.

Dalla metà di giugno solo pochi e isolati attacchi allo Zugna, finché il 18 i Landesschützen vengono definitivamente ritirati. Ma nel cuore revanscista di Conrad resta l’idea fissa di riconquistare il Pasubio. All’inizio dell’estate gli italiani sono alla controffensiva sull’Altopiano dei Sette Comuni e poco dopo anche nella zona dello Zugna con una lenta avanzata sulle due rive del torrente Leno di Vallarsa. Il 25 giugno gli austriaci cominciano la ritirata generale, e il bel tempo sorride sui loro fagotti. Gli italiani non proprio li inseguono ma li seguono facilmente. Vogliono riconquistare il territorio perduto dall’inizio della punizione, ma ci riusciranno solo in parte: come precisò molti anni più tardi il gen. Giraldi, Comandante della 1ª Armata, Cadorna non diede la possibilità di completare la riconquista perché gli urgeva di trasferire le forze sull’Isonzo e conquistare Gorizia. Comunque, confessò in quell’occasione Giraldi, Conrad aveva fatto un errore fondamentale pensando di batterci in Trentino con sole 20-22 divisioni. Se ne avesse usate 25-28, saremmo retrocessi a combattere in pianura perché non sarebbe stato possibile resistergli (nota) [Nota 50}.

Le retroguardie austriache non se ne vanno tutte alla chetichella, e quando possono mordono ancora forte e ci impegnano duramente. Verso la fine di giugno diamo battaglia per sloggiare i nemici dal forte di Matassone nel mezzo della Vallarsa. E ci riusciamo. (torna)

Andata e ritorno

Col tardivo arrivo di una secca estate, sopraggiunge la sete, che gli scarsi approvvigionamenti dei muli notturni non placano fino alla notte di un nutrito acquazzone. Allora i militi raccolgono negli arsi teli da tenda ancora chiazzati di sangue tanta acqua quanta ne basta. L’aria ha cambiato grado e odora di grigio sottile. Nei giorni seguenti una benefica pioggerella li rifornisce con regolarità finché, placatasi l’ira delle montagne nemiche, tutti potranno bere ogni giorno acqua potabile. Ridimensionati dalle necessità del fronte orientale, gli austriaci si sono ormai quietati nelle loro posizioni e le quattro compagnie del IIIº/61º vengono rispedite a Malga Zugna dove arrivano presto anche i complementi necessari a colmare le perdite di Passo Buole. Giusto quando il battaglione si è riassestato, il maggiore Codardo (così è stato ribattezzato dalla truppa il comandante rimasto nascosto nel suo antro fin dall’inizio dell’offensiva), preso forse da vergogna o da voglia di riscatto, ordina un’azione degna di lui e del fanatico ufficiale che gliel’ha suggerita.

Un giorno di fine di giugno Emilio torna ad Ala per le solite pratiche contabili. Potrebbe rimanervi qualche giorno, ma lo scrupolo di non sfruttare troppo un permesso aperto e la seduzione di una frescura di boschi ormai più tranquilli gli rendono insopportabile la permanenza nell’afoso abitato. Nonostante il rischio sempre incombente, decide di far ritorno alla Malga il giorno seguente. Ha saputo che gli austriaci hanno spogliato di quasi tutti i loro cannoni il terribile Biavena per portarseli sul fronte russo. Così, invece di ripercorrere la provinciale fino a Santa Margherita passando per le macerie della valle, preferisce rifare un tratto della già praticata mulattiera che dai Marani porta a Passo Buole e prendere a un certo punto una scorciatoia che porta alla Malga. Sgrana con calma i capitelli della Via Crucis come stazioni di una storia ormai passata e affreschi ingenui di una santa leggenda lontana dietro cui non deve più ripararsi.

Giunto alla Malga a tarda sera, trova i camerati in movimento febbrile. Il tenente Zuffardi ha già disposto che lo scritturale Pizzamiglio rimanga di guardia al campo della 12ª e in particolare alla fureria mentre l’intero battaglione dovrà allontanarsi per un’azione di guerra. Vedendo il furiere già di ritorno, il tenente richiama con sè il sostituto e gira l’ordine a Emilio, nella cui coscienza un pesante senso di colpa graverà nel volgere di poche ore. (torna)

Parentesi

Breve parentesi per gli specialisti della materia sull’individuazione della citata azione di guerra descritta nel prossimo paragrafo. La caccia ai particolari dà risultati incerti. Rispetto a una testimonianza austriaca (nota) [Nota 51] rettificata da un’aggiunta del curatore, c’è la differenza di un giorno (30 giugno per Emilio, 29 per il diarista austriaco), una notte di temporale (non citato da Emilio) e una diversa compagnia (tutte quelle del proprio battaglione per Emilio, il I/72º Fanteria della Brigata Puglie secondo l’aggiunta del curatore). Nel ricordo distante più di vent’anni la differenza di un giorno conta poco, così come il tempo: nulla impediva alla luna di comparire improvvisa e traditrice dopo il temporale. Resta quella dei protagonisti, e qui, o il curatore del testo si è sbagliato, oppure quello rievocato da Emilio è un altro, analogo e altrettanto tragico episodio accaduto il giorno dopo. Emilio non indica la località, ma forse si è trattato proprio del tentato assalto al fortino di Pozzacchio citato dal curatore in quanto nel racconto dei superstiti è nominata una strada carrozzabile su cui gli italiani si sarebbero trovati dopo aver oltrepassato i reticolati nemici. I nostri erano quindi scesi in fondo alla Vallarsa. E non può trattarsi del forte di Matassone, perché già sgombrato dai nemici nella notte tra il 27 e il 28 giugno. Propendo per il Forte Pozzacchio parendomi strano che due tragici, analoghi tentativi si siano succeduti a distanza di un solo giorno, anche se l’affrettata offensiva che in quel momento Cadorna aveva ordinato può aver ridotto la prudenza dei capi. Chiusa la parentesi. (torna)

Il guiderdone

Notte inoltrata tra il 30 giugno e il 1º luglio. Le quattro compagnie in assetto di guerra e coi muli al seguito s’allontanano dal campo di Malga Zugna per ignota destinazione e spariscono nell’oscurità. Nulla è trapelato sulla missione se non che è stata ordinata dal maggiore Codardo (non si sa se sia vero, ma così fingiamo che sia, un po’ per non incolpare più alti Comandi e un po’ perché un tipo come lui poteva benissimo aver ordinato una azione così temeraria e forse anche inutile). Il maggiore, dopo l’eroico comportamento dei suoi uomini a Passo Buole, doveva essersi sentito un verme e, uscito una volta tanto dal suo nascondiglio, si era risolto a farsi valere per meritare come gli altri l’encomio che il Comando della 1ª Armata aveva certamente in progetto di conferire all’intera brigata. Fingiamo anche che, secondo le confidenze fatte al furiere dal tenente, quella sortita sia stata suggerita al maggiore da un capitano, forse voglioso di far carriera oppure di trovare l’occasione di sbarazzarsi del superiore.

Emilio resta solo per una lunga notte a vegliare le ombre degli abeti che smuovono le punte fra limpide stelle. Di tanto in tanto un razzo sbianca il campo come un fulmine silenzioso, e subito si spegne in una scia di carta e fumo, finché una luna improvvisa non dà a tutte le creature vegetali e minerali chiari contorni. Poco dopo, una delle infinite aurore che alternate ai crepuscoli ritmano le nostre incombenze ripresenta l’esistenza delle cose, alberi, rupi e fatti pronti ad essere riferiti.

Calpestii di zoccoli, fiacche voci di ordini, brevi archi di lamenti si alzano dal bosco e fanno trasalire Emilio, che va in direzione dei rumori. Sul sentiero restituito dalla notte spunta un mulo con sopra due soldati riversi. Un mulattiere della Croce Rossa guida a mano l’animale. Dietro, altri muli con altri soldati sanguinanti, alcuni moribondi, altri ancora capaci di sostenere la schiena. Un fasciato alla testa riconosce il furiere. Secondo la sua voce afona è stato bendato a un posto di medicazione e ora deve proseguire fino al più vicino ospedale da campo. Non aggiunge altro mentre il mulo si allontana. Seguono altri muli con altri soldati feriti.

Uno che barcolla in piedi allunga un braccio per farsi sostenere e racconta che è accaduto un fatto orribile. Allontanatosi oltre la cresta dello Zugna, il battaglione ha cominciato a scendere il pendio di Vallarsa. Agli ordini di un capitano, deve procedere senza fare rumore. Dopo un lento paio d’ore, lasciati i muli in attesa in un bosco, raggiunge il fondo valle. Traversato su un ponte di pali il torrente, incontra fitti reticolati nemici fra i quali ritaglia un’uscita sufficiente a far passare due o tre soldati per volta. Oltre i reticolati corre una strada carrozzabile ai lati della quale i fanti vengono fatti sedere. Di fronte, un prato sale assieme al freddo di qualche larice verso una postazione o fortino nemici. Dopo un’altra interminabile ora tutto il battaglione è sgusciato fuori dalla spinata apertura. Inastate le baionette, due silenziose, calde colonne umane cominciano a salire verso il forte.

Il lungo, elaborato transito non è potuto riuscire senza qualche tintinnio di fucili sulle giberne o sfrigolio sulle spine di ferro o urto di scarponi sui sassi. Le vedette hanno notato qualcosa e sospettato che qualcuno sia venuto a disturbare una tranquilla notte di guerra di posizione, dal momento che il nemico lancia un razzo al cui chiarore intravvede i soldati. Allora dà mano a una bombarda che esplode contro le scorze dei larici scheggiando parecchi uomini. Le due colonne si scompaginano e tutti, sentendosi in trappola, ridiscendono di corsa il prato gettandosi verso l’unica apertura del reticolato in un groviglio di corpi che lottano disperatamente per guadagnare il passaggio. Senza rischiare di uscire dal fortino, gli austriaci ripetono un lancio di bombarda che, fra gli incerti chiaroscuri di un bengala, non riesce a centrare la massa impegnata a entrare nell’imbuto spinato, ed esplode a lato. Ma proprio in quel momento sulle creste incantate del Pasubio appare in tutta la sua freddezza il disco lunare, maschile, traditore, austriaco, e su quel groviglio selvaggio il nemico punta la mitragliatrice.

Il Maggiore responsabile della carneficina si è ritirato fin dalla sera prima nella sua caverna a meditare l’encomio dopo aver concordato col capitano il piano di cattura del fortino, ma il suo istigatore è morto sul posto con quasi tutti i suoi uomini e molti delle altre compagnie, bucati dai sorrisi asburgici di una luna che crede di averli levati a eroi. Ma pochi giorni dopo, l’Alto Comando della 1ª Armata, dissimulando la condanna per quella sciagurata spedizione, riunisce i superstiti che, fuggendo di fronte alla mitraglia nemica, non si sono virilmente estinti, e infligge loro, a perenne e sabaudo ricordo della loro stirpe, un umiliante Rimprovero solenne. Il bel cuore di Emilio è allora sbattuto da ottocenteschi fremiti: "Gli eroi di Passo Buole s’ebbero questo guiderdone!" Quanto al Maggiore Codardo, non si sa in quale nuova e più profonda caverna si sia trasferito. (torna)

Ferito ufficiale e ferito semplice

Prima decade di luglio. Fra coloro che non han fatto ritorno al campo ci sono il tenente Zuffardi e lo scritturale Pizzamiglio, ricoverati all’Ospedale di Ala. I resti del battaglione sono stati trasferiti a Serravalle a presidiare più tranquille e fortificate trincee. Da questa nuova casa di guerra Emilio si reca in permesso a far visita ai due compagni feriti. E’ una giornata di vento in cui le essenze si smuovono calde e spandono intorno un carico grasso di odori. Il peso delle ore meridiane gli grava sulle gambe. Sale la scala esterna dell’ospedale sistemato nei locali di una scuola quando, percepito l’odore di medicazioni che sbruffa dall’ingresso assieme allo svolazzare dei camici dei medici e dei copricapo delle crocerossine, si accascia sul marmo dell’ultimo gradino. A qualcuno che lo ha subito soccorso mormora che è un malore dovuto all’emozione. Gli fanno sorseggiare un bicchiere d’acqua. Attende che il sangue riprenda il normale impulso, si rialza e chiede del tenente Zuffardi. Una crocerossina lo accompagna nella cameretta dove, fasciato in più punti, giace l’ufficiale al quale accenna, un po’ imbarazzata e un po’ divertita, al malore di Emilio. Vedendo entrare il furiere pallido in viso, il tenente allarga un sorriso ed esclama che questa visita è per lui un onore immeritato perché è stato ferito solo leggermente. Racconta che una bombarda gli era scoppiata vicino e molte schegge lo avevano investito ma in modo superficiale tranne una, piccolissima, che gli si era conficcata nella gola. Aggiunge che è così impercettibile che neppure gli impedisce di parlare. Il fatto gli pare banale ed è animato dalla certezza di guarire presto. Scherza per aver fatto la guerra con la bocca aperta come una recluta imbranata, e racconta che una volta suo nonno, bevendo un buon bicchiere, aveva trangugiato una vespa e patito le pene dell’inferno. Si mostra invece preoccupato per il malore di Emilio, che intanto ha ripreso il suo colorito bianco e rosa. Si salutano e si ringraziano ripetutamente con sincera effusione.

Emilio esce commosso dalla stanzetta e si avvia lungo un corridoio dalle mezze pareti dipinte a olio verde il cui odore ancora fresco galleggia su quello dei malati, verso una camerata dove, alcuni su letti smaltati ma i più su brandine fittamente pigiate giacciono i soldati semplici. Dalla soglia vede il bianco daffare del personale in mezzo a un mare di lenzuola e bende, e in fondo all’emozione della stanza individua l’amico e suo vice Pizzamiglio, assistito dal fratello maggiore. La commozione si disperde in uno stato di panico e si trasforma in un complesso di colpa. Sa che lo scritturale è stato investito dalla stessa bombarda che ha colpito il tenente e che al poveretto è stato amputato un braccio fino all’omero. Si rimprovera di essere rientrato troppo presto al campo e di aver reso possibile col suo eccesso di zelo quella disgrazia. Intanto il caporale di cucina lo ha scorto e lo indica al fratello. Ed ora entrambi lo stanno guardando, e ridono con quella dolce ingenuità che mette davanti a tutto i primi e più spontanei sentimenti. Ma Emilio ha perso il coraggio e, provando anche questo rimorso, si limita a salutarli da distante con la mano e il sorriso più triste della sua vita. (torna)

Medicina di ieri

Scendendo le scale rinnova il rimorso finché la violenta luce del pomeriggio e il cupo dei verdi sotto globi di nubi che schiacciano i monti immersi in una continua attesa di tuoni di cannone non lo persuadono che la guerra non si fa con i ma e con i se, e che è inutile rodersi per cose più grandi di noi. La guerra e ogni altra difficoltà della vita sono muri obbligati: o si abbattono o gli si sbatte contro. E anche il caso ha la sua parte di colpa. A passo lesto si mette a meditare con sollievo sulle pretese e la vacuità della nostra scienza divinatoria.

Ha presto la conferma che non solo non sappiamo prevedere gli eventi ma neppure le conseguenze di quelli che ci sono già noti, che spesso si rivelano il contrario di ciò che avevamo previsto. Nei giorni seguenti ha notizia che le condizioni del tenente si sono aggravate. Quell’introvabile scheggia gli ha provocato infezione. Infine viene a sapere della sua morte, e lo ripensa a letto ormai immobile ma finalmente immune dal dolore che la gola straziata ha dovuto deglutire. Invece il soldato Pizzamiglio se l’è cavata, monco, ma vivo.

All’epoca dei fatti la muffa del genere Penicillium, specie notatum, prima di essere sottoposta alla casuale ma intuitiva osservazione di un benefattore del genere umano e isolata nel suo benefico prodotto da altri benefattori era, come ogni altra specie del genere, considerata dannosa, in particolare alle raccolte di insetti e agli erbari, e andava prevenuta con gli antisettici. Il buon tenente parmigiano aveva perciò il destino segnato e doveva morire comunque anche se, per sintonia coi pochi illesi compagni, fosse stato dall’Alto Comando non dico afflitto da rimprovero solenne, punizione destinata alla truppa, ma più severamente degradato in quanto ufficiale, magari a insetto, e ciò perché in ospedale avrebbero fatto di tutto per preservarlo dalla formazione di benefiche muffe, mentre lo scritturale Pizzamiglio, che infezione non ebbe, persino nell’ipotesi assurda per un soldato semplice di un pari degrado o di uno peggiore a foglia, si sarebbe certamente salvato in virtù di quella o qualche altra muffa a lui congenita nel corpo o nello spirito. (torna)

A proposito di destino e di coincidenze singolari

Mercoledì, 5 maggio 1954. Emilio si reca a un appuntamento d’affari a Verona e prende posto nell’auto di un commerciante col quale deve far visita ad alcuni clienti di Trento, Bolzano e Merano. In macchina c’è anche la moglie, una bella signora che dà al viaggio una bionda, casalinga impronta di gita. Nei pressi di Ala il commerciante lo avverte che gli indicherà i luoghi dove ha fatto la grande guerra. Emilio gli chiede se ha combattuto sul monte Zugna, e quello dice di sì e aggiunge che tra maggio e giugno del’16 si trovava nei pressi di Passo Buole. Emilio esclama di aver finalmente trovato un commilitone e chiede a quale corpo appartenesse e con quale grado. Quello scuote il capo: "Ero ufficiale di artiglieria, ma sono altoatesino e ho combattuto per l’Austria". "Allora eravamo nemici, e le granate che cercavano di accopparmi erano sparate anche per ordine suo!", dice il velo maligno di Emilio. "Proprio così. E ora le mostrerò dove avevo l’osservatorio". A Rovereto arresta l’auto e invita Emilio a seguirlo fino all’ossario. Qui indica un ciuffo di abeti a ridosso del tempio e precisa che da lì trasmetteva i dati ai cannoni del Biavena. Racconta che, partita l’offensiva a metà maggio, aveva attraversato la Zugna Torta disseminata di cadaveri ma che la fanteria si era dovuta fermare sotto Passo Buole difeso strenuamente dagli italiani. "Sul Monte Corno, quasi di fronte al passo", aggiunge poi aggrottando la fronte in segno di rivincita, "abbiamo fatto un famoso prigioniero". "Ah sì, Cesare Battisti... il nove luglio, se non sbaglio... era il mio ultimo giorno di permanenza alla Malga !". Il commerciante alza un dito: "Io ho fatto da interprete al suo interrogatorio. Un uomo fiero e determinato. Ma stava dalla vostra parte...".

Terminato il giro d’affari, Emilio sale in treno a Trento. Nel suo scompartimento entra una donna accompagnata da un omino esile con la barbetta a punta, che la bacia e ridiscende. Tra una chiacchiera e l’altra Emilio viene a sapere che è la nuora di Battisti e che l’uomo che l’aveva accompagnata è il figlio dell’eroe.

Grazie a quel giorno e a quel viaggio, gli venne voglia di rispulciare un vecchio manoscritto intitolato Appunti di un furiere e, naturalmente, di pubblicarlo. Erano passati diciassette anni da quando nel 1937 aveva messo mano alla penna e ne sarebbero dovuti passare altri quarantatré perché la stessa voglia venisse a suo figlio. E ancora, dopo sessant’anni, con lo squallore dei tempi e delle persone, non è detta l’ultima parola. Eppure è ben revisionato e molto più stagionato dei nove-dodici anni che l’amico Franco Fortini esigeva, oltre che per una buona bottiglia di whisky, per una poesia. Ma il tempo dei poeti fuori dalle logge ha il destino immobile. E’ come uno scompartimento: sta fermo anche se viaggia. (torna)

A Serravalle cala la prima tela

Nelle trincee di Serravalle il battaglione sopporta i cannoni nemici ancora per una ventina di giorni. Ma è un bel sopportare: cannoneggiamenti monotoni, di routine, senza convinzione. D’altra parte là sotto, con gallerie e camere in calcestruzzo riparate da fitte zolle e da ridotte resistenti ai tiri più aggiustati, tutti si sentono a casa. Mentre l’Austria, costretta a ritirare le truppe, reagisce con cannonate simboliche, i soldati giocano a tressette.

26 luglio. Un ordine mette tutti i giocatori in movimento per la trincea in cerca dell’equipaggiamento e del resto con cui farcire lo zaino. Dopo una sospirata marcia all’aperto, alt a Peri nei pressi della ferrovia dove si va concentrando più dell’intera brigata. Il vestiario viene completamente rinnovato come a Parma prima di partire per il fronte, e a quello pesante se ne aggiunge di molto leggero. Consegna di abbondanti viveri di riserva e distribuzione di armi nuove complete di munizioni.

Come al solito c’è chi vuol sapere una pagina più del libro e sparge voci di un trasferimento su un fronte estero: Tripolitania, Grecia, Albania. Si sa che tra Cadorna e Governo è lite continua su dove inviare le truppe e su quale tavolino giocare una partita che promette di non finire più. Finora l’ha spuntata Sonnino mandando navi e truppe a Durazzo a raccogliere i resti dell’esercito serbo, mentre per il Capo di Stato Maggiore è più redditizio partecipare al corpo di spedizione dell’Intesa in Macedonia greca. I fanti accampati alla stazione di Peri si voltano a guardare in direzione del loro tormentato passato la catena dello Zugna che non puzza più di sangue. Sull’altro fianco il Baldo non fuma più. Corre una voce che recita addio alla boscosa salubrità nostrana e promette un’avventura in zone lontane, deserte e malate. E dopo la voce, la noce: è certo che si dovrà andare lontano, non si sa dove, ma in terre misteriose e desolate. Per farlo, si deve attraversare il mare. (torna)

 

Capitolo II

ALBUM MACEDONE

 

 

Litorale adriatico

La mattina del 1º agosto 1916 vengono spinti a Peri lunghi convogli vuoti. Il IIIº Batt. Monta in carrozze aperte di terza fino a riempire un treno che nel pomeriggio si muove verso Verona prendendo subito una velocità che i soldati, abituati a una snervante marcia a vista, giudicano insolita. Dopo una sosta a Porta Nuova, la corsa riprende non verso Peschiera o Vicenza, ma verso la valle padana. La destinazione resta un mistero che lascia indifferenti i più, rassegnati i meno e innervosisce qualcuno come un’offesa. Parma è da scartare per la forma: il treno non transita per Villafranca ma per Isola della Scala, e per la sostanza: un rientro alla base è impensabile, la guerra è tutt’altro che finita. Dopo una lunga sosta a Bologna con rancio al posto militare, si riparte in direzione di Imola, e i soldati, che a gruppi omogenei si sono messi a cantare le loro regioni, accennano a melodie romagnole.

E’ notte, fa caldo. Un ferroviere spegne le luci forti. I soldati zittiscono, si rilassano e con le gambe allungate e alternate si abbandonano alla bluastra possibilità del sonno. Al finestrino senso marcia Emilio prova ad assopirsi ma eccitazione e curiosità gli riaprono gli occhi sul vetro. Allora cerca di valutare il buio della campagna, di non mancare i cartelli di transito e di leggere con calma quelli delle fermate. Così per lunghe ore notturne con qualche tratto di oblio e un treno che ora non ha più decisione e nelle stazioni ha più sonno di lui, fino a quando i primi barlumi non rivelano il litorale del medio Adriatico. Piano la luce si afferma sull’attesa del paesaggio e allarga il campo visivo finché il sole si dichiara sull’olio rosso del mare. C’è sempre qualcuno che dorme ma i più osservano svegli in silenzio. L’immagine solare prolungata dal riflesso fin sotto costa filtra negli occhi dei soldati e stimola qualcosa che il loro pensiero non sa formulare e il linguaggio esternare. Molti vedono il mare per la prima volta. Uno ha sporto la testa dal finestrino e annusa l’aria con curiosità infantile, apre la bocca in profondi respiri e si gira verso i compagni: "Bellissimo! ".

La voce perentoria di un ufficiale che percorre il vagone annuncia che tra poco ci si ferma ad Ancona ma solo per il tempo necessario al cambio della locomotiva, che non è permesso scendere a nessuno e che per rancio è permesso consumare i viveri di riserva. Tutti passano dall’incanto alla realtà e con questa alla voglia di pescare dallo zaino qualche provvista. Agli scambi di Ancona il treno rallenta come per paura e scivola piano fino alla pensilina. Intorno, solo poliziotti e ferrovieri che raccattano calcinacci. Poche ore prima una nave da guerra ha bombardato la stazione e il porto e fatto numerose vittime. Attesa, scossone del cambio e ripresa della corsa lungo i pietrosi e vuoti villaggi marchigiani, abruzzesi e molisani. Taglia via e dimentica il Gargano il treno sfociando nella pianura foggiana immensamente gialla di stoppie. Dopo Barletta ritrova il mare di fronte a un litorale rigato da bianchi cubi di casette, popolato e nutrito di vigneti, oliveti e piantagioni di tabacco le cui lunghe foglie le donne asciugano su cavalletti di legno. Al tramonto si arresta lungamente oltre Bari in aperta campagna come di fronte all’ignoto, e a notte riprende una marcia lentissima, esasperata da continui arresti. Sosta a Gioia del Colle con la stazione in preda a una folla vociante di ufficiali, carabinieri e funzionari dei servizi statali. Il convoglio riprende la marcia cauto nel buio lasciandosi dietro il perché di quel clamore. Sceso nella piana tarantina, procede a passo d’uomo dubbioso. Dai finestrini, bagliori in direzione della città, un lampeggiare continuo di fuochi non d’artificio. (torna)

Santa Barbara

3 Agosto, prima dell’alba. Telegrafi, telefoni e campanelli della stazione di Taranto ticchettano e squillano. I cappelli dorati e concitati di due Capi Stazione sono affacciati all’uscio del Titolare. Gli ausiliari entrano ed escono di corsa dall’ufficio Dirigenti del Movimento e percorrono in affanno i marciapiedi. I deviatori attraversano e riattraversano i binari, e vanno in fondo a fare segnalazioni che sembrano lucciole nemiche impegnate a predisporre misteriosi sabotaggi. Carabinieri e poliziotti tengono fuori dall’intralcio gruppi di viaggiatori spauriti. I soldati si sporgono dai finestrini formando un’oscillante catena di teste e urlandosi richieste di chiarimenti.

Gli ufficiali, scesi di corsa, vanno a parlare col comandante del posto militare e tornano cercando d’imporre il silenzio, vietando ai soldati di scendere e senza rispondere alle loro domande. Fingono di non sapere o hanno avuto ordine di tacere e attendono disposizioni. Finalmente un sottufficiale percorre il marciapiede gridando a tutti di scendere e disporsi secondo la compagnia di appartenenza. Mentre il battaglione si ricompone, si sparge la notizia che qualche ora prima la corazzata Leonardo da Vinci, ancorata nell’arsenale della città e pronta a salpare in assetto di guerra, è saltata in aria per lo scoppio della Santa Barbara ,[Nota 52] ed è affondata. Nel disastro sono periti un gran numero di marinai. (torna)

Il mistero della Leonardo

Trasbordo su una colonna di autocarri e trasporto fuori città in una piana affacciata sul Mar Grande, maleodorante d’erbe e salsedine, dove vengono rizzate le tende.

Dopo la stanchezza di un sonno rassegnato a una notte infestata dalle zanzare, i soldati schizzano fuori dalle tende col permesso di correre in braccio alle spume per un salutare lavaggio che si trasforma subito in un liberatorio e selvaggio divertimento. Tornati, organizzano le loro cose sotto i teli sentendo col passar delle ore sempre più bruciare la testa e ronzare le mosche. Nel pomeriggio è permesso ai loro visi imperlati di dormire e verso sera ai loro corpi disciolti di nuotare.

Due giorni dopo viene organizzato il trasporto in città, in lutto per la tragedia della Leonardo, di una rappresentanza ai funerali delle vittime. Si raccomanda di non approfittare delle donnine del porto, che non sarebbero sane come le trentine, ricordando ai soldati che devono conservarsi integri per una lunga traversata. Emilio, ancora eccitato per la sciagura, chiede immediatamente di partecipare alle onoranze.

Dell’affondamento di quella che fu una delle maggiori corazzate italiane i manuali di storia non fanno cenno. Origine e retroscena di quella che non pareva una semplice disgrazia, resteranno per sempre anneriti nel mistero com’è poi diventata nostra tenace tradizione in altri casi consimili. Nei giorni seguenti Emilio ebbe modo di avvicinare qualcuno dei marinai superstiti. Se concordavano tutti nel mostrare raccapriccio, ciascuno supponeva una cause propria, ma l’opinione prevalente, anche fra la gente, era quella di un sabotaggio d’infiltrati nemici favorito dalla complicità di ufficiali italiani corrotti. Se nei cuori semplici e semplificati dell’opinione pubblica serpeggiava questo poco patriottico sospetto, che le autorità non avevano certo interesse a diffondere, qualcosa di vero doveva esserci. Il silenzio ufficiale dopo la catastrofe e dietro gli sviluppi dell’inchiesta, avvalorerà l’ipotesi. Diversamente, governo, stato maggiore e giornali avrebbero dato fiato alle trombe della pura disgrazia o del puro sabotaggio. [Nota 52bis]

In Duomo non c’è posto per la folla, che deve attendere fuori. Solo galloni di vecchie autorità, rappresentanze dei colori armati e i familiari in nero di un mare di bare chiare e leggere racchiuse in un giovanissimo perimetro di marinai. Poi, tutti fuori a sfilare fino al molo di San Cataldo con discorso ammiraglio e cerimonia militare in un silenzio inciso solo da intervalli di trombe. Dopo i funerali, il libero Emilio vaga per la città e il porto a consolarsi con ostriche e cozze. (torna)

Latte...

Il pomeriggio dopo, mentre il campo si allarga per fare spazio ad altri battaglioni, vengono concessi permessi di recarsi in città ma col divieto di frequentare il centro. Emilio ne approfitta ancora. Non potendo inoltrarsi nell’antica isoletta, percorre le vie precedenti incontrando ovunque soldati e marinai, svolazzanti insegne di caserme e selve di pennoni di vascelli.

La sua curiosità è attratta dalla locale vendita del latte, fatta senza intermediari, direttamente dal produttore al consumatore. Vacche e capre sostano odorose davanti agli usci delle case, e il vaccaro o il pastore mungono il candido alimento nei recipienti sporti da donne, vecchi e bambini per nulla turbati dalla minaccia che per la purezza del prodotto costituiscono gli sciami d’insetti che avvolgono turbinosamente le bestie. Fissità dello sguardo e pazienza di braccia conserte di donne e di mani dietro la schiena di vecchi, giochi di bimbi in attesa e tranquillità di animali denotano che non si tratta d’inosservanza di regolamenti né di un difetto del sistema di distribuzione né di emergenza per l’assenza di bottegai e neppure di un’economia di guerra per mantenere bassi i prezzi, ma di semplice, atavica tradizione. (torna)

...Savoiardi...

Le forze ammassate nel campo tarantino formano la nuova 35ª Div., o meglio i resti della 35ª Div., che nei giorni dell’offensiva austriaca aveva operato dall’Altopiano di Folgaria alla sinistra dell’Astico subendo vuoti paurosi, integrati dai resti del 61º e 62º Batt. Della Brigata Sicilia. Il tutto, sei brigate di fanteria, più altri corpi specializzati, al comando del gen. Petitti di Roreto già comandante la 35ª Div. In Trentino durante la Strafexpedition.

Al campo non cessano le congetture sulla prossima destinazione. Più fitto il mistero, più forti la curiosità e la voglia d’informare famiglie e fidanzate. Chi non se ne cura, chi si rassegna, chi si lagna che la truppa debba sempre essere tenuta allo scuro. Per non alimentare lo spionaggio, per boria degli ufficiali, per vanitoso gioco o semplicemente per ordini superiori?

Comanda in quel momento la 12ª Comp. Il tenente Baldassari, quel medesimo di Lugo di Romagna che in Val Lagarina aveva fermato Emilio mentre scendeva ad Ala. Alto e robusto, capelli biondo rossicci, occhi celesti, parlata femminea, guance pienotte e rosee come una formosa montanara, tale sembrerebbe anche per il portamento e forse per le tendenze se due virili baffetti di paglia non gli ornassero il labbro. Di buona pasta, pignolo nelle sue cose e ligio al dovere, gli piacciono le confidenze. In breve, Emilio gli gratta con finta noncuranza l’ozio della pancia finché non viene a sapere sotto giuramento del massimo riserbo che la brigata sta per intraprendere una lunga traversata fino a Salonicco.

Nel corso del’15 i franco-inglesi, sbarcati nella penisola turca di Gallipoli, hanno fallito l’impresa dei Dardanelli, e ora si trovano in difficoltà perché alla Turchia si è affiancata la Bulgaria. L’Intesa ha allora occupato Salonicco in una Grecia ancora neutrale per farne la testa di ponte di un nuovo fronte contro gli alleati degli Imperi Centrali, esteso dall’Adriatico al Mar Nero, da Valona a Burgas, e vi sta trasferendo i materiali e le truppe che, vista l’impossibilità di forzare lo stretto, ha deciso di sgomberare dalla penisola. Aggiunge il tenente che, avendo fin dal 21 agosto del’15 dichiarato guerra alla Turchia, l’Italia è ora impegnata ad aiutare nei Balcani i propri alleati Francia, Gran Bretagna, Russia e Serbia e, se le pressioni dell’Intesa andranno a buon fine, anche Romania. Ciò che non è in grado di aggiungere è che quella dichiarazione di guerra era già prevista dal segreto Patto di Londra. Ciò che non vuole aggiungere è che il nostro intervento risponde alla brama sabauda di partecipare al futuro, ricco banchetto di spartizione dei possedimenti della supposta perdente Turchia. (torna)

...e mare

8 agosto. Metà della 35ª Div. In attesa a Taranto, in prevalenza fanti per un totale di diecimila uomini, viene imbarcata su due transatlantici adibiti al trasporto degli emigranti nelle Americhe. Nelle stive sono state incastellate a quattro a quattro migliaia di brande. Per Emilio la permanenza laggiù è però impossibile, il caldo soffocante e il tanfo della moltitudine rendono l’aria irrespirabile. Per quei pochi dotati di ipersensibilità corporea, salire in coperta e restarvi diventa un immediato imperativo fisiologico, mentre tutti gli altri si adattano alla bolgia, e così è garantito l’ordine naturale delle cose, proprio come quando, allo stesso modo, i più sono in grado di completare un pasto in una mensa militare o, cosa meno difficile, aziendale. Ma ci sono anche quelli che non ce la fanno, e la loro differenza con chi riesce nell’impresa è forse qualcosa di più che una somatizzata presunzione. Emilio, fino a quel momento soldato obbediente, sempre in ordine con capelli e bottoni, decide senza indugio di trasferirsi sul ponte di coperta e qui restare all’aria pura giorno e notte per tutta la traversata a dispetto del mare, del vento, del tempo e degli ordini.

Ultimato l’imbarco di uomini, animali e cose, compresi i muli e alcuni bovini ancora vivi e vegeti tirati per la fune dai loro futuri carnefici, i transatlantici si muovono uno dopo l’altro e gettano l’ancora al largo. Su entrambi vengono effettuate le medesime operazioni, annunciate le stesse cose e impartiti i medesimi ordini. Ogni soldato è la copia d’ogni altro, e diecimila è solo il doppio di cinquemila, anche se a volte le quantità hanno fascino e oggetti uguali possono nascondere un’anima propria che accenna timida a sporgersi e in certe circostanze fa intero capolino e s’impone come autonomo mistero nel mare delle quantità.

Radunata la truppa sopra coperta, il capo della divisione, generale Petitti di Roreto, dà per altoparlante l’annuncio che la destinazione è Salonicco, che ai presenti è toccato l’onore di rappresentare l’Italia in terra straniera a fianco degli eserciti dell’Intesa e che, una volta a contatto con le altre truppe, bisogna sapersi comportare con correttezza e soprattutto in modo da emergere, sì da meritare l’ammirazione di tutti. Seguono istruzioni impartite da un ufficiale della nave sul comportamento in caso di attacco nemico, la distribuzione dei salvagenti, durante la quale molti fanno ampi e ripetuti gesti di scongiuro, e l’indicazione, compagnia per compagnia, delle corrispondenti scialuppe di salvataggio.

Nel cuor della notte, a bastimenti ancora fermi, squilla il segnale di abbandono nave generando panico e un parapiglia generale durante il quale solo pochi fortunati riescono a indossare in modo corretto il salvagente e a trovare la propria scialuppa. Si è trattato solo di una prova, magari crudele ma di prammatica, necessaria e sufficiente a rassicurare i comandanti delle due navi che tutte le istruzioni sono state regolarmente date, comprese e osservate. La mattina del 9 agosto i due transatlantici salpano scortati da quattro cacciatorpediniere. (torna)

Alto mare

Cielo nuvoloso, mare grigio e mosso. Costeggiando la penisola salentina i piroscafi si dirigono verso l’aperto Jonio. Il vento salato brucia gli occhi e schiaffeggia le guance a nervosi intervalli. I cacciatorpediniere corrono avanti e indietro come cagnolini attorno al padrone. Dall’alto sembrano barchette in difficoltà e invece, corsieri muniti di dissuadenti siluri, sono il conforto della truppa di cui distraggono il timore dell’insidia di qualche sommergibile. Quando si allontanano per accertarsi della libertà della rotta, i soldati, che ne seguono le evoluzioni ai parapetti, trepidano. Appaiono e scompaiono tra i flutti e quando sembrano inghiottiti riemergono con impeto levando al cielo il taglio della prua. Poi tornano a far festa come pargoletti attorno alla madre con gran baccano di macchine, fischi e soffioni finché l’esuberanza si tramuta in un composto rientro all’ordine a fianco della lenta, obesa navigazione dei due grandi vapori, capifamiglia che li sorvegliano, li frenano e li trattengono a sè. Quei quattro caccia, così pavoni in tempo di pace, parate e sventolii di bandiere da prora a poppa, così odorosi di vernice e suggestivi di lucori che si riversano nelle acque tranquillamente nere dei porti, sono adesso costretti a un serio lavoro e a nuotare circospetti e spogli d’ogni orpello, carichi di potenziale forza.

D’altronde, di metallo color mare e dello stesso potenziale sono anche le navi nemiche, e infatti, doppiato Capo Santa Maria di Leuca, tutti si accorgono di un mare perplesso, cosparso di relitti in mezzo ai quali spiccano argentei salti i delfini. Il giorno prima un cargo inglese era stato affondato da un sommergibile e i superstiti erano stati raccolti da un nostro peschereccio. A questa spiegazione i marinai di bordo aggiungono la preoccupante precisazione che il tratto da percorrere è infestato dai sottomarini tedeschi che hanno le loro basi negli anfratti della vicina costa greca.

Ma se i marinai conoscono la destinazione del viaggio, ne ignorano la rotta decisa all’ultimo momento dai comandanti. Invece di costeggiare il litorale greco per entrare nel Canale di Corinto, i piroscafi filano a sud nel cuore del Mediterraneo per circumnavigare Candia e risalire l’Egeo fra le Cicladi e le Sporadi. E mentre si perdono nella superficie, l’orizzonte si fa più vasto, il cielo più concavo, il tempo pulito e l’onda tranquilla. Al primo tramonto la volta pesa di rosso sul tessuto di zolle d’inchiostro solcato dai due bastimenti poco distanti che di tanto in tanto si lanciano fischi di gioia liberatoria scaricandola in mare con getti d’acqua e vapore. Nella scia e a prudente distanza dai gorghi spumano i delfini e coi colpi dei fianchi si dispongono ritti a interrogare i marinai che animano la poppa di quegli immensi cetacei della cui cena aspettano i resti in compagnia di squali in vorace attesa di squarci prodotti da nevi nemiche.

I piroscafi cuciono miglio per miglio la rotta mentre a bordo la vita si rivela varia e persino divertita da un teatrino dove si esibiscono succinte sciantose. Emilio disdegna quegli spettacoli e declina gli inviti insistenti del tenente Baffo di paglia preferendo intavolare sopra coperta muti colloqui col firmamento. Non guarda nel cielo con l’occhio curioso di cognizioni come durante le osservazioni celesti delle adolescenti notti veneziane ma col fiato di una passione amorosa tradotta in poesie del ricordo che con la matita si prova a imprimere su pezzi di carta. (torna)

Gorizia

L’alba del 10 agosto lo sorprende nel sonno con la schiena appoggiata alla fiancata di una scaletta. Apre gli occhi ai rumori delle manovre. La nave corre dritta in direzione dei primi bagliori. Salito sul più alto gradino permesso, spia il ponte di comando e i marinai che sorvegliano la navigazione. Dalle coffe le vedette scrutano avanti e incrociano le voci. L’alba schiarisce nel bianco e nero d’aurora, procede a colori e diventa il valore dei primi raggi. Il sole comprime nell’acqua luce e calore, o il mare lo tiene abbracciato, finché si libera come una parola e diventa bocca o pupilla contro il cui fuoco la prua dirige la calma o la fretta sbarazzandosi a dritta e a manca d’impedimenti di schiume. E’ l’ora in cui tutto è primo e tutto è oro, valori che col passare si corrompono nel dopo e nella pletora del giorno.

Uccelli si fanno incontro alle navi spiccando contro i secchi massicci di rocce che come una rossa spina dorsale dividono Creta, e al centro appare il Monte Ida, altissimo di fronte all’eterna stesura e alla fantasia di Emilio ricca non di ricordi scolastici ma di solitarie, tumultuose letture.

Il naviglio di scorta, allontanatosi da ore, riappare quando il sole è alto e i piroscafi puntano sulle Cicladi. Uno dei caccia si fa sottobordo e uno dell’equipaggio imbocca un megafono gridando qualcosa che non si capisce. A bordo del transatlantico si diffonde inquietudine per timore di qualche avvistamento, e c’è già chi pensa di montare in scialuppa quando vengono fermate le macchine e dal potente altoparlante del ponte di comando viene imposto un perentorio "Attenzione, fare tutti attenzione!", ciò che permette di udire chiaramente quello che il marinaio vuol comunicare: è appena stata captata la notizia che ieri, 9 agosto, le truppe italiane, traversato l’Isonzo, sono entrate a Gorizia. Dal transatlantico si levano urrà. Quelli del secondo bastimento, che segue a meno di mezzo miglio e si è pure fermato, si sforzano di decifrare quel trambusto indistinto portato dal vento, finché il medesimo caccia non si accosta anche a loro con la stessa notizia. Il viaggio prosegue con maggiore conforto. (torna)

Burrasca

Fra le Cicladi il cielo si oscura e un’afa di burrasca invade il dedalo delle isole rendendo l’aria appiccicosa. Il piroscafo prende a rullare e un paio di gabbiani che volano rasente la coperta s’impigliano in un intrico di cordami. Lo stormo che con tragico riso avverte l’imminente disordine dal quale si aspetta un abbondante pasto sui flutti, vira spaventato in un’unica impennata allontanandosi. Le onde si gonfiano preparandosi ad assalire la nave da ogni lato. Timoniere ed equipaggio raddoppiano la sorveglianza e il comandante impartisce ordini che i nostromi portano in giro. Le coperte di prua e di poppa vengono sgombrate dagli oggetti liberi e pericolosi. Cose e attrezzature vengono ritirate da tettoie e parti elevate, i boccaporti vengono chiusi e i marinai dislocati in punti strategici predesignati. Nel giro di pochi minuti le onde si alzano e si accavallano fino a superare le prime righe di oblò colpendo le fiancate con tale veemenza che il transatlantico sbanda, il pavimento sfugge sotto i piedi e qualche spruzzo raggiunge i parapetti. Nel cielo, indistinto dal confine marino, si sprigionano fulmini e rimbombano tuoni cui seguono fitti scrosci. Alcune ondate arrivano a sormontare la prua e si abbattono a picco cercando di trascinare con sè ogni cosa che incontrano, altre sembrano rincorrere e voler afferrare la poppa che sfugge per la spinta dell’elica.

Il piroscafo s’impenna con la bizzarria di un cavallo e ricade nel vuoto facendo salire nello stomaco dei soldati raccolti nelle stive un invincibile senso di nausea. Bianchi in viso e presi dal panico del malessere, corrono su per le scalette e si precipitano ai parapetti per liberarsi suscitando le risate dei marinai. Gli ufficiali del corpo di spedizione, temendo l’ilarità dell’equipaggio e ancor più quella della truppa, sono spariti nei loro gabinetti, compreso il generale comandante, inseguito con secchio e asciugamano dall’attendente. Emilio, che se ne sta sdraiato sul pavimento in luogo riparato e centrale dove le oscillazioni sono ridotte al minimo, viene sloggiato da un marinaio che gli intima di scendere nella stiva con gli altri. Alzatosi per obbedire, sente il sopraggiungere della nausea e deve precipitarsi al parapetto a sfogare conati irrefrenabili sottolineati dalle ironiche osservazioni del marinaio al quale, nel detergersi la bocca, rivolge insulti mentali. Un paio d’ore dopo la tempesta si placa rapidamente com’era cominciata. La furia dei venti fugge altrove, il mare rinfrescato si ricompone nel proprio grembo e, disteso nella sera estiva, rientra nel fodero del proprio manuale. (torna)

Thessaloniki. Sbarco...

 

Emilio passa la notte a brevi sonni, seduto o sdraiato sul ferro del pavimento di prua avendo per guanciale gli anelli della catena di un’ancora. La navigazione procede fra isole e scogli segnalati da luci e colori di fari e il tempo si muove come una sostanza che sfila fuori della nave. All’alba dell’11 agosto è avvistata la terraferma, e alle puntuali luci che da dritta illuminano la costa del golfo molti soldati, saliti in coperta con l’assonnata curiosità di un mattino presto sul mare, vedono a manca con occhio che non sa il vasto, disdegnoso allontanarsi dell’Olimpo col suo carico di Dei in disparte. Un paio d’ore dopo, confuso nel biancore del cielo, s’intravvede a picco sulla punta di prua il biancore più intenso di Salonicco alta che digrada con riflessi cromatici ai piedi del monte Chortiàtis. Sono presto distinguibili nel mistero dei nomi l’elevato Eptapyrion, le antiche mura con qualche torre ancora in piedi che abbracciano la città vecchia come per ripararla dal pendio del Chortiàtis, e la città nuova brulicante sul mare davanti a cui spicca la Torre Bianca, bianca di ricordi veneziani, o Torre del Sangue, rossa di ricordi musulmani.

I cacciatorpediniere han fatto ritorno alla base italiana e incontro ai due piroscafi vengono ora alcuni rimorchiatori e dei caccia inglesi e francesi pavesati a festa mentre i nostri equipaggi provvedono a pavesare anche i due transatlantici. La truppa ha avuto ordine di lucidare con lena, fiato e saliva tutto ciò che del corredo e dell’equipaggiamento è lucidabile, armi comprese. Gli ufficiali indossano la divisa più appariscente e persino i muli e un paio di bovini sopravvissuti alle necessità delle cucine vengono addobbati a sagra e patriotticamente infiocchettati con bandierine nostrane.

Il generale Petitti di Roreto è un bell’uomo imponente e autoritario quanto dev’esserlo il quintessenziato significato del grado. Se ne sta inchiodato sul ponte di comando attorniato dai suoi più alti ufficiali e da quelli della nave con una moschetta bianca che gli scende sulla nuca e gli prolunga il roseo viso paffuto dal quale parte per interno contrasto un’espressione serissima sostenuta da penetranti occhietti celesti protetti da candide sopracciglia. Dà ordine di far allineare i soldati sul ponte superiore equipaggiati di tutto punto in formazione di parata e quindi passa in rivista la truppa e grida dentro un megafono che bisogna sbarcare con ordine e fierezza ed eseguire con precisione gli ordini impartiti dagli ufficiali. Chiude il comunicato urlando: "Soldati italiani, il mondo vi guarda!". Infiammati dall’urlo, i soliti molti impongono i tre classici "Urrà per il generale!", dopodiché tutti attendono con pazienza un lentissimo attracco, e si avviano a un lunghissimo sbarco. (torna)

...e parata

Durante le ore di attesa sulla banchina viene consumato in piedi un rancio di fagioli in umido versati con un mestolo da cucinieri che con marmitte a rotelle si spostano rapidamente da una compagnia all’altra. Cucchiai e gavette, ripuliti alla meno peggio con pezzi di carta, vengono quindi ricacciati negli zaini. E’ dato l’ordine di ricomporsi e di marciare allineati nel più rigoroso silenzio. La parata si muove. Vengono attraversate le vie più larghe della città tra una folla assiepata sotto un sole cocente, che agita bandierine italiane, inglesi e francesi e grida evviva alternati ai quali Emilio percepisce le bestemmie dei commilitoni accaldati, spossati e assetati che lo precedono e lo seguono, accortisi che la sfilata, ora in discesa, ora in salita, non finisce mai perché vengono ripercorse sempre le stesse strade in modo da far apparire triplicato il contingente.

Se la folla dei civili, composta in prevalenza di donne e ragazzini, si comporta festosamente, non altrettanto può dirsi dei contingenti stranieri schierati ai lati del percorso in immobili plotoni con l’ordine di accogliere i diversi spezzoni della parata con i "Presentat arm!", e fra i quali spiccano molti soldati di colore. Vedendo i nuovi arrivati marciare con difficoltà soffocati dal caldo e dal peso degli zaini, l’ordine di porgere gli onori entra subito in contrasto con l’atavica tradizione di dileggiare le reclute, cui si aggiunge il bisogno di sfogare il proprio orgoglio su dei rivali giunti freschi freschi a rubare ammirazione dalla folla. A tutto si sovrappone la non buona fama di cui gli italiani godono all’estero dove sono conosciuti quasi esclusivamente come poveri emigrati.

Che gli italiani non siano graditi ai loro commilitoni stranieri è presto evidente. A uno stretto passaggio davanti a una tribuna gremita di autorità civili e militari, i componenti di un plotone francese si mettono a ridere e a chiamare i nostri "Macaroni!", al che viene risposto con sonore pernacchie cameratescamente tollerate dai tenenti che scortano la marcia. Venti minuti dopo, lo stesso plotone, di cui fa parte Emilio, si ritrova a sfilare nel medesimo punto, e i francesi ripetono con voce più sostenuta il dileggio seguito come un’eco da più incisive pernacchie. Qualche metro più avanti alcuni militari inglesi ostentano delle sterline d’oro fingendo di porgerle come un atto di carità. Allora uno dei nostri, sportosi verso la tribuna e allungata una mano, riesce a sottrarne lestamente una al canto di "Thank you!". Il britannico derubato impallidisce e gli corre dietro ricevendo solo calibrati spintoni. Mentre il plotone si allontana e l’inglese insiste nell’inseguire la propria moneta, questa passa velocemente di mano in mano tra ammiccamenti e occhiate d’intesa finché non trova riparo nel taschino di un giubbotto. L’inglese, disorientato, si mette a protestare con uno dei nostri ufficiali che aveva seguito la scena e che lo respinge fingendo di non capire cosa stia dicendo. Al terzo passaggio davanti alla stessa tribuna, i componenti del nostro plotone hanno accortamente rimescolate le posizioni per non farsi riconoscere. I francesi ripetono il solito insulto seguito dalla solita pernacchia mentre nel plotone inglese si notano volti lividi e induriti scrutare a occhi socchiusi e bocca stretta i nostri che sfilano come niente fosse voltando il più possibile la faccia verso l’altro lato della strada.

Un po’ più avanti alcuni scozzesi non risparmiano l’atto sconcio di girarsi e sollevare la loro muliebre e pagliaccesca gonnella. A questo punto, due o tre dei nostri, già inferociti dal caldo, dal peso e dalla sete, non ci vedono più, escono di scatto dalla formazione e si avventano sugli scozzesi sparando sui loro deretani calci stellari e prendendone altri a cazzotti. L’immediato intervento di ufficiali delle rispettive nazionalità impedisce che quella mirata spedizione degeneri in un parapiglia da saloon. Il plotone si ricompone e riprende il passo di parata. Emilio, spettatore e complice, è chiuso in mezzo agli altri e cerca di estraniarsi dal calore e dal peso osservando il meccanico procedere dei propri passi, la punta degli scarponi e i coriandoli che colorano la strada. Finalmente la biscia d’onore imbocca la via della periferia e si allontana nella polvere di una strada campestre. Alcuni chilometri, ed è raggiunta la zona riservata all’accampamento. E’ ormai sera e le operazioni di attendamento sono le ultime e più dure fatiche di quella giornata. (torna)

Terra civile o incivile?

Nonostante sia trascorso quasi un anno dallo sbarco a Salonicco degli anglo-francesi, all’arrivo del contingente italiano il nuovo fronte balcanico non è ancora stato messo a punto. Truppe e materiali vi sono stati trasportati dalla penisola di Gallipoli che, sottratta ai Turchi nell’aprile del’15, è stata sgomberata dopo aver constatato l’impossibilità di forzare i Dardanelli. Le truppe alleate sono già stanche e provate dalle precedenti campagne e per nulla animate da reciproco spirito di cameratismo. Oltre che da serbi, russi, romeni e italiani, sono composte da contingenti britannici e francesi ma, più che di insulari del Regno ed europei della Repubblica, si tratta di coloniali d’ogni razza e colore.

Gli accampamenti sono disseminati nei dintorni della città, ben distanti tra loro per evitare risse come fra selvagge tribù confinanti. Numerose sentinelle impediscono ai non autorizzati di allontanarsi, misura prudenziale a tutela non solo della reciproca incolumità delle truppe ma anche a difesa dall’ostilità della popolazione locale. Gli abitanti si possono dire civili solo perché non indossano una divisa militare. Tolte le parecchie migliaia di ebrei che popolano la città dedicandosi al commercio, gli altri sono dei miserabili abituati a un tenore di vita infimo e con tutte le caratteristiche di chi può essere usato come strumento per qualsiasi mala azione. Non vi è alcun motivo che dissuada questa povera gente dal fascino di qualche moneta, visto che tra i cosiddetti ideali che animano i popoli civili e la condizione primitiva di questi diseredati c’è un abisso. Che sul loro territorio vi siano francesi o inglesi, russi o italiani, fa lo stesso perché per loro sono tutti estranei occupanti coi quali non condividono nulla in termini materiali, morali e culturali. Il fatto che la Grecia continui a restare neutrale nonostante le pressioni ricattatorie dell’Intesa, contribuisce poi a dare risalto all’insofferenza e allo spirito di autonomia della popolazione. Nella Corte e nella nobiltà vi sono spiccate tendenze filogermaniche mentre nell’élite liberale si guarda a un’alleanza con l’Intesa come a un’occasione di revanche nazionalistica nei confronti dei nemici di ieri, Bulgaria e Turchia, ma anche al fine di poter metter mano alla modernizzazione del paese. In ogni caso, si tratta di ideali cui la massa locale resta totalmente estranea.

Il concetto specifico e neutrale, usato dalle scienze umane specializzate e banalmente trattato dai mass media e dalla cultura dilettante, secondo cui ogni popolo, per quanto primitivo, ha una propria civiltà, si scontra col diverso e generico concetto, più corrente, istintivo e basato sul buon senso comune, secondo cui si può parlare di civiltà solo per società ad alto grado di sviluppo. Si deve fare attenzione a non qualificare con lo stesso nome realtà diverse. La confusione tra concetti speciali e concetti generici è alla base delle pseudodiscussioni promosse dai mass media e aventi come protagonista la gente comune cui tali mezzi sono destinati, discussioni oggi tipiche nei moderni stati liberaldemocratici di massa basati sul consenso organizzato in regole, confusione dovuta alla normale e spesso presuntuosa ignoranza della gente che non è in grado di approfondire ogni argomento e perciò è facilmente manipolata ai fini del consenso stesso tanto che si può affermare che lo stato democratico avanzato è fondato anche su questo consenso-ignoranza. D’altra parte lo stato primitivo e quello illiberale sono fondati sull’ignoranza tout court o sulla violenza, che non presuppongono neppure il consenso. Riferendomi alla scarsa civiltà del luogo dove in quel momento si trovava il nostro contingente, ho usato il concetto in senso generico. (torna)

Terra straniera

L’accampamento degli italiani è collocato più in là degli altri in una plaga di stoppie appena ondulata da cui si scorge confusamente la città e più distintamente la striscia del mare. Sfiniti dalle surriscaldate fatiche della giornata, i soldati si addormentano sotto le tende provando brividi di sollievo nel respirare la brezza notturna ed accorgendosi appena di avere la schiena appoggiata su un mare di vibranti spuncioni.

La mattina dopo, in un’aria pregna di vecchi odori salmastri e molestata da insani insetti costieri, eppure straniera e nuova, la naturale curiosità spingerebbe chiunque a fare una scappata a Salonicco o almeno fino agli accampamenti stranieri più vicini, o a raggiungere la luce del mare, ma i fucili delle sentinelle fanno opera di dissuasione.

Di quei pochi che, insofferenti dell’isolamento, riuscirono a scivolare fuori dal campo per curiosare in città o altrove, più d’uno non fece ritorno, trovato svenato da un pugnale per essersi esibito in galanterie con una moglie di qualche greco musulmano, o strangolato da un ladro che gli aveva strappato il portafoglio, o trafitto all’addome in una banale lite da osteria. Oppure non venne più ritrovato. Episodi che alimenteranno prima fra le truppe e poi in patria la leggenda di una particolare reciproca avversione tra italiani e greci. E’ semmai vero il contrario, soprattutto oggi, cessati i travagli di due guerre mondiali. Tra i due popoli c’è simpatia, forse per affinità somatiche o similarità di consuetudini mediterranee. (torna)

In ventimila

I reggimenti restano prigionieri del loro infuocato accampamento e i carri che vanno in città a prelevare i viveri e le attrezzature vengono scortati da picchetti armati. Tutt’intorno nessuna sorgente, nessun ruscello, solo stoppie che ingialliscono anche gli occhi sotto un sole che cuoce le tende dal levare al tramonto, e sotto le tende un brulichio e turbinio di poche specie ma infiniti esemplari d’insetti, specialmente formiche, mosche e zanzare che si avvicendano secondo le ore. Di mattina, minieserciti di formiche al lavoro, entusiaste di aver scoperto un modo facile di approvvigionarsi per il prossimo inverno. In pieno giorno, quando il sole impedisce di uscire, sono sciami di mosche ingorde di qualsiasi cosa e qualsiasi parte del corpo abbia un qualsiasi odore. Di notte tocca a due specie di zanzare: la piccola, seminvisibile e tanto subdola e fastidiosa quanto comune e innocua Culex e la un po’ più grande ed elegante, terribile Anofele.

Dopo una decina di giorni in quelle condizioni, quando tutto lascia presagire che stiano per esplodere casi di idrofobia psichica, arriva l’ordine di disfare il campo. Intanto, trasportata dai medesimi transatlanti, sbarcata a Salonicco e avviata al medesimo accampamento, è arrivata l’altra metà della divisione, comprensiva di sezioni di mitraglieri e reparti di artiglieria campale con obici, portando il contingente a un totale di ventimila uomini. Il tutto accompagnato da pochi addetti alla Sanità.

Il 20 agosto 1916, alla luce del crepuscolo per evitare la canicola diurna, la 35ª Div. Inizia le marce notturne con destinazione nella regione del Kruska-Balkan, un centinaio di chilometri in linea d’aria a nord di Salonicco sul confine greco-bulgaro tra il lago Dojran e il fiume Struma stabilito dal Trattato di Bucarest del 1913 dopo una guerra persa dalla Bulgaria contro Serbia, Grecia e Romania. Salonicco resta in disparte, un mistero ancora da scoprire, un bianco ammasso fascinoso e inviolato, ed Emilio, sepolto in quella moltitudine di fanti, si sente deluso e avvilito. (torna)

Il sonno

Una dopo l’altra le compagnie procedono in colonna, un serpente che striscia nero e interminabile sotto le stelle ora sollevandosi, ora immergendosi nell’ondulato terreno. Durante le prime ore di marcia s’intravvedono a destra e a sinistra le luci, i fuochi e il disordine serale degli altri accampamenti. Poi, più nulla, ore ed ore senza un villaggio. Col passare del tempo i corpi rallentano e le menti si assopiscono. Le gambe ritmano lo sterminato numero di passi come stantuffi attutiti su un velo di polvere di cui si avverte l’odore ma non la sostanza, e producono solo un fruscio che copre la voce deserta dei grilli. La luce stellare distingue appena il pallore della strada nel nulla della pianura. La mente è ferma, gli occhi assenti, sembra di camminare nel vuoto. Anche l’alba sorge come un niente a rischiarare il nastro dei reggimenti che l’attraversano assorti senza vederla.

Raggiunta la prima tappa, il sole è alto. Mentre arrivano i ritardatari, vengono issate le tende, e tutti si gettano esausti sulle coperte distese per fare un po’ di morbido, ma non riescono a dormire che poche ore per il caldo. Fuori si chiama Druma, forse dal nome di qualche villaggio, ma non si vede niente, solo sterpaglie e resti di biade a perdita d’occhio in un silenzio mortale. Qua e là carogne di cavalli si cui gozzovigliano coppie di avvoltoi che tengono a distanza l’impazienza dei corvi.

A notte riprende la marcia e presto s’impadronisce delle membra un bisogno di dormire più impellente della fame, della sete e della rabbia, un desiderio di abbandonare il mondo, seducente al corpo e rassegnato alla coscienza, quel sonno subdolo che vince ogni forza e cancella l’istinto di conservazione. Gira un’altra ora, molti piegano le gambe, qualcuno si accascia a terra incurante di tutto, privo del timore di restare da solo, possibile vittima di un assalto di animali notturni o di un’aggressione di briganti. Verso l’alba i più resistenti si accorgono dell’apparire delle prime alture di Macedonia che pianissimo si dilatano sotto il lento binocolo del passo. Intanto, la distanza tra soldato e soldato si allunga e la colonna si dilata fino in fondo al possibile finché si spezza in numerosi tronconi. Interi plotoni stramazzano a terra falciati dai primi raggi e vi restano inerti nella forma che ha dato loro la caduta. Chi riesce a proseguire deve sopportare anche la fatica di scansare gli ammassi di corpi e zaini che ingombrano la strada. A giorno fatto, quelli che stanno ancora in piedi sono meno della metà e, raggiunta la seconda tappa, si lasciano cadere sulle sterpaglie senza la forza di stendere una coperta. Emilio è fra questi. Prima di abbandonarsi al suolo, riesce a leggere sopra un’asse inchiodata di traverso a un palo il nome di Akeklis e a scorgere intorno un villaggio di tuguri di fango, sterpi e sterco che sembra costruito da uccelli.

Al nuovo crepuscolo, ufficiali e sottufficiali, fatta la conta dei corpi, danno un fiacco ordine di proseguire che ha più la parvenza di un’esortazione, ma non riescono essi stessi a incalzare i soldati, e solo il massimo orgoglio impedisce loro di mostrarsi assonnati mentre alcuni, non sopportando oltre la veglia, hanno perduto ogni ritegno e restano immobili sui graffi degli sterpi finché nelle brume della sera non sopraggiungono le camionette dei superiori che, senza scendere e con voce rauca per gli urli e l’umidità, intimano loro di alzarsi minacciando di degradarli, impartiscono ordini agli ufficiali trovati in piedi e proseguono subito la ronda verso altri reparti. Hanno stabilito di fare una sosta di pochi minuti ogni ora. Chiunque ha gradi sulle spalline o sulle maniche deve impedire che la truppa si addormenti. Ma molti fantaccini non si muovono. Vinti dal sonno più profondo, neppure odono i soliti insulti e le rituali minacce urlate dai sergenti e finiscono con l’essere lasciati sul posto. All’alba seguente è dato ordine alla truppa marciante di procedere piano in modo da farsi raggiungere dai ritardatari in vista della terza tappa. (torna)

Il rancio di Amleto

Nel giro di qualche ora le colonne si ricompattano e dentro il solleone di mezzogiorno fanno fiacco ingresso ad Alezia, squallido villaggio impietrito sui primi fianchi dei monti Kursà, i cui contadini osservano le truppe con occhio bolso e curioso. Il battaglione di Emilio si accampa ai margini delle prime casupole su un terrazzamento che dà su un torrente dalle acque livide e le sponde sdrucciolevoli di una gelatina verde in cui i soldati scendono a immergere i piedi infuocati con schifo e sollievo. Risaliti all’asciutto, è ordinata la distribuzione del rancio.

Mentre tutti raschiano la propria gavetta, qualcuno nota che dal suolo affiorano qua e là grossi sassi lucidi che il sole fa brillare. Il più sospettoso va ad osservarne uno da vicino e col manico pignolo del cucchiaio vi raschia intorno un po’ di terriccio, e fa un improvviso salto all’indietro rovesciando su quel coso il contenuto della gavetta e urlando una bestemmia al femminile, al che quelli che lo stanno osservando, e subito dopo anche gli altri, si rendono conto di aver rizzate le tende e consumato il rancio nel bel mezzo di un cimitero. Molte gavette e cucchiai, comodamente deposti sui teschi affioranti, volano nel sottostante torrente assieme a rabbiosi insulti all’indirizzo di chi ha scelto per accamparsi proprio quel posto. Uno dei sergenti grida che lui non c’entra perché quello non è il cimitero del paese, che aveva già notato a monte delle ultime case.

Dopo una sommaria ispezione degli ufficiali, il posto è valutato un cimitero militare sicuramente di caduti di una delle precedenti guerre balcaniche. Vasto ma privo di qualsiasi segnalazione, più che un vero cimitero pare un deposito di ossa gettate alla rinfusa e superficialmente coperte dalla pietà del tempo. Gli ufficiali prendono nota e stabiliscono che, arrivati a Snewce, disporranno per una più decente sepoltura di quei resti. Il macabro incidente induce a toglier subito le tende e a riprendere la marcia in peggiori condizioni di fame, sonno e stanchezza. In serata, con l’aiuto degli ultimi sforzi di luce, si arriva al campo di Snewce, centro di raccolta e smistamento delle truppe alleate impegnate sul fronte del Kruska-Balkan, nei pressi del lago Dojran, dove tutti possono riprendere fiato e chiudere le palpebre per un tempo ragionevole. (torna)

Anopheles Maculipennis

La divisione è lasciata in pace per una settimana durante la quale fa la sua massiccia apparizione fra le truppe la strega maledetta che ha accompagnato segretamente i soldati nella lunga marcia dopo averli infettati nella piana di Salonicco, germe della palude, figlia del disastro militare e dell’incuria civile, che da sempre ristagna in quelle contrade. I brividi della febbre malarica pervadono i corpi e le anime, e l’unico ospedale da campo che fa tutta la Sanità della divisione si riempie di ammalati e di confetti di chinino. E’ solo la cima di un monte largo di tormenti per soldati senza mezzi di una guerra fatta a mano e a piedi con la pelle che comincia a farsi di cera e gli occhi che bruciano di falso carbone e ingialliscono di finto gatto.

Ma a Snewce ferve egualmente un’intensa attività militare. Le truppe inglesi che fino a quel momento hanno custodito il fronte rientrano e devono essere avvicendate da quelle italiane. La settimana di tregua e il meno soffocante clima pedemontano permettono ai nostri di riposare e procedere con calma all’impianto dei servizi logistici. Tutto è pronto per una guerra non nostra, per la difesa di una terra lontana e non amata, e i soldati non hanno voglia.

30 agosto. Il contingente italiano ha ordine di portarsi al fronte e si avvia attraverso inaspettate, amene collinette cosparse di villaggi e coperte da una fitta vegetazione di cui si sente improvviso il dolceamaro odore. Peccato che la malaria abbia ormai attecchito nella materia e nella volontà perché sarebbe l’occasione di godere, almeno per brevi intervalli, di un’ oasi naturale. (torna)

Oasi di Bashanlì

Marciano in silenzio nel paesaggio collinare tutto movimentato, solcato da voli di sacre cicogne che si radunano e si preparano al viaggio, loro incollati alla cipria stradale che penetra nel naso con l’amaro dei fichi costeggianti, e i vasti animali liberi e chiusi solo dall’orizzonte. Incontrano ogni tanto dolci respiri e sorsi di nenie cantate da contadine che trottano su somarelli e si lasciano dietro le spalle poveramente ricamate una scia di suoni d’amore come se sulle asperità di quei monti regnasse la pace. Ma in quelle contrade contese l’uomo vive fin dove il suo occhio vede o al massimo fin dove in poche ore lo portano le zampe del suo animale domestico. O forse vede di più, ma si contenta. Alla base dei colli campi arati e orti ben curati si alternano a frutteti e vigneti attorno a bianche casette con cortili dove gorgoglia acqua di fonte e si espongono al sole su graticci e spalliere le foglie del tabacco. Ambiente nuovo e fresco che attesta l’esistenza di gente operosa e socievole.

Una provvidenziale sosta di alcuni giorni nel grosso villaggio di Bashanlì dà a Emilio l’occasione di barattare molte grosse pagnotte, che nella cucina del campo abbondano, con galline, uova, fichi e dolcissima uva, che abbondano invece fra quelle colline. I contadini, superate le prime esitazioni, si recano all’accampamento a proporre con mimica eloquente i loro prodotti in cambio non di denaro ma di oggetti. Tutti i calzolai del paese vengono chiamati a rifornire il battaglione, stavolta contro sterline, del maggior numero possibile di scarpe nuove e a risuolarne tante quante ne possano in quei pochi giorni, dal momento che troppi soldati marciano ormai con gli alluci all’aperto. (torna)

Geografia e storia

Mattina di settembre. Gli italiani occupano le posizioni di prima linea di fronte al nemico bulgaro in località Hodja Malè al posto degli inglesi i quali, andandosene, li guardano con invidia, sicché i nostri ritengono che quel fronte non sia particolarmente pericoloso. Ne è conferma la quasi totale assenza di spari nei dintorni, salvo una lontanissima eco di cannone. Quello stesso giorno si odono però crepitii di fucile provenienti da Bashanlì, appena lasciato alle spalle, e poco dopo si viene a sapere che è stato un regolamento di conti tra una pattuglia inglese in ritirata e il podestà del villaggio che, già sospettato e ora colto in flagrante reato di spionaggio in favore dei bulgari, è stato passato per le armi.

Il nostro contingente è attestato a mezza costa sul versante nord-occidentale della catena del Kursà da dove può dominare lo spazio di una vallata che lo separa dal nemico insediato lungo la frontaliera catena del Kerkini segnante un tratto del confine greco-bulgaro e prosegue a oriente ampliandosi nella valle dello Struma. Sulla lontana sinistra echeggiano di giorno e lampeggiano di notte i cannoni anglo-francesi appostati sulle coste meridionali del lago Dojran, mezzo greco e mezzo serbo, in una zona che può considerarsi il centro geografico e geometrico delle Macedonie greca, bulgara e serba. Questa la geografia, aspra e malata.

Ma ficchiamoci un po’ nel caos della storia balcanica del periodo a ridosso della grande guerra, rigato da una serie di lotte d’indipendenza e affermazione condotte da nobili liberali e da più o meno nobili fanatici delle varie nazionalità ed etnie contro gli Imperi d’Asburgo e Ottomano, e a volte anche Russo, scatenate al fine di realizzare di volta in volta una grande Serbia, una grande Bulgaria e una grande Grecia. Con la vittoriosa guerra del’12 fatta in comune dagli stati balcanici contro i turchi, Grecia e Serbia si accaparrano la maggior parte della Macedonia a spese della Bulgaria. Nella perduta guerra di rivincita del’13 contro gli alleati di ieri, la Bulgaria deve cedere loro anche quel poco di Macedonia che le avevano lasciato, eccettuati la regione di Petric e un insignificante sbocco sull’Egeo. Nel settembre del’15 i bulgari si schierano a fianco degli Imperi Centrali sperando di rifarsi e ottenere uno sbocco al mare più sostanzioso. In breve, Bulgaria ed eserciti austro-tedeschi hanno invaso e piegato la Serbia e minacciano i confini greci. A oriente la Turchia ha bloccato i Dardanelli e isolato la Russia rendendo difficile la guerra agli anglo-francesi. Perciò le forze dell’Intesa si sono schierate su un fronte interminabile che va orizzontalmente dall’Albania al Mar Nero e di cui Monastir, il lago Dojran e il Kruska-Balkan sono i capisaldi. E questa è la storia, non meno aspra e malata e per giunta irrimediabilmente ripetitiva come le vicende di un formicaio. (torna)

Monastero di Deli-Hasan

A sinistra continuano i cannoni, a destra si disperdono in cielo i ripetuti ciuffi ed echeggiano gli intermittenti fischi delle locomotive che tra un colpo di cannone e l’altro trainano con coraggio i propri vagoni lungo la Macedonia orientale, la Tracia e, guerra permettendo, la Turchia europea fino a Istambul. Al centro della valle piagnucola il Bukova, torrente che più avanti si immette da una paludosa porta di servizio nello stesso lago nel quale entra maestosamente lo Struma proveniente dal cuore orgoglioso della Bulgaria. La vegetazione è ovunque rigogliosa ma accapigliata come una giungla e rivela l’incuria dovuta alle continue guerre.

Alcuni giorni dopo al battaglione di Emilio è ordinato di portarsi su un vicino promontorio che si erge sulla valle come uno sperone dal quale si può controllare la pianura dello Struma e sul cui orlo sorge, tozzo e appariscente, il monastero di Deli-Hasan che i monaci, esasperati dalle continue guerre di confine, hanno abbandonato. La truppa vi si accantona piazzando guardie a destra e a sinistra. La distanza dal nemico resta rassicurante, e il trovarsi a dormire in austere cellette contribuisce a dare al riposo dei soldati un senso di religiosa meditazione col quale anche Emilio si addormenta. (torna)

I lupi

Nel cuore della notte e di un silenzio che neanche i grilli osano profanare, si odono ripetuti ululati. Le sentinelle cominciano a preoccuparsi e scrutano il buio come cercando i nemici. Quando agli ululati si aggiungono rumori di frotte di animali al galoppo, puntano le torce e intravvedono fra i cespugli che lussureggiano a breve distanza tante fiammelle d’occhi che si spostano veloci tutte insieme da un lato e poi dall’altro come volassero avanti e indietro in una lunga gabbia. Improvvisamente tutti quegli occhi si rivolgono alle sentinelle e vi si avventano contro in un’unica fiaccolata. Le guardie non indugiano in allarmi e scaricano i fucili in direzione del branco che, pur scompaginato, prosegue per inerzia il galoppo fino a incunearsi fra le vedette. La pronta sortita di altre guardie che sonnecchiavano dietro il portone in attesa del turno, e i loro spari all’impazzata, più che far vittime fra i lupi, li disorienta, li fa desistere e ripiegare nel vicino boschetto. Qui le bestie si fermano, si radunano e, spinte da una brama che non dà tregua, riprendono la corsa avanti e indietro dando l’impressione di voler ritentare l’assalto da un momento all’altro. Le sentinelle non perdono tempo. Trascinata fuori una mitragliatrice, tempestano di fuoco il branco che fugge lasciando fra i cespugli numerosi corpi.

Notte dopo notte tutti i reparti della zona si accorgono di essere insidiati da un nemico più temibile dell’esercito che li fronteggia, un nemico affamato e inferocito che, diviso in squadre, s’insinua tra una vedetta e l’altra aggredendole, filtra negli accampamenti divorando tutto ciò che trova e getta scompiglio nelle retrovie penetrando persino negli ospedaletti da campo attirato dall’odore del sangue. Animali che nella prolungata assenza dell’uomo sono proliferati in un esercito che, guidato da propri caporali, spadroneggia nell’oscurità delle colline e, questa è la nota positiva, contribuisce a mantenere distanti tra loro gli schieramenti nemici tenendoli costantemente occupati a trasformare la guerra in caccia. Gli spari che a lungo echeggiano fra le montagne sono sempre rivolti contro questi branchi di fiere randage che con i loro ululati riempiono di tristezza le calde notti di fine estate, si’ che tutta la valle piange del loro pianto. (torna)

Vendetta dei lupi

Il Comando di Divisione, informato dell’improvviso ostacolo e innervosito per quest’impedimento di madre natura, ordina che ogni battaglione organizzi battute di caccia ma poi, visti gli scarsi risultati e considerato il pericolo che per l’incolumità dei cacciatori costituiscono quelle pattuglie partigiane a quattro zampe risolute a difendere il proprio territorio e a saziare a qualsiasi prezzo il terribile appetito, passa a metodi più radicali e subdoli. Attorno al monastero, nelle boscaglie vicine e lungo tutta la linea del fronte vengono disseminati pezzi di carne di cavallo iniettati di stricnina, e già dalla prima notte gli ululati scemano e via via si riducono a quelli sempre più tristi di quei pochi e più deboli esemplari cui per ragioni di gerarchia naturale è stato dai propri capi branco impedito di cibarsi di quella manna di proteine caduta dal cielo. Le ispezioni rivelano che dappertutto giacciono corpi di lupi e sciacalli straziati dallo spasimo del veleno, unico e definitivo ristoro alla fame che l’uomo possa loro elargire, sui quali banchettano con fragore i rapaci del luogo rischiando di fare la fine delle loro stesse prede.

Ma ben presto l’alto numero di carogne decomposte ai raggi macedoni di un sole ancora estivo appesta l’aria delle colline. Gli sparsi e immoti branchi ululano vendetta e si liquefanno diffondendo col fetore e l’ausilio di ogni possibile mezzo, aria, insetti, vermi e rivi, gli atomi infetti restituendo ai carnefici la punizione ricevuta.

All’epidemia di malaria che imperversa intermittente e a quella di tifo castrense che comincia ad apparire nelle trincee per la sporcizia e il vestiario infestato dai parassiti, si aggiungono epidemie di tifo addominale e di epatite. Molti soldati si presentano itterici, gialle le guance e le orbite e di croco la cornea degli occhi mentre altri si contorcono dai dolori al ventre e provano il ribrezzo della febbre. L’unico ospedaletto da campo che, quasi fosse un ricovero per rare eccezioni di umani degenerati da una massa di superuomini immuni da tutto è stato concepito per contenere solo una cinquantina di brande, ne ospita più di duecento. Nessun rinforzo di medici né di infermieri. I malati sono in pratica assistiti dai propri camerati che hanno l’incarico di somministrare loro confetti di chinino e di bruciare all’interno del tendone polvere di piretro cosa che, se tiene distanti le anofeli, intossica tutti. Intanto, utilità della guerra, il personale sanitario è impegnato a sperimentare sui malati di tifo un vaccino che pare dia buoni risultati. (torna)

Una piacevole invasione corazzata

Diradatisi i lupi, la zona è invasa dalle testuggini di cui erano già stati notati in giro numerosi esemplari che, si diceva, avevano fornito succulento cibo agli inglesi. Gli italiani, cui la sola idea d’immergerle in pentola fa ribrezzo, si divertono a giocarci assieme improvvisando lente gare di corsa come bambini con le automobiline. Di media dimensione e, può darsi per la stagione propizia, numerosissime, tutti se le trovano fra i piedi, e anche Emilio, che non aveva mai vista una così grande quantità di bestiole così dure e pur così teneramente simpatiche, passa molto del suo tempo tranquillo a osservarle mentre cigolano fra i sassi di ogni sentiero.

La stagione gira col suo ritmo millenario, e allora i soldati vedendo la pioggia ricordano il proprio paese d’autunno. Pioggia, alberi, monti, la materia è la stessa e ricorda sempre qualcosa, ma questa è una guerra diversa. Si sentono stanchi, lontani, si osservano perdere anni di gioventù, e sperano almeno che anche la guerra, così come il corpo, si esaurisca presto. Si avvicendano tra guardia e riposo e ogni tanto vengono mandati in ricognizione. In ottobre il battaglione è trasferito al vicino posto di Dedelì, poi a Karasouli Nord e in novembre a presidiare Ezendzili, rimanendo sempre ai margini della vallata del Bukova dove pare si debba trascorrere il secondo inverno di guerra.

Verso fine mese anche Emilio è colpito da febbri e sudorazioni malariche. Il medico, dopo averlo imbottito di chinino, lo fa trasportare in autoambulanza all’ospedaletto 141 di Bashanlì. Il giorno stesso del suo ingresso la febbre scompare ma il furiere è trattenuto in osservazione. Passa il tempo a chiacchierare con un ufficiale francese ricoverato a seguito di un pauroso accesso di febbre capitatogli durante un giro ispettivo.

Il 25 novembre rimbalza sulle brande la notizia che la nostra divisione deve cambiar fronte e che il battaglione è già rientrato a Snewce in vista di un’adunata generale. Emilio ottiene subito il permesso di ritornare alla sua compagnia che raggiunge il 27 novembre alle soglie del nuovo inverno. (torna)

Ancora un po’ di storia

28 novembre. La divisione si allontana dal fronte del Kruska-Balkan. In un primo tratto la strada coincide con quella percorsa tre mesi prima. Lo scopo è raggiungere Monastir nella Macedonia serba per aiutare l’Intesa a ricacciare indietro gli austro-tedeschi e i bulgari che nell’ottobre del’15 avevano battuto, disperso e costretto a rifugiarsi in Albania l’esercito serbo. Fin dall’agosto del’15 l’Intesa aveva cercato di coinvolgere contro la Turchia, oltre alla Romania e alla Grecia, anche la Bulgaria allettandola con la parte di Macedonia che, dopo la perduta guerra del’13, il paese delle rose aveva dovuto cedere alla Serbia. In cambio, la Serbia avrebbe ricevuto compensi in Croazia, Dalmazia e Albania a spese dell’Italia. Ma l’intervento bulgaro a fianco di Austria e Germania aveva mandato a monte il progetto mentre gran parte della Macedonia serba passava egualmente in mano bulgara grazie ai successi militari bulgaro-austro-tedeschi.

A questo punto era nato un dissidio tra il ministro degli esteri Sonnino, favorevole a un intervento in aiuto dei serbi mediante uno sbarco in Albania a tutela dei nostri più vicini interessi balcanici, e Cadorna (leggi monarchia), favorevole a una spedizione nella Macedonia greca a garanzia dei nostri più lontani interessi medio-orientali in previsione di una più equa spartizione dell’impero ottomano già impostata dagli anglo-francesi a proprio vantaggio. Se nel dicembre del’15 l’aveva spuntata Sonnino con l’invio di un corpo di spedizione a Durazzo dove i resti dell’esercito serbo erano stati raccolti dalla nostra flotta, nell’agosto del’16 aveva la meglio Cadorna che riusciva a inviare a Salonicco la divisione di cui sto narrando le vicende. Verso la fine del’16, mentre gli anglo-francesi ottengono vari successi nel cuore dell’impero ottomano e in Macedonia orientale le operazioni ristagnano, nella Macedonia occidentale, dove gli invasori hanno concentrato le loro forze, la guerra infuria. Viene perciò deciso di dirottare la 35ª Div. Italiana sul fronte di Monastir. (torna)

Le mille e una marcia

Tra il fronte del Kruska-Balkan e quello di Monastir c’è un disgraziato spazio di oltre centocinquanta chilometri di pianure e montagne più o meno desolate, antichi ricordi di spazi e pietre dell’imbarazzo primordiale. L’autunno ha portato con sè un tempo orrido di piogge insistenti che cominciano a cadere nello stesso momento in cui le truppe si mettono in marcia da Snewce. L’equipaggio è misero e sfruttato e i servizi di rifornimento si rivelano presto insufficienti. I teli da tenda sono consunti e laceri, i soldati hanno le scarpe rotte, sono stanchi, sudici e torturati dai parassiti. Prima d’incontrare le salmerie con le scatolette di carne e le gallette destinate a rinnovare la riserva personale, la divisione percorre una quarantina chilometri, dopo di che le varie unità proseguono con mezzi, ritmi e destino propri dandosi appuntamento a Monastir. Le marce si fanno di giorno in un’aria satura di umidità e pazienza sul nastro di un presente continuo scorrente in un orizzonte di piani e rilievi che si scambiano solo le posizioni, eguaglianza infinita di uomini e sassi. Nessuno deve fermarsi, ogni soldato è braccato, i sottufficiali autisti bevono gli ordini degli ufficiali di grado e sollevano ventagli di melma con camionette veloci che abbaiano la fretta alle truppe ubriache di fatica.

Il Comando ha certo le sue disumane ragioni per far intraprendere una marcia di oltre centocinquanta chilometri a un esercito ridotto in quelle condizioni, ma il fatto che per alcuni lunghi tratti del percorso funzioni una ferrovia e che le nostre truppe non ne possano usufruire lascia perplessi. In tutte le religioni vi sono misteri risolti solo dagli iniziati. In quella del soldato gli arcani sono svelati a un esiguo numero di persone con molte tracce di potere sulle spalline. Alla truppa resta il conforto della fede o la speranza nella chiaroveggenza dei superiori oppure, se è ancora in grado di discernere nonostante la vita ottusa che conduce, l’orgasmo di un’indignazione che, appunto come un orgasmo, dura pochi secondi e non modifica nulla. Se non fosse che una malignità, dal momento che la cosa non è certa, si potrebbe supporre che i convogli siano riservati alle truppe bianche anglo-francesi che percorrono il medesimo itinerario. Certo è che parecchi reparti di colore vengono visti marciare nelle stesse condizioni degli italiani. E dove non c’è strada ferrata c’è almeno una strada impolverata solcata dai balzi degli autocarri dove c’è posto soltanto per rosei figli di Albione e campagnoli volti di francesi dall’occhio incoccardato da lampi napoleonici.

Verso sera e sotto la pioggia si raggiunge Gramatna, ma molti restano seminati lungo la strada. Quelli che riescono a trascinarsi crollano al campo in nottata o l’indomani, gli altri restano dove si sono accasciati e vengono raccolti dalle camionette della Sanità. Il Comando, forzato dalla fretta, sollecita il proseguimento, ma poi deve per forza di cose dare ascolto agli ufficiali più vicini alla truppa che riescono a farsi accordare una sosta di due giorni durante i quali è possibile ai militi asciugare sotto le tende al calore della pelle i fradici vestiti e le proprie povere cose. (torna)

Fino a Topci

1º dicembre. La marcia riprende sotto l’imperversare di pioggia e malaria, tutti avviliti in una sola, comune condizione. Sotto il cappuccio stracciato delle tende le anofeli hanno succhiato le braccia abbandonate come alghe morte sul fetido stagno dei corpi. Molti malati sono rimasti a Gramatna nell’ospedaletto privo di tutto, altri hanno preferito proseguire con la febbre sperando in un migliore ospedale o in una migliore sosta, così che durante la marcia una parte della truppa è impegnata a sostenere l’altra di fantasmi incoscienti che arrancano meccanicamente. Ogni traccia di rilievi è sparita, si avanza in un piano di melma che incolla le suole, e intorno gracidio di paludi.

Due giorni dopo è raggiunto dalle avanguardie il paese di Sarigòl. Gli altri vi arrivano in lenta processione. Qui è concessa una sosta di qualche giorno durante la quale la Sanità spedisce con le autoambulanze a Salonicco i malati più gravi e la Sussistenza distribuisce viveri di riserva buoni per un paio di giorni, mentre arrivano muli con cucine da campo, pane, pasta e carne.

6 dicembre. La marcia riprende sotto una pioggia dirotta su strade torrenti di fango. Alt a Nares per riprendere il mattino seguente nelle stesse condizioni di clima e di spirito giungendo verso sera a Topci, tutte località che non hanno né case né un qualsiasi riparo, ma solo un nome. L’8 dicembre la marcia continua verso Jenitze-Vardar, lasciando per strada sempre più soldati coperti di fango. E così, marciando e marciando, di nome in nome si va avanti.

La fretta con cui il Comando vuole riversare le truppe nel crogiolo di Monastir, occupata dall’Intesa e al centro di furibonde battaglie, non dà più il tempo di attendere i ritardatari che ormai vengono racimolati anche dalle autoambulanze anglo-francesi che come una meccanica scopa perlustrano su e giù l’itinerario per ripulirlo dai soldati infetti e trasportarli all’ospedale italiano di Salonicco, capace di duecento letti, e dove si vanno già accumulando uno sull’altro molte centinaia di malati. (torna)

Alessandro

La regione che stanno attraversando è pressoché priva di strade se non le poche che gli eserciti dell’Intesa hanno con criteri di provvisorietà tracciato sulla polvere per i loro scopi. Le piogge, secondo il destino naturale dei luoghi e della stagione, cadono inesauribili rendendo le campagne paludi e le strade torrenti. Poco dopo aver lasciato Topci, s’incontrano qua e là numerosi resti di quella che era stata la Via Egnazia che collegava Durazzo a Salonicco. Sono ancora al loro posto le lastre di pietra che due millenni prima avevano deposto le legioni romane, ma le nostre legioni devono accontentarsi di più modeste strade di fango.

Al centro della mattina smette come un miracolo di piovere e un chiarore improvviso inargenta le nubi. Un raggio fa breccia sopra vicini riflessi d’acqua, ma un attimo dopo un rabbioso tampone lo richiude, lo sigilla di nero e ordina nuove piogge. In quel capriccio di luce la truppa aveva raggiunto la riva di un primo ramo del Vardar in un punto in cui questo si allarga quasi a formare un lago, e nelle reminiscenze storiche del marciante poeta Emilio era apparsa come in sogno l’immagine di un fanciullo che si bagnava in quelle acque, sicuramente d’estate, traendone tutto lo straordinario beneficio e l’eccezionale vigore necessari a farne il più grande e fortunato condottiero di Macedonia. Ma la vista delle contingenti condizioni del luogo battuto dal maltempo e invaso dal fango fa immediatamente ripiombare l’anche pratico furiere nell’avvilente realtà: le piogge hanno talmente ingrossato il fiume che l’acqua ha oltrepassato largamente le due sponde e scavalcato di almeno mezzo metro il ponte che le collega.

Non vi è tempo di attendere un decrescere delle acque, che semmai tendono a crescere, e dai nostri condottieri è imposto l’ordine perentorio di attraversare egualmente il ponte facendo bene attenzione, oltre che a se stessi, a guidare i muli al centro dal momento che è privo di parapetti. Per non farsi travolgere dalla corrente, i soldati si sorreggono tenendosi per mano in una lunga catena riuscendo a passare indenni. Lo stesso non riesce però a molti infelici quadrupedi che, stracarichi d’ogni cosa e abbandonati a se stessi, scivolano fuori dal ponte finendo travolti dai gorghi.

Poco dopo è raggiunto Jenitze-Vardar, finalmente un vero villaggio abitato chiuso nel suo piccolo territorio di isoletta tra due rami del fiume, a conclusione di una tappa che alla già traboccante fatica di prima ha aggiunto altri chilometri di indicibili sofferenze per non portare il nostro ormai intemibile esercito che a molto meno di metà strada. (torna)

La fame

La brigata cerca il riposo del rancio in un angolo dell’isola tutto sassi e privo d’ogni risorsa. Nel pomeriggio vengono chiamate donne del paese perché in cambio di qualche pagnotta ricuciano, anche alla buona, gli strappi più vistosi alle tende. Le donne, cui per farsi capire è stato mostrato un telo lacerato, arrivano coi loro bambini che si mettono a correre e giocare fra i malati febbricitanti inchiodati a terra chiedendo loro bocconi di pane. Il lavoro procede fino a tarda sera. La notte trascorre frustata dal maltempo come se pioggia, vento e fiume volessero portar via anche l’isola. Al mattino, il campo levato e pronti a ripartire, piomba come un sasso la notizia che non si può più proseguire perché le piogge hanno talmente ingrossato il fiume da rendere impossibile il secondo guado. Il Comando non ha i mezzi per risolvere il problema e si è risparmiata la fatica di condurre qualsiasi preventiva indagine morfologica e metereologica del tracciato e di elaborare la benché minima previsione.

Una volta inculcata la frase d’ordine che deve accompagnare la truppa fin dal principio di quella avventura, che è "Andare comunque, anche allo sbaraglio", la medesima dovrebbe essere mantenuta fino alla fine. Senonché, non volendo distruggere con la propria insipienza il suo stesso esercito per la sola ragione che mancando all’appuntamento del prossimo macello di Monastir la monarchia perderebbe titolo a partecipare alla spartizione del futuro bottino di guerra, il Comando decide di sopportare un ulteriore ritardo nel progetto e ordina per radiotelegrafo l’attesa così come si può ordinare a qualcuno di non suicidarsi.

Bloccati e isolati a Jenitze-Vardar, i nostri fanti fanno presto conoscenza con un altro cavaliere dell’Apocalisse, altre volte incontrato ma non ancora fino in fondo sopportato. Il contingente resta in quella contrada i sette giorni dal 9 al 15 dicembre esaurendo nei primi tre la scorta delle cucine, le cassette di carne che qualche mulo fortunato nel guado tiene ancora pendenti ai fianchi, e la dotazione di riserva personale. Non resta altro che requisire qualche sparuta gallina, le pecore e le capre dell’isola le cui legnose, selvatiche carni servono soltanto per un altro giorno se si tiene presente che per sfamare per alcuni giorni una brigata di sei mila uomini, per quanto ridotta dalle perdite, non basterebbe una di quelle floride mandrie che sugli schermi guadano, muggendo i loro inni al sole, i fiumi texani, e che tanto sarebbero piaciute al futuro e agiato signore di mezza età e mediatore in carboni Emilio Magnanini.

I tre successivi giorni sono dedicati prima alla pazienza e poi alla sofferenza. Non vi è più nulla, solo acqua fangosa che scorre da tutte le parti. Verso l’alba del 16 dicembre la Sussistenza riesce a guadare il primo ramo del fiume, le cui acque hanno cominciano a decrescere, e a distribuire affannosamente le sue pagnotte nere e ammuffite, metà pietra e metà poltiglia, divorate anche dai contadini del posto che come cani randagi si sono radunati con donne e ragazzini nei pressi del campo in attesa di una qualsiasi forma di restituzione del loro credito. Subito dopo viene squillato a quel corpo stremato e denutrito l’ordine di riprendere la marcia. (torna)

Cosa vuol dire fontana

La cultura è un sogno intenso come il denaro ma povero e perdente. E’ una povertà riservata a pochi. I tanti che ci fanno i soldi, barano e lo sanno, soggetti contraddittori e dissociati, oggetti falsi venduti al piacere della massa. Al tempo che fu era invece una realtà ricca e vincente, pur sempre contata sulle dita, ma di una mano potente.

Con un altro giorno di marcia in questo discorso al limite ideale ma non romantico, Emilio e la brigata raggiungono il villaggio di Alaklike, ai margini dei ruderi di Pella. Il furiere, forse l’unico della truppa a rendersi conto di quali vestigia l’ignara fila di formiche armate stia calpestando il suolo, nota qua e là i marmi mutilati di statue, fregi e colonne disseminati nell’erba come un silenzio dopo una musica, e anche stavolta, marciando e marciando, viene colto da immaginosi ripassi storici ma, anche per l’evidenza dei resti, anziché fantasticare in solitudine, ne fa partecipe il tenente al suo fianco cui accenna agli immobili, formidabili fatti che quel silenzio custodisce. L’ufficiale, istruito e sincero, gli stende e tiene un braccio sulle spalle, e durante i reciproci ricordi di letture che si scambiano, la nascita di Alessandro, la congiura di palazzo che tronca la vita di Filippo e altri episodi ancora, gli affiora l’espressione di pazienza che il senso di un inesorabile destino di decadenza provoca negli uomini colti.

Notano un cumulo di pietre corrose e muscose da cui sgorga abbondante acqua. A fianco di quel vivo rudere un’iscrizione informa in greco moderno e in inglese che si tratta dei resti di una fontana monumentale fatta erigere da Alessandro. Come i re fanno coi popoli scherzando e barando con la loro sorte finché essi stessi non vengono travolti dal gioco, anche la storia si è divertita, e dopo aver irradiato una grande civiltà, si è capovolta, sgretolata e ristretta in quelle poche pietre mormoranti che il tenente indica ai soldati invitandoli ad avvicinarsi. Si fanno intorno quelli del suo plotone e osservano quel recinto di storia non con l’ingenuità di fanciulli selvaggi incantati attorno a un moderno prodigio della tecnica di cui non capiscono niente ma avvertono la potenziale magia, ma con l’annoiata indifferenza di chi per abitudine obbedisce a degli ordini. Solo negli occhi di qualcuno più attento fissi sul prato si sveglia una breve curiosità di filo d’erba.

Dopo qualche attimo di distrazione e sorsi d’acqua, riprende la marcia attraverso quella terra famosa diventata terra di malora che lo stesso guerriero protettore non saprebbe più riconoscere. Ma se per caso la riconoscesse, rinnegherebbe forse d’un sol colpo tutto ciò che la linfa di Aristotele gli ha insegnato o non piuttosto la dedurrebbe in quello stato proprio da qualche teoria del maestro? (torna)

Forza del destino

Il calvario continua come un filo di ferro fino a Vertekop, Vodena e Vladova , e intervalla le spine con soste di poche ore di fango. La teoria di ammalati allunga la coda, prolunga le marce e riduce la consistenza valida dei reparti a una scarsa avanguardia. Vodena è la prima cittadina serba incontrata, e Vladova un pittoresco villaggio. E proprio qui, mentre il calendario segna il 17 dicembre e la truppa è allineata senza fiato, pronta a riprendere la sua eterna e finora unica funzione di marciare in quelle semisperdute solitudini ora inutilmente belle, passa davanti a Emilio un ufficiale a cavallo con la greca di generale, che il furiere riconosce subito pur nel dubbio del grado. Fin dalla partenza per la Macedonia Emilio ha perso di vista i commilitoni suoi compagni dell’avventura trentina eccetto qualcuno del suo battaglione e qualcun altro della sua compagnia coi quali condivide quell’infernale esilio. Degli altri, ufficiali e non, di cui molti si trovano pure in Macedonia ma nei reparti delle altre brigate, non ha più incontrato nessuno nonostante durante le lunghe marce abbia tirato il collo e aguzzata la vista. Ma proprio colui che mai più si aspetterebbe di rivedere sta passando in quel momento sotto il suo naso. Come può essere che il suo vecchio capitano piemontese, quello sempre col megafono a tracolla, quello che aveva trionfalmente attraversato il Ponte Caffaro alla testa delle truppe al canto di "Va fuori d’Italia...!", e che si era dato molto daffare a racimolare per casa propria le cose altrui, sia diventato generale nel giro di un anno e mezzo? Eppure non s’inganna, è proprio lui, ne ha conferma riconoscendo misura, colore e passo del suo cavalluccio, sempre il medesimo e ancora ronzino semplice. Con una breve rincorsa lo raggiunge, lo supera e gli si pone davanti. L’ufficiale lo squadra seccato, lo riconosce e il viso gli si secca ancora di più, e lo saluta con registro di baritono freddo. Il furiere ci resta male e lo ricambia con un saluto verbale altrettanto freddo aggiunto a quello militare. La tomba si è scoperta e il morto si è levato ma, anziché risorgere da martire, è stato premiato con un ghirigoro sul berretto come un giro d’alloro di poeta dell’arte del comando, anzi, giullare dell’arte militare, anzi ancora, poeta dell’arte di arraffare...pensieri veloci che traversano la mente di Emilio come nuvole cariche.

Detto fatto, il generale guarda avanti, strattona le briglie per dire al cavallo di muoversi e al furiere di scostarsi, e prosegue col solito cipiglio, contrariato dalla disdetta che ha permesso di sopravvivere a chi lo ha conosciuto misero capitano sempre alle prese coi debiti ed è stato complice dei suoi meschini, contabili trucchi. (torna)

Buona occasione

18 dicembre. I resti della brigata raggiungono Ostrovo, in riva all’omonimo lago. Quel giorno la strada è corsa tutta a fianco di una linea ferroviaria a maggior dileggio dei fanti appiedati cui la fatica è parsa più grande. Sulle colline a nord del lago, da dove si spazia su uno specchio che sembra aiutare i soldati spingendoli in alto ogni volta che si girano a guardarlo, la fila sale e scende poi a Banica per accamparsi. Il giorno dopo, altra stremante fatica finché, dopo i singulti di ventidue giorni di marce battenti e spezzate, il coro delle tende s’inchioda a Negorani, alla cui crosta boscosa resterà aggrappato fino al 28 dal momento che nessun ordine, fosse pur dato dal Re in persona, potrebbe far proseguire oltre la truppa senza annientarla.

Qui Emilio incontra il secondo Natale di guerra, ospite freddo in mezzo a tutti i suoi sfiniti compagni, coperto di povero nevischio che subito si scioglie in acqua senza odor di ricordi, appena sapendo che si chiama Natale, e qui subisce ancora una crisi di febbre malarica. Ma il sanitario del reggimento col quale si è spesso intrattenuto da amico gli confida di non poterlo mandare in ospedale perché ha l’ordine di far ricoverare solo i più gravi.

29 dicembre. Riprendono le marce. E’ appena stato superato un cartello che dice "Verso Brod", quando il medico si avvicina al plotone in cui Emilio è rinchiuso, lo tira fuori col braccio, gli indica due spettri di soldati in piedi fermi in mezzo alla strada e aggiunge a bassa voce che può farlo riposare per qualche settimana perché ha l’occasione di affidargli due malati gravi da reggere sottobraccio fino all’ospedaletto del vicino villaggio di Eksissù. Coi tre ordini di ricovero ben piegati in taschino, Emilio e i due malati attendono sul ciglio della strada che sia terminato il passaggio delle truppe, e quindi si avviano.

Piove e ripiove a pochi chilometri dai cannoni di Monastir, dei quali si odono le voci rauche che chiamano rinforzi. Emilio è serio sugli occhi ma dentro sorride. Quel provvidenziale intervento arriva giusto, estratto e solitario come un terno in piena campagna. L’inferno del fronte sembra poter fare a meno del suo fucile al quale non dà più nemmeno il grasso. Si sente più utile così, ai due malati gravi che gli si appoggiano addosso uno per spalla coi volti accesi e gli occhi infuocati formando un unico gruppo di sofferenza. E’ contento, ha intravisto uno spiraglio di salvezza, sa che il suo destino è incerto come dentro un mazzo di carte, ma spera che sia l’inizio di una di quelle mani fortunate che esaltano i giocatori. E io so che in quel momento abbandona per sempre fronte, reggimento e compagnia, altro regalo della sua buona stella. Si può invece soltanto intuire quale triste fine il destino abbia riservato ai suoi camerati. (torna)

A Eksissù cala la seconda tela

Raggiungono l’ospedale numero 150 di Eksissù dopo alcune ore trascinate. Nessuna buona accoglienza, nessuno vuole saperne. Il ricovero è strapieno, e un caporale imbarazzato li manda da un sergente che li scarica seccato sul maresciallo che inveisce e li rimanda dal caporale. Un infermiere pignolo dagli occhiali in vena di spiegazioni precisa che non ci sono più brande né coperte né paglia e neppure un angolo libero per terra e tanto meno roba da mangiare, e aggiunge con enfasi che per dare il pane a loro dovrebbe toglierlo di bocca agli altri. I tre ascoltano il comizio in silenzio, soffrendo per terra accanto agli zaini come accattoni sulla soglia di un convento.

Giunta sera, può sembrare per merito di qualche buon cuore d’infermiere ma in realtà perché si sa che qualche ricoverato non supererà la notte, li sdraiano in un angolo sopra un sottile strato di paglia che sembra di stare su niente, senza neanche il conforto del calore di una brodaglia. Durante la notte se ne stanno quieti, più in dormiveglia che nell’oblio, ascoltando il vicino rombo del fronte che chiama e si sovrappone ai lamenti dei malati. Il mattino dopo si sono liberati due regolari giacigli che vengono assegnati ai due gravi compagni di Emilio che, deciso a scappar via da quell’angoscioso ricovero dove rischia di morir di fame ancor prima che di malaria o, nell’ipotesi più spaziosa, d’essere presto rispedito al fronte, si dà molto da fare con un avido sergente della Sanità finché non prova il sollievo di sentirsi crocchiare fra le dita un biglietto di ricovero per l’ospedale 151 di Salonicco.

Ributtatosi addosso il peso dello zaino e radunate come un dio tutte le forze, si allontana di gran carriera col cuore in subbuglio di chi nell’irrazionale timore di un contrordine o di un contrattempo vorrebbe scappar via senza neppure voltarsi. Si dirige verso la vicina Flòrina pensando solo alla stazione, dove quei maledetti treni che non raccolgono mai la truppa appiedata avrebbero sicuramente accolto un soldato singolo munito di regolare permesso e trasformatosi in un normale viaggiatore con tanto di biglietto e portafoglio. La sua emozione è divisa a metà tra ciò che sta lasciando e l’incognita che lo attende. (torna)

Sonno duro sul duro

Alla stazione di Flòrina l’ultimo sforzo di Emilio è di salire in carrozza coinvolto in una calca impossibile e di cercarsi affannosamente un posto. Riesce a sedersi su una panca in un vagone completo di militari di ogni nazionalità. Coi muscoli sciolti verso il basso e le braccia conserte, medita come dentro una nebbia. Gli torna in mente la rabbia di quelle marce ostinate senza l’aiuto del treno e, forse perché per la prima volta dopo molti mesi si trova in una posizione comoda, si accomoda anche a pensare che, dopotutto, nessun treno potrebbe contenere in una sola volta un’intera brigata, e che ci vorrebbero tutti i convogli di Macedonia, niente in confronto ai nostri, e che perciò, per far spazio alle truppe appiedate, bisognerebbe sospendere il normale traffico viaggiatori, mentre adesso non si tratta di spostamenti di truppe perché tutti questi soldati stanno viaggiando per conto proprio, ciascuno col proprio permesso di trasferimento o di licenza o magari di ricovero come il suo.

Per la stanchezza, il ritmo delle ruote, quei ragionamenti furieri, l’incomprensibile, ipnotico cicaleccio del sovrapporsi di tante lingue parlate a voce bassa in un rimescolio di fumo di sigarette, è vinto da un sonno irresistibile che vuole compensarlo di tante veglie patite. Abbandonato alla durezza del sedile e risparmiato da controllori impietositi, non avverte accelerazioni, frenate, fermate, manovre, scossoni né altro, e si sveglia solo nel silenzio dell’alba del secondo giorno di viaggio, 30 dicembre 1916, quando il treno, si fa per dire, già fila nel cuore della piana di Salonicco, perché il convoglio impiega due giorni e una notte a coprire la distanza che separa Flòrina dalla capitale della Macedonia, più o meno pari a quella tra Milano e Verona. (torna)

 

Capitolo III

ALBUM DI SALONICCO

 

 

Il 151

A Salonicco lo attendono dieci giorni di riposo sopra un vero lettino. Il 151 è un ospedale da guerra ben attrezzato e composto di grandi tende ma concepito per non più di duecento posti letto. Nel capo più spento che illuminato dell’Alto Comando anche la malaria, così come i lupi e la pioggia, è un imprevisto compreso al più nella sfera del possibile ma non del probabile. Prevederlo sarebbe stato un serio ostacolo a un’organizzazione necessaria alla pura avidità di un Re, così si è voluto ignorarlo fin dall’inizio ficcando la testa nella lurida melma come lo struzzo nel fresco sottostante della sabbia.

Per fronteggiare l’eccezionale afflusso di malati, prima provenienti dal fronte del Kruska-Balkan ed ora dall’inferno di Monastir e dalla strada che ad esso conduce, sono state aggiunte baracche di legno. Il complesso sorge appena fuori della zona orientale, oltre il Quai e la Tour Blanche, in riva al mare. Data la insostenibile situazione, si è però trasformato da luogo di cura in posto di osservazione e smistamento. I malati con prognosi seria o lunga vengono imbarcati su navi-ospedale e rimpatriati, quelli guaribili in poco tempo vengono inviati al periferico campo di raccolta di Zeitenlik per essere poi restituiti ai reparti di origine.

Al 151 il succedersi ininterrotto di arrivi e partenze con un movimento giornaliero di molte decine di unità, obera il personale al di sopra delle sue possibilità, ne sconvolge i turni, ritarda le visite e i conseguenti provvedimenti. Il caos torna a vantaggio di Emilio fruttandogli per intanto sette riposanti giorni trascorsi nell’attesa di una visita, che promettono di aumentare indefinitamente grazie alla complicità di un infermiere che si è impegnato a far rimpatriare il furiere con la prima nave ospedale utile a patto che gli ceda il proprio cappotto di cui si è invaghito e che, per le deformazioni e i maltrattamenti subiti durante le marce, avrebbe a suo parere acquistato un taglio così moderno ed elegante da farlo sembrare fuori ordinanza. Entusiasta dello scambio e fiducioso nel potere che vanta l’infermiere, Emilio rimane sempre a letto nella speranza di convincere i medici che la sua malaria è seria. Il termometro però non segna mai una temperatura allarmante. L’ottavo giorno il capitano medico che gira fra i letti per decidere la sorte degli ammalati si ferma al suo capezzale, e quando gli vede il roseo incarnato delle guance, rimane perplesso, sorride con comprensione ma decide di visitarlo a fondo. L’esito è disastroso per il furiere e deludente per l’infermiere, costretto ad annunciargli la cancellazione dalla lista dei partenti. Emilio si consola di sapersi sano e, come d’abitudine, si rassegna ad accettare il decreto del destino. Più per prassi che a compenso della disillusione il sanitario gli concede altri tre giorni di riposo fino al 10 gennaio. Da quella data il caporale dovrà essere trasferito al campo di Zeitenlik per un tempo indeterminato in attesa di essere rispedito al fronte. (torna)

Pesce fritto

Gli resta ancora la voglia di Salonicco, vista solo nella torrida confusione della parata di agosto e attraversata una settimana prima in tranvai dalla stazione alla fermata dell’ospedale percorrendo la Via Egnazia rimastagli negli occhi come un sonoro rullo a colori. Si propone di visitarla nei prossimi giorni. Per ora deve accontentarsi del ricordo di quel film vista dai finestrini dentro i quali scorrevano veloci centinaia di negozi e recitavano migliaia di frettolose comparse d’ogni razza e colore.

Dal 151 non si vede nulla che non sia il mare di fronte e qualche duna di fianco su cui staziona una moltitudine di straccioni che lo incuriosisce. Tende e baracche dell’ospedale sono recintate da reticolati oltre i quali, accampati peggio dei militari sulla brulla terra macedone, razzolano miserabili profughi di varie località di confine cadute in mano bulgara. Molti si arrangiano vendendo ai soldati ogni sorta di mercanzia. La mattina delle dimissioni Emilio si avvicina al reticolato e acquista sigarette e una frittura di pesce che ancora scotta, vizio e alimento per il trasferimento al campo che avviene via camion puntualmente e nello stesso momento in cui sotto il suo tendone d’ospedale il cappellano traccia in aria per uno sfortunato il segno della croce e il becchino dell’adiacente camposanto si appresta a fendere la terra col solco della fossa.

Il camion è pieno ma più veloce del tram e dalle sue sponde di legno annerito la città cola via bianca come latte da un mastello inclinato. Si ripropone di esplorarla e intanto è distratto dal chiasso dei commilitoni che cantano attorno alla fisarmonica di un compagno. Sembrano emiliani o almeno della pianura padana con quell’accento indefinito di confine dove si colgono insieme tanti particolari di distinzione e di comunione. Lungo la Via Egnazia è un’allegra musica da ballo che li separa da tutto ciò che transita dietro la loro nuca o passa davanti ai loro occhi, poi, man mano che il veicolo si perde nella steppa della periferia, la musica si fa più malinconica e i soldati più taciturni. Sul nastro giallo e ondulato delle dune col reticolo del mare a sinistra e le chiazze degli acquitrini a destra, i militari tacciono, la fisarmonica rallenta e piange da sola la sua tristezza nostrana. (torna)

La bolgia di Zeitenlik: l’impatto

Al campo di raccolta italiano di Zeitenlik Emilio si trova buttato in una mischia di qualche migliaio di soldati che lo hanno preceduto, hanno vissuto la sua stessa o una peggiore esperienza e sono in attesa di essere rispediti al fronte in braccio alla statistica di una morte meno ingloriosa di quella incombente sugli ospedaletti da campo. Dentro il recinto tutti, concentrati e sorveglianti, se di sorveglianti ce ne sono perché non se ne vedono, attendono ordini e intanto vivono da reclusi senza alcuna disciplina, abbandonati a se stessi e nutriti in un modo che ricorda da vicino il pasto gettato alle belve. Non appena messo piede in quella gabbia, il telone che vela la massima militare "Arrangiati!" si squarcia nella mente del furiere mettendo a nudo il precetto che subito trova proficua applicazione.

Non c’è gregario cui non manchi almeno la metà del corredo, non esiste in tutto il campo, o almeno non funziona, alcun ufficio cui rivolgersi, non circola, o almeno non ne ha il coraggio, alcun ufficiale che metta ordine. Il solo che si vede è l’ufficiale di picchetto all’ingresso il cui unico compito è quello d’impedire ai reclusi di uscire. Non resta che inoltrarsi nel folto, scoprire le singole difficoltà, orientarsi, contattare con l’ausilio dell’ingegno e della fortuna qualcuno che abbia già risolto i problemi di sopravvivenza e sparire quindi nella bolgia dotati di un minimo di autonomia. Il caso può far incontrare due corregionali o, se non basta, come non basta, due compaesani o addirittura due lontani o vicini parenti, anche se sorte più propizia è quella di ritrovare qualcuno del proprio battaglione o della propria compagnia, altrimenti la disdetta, più facilmente presente della fortuna in tal genere di bivacchi, costringe il malcapitato a ramingare di tenda in tenda implorando qualsiasi cosa possa servire, una coperta per non morire all’addiaccio, un posticino per dormire al coperto, un po’ di gallette per mangiare o magari, ma è roba superflua richiesta solo da chi possiede già l’essenziale, un pennello da barba o un rasoio in prestito o la civetteria di uno specchietto in cui poter constatare a che punto è arrivata la propria sfigura del viso. Ma infine la solidarietà che nel bisogno associa fra loro i più disgraziati finisce per accomodare anche le situazioni più critiche, sicché tutti riescono, prima o poi, a trovare un minuscolo ricovero sotto una tenda in cui poter intiepidire l’aria coi propri polmoni o dividere alla buona un pezzo di pane o, con più rigide regole, una scatoletta di carne. (torna)

La bolgia di Zeitenlik: l’inoltro

Non si può dire, però, che le cucine manchino, solo che per arrivarci e agguantare qualcosa bisogna sopravvivere a una specie di selezione naturale, e sempre che si sia nel più tenace possesso di una gavetta e si sappia ben nascondere in un taschino il cucchiaio. I più deboli o distratti devono accontentarsi di veder fumigare da lontano e percepire con l’acquolina in bocca il rancido lezzo che spandono per tutto il campo due olimpioniche marmitte nere come la pece.

Se il nuovo arrivato appartiene alla specie degli intraprendenti che sanno arrangiarsi facendo comunella fra loro, deve poi pazientemente sopportare la sequela di iniziatici sproloqui dei più anziani: "Come vuoi che si mangi? Con la bocca!", oppure: "Ti serve una gavetta? Da qui alle marmitte ci sono cento metri e duecento tende, cioè almeno sette od ottocento gavette: non ti bastano?". E non è solo una battuta, perché il pivellino, inoltratosi nel bosco di tende fingendo un’aria indifferente ma gettandovi un occhio dentro, ne scopre sempre una incustodita in cui fa golosa mostra di sè una gavetta lucidamente a portata di mano. In tal caso il primo provvedimento da adottare dopo esserne entrati in possesso è quello di rendere con qualsiasi mezzo abrasivo irriconoscibile l’oggetto al legittimo proprietario cancellando gli stemmi del vecchio casato per sostituirli col proprio blasone di modo che tutte le gavette del campo, passando di mano in mano, si presentano ripetutamente intagliate e cifrate come antichi manoscritti in lingue scomparse o mappe di qualche tesoro.

Una volta sopravvissuti all’arrembante affollamento che si verifica a qualsiasi ora del giorno davanti alle marmitte, bisogna sopportare le mordacità condite col sorriso traditore del caporale di cucina e dei suoi sguatteri che fingono sempre di aver scoperto il furbo che si presenta loro per la seconda o la terza volta e, quando costui protesta che non è che la prima, fingono di dar di piglio al mestolo finché, visto che l’affamato non recede, non fingono di accontentarlo versandogli magnanimamente una brodaglia che è il simbolo di tutto il loro potere, purtroppo vero, di vita o di morte.

Quanto ai recipienti che dovrebbero contenere la carne, giacciono incustoditi vicino alle marmitte della minestra semplicemente perché sono sempre vuoti, e ciò finge di essere un mistero per tutti. La carne prende altre obbligate o più remunerative vie ancor prima di esservi versata dentro. Infatti e naturalmente anche laggiù valgono ed imperano per lo più disgiuntamente, meglio se congiuntamente, le tre ataviche regole della vita in comunità: appartenenza a una camarilla, possesso di forza fisica, possesso di denaro. E qui, almeno per quanto riguarda la carne, devo riportare, per non far torto alla storia, ciò che la memoria del furiere ha registrato con queste documentarie parole: "Chissà quante di quelle calorie sottratte alle viscere dei soldati son servite a riscaldare l’epa degli ebrei di Salonicco, i quali davano in cambio le dracme occorrenti all’acquisto del buon vino di Samo e all’ingresso nei postriboli".

Se poi al nuovo arrivato e ormai possessore di una gavetta e della relativa brodaglia venisse anche la temeraria idea d’inzupparvi dentro del pane, dovrebbe anzitutto sapere che il pane viene distribuito tutto e solo alle prime luci dell’alba e che, se proprio ne volesse in altre ore del giorno, dovrebbe recarsi nella tenda dove sono custoditi i resti e la riserva e sottoporsi ad altri sproloqui ed altre umiliazioni. E guai a non avere con sè un qualsiasi documento di riconoscimento come la bassa di passaggio rilasciata dall’ospedale o il libretto personale o almeno la piastrina di riconoscimento, che non servono a niente se non a far godere qualche caporale o sergente di un diritto di autorità sul malcapitato ammonendolo che, se non è colui che dice di essere, non gli sarà dato niente. Ma poi, con un po’ d’insistenza, il soldatino riesce sempre a mettere mani e denti su un pezzo di pane. Come in ogni altra situazione della vita anche qui è tutto un insopportabile, antichissimo gioco, mai di minacce, raramente di promesse, spesso di lusinghe, sempre di rabbia dissimulata da una simulata sottomissione. (torna)

I tre sergenti

L’inverno è duro e alto, ma ha smesso di piovere tanto come nel basso autunno. Venti, trentamila soldati di venti, trenta corpi e specialità di sei, sette paesi sono attendati e baraccati, feriti e ammalati nella piana di Salonicco in un tot numero di campi come Zeitenlik, forse meno disorganizzati. Il vento tira e blocca in gelide spirali di puzza le esalazioni umane e vegetali. Il freddo ferma le attività e lascia andare in sonno le passività. Due, tre tentativi di neve abortiscono in nevischio e tutto rientra nel grigio senza voglia. Ogni due, tre ore qualcuno allunga le gambe fuori dalle tende e passeggia. Guarda il campo, il cielo e di nuovo il campo, poi torna sotto a ricoverare il corpo e passa il conto ad altri. Il paesaggio di qua delle dune è razionale, i dolori sono ripartiti in interi e frazioni sul campo macedone e commerciale dei computisti di Casa Reale.

Ma la stella di Emilio brilla anche sul grottesco di quel girone in tragica aspettativa poiché egli trova alcuni sottufficiali della sua compagnia che lo hanno preceduto, già pratici dell’ambiente e ben disposti a dare una mano al furiere che li ha sempre aiutati a risolvere i loro piccoli grandi problemi. In capo a un solo giorno Emilio si ritrova sotto una tenda assieme a tre sergenti che lo colmano di attenzioni senza tenere in nessun conto la piccola e pur sufficiente distanza gerarchica che li separa dal caporale.

Uno è abruzzese, emigrato fin da bambino negli USA dove suo padre ha messo sù un ristorante dal buon rendimento, e quando dall’Italia è risuonato nel mondo l’ordine di mobilitazione, il figlio ha risposto con senso del dovere anche per far fare bella figura alla ditta paterna di fronte a una fedele e danarosa clientela che, in sintonia con la più generale opinione pubblica americana, è ostile ai tedeschi e lo incita a dimostrare il suo amor di patria.

Un altro, campagnolo del parmense, ricorda con occhi sempre lucidi i due figlioletti e la moglie aggiungendo sospiri per il raccolto sicuramente senza di lui malandato e le bestie denutrite e ammalate di TBC. E’ capitato in quella bolgia per trascorrervi un periodo di convalescenza in attesa di essere ripescato e rigettato al fronte. I medici di Salonicco gli avevano riscontrato un focolaio di tubercoli a un polmone che però, secondo loro, si era quasi completamente cicatrizzato. Sarà stata una diagnosi errata o il tempo prolungato in quell’ameno soggiorno, fatto sta che il poveretto sarebbe morto di lì a pochi mesi e molto prima delle sue bestie.

Il terzo è un saccente bresciano studente di giurisprudenza, che sfoggia un’eloquenza forense che laggiù nessuno è in grado di valutare e un’oratoria politica infarcita di termini giuridici che Emilio, autodidatta marxista, sente estranea e incapace di fornire adeguate spiegazioni delle istituzioni e dei fenomeni di cui quello va discorrendo, vale a dire governo, parlamento, guerra e cose simili. Il caporale non vuole contraddirlo, né vi ha alcun interesse e si limita ad ascoltarlo formulare quei ragionamenti quadrati espressi con la sensibilità geometrica di chi sostiene un esame a memoria senza rompere la crosta delle cose.

Così, tra il patriottico ristorante abruzzese, le povere vacche parmigiane e lo stordimento di una pseudopolitologia giuridica, Emilio riesce a sopportare la scorza delle ore che sotto quelle tende meglio trascorrono quando i quattro giocano a carte. Intanto il campo sempre più s’ingrossa di feriti e malati ritenuti in via di guarigione mentre dall’Italia cominciano ad arrivare nuovi contingenti destinati a colmare i vuoti e, si spera, anche a sostituire gli esausti veterani. In attesa della destinazione al fronte, anche i nuovi e ancor sani fantaccini appena sbarcati a Salonicco vengono immessi in quella cloaca ancor più stupida che tragica che è Zeitenlik, con un impatto disastroso per il morale che, in assenza di scuole militari, mezzi e tecnologia adeguati, è l’unica nostra risorsa. (torna)

Astinenza

Nella fogna di Zeitenlik non si ha cura del corpo, si abbatte il morale, e ai soldati, lasciati in balia dell’ozio, si acuiscono le voglie. Dopo diciotto mesi di guerra italiana, sei di marce macedoni e gli ultimi giorni sfociati nelle feroci petraie di Monastir, i soldati reclusi nel campo cadono uno alla volta vittime di un dio sobillatore. Pur debilitati e schiacciati dalla condizione, hanno sulle palle due anni di vita solitaria. Qui, senza i boschi la cui resina svegliava paniche voglie che potevano sfogare a parole sui monti e nei fatti di tanto in tanto a valle, rifiutano persino d’indulgere nei soliti ricordi delle loro imprese di maschi, più non si accontentano di ridacchiare insieme e i sogni notturni di cui qualcuno è ancora capace li squassano e li mortificano.

Una notte si ode frastuono in una tenda a quattro vicina a quella dei tre sergenti e si viene a sapere che il più anziano era saltato sopra il più giovane e lo stava spogliando fin dove il sonno del ragazzo glielo aveva permesso. Poi, un improvviso scossone, urla, pugni e schiaffi e un pianto dirotto di vergogna alternato a spiegazioni e a richieste di pietà. Da allora, il seduttore fallito, respinto da tutti, ha dovuto accontentarsi di dormire sotto le stelle ai margini dell’accampamento a contatto col filo spinato e sull’orlo di un fosso dove gli invertiti sono soliti strisciare assieme come ignorate serpi.

Verso l’oscurità della sera molte donne vengono dalla periferia di Salonicco a chiedere quando sarà permesso ai soldati di uscire. L’ufficiale di picchetto le caccia via ridendo. Ma intanto s’è fatto buio, e le donne fingono di allontanarsi ma fanno un mezzo giro del campo fino a un punto dove tutti sanno che c’è uno strappo nel reticolato, e qui lavorano sodo fino all’alba. (torna)

Ubicazione del campo e permesso di uscita

Il campo di Zeitenlik è affossato in un conca delimitata da collinette simili a dune oltre le quali altre deboli elevazioni e conche si susseguono generando ovunque un terreno ondulato che a sud decresce fino a scomparire tra i flutti dell’Egeo, a nord cresce impercettibile fino a confondersi con le prime colline di Macedonia, a ovest si appiattisce e si perde sottomettendosi al cielo della pianura del Vardar e ad est s’innalza fino a toccare il cielo del monte Chortiàtis che poi si prolunga nella penisola Calcidica e sul primo declivio del quale Cassandro, cognato di Alessandro, depose Salonicco dandole il nome di sua moglie Tessalonica. I campi militari sono dislocati attorno alla periferia della città. Quello italiano è il più distante, ripetendosi così la dislocazione degli accampamenti dell’estate scorsa con la differenza che ora si trovano tutti traslati più a sud-ovest nella pianura terminale del Vardar. Zeitenlik è in pratica vicino alla stazione radiotelegrafica le cui antenne rompono la monotonia del paesaggio così come visto dal campo e suscitano un sentimento di collegamento col mondo civile lasciato lontano. Quando però si sale su una delle collinetta di cinta, il panorama si fa più vasto e soddisfacente comprendendo lo specchio del mare, il declivio della città e le stravaganti formazioni degli accampamenti militari.

Primi di febbraio del’17. Si fanno finalmente vivi alcuni ufficiali tra i quali un medico e un paio di sottufficiali infermieri che mettono in funzione un ambulatorio col compito di censire e visitare i convalescenti e stendere una lista di quelli pronti a lasciare i disagi e gli ozi del campo. Gli altri ufficiali, insediatisi in un baracchino, si occupano dei nuovi contingenti arrivati dall’Italia e ne predispongono lo smistamento al fronte. Il campo viene finalmente aperto e si instaura un normale sistema di permessi di uscita. Perciò un tardo e raro pomeriggio sereno di pochi giorni dopo, i tre sergenti più Emilio sono tentati di andare a visitare la città. Si muniscono di permesso e s’incamminano. (torna)

Via degli Alleati

Si accorgono presto che la strada è più lunga di quanto avevano immaginato dalle colline di cinta e tutta fangosamente uguale. Passano vicino agli accampamenti francesi. Sembrano meno poveri e più confortevoli con capannoni in solido legname circondati da giardinetti ed embrioni di orti esteticamente curati. Altri capannoni in cemento sono in costruzione e intorno agli intonaci bianchi si affaccendano nere formiche di muratori senegalesi. Poco oltre incontrano il campo serbo raccolto in una simmetria circolare di alte tende coniche larghe alla base, separate tra loro da tante aiuole seminate pronte a germogliare nella prossima primavera, sulla cui terra rossastra spuntano come primizie i cartellini indicatori delle verdure e dei fiori, infitti con amore e pignoleria da qualche soldato contadino. Poi, dal frastuono che ne esce, s’accorgono di camminare lungo la tendopoli russa contenente un reggimento di fanteria e uno di cosacchi che lo zar si è degnato d’inviare in aiuto agli alleati.

La Russia, sconfitta dai tedeschi, ha battuto gli austriaci ma ora sta tradendo l’Intesa. Il nuovo primo ministro Sturmer, segretamente legato agli Imperi Centrali, ha concesso alla Romania un semplice aiuto formale tale da non impedire agli eserciti austro-tedesco-bulgari d’invaderla e di entrare vittoriosi a Bucarest. L’equivoco comportamento russo del momento, e assai di più quello rinunciatario e disfattista conseguente all’imminente rivoluzione, permetterà agli Imperi Centrali e ai loro alleati di restare saldamente attestati sul fronte balcanico fino al 1918 e provocherà l’indelebile rancore delle potenze dell’Intesa verso il nuovo stato sovietico.

L’intervento romeno è finito in un disastro e l’atteggiamento russo si fa sempre più sospetto nel momento in cui i nostri quattro commilitoni transitano in fianco al disordinato campo zarista i cui occupanti fanno un baccano indiavolato bevendo, cantando e ballando senza riposo.

Più vicini alla periferia si estendono gli accampamenti inglesi, i più ricchi e attrezzati e più numerosi man mano che ci si avvicina ai comodi della città. Vi si vedono circolare soldatesche d’ogni colore e qualche biondo ufficiale figlio di Albione, biancolatte e con le panne in viso, divoratore di marmellate e smodato consumatore di whisky. Lungo la strada molte autovetture, camions e carri a cavallo d’ogni tipo e bandiera, e soprattutto i trasporti della Croce Rossa Internazionale che scodella lungo quei chilometri disseminati di ospedali migliaia di feriti e di malati. (torna)

Baraccopoli

Il sole inclinato allunga le ombre e la curiosità dei quattro militari dal passo lento della prima volta. Nella periferia si entra da ponente attraverso il quartiere del Vardar dove trova spazio un baraccamento di proporzioni impensabili, non militare, abitato da una folla di accattoni. A parte la miseria, la questua e le attività illecite tipiche di ogni metropoli, il resto ha odore e sapore peculiari a quel luogo. Baracche fessurate e tende lacerate, erette nel caos più totale come dopo un lancio di dadi, presentano tante forme e colori quante sono le nazionalità e le etnie dall’Adriatico al Mar Nero dei loro derelitti abitanti che sopravvivono grazie alla presenza dei vicini campi militari.

Gli uomini indossano un mosaico di resti di tutte le possibili divise. Luridi e orridi, molti deambulano con resti di calzoni zuavi elemosinati ai coloniali francesi, gesticolano con brandelli di giacche inglesi e muovono il capo sotto bisunti berretti italiani. Altri indossano stracci serbi e calzano consunte galosce russe. Donne e fanciulle, che pur così devono essere chiamate anche se selvagge e sozze senza rimpianto, indossano sottane scozzesi, fedeli testimoni delle dure marce e sanguinose battaglie sopportate dai deretani dei loro precedenti possessori. I bimbi, se anch’essi così si devono chiamare per il loro diritto a un comune nome umanitario, non sono nudi solo perché fa freddo e sono invece avvolti da più strati di quegli stessi stracci che i genitori hanno dismesso dopo averli sfruttati fino all’ultimo intreccio di fibre. Le famiglie, e questo è il vero nome con cui si deve connotare la coesione tra uomo, donna e figli di quella popolazione misera ma rispettosa delle primitive leggi naturali, proliferano sotto le tende sopra semplici stuoie. Quanto ai servizi d’acqua, fogna, luce e calore, neanche a parlarne. La tendopoli è disseminata di cumuli di cenere, carbone, pezzi di legno spenti e tizzoni fumanti. Ovunque stagnano detriti, spurghi e immondizie in un caos di lordure estraneo e inconcepibile anche ai più sozzi esemplari del regno animale.

Ma questa povera gente non sono i reietti di Salonicco, il popolo dell’abisso di appendicea memoria. Una sola città di poco meno di 250.000 anime, per quanto di basso livello, non potrebbe mai partorire una simile miseropoli. E’ invece un campo profughi, decuplo rispetto a quello adiacente all’ospedale 151 dove Emilio aveva comprato sigarette e pesce fritto, e composto dalle vittime civili delle recenti guerre balcaniche e soprattutto di quella mondiale che ancora imperversa, gente snidata dai propri sempre tuguri ma pur sempre natii da cannoni, fucili e pugnali nemici, vissuta in zone di confine senza alcuna nozione di un globo terracqueo nella casetta ora occupata dall’avanzata nemica, ora liberata da truppe amiche ma altrettanto prepotenti che razziano ogni cosa, ora rioccupata e poi nuovamente liberata ma ormai semidistrutta o del tutto demolita da una parte o dall’altra dei contendenti. Fuggita da una terra sempre calda di spari, ha trovato una plaga dove poter vegetare senza il costante pericolo di farsi trapassare da armi bianche o da fuoco, adattandosi a leccare ossi già spolpati dai liberatori e a sopportare le sprezzanti pedate di tutti i pionieri europei inviati nei Balcani dalle loro grandezze reali e imperiali.

In vista della fine della guerra qualche prospettiva non manca anche per questa povera gente. Se i vecchi moriranno sulle stuoie dove stanno agonizzando, i giovani potrebbero vedersi assegnato da quella che pare avviata ad essere una nuova Grecia liberale un pezzo di terra da coltivare, o essere assorbiti nel nuovo mondo operaio, e le ragazze potrebbero entrare negli opifici o cominciare a dar mano a lavori industriali a domicilio, salvo le più carine o ingenue o spregiudicate che finiranno nei postriboli. Ma occorre attendere la fine del conflitto e l’inizio di una ricostruzione. Nel frattempo in quell’oasi di fetore si vive come se la guerra circostante fosse la più normale delle condizioni, un fatto eterno come cielo e mare. (torna)

Postriboli d’oriente

Tra periferia e città è mezzano un quartierino a ridosso di dune, tracciato di fresco perché intimamente legato alla vicenda bellica e ai piazzamenti militari dai quali dipende pressoché interamente per la propria economia. Vi sorgono case e baracche destinate alla lussuria delle truppe e di quegli abitanti della città che, oltre alle voglie, dispongono dei denari per soddisfarle e che, scoppiata la guerra e arrivate le soldatesche, han dovuto allungare il percorso dal centro, sede delle case autoctone, alla periferia dove è stato installato e allestito un apposito complesso di soddisfazione internazionale con una vasta scelta di femmine disposte ai più raffinati metodi di sfogo, inoltre con convenienti sconti alle truppe.

I soldati attendono a frotte e plotoni il loro turno in piedi e in coda sulla soglia di questi pubblici esercizi nefandi per i benpensanti, anche se vere e proprie istituzioni sociali catalogate negli archivi delle prefetture e amministrate da privati sotto il controllo delle autorità in modo non dissimile da molti musei e università. E’ facile immaginare a quali torture siano sottoposte quelle poverette d’ogni razza e paese, comprese le più formose turche e le bellezze d’ogni balcanica etnia, condannate a distribuire il piacere di Venere a Marte a una folla che di marziale ha solo la grafia del nome copiato in bella nei registri dei coscritti dei ministeri della guerra, e semmai di venereo le frequenti malattie e la sostanza della carne il cui spettro varia di quarto d’ora in quarto d’ora dal nero dei semiselvaggi senegalesi all’eburneo dei sudditi delle contee scozzesi, forse anche più rudi ma avvantaggiati dal kilt, che certamente non hanno il tempo di muoversi a pietà. In quel quartiere, ogni sentimento rimosso, Venere e Apollo latitanti o ridotti all’ablativo, le voglie si sbizzarriscono nel più rozzo e sbrigativo piacere dionisiaco.

Ma vi sono anche case raffinate e costose, destinate agli ufficiali, ai burocrati e ai commercianti, i quali non possono attendere fuori dell’uscio mescolati alla plebe e vengono accomodati in chiaroscuri, profumati salottini alla moda e avviati in camere da letto dotate, per gli ufficiali superiori e i commercianti o i possidenti più facoltosi, di bagno e altre comodità, comprese le zanzariere, non tanto per evitare in quel mentre fastidiosi pruriti quanto per dare al cliente una certa garanzia che l’odalisca non gli trasmetta, per il tramite di qualche zanzara, almeno la malaria.

Ma intorno si possono intravvedere, volendo, vicoletti nascosti di casette rintanate, più tollerate che abusive, funzionanti solo di sera e in tutta discrezione per coloro che a certi vizietti non vogliono dare pubblicità perché personaggi in vista la cui moralità non va discussa o perché, anche se non in vista, hanno devianze da nascondere. Infatti non è difficile scoprire, preceduti dalla luce di una torcia, imberbi giovinetti e ricciuti fanciulli che, accompagnati da un mezzano dal naso adunco e il mento pronunciato, quasi sempre vestito alla turca, varcano furtivi la soglia male illuminata di qualche porticina, inevitabilmente seguiti dal cliente.

Più in là, ai margini del perimetro del quartiere, si radunano di sera, infossati in buche del terreno, gli invertiti, fra i quali fa ogni tanto irruzione la polizia e che, nell’ansia di non dar troppo nell’occhio, si vestono di nero e strisciano armati di torce coi clienti alla base delle dune così da sembrare da lontano dei luccioloni fuori stagione.

Non è che il solito squallido luogo di piacere che conta ogni metropoli ma con la particolarità di costituire una risorsa di capitali e lavoro potenziata dal momento bellico e dalla facilità di reperire un’abbondante manodopera disposta a farsi sfruttare a buon mercato, pescata lì a due passi nel quartiere del Vardar. (torna)

Metropoli d’oriente

Superato il quartiere del piacere, si entra nella vera Salonicco per la porta occidentale dove la strada degli accampamenti s’immette nella via Egnazia che entra in città solennemente ombreggiata da grandi alberi. Da quel punto in poi è tutto un susseguirsi di baracchini e baracche, dapprima discoste fra loro e quindi unite in baracche più grandi che, man mano si procede verso il centro, diventano baracconi per poi trasformarsi in case e infine in edifici moderni nelle opere del porto, del molo e degli altri edifici pubblici.

I quattro camerati entrano in città sospinti da un sole radente che dà gli ultimi sulla graticola occidentale di Macedonia. In un primo momento fa effetto, a Emilio come a me, che la storica via si sia ridotta a separare ali di baracche ma, ripensandoci, la nostra Egnazia è solo un’idea. A parte gli edifici importanti e il centro, il resto doveva essere, ai tempi imperiali come nel 1917, un mare di catapecchie e, mutatis mutandis, anche Roma.

Le baracche, tutte di forma disuguale ma con base in muratura intonacata a colori chiassosi e il rimanente in legno, sono sudice botteghe senza vetrina di biade, salumi, cibi pronti, pani e dolciumi sulla cui soglia vengono decantati i prodotti e lusingati i passanti come ancor oggi in qualche mercato rionale. I bottegai sono del più variopinto genere cosmopolita, greci, turchi, bulgari, serbi, romeni, francesi e spagnoli, vestiti di variopinti costumi e in maggioranza ebrei che, cacciati a suo tempo dalla Spagna in ventimila, per non disperdere la loro ebraitudine hanno raggiunto in cinque lenti secoli solo quota sessanta, ma tengono in mano il portafoglio della città.

Capre ed agnelli pendono esangui dagli uncini o fumano sugli spiedi spandendo nell’aria stordita il caratteristico odore di caprone d’oriente. Pesci dorati gorgogliano nell’olio di enormi padelle e colmano larghi, splendidi piatti di ottone istoriati, inclinati e spinti in fuori il possibile per irretire la gola del cliente. Pagnotte e pan biscotto fan più delicata mostra sui banchi dei fornai, affiancati da torte di zafferano ripiene di cavoli. Yogurt, dolci di miele, lucumie, zucchero filato e mandorle fosfate ingentiliscono il prossimo banco cui segue inaspettato quello dei barili di acciughe e aringhe affumicate. Poi, ancora pasticcerie intrise dell’odore bruciato del mandorlato e ancora friggitorie e rosticcerie dove monumentali, odorosi Gyros si avvitano su lenti girarrosti azionati da ragazzini, e ad ogni richiesta di clienti vengono aggrediti e affettati, e locali dove si tosta e si degusta il caffè alla turca. In mezzo a quella fumera si esibiscono, puzzolentati dalle vicine botteghe, i generi di abbigliamento, tele leggere, stoffe coloratissime di seta e di cotone, vestiti di foggia orientale e abiti europei, divise militari per ufficiali, e poi stivali di cuoio, zoccoli, coturni, babbucce, scarpe occidentali e infinite cianfrusaglie in pelle. Il tutto immerso in un frastuono di cavalli, automobili e tranvai che non riesce a coprire quel vocio di ricchezza di bottegai accumulata sotto il naso di uno stuolo di straccioni e questuanti che si trascinano in silenzio nel rosso di un tramonto apparente senza guerra.

Dalla via Egnazia si discostano in direzione del golfo stradicciole più quiete e i nostri camerati, più attratti dall’insegna di una mescita che per sfuggire all’assedio delle offerte e al lezzo di quel mercato omerico, vi si inoltrano. (torna)

Absinth

L’oste, premuroso di sorridere, fa un inchino e intraprende subito a enumerare in italiano con esotico accento inglese le sue specialità, liquori rinomati, comune ouzo, dolcissimo vino di Samo, bianco secco canforato di Creta, comune rezina, vini d’ogni paese e persino autentico Chianti, e precisa di avere anche whisky e absinth, [Nota 53] la cui vendita ai militari è proibita ma da lui egualmente arrischiata per compiacere la clientela che naturalmente deve compensarlo del rischio. Per nulla curioso delle virtù dell’assenzio, Emilio chiede vino di Samo ma i sergenti si lasciano allettare dall’infrangente voglia di gustare la liquorosa droga. Si guardano intorno per decidere dove sedersi. La fumosa oscurità del locale è popolata da militari francesi e inglesi, i primi con davanti gli immancabili, profumati e biancolatte bicchieri di absinth annacquato che si confondono col torbido colore delle piastrelle dei muri e i secondi con la tradizionale bottiglia di whisky che impugnano con frequenza sempre più nervosa man mano che il biondo livello cala, né gli uni né gli altri cercando l’oblio ma solo il chiassoso piacere dell’alcool. In un angolo due ufficiali greci grassocci e coi baffetti neri e lucidi intrisi di pomata, trangugiano assenzio puro versandolo da una bottiglietta con la disinvoltura di chi si sente padrone di casa e non vuol patire limitazioni, e con gli occhietti brillanti come i baffi sembrano dire ai clienti e al padrone: "Bevete pure tutto ciò che volete, noi non sappiamo niente, ma stiamo zitti solo in cambio di questa e altre bottiglie."

Contenti, dopo sette mesi di clausura militare in terra straniera, di poter esternare qualcosa a un essere umano non in divisa e che per giunta parla italiano, i quattro si siedono a un tavolino vicino al banco e si mettono a chiacchierare con l’oste che, mentre passa sul tavolo uno strofinaccio intriso di odore acido, li ascolta con sorrisi e salamelecchi gettando al tempo stesso occhiate di controllo sugli altri clienti. Ebreo di mezza età, abbronzato e coi capelli neri e ricci, parla sei lingue, mostra simpatia per gli italiani e chiede informazioni sugli avvenimenti del nostro fronte dove il mortifero Isonzo, dopo le ultime battaglie dello scorso autunno, pare essersi quietato. I quattro amici fanno due giri di bicchieri e parlano del più e del meno. Qualche accenno alle beghe interne all’Intesa su chi si papperà, quando sarà il momento, il boccone turco più grosso. Ma soprattutto si lagnano di Zeitenlik dove la vita è impossibile. Infine regolano il conto e si alzano. L’oste saluta deferente raccomandando di mandargli tanti clienti che abbiano voglia di bere i liquori proibiti e magari gli vendano anche qualche oggetto che lui pagherà meglio di chiunque altro, e li trattiene generosamente al banco. Dopo il terzo giro non possono proseguire oltre la passeggiata in città, anche perché si va facendo notte. (torna)

Caffe’ concerto

Nei mesi seguenti ogni volta che possono allontanarsi da Zeitenlik Emilio e i suoi amici sergenti si portano all’uscita degli accampamenti alleati da dove il collegamento con la vicina città è più organizzato, chiedono un passaggio a un camion e prendono la via di Salonicco giungendovi ancora freschi per gironzolare per delle ore. Emilio s’inoltrerebbe volentieri nella città vecchia, declinante bianca sotto l’Eptapiryon, ma i tre sottufficiali vanno dritti e inesorabilmente nei quartieri moderni dove vie , case, alberghi, trattorie, caffè e cinematografi sono gli stessi che in qualunque altra città mediterranea, compreso il Quai, vivacemente frequentato da una popolazione cosmopolita.

Lunghe ore al cinema o in qualche caffè concerto dove moderne, striminzite salomè si esibiscono in danze del ventre di cui accentuano, a diletto di un pubblico terra terra, solo le volgarità esteriori. Alla fine di ogni numero è consuetudine gettare alle danzatrici manciate di monetine che esse si affrettano a raccogliere gettando baci e dispensando sorrisi e languori. In quei locali, dove il vino è annacquato e si paga salato, bisogna avere l’accortezza di non indugiare troppo la sera per non rischiare furti o aggressioni come a volte capita agli avventori che amano ritirarsi nei séparés per ammirare da vicino e in privato le donnine che hanno appena visto danzare e sulle quali contano di allungare facilmente le mani mentre quelle, valutato il pollastro e fingendo di allettarlo, aiutano i compari a fare il colpo. (torna)

Discipliniamo la bolgia

A Zeitenlik il caos rende a tutti la vita impossibile. Prima che la situazione degeneri in tragedia, il Comando decide di intervenire. Una baracca, pomposamente chiamata "Convalescenziario della 35ª Divisione", viene impersonalmente ribattezzata "Deposito Rifornimento Uomini". Comprende tutti i militari, convalescenti e non, presenti nell’accampamento, e viene trasformata in sede di un comando formato da un capitano, un tenente aiutante maggiore e un caporale. Sulla carta è nominato responsabile un maggiore di artiglieria convalescente che, dopo pochi giorni, viene sostituito, sempre sulla carta, da un pari grado e così via di settimana in settimana. Il capitano è un industriale birraio lombardo, svelto e attivo nel dare direttive al tenente, di cui si fida, un genovese purosangue che in qualsiasi occasione non dimentica di appartenere al ceppo della Lanterna. Manca il caporale.

Un giorno che Emilio sta in tenda passa di corsa un soldato a chiedere se c’è un furiere capace. Il caporale si offre subito e gli viene affidato il compito di organizzare un reparto apposito per i militari delle armi speciali. Contemporaneamente vengono organizzati da altri furieri altri reparti con compiti analoghi per gli appartenenti ai corpi normali. Quello di Emilio è il più numeroso, con più di duecento soldati da amministrare, e il più eterogeneo e complesso, comprendendo radiotelegrafisti, varie specialità del genio, bersaglieri ciclisti e mitraglieri, artiglieri campali e da montagna, bombardieri, lanciafiamme, sanità e sussistenza.

In tali circostanze essere furiere significa esercitare il comando effettivo sui singoli uomini e svolgere il ruolo di ascoltato consigliere degli ufficiali. Emilio comincia a lavorare con lena e deve sospendere le gite a Salonicco. Il suo lavoro organizzativo è efficace e pienamente apprezzato. Il capitano non vuole lasciarlo tornare al fronte, e riesce a trattenerlo al campo facendolo dichiarare inabile alle fatiche di guerra. Con tale conclusivo colpo di fortuna ha inizio per Emilio un nuovo periodo di vita militare, fatto di lavoro intenso ma sedentario, privo di pericoli e di particolari disagi, sempre pena infernale rispetto all’ineffabile vita familiare, ma angelico privilegio in confronto alla vita di trincea, ai rischi delle marce e a quelli del fuoco.

Il furiere ha carta bianca. Su sua ispirazione viene decisa la costruzione di capannoni in muratura per il Comando e gli Ufficiali e di baracche di legno per i reparti di truppa. Ordine, pulizia e disciplina fanno la loro prima comparsa. I soldati vengono tutti impiegati in qualche servizio e con poca spesa possono migliorare il rancio presso un apposito spaccio finché non vengono realizzati un’economica mensa accessibile a tutti per la colazione e i due ranci giornalieri e un apposito locale per lo svago e le riunioni serali. L’accampamento italiano compete finalmente con quelli inglesi e francesi e il caporale che ha il merito di averlo riorganizzato si merita la promozione a caporal maggiore. (torna)

Capricci slavi

Per Emilio i primi mesi del’17 trascorrono fugaci. Immerso in un intenso lavoro per l’incessante movimento dei soldati delle armi speciali, si è assuefatto a quella vita insipida che scorre indifferente, distolto solo dalle voci di pace che rimbalzano frequenti da un fronte all’altro e poi vengono puntualmente smentite. Si dice che gli Imperi Centrali abbiano chiesto trattative con l’Intesa e che questa le abbia respinte. Quanto all’Italia, pare che nel PSI continui all’infinito la baruffa tra i surreali massimalisti amanti del tanto peggio tanto meglio e coloro che, in uno slancio di terrena responsabilità, vorrebbero in qualche modo collaborare con le istituzioni. Ma un avvenimento più importante degli altri viene a incrinare il suo tetragono scetticismo, ormai abituato a fandonie, lusinghe e beffe provenienti da ogni angolo del mondo e da ogni orecchia di giornale.

A fine marzo il campo russo rigurgita di fanti e cosacchi perché tutti i reparti del Piccolo padre sono stati ritirati dal fronte balcanico. Poco tempo dopo, l’intero accampamento viene trasferito su un costone deserto del monte Chortiàtis. Reparti anglo-francesi di colore lo hanno circondato e impediscono ogni contatto tra i Figli dello Zar e le truppe alleate. La prima causa di tale isolamento che viene in mente al campo italiano è un’epidemia. Ma qualche ardito e particolarmente curioso vuole accertarsene avventurandosi in quel luogo a dispetto delle sentinelle e constata che i Figli della Steppa, tutt’altro che ammalati, armati di innumerevoli fisarmoniche e balalaiche si esibiscono come sempre in gozzoviglie, canti e balli sfrenati, ma sono sorvegliati dall’esterno come prigionieri di guerra. La spia italiana riferisce di aver udito canti nuovi, mai sentiti prima, e non propriamente ortodossi, e numerosi brindisi al grido di "Dobra Kerensky!" [Nota 54] e "I mir!" [Nota 55] con aggiunta di urli poco riverenti all’indirizzo del Santo Sinodo, della guerra e di sua maestà imperatore di tutte le Russie. Anzi, da quel poco che trapela dai giornali di Salonicco, pare che lo zar si sia addirittura dimesso.

Considerato il sovversivo, inammissibile comportamento di quel campo, controproducente per il morale degli alleati e le sorti della guerra, il Grande Trucco (oggi si dice Quarto Potere [Nota 56] ), ha fatto appello ai giornalisti delle plutocrazie occidentali perché con la loro abituale disinvoltura interpretino quel capriccioso subbuglio come un esultante incitamento al nuovo governo russo a continuare la guerra con sempre maggiore energia e spargimento di sangue come è negli intenti e negli interessi dell’Intesa. Senonché il buon senso, insopprimibile anche se misteriosa entità sempre presente, pur se il più delle volte compressa e repressa nelle profondità della psiche, comincia a far capolino nelle teste di molti soldati che si chiedono come mai i temibili cavalleggeri cosacchi, che secondo i giornali sarebbero in preda alla frenesia della guerra, sono stati distolti dal fronte, separati dai commilitoni alleati cui potrebbero e dovrebbero esser d’esempio e isolati come degli appestati. In quelle teste si è accesa una lampada: o è idiota il generalissimo Serrail, capo dell’Intesa in Grecia, a rinunciare a una milizia così preziosa e disponibile, o sono imbroglioni i giornalisti.

Sono le ripercussioni della rivoluzione di marzo che, nonostante i silenzi e le acrobazie del Grande Trucco, si traducono nei primi provvedimenti tampone che dopo la rivoluzione di novembre si tramuteranno in una reazione offensiva. A Salonicco ripareranno infatti con continuità molti degli espulsi e vinti della guerra civile i quali formeranno in seguito, coi mercenari provenienti dalle file del pauperismo mondiale, gli eserciti bianchi. (torna)

Dall’alto del minareto

La mensa così ben organizzata da Emilio attira e ospita anche ufficiali e sottufficiali fissi e di passaggio. In questo locale il furiere ha modo di conoscere un sergente del Genio col quale stringe un’amicizia che durerà molti anni. E’ un artista pittore che ha dovuto interrompere l’attività a causa della guerra tanto che ha somatizzato la depressione morale in un tic agli occhi e dolori al fegato e in varie parti del corpo accompagnati da una strana febbre che ha indotto i sanitari a concedergli una convalescenza per anomala e non meglio chiarita malaria. La mutua comprensione tra i due e il conversare sono diversi da quelli dei consueti rapporti di vita militare. La guerra è un argomento importante ma non esaurisce i loro discorsi, che toccano l’arte e il mondo della cultura mentre sostano con occhi di poeta e di pittore sulle collinette primaverili che delimitano l’accampamento.

Col nuovo amico il furiere fa nuove, vere passeggiate rovistando ogni angolo di Salonicco, scoprendone gli aspetti caratteristici e ammirando l’arte bizantina brillante nei marmi e nei mosaici delle chiese e riscontrabile anche nella semplice grazia degli altri monumenti compresi quelli di soli mattoni pur consunti dal tempo e deturpati dal lassismo della vecchia amministrazione musulmana cessata nel 1912 dopo la vittoria greca. Il vivace capriccio delle cupole sovrapposte, la mistica e leggiadra riservatezza delle bifore e degli altri occhi murali esprimono ovunque il buon gusto degli antichi artefici. La chiesa dei Dodici Apostoli e quella del Profeta Elia sono le mete favorite dei due amici che spesso amano spingersi fin sotto le mura della città vecchia.

Dall’alto dei minareti eretti allato dei templi cristiani trasformati in moschee dal culto musulmano, dominano l’intera città e spiano l’interno delle misteriose dimore turche immerse in un profondo e già estivo silenzio, altrimenti mai aperte ai rognosi cani cristiani. Nei cortili interni accanto all’immancabile melograno e avvolte in ariosi profumi di rose siedono donne e fanciulle intente al ricamo col viso sempre velato come per strada. Quando siedono invece alle finestre delle loro stanze fiorite di gerani scarlatti che danno su interni pergolati incorniciati da glicini e uve, lasciano volentieri cadere il velo durante l’assenza del loro uomo dopo essersi bene accertate che nessun occhio indiscreto le stia osservando.

Un assolato pomeriggio di fine maggio, mentre i due amici contemplano dall’alto la città gettando occhiate furtive nella privacy dei giardini musulmani, accade a una bellissima giovane affacciata senza velo alla finestra di una palazzina addossata a una moschea, di vedere i due sporti dal tondo balconcino del sovrastante minareto con gli occhi incollati su di lei. Anziché ritrarsi, la fanciulla si produce in un ineffabile sorriso, dolcissimo e non licenzioso se non quel poco che tradisce il solo desiderio di farsi una volta tanto ammirare da qualcuno che non sia il solito, relativamente anziano e gelosissimo marito il quale, per sfortuna, sta rincasando proprio in quel momento attraversando il cortile sul suo somarello e gettando la consueta e sospettosa occhiata al giro di finestre che racchiudono il suo harem. Vista una moglie senza ciaf-ciaf [Nota 57] sorridere verso l’alto del minareto, gira il collo, alza la testa e scorge i due che fanno ampi gesti di saluto. Sceso fulmineo dall’asino e armatosi di una verga che quasi con intenzione giaceva dietro un cespuglio, sale di corsa le scale, piomba in quella camera e colpisce ripetutamente l’innocente creatura che, conscia della grave infrazione commessa, neppure reagisce gridando ma solo piangendo. Quindi, affacciatosi alla finestra, il relativo vecchietto minaccia col dito Emilio e il sergente gridando nella sua lingua qualcosa che sicuramente significa la volontà di vendicare l’affronto. Due giorni dopo, eccoli di nuovo allegramente all’interno della moschea con l’intenzione di ripetere l’impresa, ma con sorpresa e delusione scoprono che il muezzin ha sprangato la porticina d’ingresso del minareto traditore. (torna)

Tenzone degli intellettuali

Dopo la rivoluzione di marzo’ (nota) , [Nota 58] l’esercito russo comincia a sbandare e a ritrarsi. Sui fronti orientale e balcanico la guerra rischierà di risolversi a favore degli Imperi Centrali. Non così in occidente, dove la dichiarazione di guerra americana alla Germania promette un contributo decisivo per la risoluzione del conflitto a vantaggio dell’Intesa. Emilio legge spesso i giornali di Salonicco in edizione francese e i giornali italiani che arrivano con qualche giorno di ritardo. E’ venuto a sapere che le proteste dell’Italia contro una paventata pace separata tra Francia e Austria hanno indotto l’Intesa a prometterci basi in Turchia in vista dello smembramento dell’impero mussulmano e che, per dare un colpo decisivo al nemico nei Balcani, Italia, Francia e Gran Bretagna intendono indurre il filogermanico re Costantino di Grecia ad abdicare. E infatti, fra le novità che eccitano la curiosità degli osservatori politici, risalta la visita primaverile a Salonicco di importanti personalità venute a perorare la causa dell’Intesa presso il governo e la corte, già mille volte perorata dai giornali fin dall’inizio della guerra.

Fra gli articoli più significativi del clima antiteutonico che in occidente si era venuto a creare col conflitto mondiale e del quale discute con l’amico pittore, ricorderà sempre quello apparso il 7 ottobre del ’15 su "Il Giornale d’Italia", letto mentre si trovava alle prese con gli austriaci sui monti del Trentino. Opera buffa di un illustre professore di filosofia, di quelli che invecchiando sono inesorabilmente destinati a sedere sulle venerande scranne del Senato del Regno e del quale una giustificata pigrizia m’ha evitato la pena di ricercare il nome, tanti ce n’erano allora e tanti ce ne sono oggi, e alcuni talmente stupidi e in buona fede da non richiedere neppure di essere prezzolati dal potere cui prestano servizio, l’articolo palesa al mondo i prodigi di una loquacità esibita per escogitare una risposta al seguente eccelso quesito: se Gesù vivesse nella nostra epoca, quale causa perorerebbe, quella degli Alleati o quella degli Imperi Centrali? Al quesito, nato probabilmente nel salotto di qualche dama d’alto lignaggio e cavallerescamente raccolto dal chiarissimo, costui ha dato la sua patriottica risposta: "Viva la guerra!, griderebbe Gesù se oggi fosse fra noi, viva la guerra e la vittoria degli Alleati!".La risposta è poi suffragata da alcuni versetti del Vangelo citati con la massima serietà come fossero stati scritti dagli evangelisti all’unico scopo di gratificare le dinastie e le plutocrazie care al cuore del professore. E, come questo, molti altri giullari del mondo culturale e politico e del teatro sociale italiano e straniero distraggono la vita di Emilio che a Zeitenlik è diventata monotona.

Tra gli avvenimenti nostrani di cui è venuto a conoscenza, ci sono i gravi tumulti popolari verificatisi in maggio a Milano e in altre parti d’Italia contro il carovita e la guerra, e la nutrita serie di ammutinamenti e diserzioni verificatisi nelle file del nostro esercito dei quali Cadorna ha preso l’abitudine di scaricare la colpa sui socialisti. E ogni tanto è preso dai suoi ricordi di piazza che gli affiorano sugli occhi senza mai superare il prudente ostacolo delle ciglia. (torna)

Eleuterio Venizelos

Un pomeriggio dei primi di giugno caporal maggiore e sergente passeggiano in un’affollata via della città moderna quando avvertono dietro di sè uno scalpore sottolineato da un vociare scomposto. Si girano a guardare. Un corteo composto da una cinquantina di scalmanati armati di fucile avanza sul marciapiedi facendosi largo a spintoni fra i passanti. Sono in parte in dismessa uniforme e in parte vestiti di cenci borghesi, anime eterogenee e all’apparenza poco consapevoli dello scopo per cui vanno gridando. Il gruppo, guidato da un caporione, si ferma puntando i fucili contro la facciata di un edificio dall’aspetto signorile. L’unica parola che Emilio riesce ad afferrare fra le voci concitate di quel mezzo manipolo, è il nome del liberale capo del governo Venizelos. Al grido di "Venizelos!" una scarica di fucili fa strazio d’intonaco. Quindi, obbedendo agli ordini di chi l’aveva ingaggiata, così com’era venuta, la carnevalesca accozzaglia torna sui propri passi.

Durante l’intera scenata, non più di dieci minuti, non sono intervenuti né un agente di polizia né un militare greco né un qualsiasi rappresentante degli eserciti alleati che di fatto spadroneggiano a Salonicco. Saputo da un elegante passante francese che il palazzo preso di mira era la prefettura, Emilio rimane perplesso. Perché quella dimostrazione contro un rappresentante del Re? Trova la spiegazione il giorno dopo in un locale giornale francese secondo cui in seno all’esercito greco sarebbe scoppiata una grande rivolta sostenuta dal popolo contro Re Costantino, marito di una Hohenzollern e amico degli Imperi Centrali, in favore del primo ministro Eleuterio Venizelos, amico di Francia e Gran Bretagna. Alcuni giorni dopo, giunti con grossi titoli i giornali dall’Italia, Emilio vi legge che, guidata da un geniale uomo politico, è scoppiata a Salonicco una grande rivoluzione appoggiata da larghe masse popolari per costringere il Re a intervenire nella guerra a fianco delle potenze dell’Intesa o ad abdicare in favore del figlio. Allora sorride di disprezzo per il mondo dell’informazione che ha dilatato ad arte quell’insignificante episodio di insubordinazione trasformandolo in una rivoluzione e innalzato al livello dei massimi statisti della storia il signor Venizelos solo perché creatura devota alle plutocrazie occidentali. (torna)

Il Grande Trucco

La tresca tra gli anglo-francesi e il loro uomo di fiducia c’è stata ed è andata a buon fine. Venizelos, le spalle coperte dai cannoni dell’Intesa, assume i pieni poteri, costringe il Re a fuggire e ad abdicare in favore del secondogenito Alessandro, la corte e l’intero vecchio mondo filogermanico a rinunciare alla neutralità e la Grecia a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali.

Sulle pagine della stampa si legge una dovizia di particolari descritti dagli inviati speciali, naturalmente inviati a restare sprofondati nelle poltrone delle loro camere d’albergo da dove svolgono comodi e fantasiosi servizi: gli scontri tra i rivoluzionari e le truppe fedeli al Re, gli assalti agli edifici pubblici e in particolare alla prefettura, i discorsi incendiari dei capi popolo, l’apoteosi del Venizelos e quant’altro possa compiacere la locale borghesia nazionalista, vogliosa di protagonismo, affarismo e potenza, il tutto concertato nella massima conferma delle previsioni fatte a suo tempo sull’uso dell’arte della stampa da G.G.Rousseau.

Soltanto la stampa, Giove dell’Olimpo moderno, è stata in grado di trasformare una gazzarra di prezzolati straccioni racimolati nel quartiere del Vardar, che neppure hanno avuto il coraggio di scendere dal marciapiedi per non restare coinvolti nel traffico a quell’ora intenso, in una grande rivoluzione popolare. L’episodio fornisce l’occasione di creare una milizia greca dell’intervento. Da bettole, postriboli, caffè e quartieri dei profughi spariscono gli uomini validi che vengono indotti per poche dracme a dichiararsi volontari e ad arruolarsi nella cosiddetta "milizia di Venizelos" e formano presto un piccolo reggimento che i giornali traducono in poderosa armata simulandone l’invio al fronte e pubblicandone persino i bollettini di guerra. E’ insomma accaduto allora quello che con metodi più subdoli e raffinati al computer accade oggi con l’uso dei mass media, quarto e soprattutto quinto potere [Nota 59] dentro il cui ventre la gabbata massa televisiva casca inesorabilmente come le farfalle dentro le lampade. (torna)

Caffe’ "Nuovo mondo"

Durante l’estate, il lavoro ridottosi a semplice routine, Emilio frequenta con regolarità la vicina città. Oltre all’amico pittore il furiere ha trovato un nuovo compagno del tempo libero col quale passa il tempo al caffè Nuovo Mondo dove un trio familiare gli rallegra il riposo dopo le passeggiate pomeridiane. Una bambina suona con grazia il violino, la sorella maggiore si cimenta con occhioni languidi sul pianoforte mentre il padre dirige suonando anch’egli il violino. Il caffè è aperto sulla via Egnazia quasi al centro della città. Alto, spazioso e liberty, il locale è sostenuto da un cerchio di colonne bianche collegate da archetti ingentiliti da stucchi floreali. All’interno svolazzano rondini che hanno nidiato fra le travi del soffitto e vanno e vengono dai finestroni sempre aperti sul retrostante cortile da dove entrano frescura e fragranti fiotti di rose e gelsomini. Sotto ciascuna colonna i musulmani siedono immobili a fumare il narghilè e sembrano assorti in chissà quali meditazioni mentre, indifferenti a qualsiasi altra cosa, compresa la musica, sono intenti soltanto a gustare il fumo del tabacco. Il loro silenzio contrasta col vivace pour parler dei militari francesi dalle divise azzurre e armonizza col mutismo e i gesti controllati degli inglesi dalle divise kaki.

Emilio è spesso in quel locale col suo nuovo collaboratore di fureria, un giovane che ha vissuto fin dall’infanzia a Parigi dove ha tutta la famiglia che è di origine toscana, ed ha assimilato consuetudini e carattere dei parigini. Cura la toilette con pignoleria e vanità. Loquace, intavola coi militari francesi fiumi di chiacchiere dai temi galanti. Si crede in buona fede innamorato della pianista e si stupisce, soffre e quasi s’indigna di non riscontrare in lei analogo sentimento. La saluta con occhi languidi che sembrano rubati a lei e più di una volta ha tentato confidenze ma quella tira sempre dritto fingendo di non capire e continua ad applicare tutti i suoi languori alla musica. La presenza del padre è d’altronde un oggettivo, costante impedimento. Il fantaccino si cruccia di non essere abbastanza affascinante e prega Emilio e chiunque altro abbia a tiro d’intimità d’indicargli un qualunque eventuale difetto del comportamento, del corpo e dell’abbigliamento da correggere o cui possa in qualche modo rimediare, l’invadenza, il taglio dei capelli o quello della divisa che durante una licenza ha fatto rimaneggiare da un sarto parigino. Appartiene a un genere non troppo raro di giovani un po’ vanesi ma buoni, deboli e dolci, predisposti a invaghirsi facilmente di ogni fanciulla e anche a cedere, se lusingati o irretiti, con facilità le loro grazie, e non sempre e solo alle donne. Col suo atteggiamento e quella infatuazione è diventato l’oggetto delle ironiche conversazioni dei colleghi di fureria delle quali sembra non accorgersi. (torna)

Rassegna d’imboscati: in fureria...

Fra gli imboscati in fureria c’è un genovese richiamato, artigliere di montagna in mansioni di scritturale, gigantesco e muscoloso come un ercole, buono e mite come una romantica fanciulla. Preciso e paziente nel lavoro, Emilio lo ritroverà anni dopo a Genova scoprendone senza meraviglia le doti d’impiegato comunale. Con calligrafia diligente e sottile compila impeccabili elenchi e invidiabili prospetti che, uniti alla precisione dei dati forniti da Emilio, fanno citare a esempio da tutti la fureria. Parla altrettanto pignolo, lento e prolisso come scrivesse. Nell’ira è terribile ma solo di aspetto, forse chiuso da un limite che gli impedisce di arrabbiarsi davvero, oppure conscio che con la sua forza potrebbe soverchiare chiunque.

Altro scritturale agli ordini di Emilio è un soldatino senese appena distolto dal suo impiego al Monte dei Paschi, ricciuto e bello come un ragazzino, furbo e rotto a tutti i vizi. Teme Emilio per la sua austerità e perché lo costringe in ufficio più degli altri impedendogli di andare a giocare d’azzardo o a far di peggio, perché più d’una volta è stato visto concedere furtivamente il piacere a qualcuno cui doveva il denaro preso a prestito per il gioco e inesorabilmente perduto. Si diverte a stuzzicare con insolenza tutta toscana il gigante genovese che, fingendo di perdere la pazienza, lo solleva con una mano e va a deporlo fuori sul tetto della baracca lasciandovelo strillare e cuocere al sole.

Piantone tutto fare è un nanetto siciliano tutto pelo e baffi, che fa il finto tonto. Una notte che sono di guardia alla fureria due suoi compaesani, penetra nella baracca e ruba sessanta lire d’argento che Emilio aveva riposto in un armadietto. Vane le accuse del furiere, sia per l’omertà dei compagni, sia per l’intervento di un ufficiale dell’isola. Emilio deve pagare di suo col rischio aggiunto di passare per simulatore. Un noto politico del PCI da lui conosciuto nel secondo dopoguerra, gli farà riaffiorare alla memoria il mafioso episodio: nome, cognome, età, aspetto, paese di nascita, laurea e censo del funzionario coincidono con quelli del protettore del piantone. Emilio, che ha avuto spesso il pudore, chiamiamola pure ritrosia o meglio ancora reticenza, di non lasciare in giro troppi nomi, questo compreso, aggiunge solo di rifiutarsi di credere che si tratti della stessa persona, il che significa che ne è certo. Emilio è parso a volte una mala lingua, ma ha sempre avuto le sue buone ragioni.

Ottimo furiere è un artigliere campale di Parma, munito di occhiali con spesse lenti dietro le quali vede la vita così come gli tumultua nel cervello, essendo infatti o meglio apparendo e proclamandosi poeta che un giornaletto italiano di Salonicco, finanziato da professori ebrei e modestamente intitolato "La Voce d’Italia", pubblica. Liriche in stile mezzo ampolla dannunziana e mezzo cubo futurista, d’intenzione ardita e risultato codardo, dove i vocaboli sono sonori ma concentrati in un vuoto di salsa di pomodoro, vacuità in linea con la tragica imbecillità del momento che stanno attraversando l’Italia e la sua cultura ufficiale.

I poeti amano volare e non solo con la fantasia, dimentichi di ogni concreto pensiero e pudica modestia, in preda a irrefrenabili conati di bellicismo. Invulnerabili al fuoco antiaereo, calano sulle metropoli in fiamme, le piegano in quattro su un foglio bianco dietro la scrittura, facendo ritorno in patria con un veicolo diventato cimelio nazionale e un quaderno futuro florilegio per sfortunati studenti. Con l’artigliere poeta il furiere riderà per il resto della guerra e con lui concluderà l’amicizia in un bar di Milano dove lo incontrerà per caso molti anni dopo, brindando all’invecchiata vittoria con uno sciroppo di rabarbaro al seltz: il poeta è mogio mogio e sta sollecitando una pensione di guerra. Ha le lenti ancora più spesse ma comincia a vederci. E’ sempre poeta e trasognato ma anche disilluso e sposato e incapace di trascinare oltre la propria fede fascista, e si meraviglia che Emilio con la sua cosciente rassegnazione continui a credere nella vita.

C’è poi un sergente di carriera dell’artiglieria da costa, formalmente compreso nel comando delle guardie del campo. Siciliano e bell’uomo, è stato in servizio a Venezia e non sa tacere al commilitone veneziano le sue serenissime confidenze. Ha goduto i favori di una dama nota nei bassifondi lagunari perché tenutaria di casini. Riceve ancora lettere e sussidi da quella femmina di cui mostra audaci fotografie. Altro imboscato è un artigliere di Taranto, studente liceale e futurista che, volontario qualche giorno prima della chiamata, ha avuto la facoltà di scegliere arma e destinazione. E’ giunto esultante sventolando una bandierina tricolore che ha appuntato sulla tenda rendendola così distinguibile in tutto l’accampamento. Studiato e dotato di chiacchiera, sfoggia una gesticolante eloquenza di luoghi comuni. Si fa chiamare col cognome materno perché di sapore aristocratico e gode di parenti nelle alte sfere della marina dei quali si è giovato non poco. Doveva essere inviato subito al fronte ma, da perfetto futurista e futuro componente dell’omonimo partito, si è subito accomodato nel ripostiglio della fureria attendendo, non avendo sottomano il mondo, almeno all’igiene di quella, dopodiché ha ammainato il tricolore per dar meno nell’occhio e sventolato in sua vece la lingua per esternare in ogni occasione giustificazioni che accordassero il suo volontariato col compito di piantone. Rimane con Emilio per tutto il ’17, quando una circolare del Comando impone a ogni studente delle superiori di frequentare corsi per allievi ufficiali. Diventerà ufficiale e poi giornalista. Emilio leggerà di tanto in tanto il suo nome, ma solo quello, in calce ad articoli pubblicati a Parigi, Londra, New-York. (torna)

e altrove

Le migliaia di militari dirottati a Zeitenlik in attesa della linea del fuoco richiedono vitto, alloggio e servizi vari espletati da personale convalescente che viene avvicendato dopo un certo periodo. Per questi imboscamenti transitori non vi è competizione fra i concorrenti, che è invece dura e serrata per i posti stabili e tranquilli in ufficio, come fureria e Comando Deposito, o di gestione di attività, come mensa e spaccio. Prescelti sono i furbi che sanno entrare untuosamente nei luoghi opportuni e toccare i tasti più delicati a chi può decidere, oppure i furbi fortunati che sanno destare simpatia. Ma le simpatie più sicure e redditizie convergono verso il compaesano o chi dà garanzie di contraccambio o, meglio ancora, verso il compaesano che dà tali garanzie. A Zeitenlik prospera, sopra quella siciliana, una mafietta più istintiva e forte. I posti più importanti, cioè quelli in cui vi è una qualunque possibilità di racimolare palanche, sono rigidamente riservati ai genovesi e invariabilmente imposti dal già citato aiutante maggiore del capitano. Se i principali sistemati sono tutti figli della Dominante, il tenente siciliano che coadiuva in via provvisoria l’aiutante maggiore ha avuto la possibilità d’imporre imboscamenti in sottordine.

A coprire il posto di vivandiere è stato scelto un genovese che, non degnandosi di far toccare i denari ad altri che non siano suoi compaesani, si circonda solo di nativi della Lanterna facendo abbastanza profitti da augurarsi che la guerra non finisca più. Direttore della cucina è stato prescelto un sergente di Genova che ogni giorno si reca a prelevare la spesa per migliaia di soldati, godendo di tutto il potere che vi è connesso. I ciclisti in servizio dal Deposito alla città, che hanno il modo e il mezzo di esercitare il piccolo commercio ambulante, sono nativi del Bisagno e del Righi. I contabili e gli scritturali del Comando sono di Portaria. E così via.

Fra le poche eccezioni di non genovesi, che appunto per questo devono aguzzare l’ingegno, c’è un caporale milanese che si è portata da casa la macchina da scrivere sicuro che con quell’arnese si sarebbe fermato lungo la strada prima di farsi sotterrare in qualche trincea. Il pratico ambrosiano ha intuito giusto: al Deposito ne occorre proprio una, e così macchina e macchinista vanno a formare assieme un durevole e ombreggiato boschetto. Uno scritturale pugliese cui non piace andare per il sottile ha invece raggirato il Comando retrodatando di dieci anni la sua data di nascita sulla bassa di passaggio per sembrare più anziano ed essere quindi degno di rispetto e imboscamento. Il falso viene scoperto troppo tardi, quando l’abitante del tacco d’Italia ha già saputo legarsi a e obbligare alla riconoscenza un ufficiale che lo protegge. Infine, un napoletano dotato come tanti abitanti di Partenope di un disinvolto spirito curiale, fa in modo che tutti lo credano in possesso di un’educazione talmente superiore che, di rispetto in deferenza, viene da tutto il Deposito chiamato l’Avvocato. Senonché, quando arriva la circolare che impone a diplomati e laureati di frequentare i corsi per ufficiali, dichiara candidamente di possedere solo la licenza elementare e di aver fatto il commesso in una profumeria di Napoli. Tuttavia, quando si trova a tu per tu con gli amici, una strizzatina d’occhi lascia intendere che il basso titolo e il modesto impiego altro non sono che una trovata per gabbare il Comando e sottrarsi ai pericolosi obblighi del fronte, sicché in breve tutti lo ritengono di nuovo avvocato, e forse lo è. (torna)

Quartiere turco

Con l’amico pittore Emilio continua le visite cólte di Salonicco esplorando ogni angolo. Alla sovrapposizione storica dei poteri si accompagna quella monumentale e artistica. Tre secoli di ellenismo, più di mezzo millennio di Roma, un millennio di Bisanzio con varie incursioni e conquiste occidentali, nordiche e orientali, e mezzo millennio turco han lasciato ogni genere d’impronta e a volte testimonianze complete, specie paleocristiane e orientali. Costeggiando le imponenti mura bizantine, si inoltrano nella città turca dove in un vicolo immondo è possibile incontrare un prezioso sarcofago o una rustica ma soave fontana o la tomba di un santone o una colonna isolata sormontata da una scultura o una casa qualsiasi edificata sopra un vetusto piedistallo di marmo scolpito. Sulla sommità al centro delle mura si erge l’impronta della Serenissima col leone alato che tiene tra le zampe il libro aperto invocante la pace per l’evangelista, pace di cui necessita il mondo intero e la cui invocazione pare sprigionarsi in quel momento di assolato silenzio meridiano e spaziare dall’alto dei marmi fino all’abbaglio del mare scavalcando l’orizzonte e perdendosi verso l’immaginata mole dell’Olimpo.

Continuano a curiosare nel quartiere turco spiando dietro gli usci che trovano socchiusi di quelle gelose dimore, guardati male dagli abitanti che li frusterebbero volentieri se non fossero trattenuti dalla cautela che suscita in loro la divisa militare. Esplorano anche la parte più elevata del quartiere che ha fama di essere un covo di ladri e delinquenti fuggiti da ogni paese balcanico e stabilitisi lassù per evadere ogni controllo, ma dove in realtà vive solo qualche centinaio di straccioni. Qualcuno li osserva come un gatto e si allontana lentamente senza perderli di vista, pronto a raggiungerli in fretta se mai facessero l’atto di porgere qualche soldo. (torna)

Dervisci danzanti

Dedicano un paio di pomeriggi ai cimiteri israelita, musulmano e ortodosso, lasciando in questi luoghi di pace pensieri raccolti e atteggiamenti pazienti. Poco lontano dalle mura occidentali ai margini del quartiere turco assistono alle frenetiche contorsioni dei danzatori dervisci che si esibiscono nel proprio convento. Sfuggiti alle persecuzioni in Asia Minore, molti di questi monaci maomettani si sono stabiliti a Salonicco dove ogni religione e minoranza hanno trovato rifugio e possibilità di nidiare. I loro riti sono primitivi e assomigliano a quelli dei fachiri che inghiottono scorpioni vivi e si traforano guance e lingua con pugnali, ma meno feroci e demoniaci.

Ogni rappresentazione religiosa ha in fondo la stessa suggestione: la prostrazione e mortificazione della carne davanti allo spirito, qualunque ne sia il mezzo, dolore, piacere, stordimento, estasi. Se oggi, di fronte a certe manifestazioni di fanatismo non proviamo che repulsione, ciò dipende dal fatto che siamo sostenuti dalla pigrizia e dalle comodità della vita moderna e abbiamo seppellito la paura d’essere soli di fronte al mistero della vita. Se quelli ci sembrano pazzi, noi forse lo siamo davvero: siamo calati e immersi in un fallace superamento di Dio e confondiamo le comodità con la razionalità che, in fondo, altro non è se non un sofisticato, anche se spesso giustificato sistema difensivo.

Anche i dervisci hanno la loro gerarchia, dal danzatore neofito al vecchio monaco capo della comunità che dalla candida barba che gli corona il mento dirige immobile la cerimonia rapito in un silenzio ordinatore, pur conscio che dopo sarà necessario compensare l’energia spesa per il cielo con un parco cibo vegetale. (torna)

Quartiere europeo

Dal semideserto quartiere turco dove si parla sottovoce e ci si intende a gesti, si cade nel sottostante quartiere europeo rumoroso e rigurgitante. Una volta nella città bassa, anche i musulmani si trasformano per malefico incanto adeguandosi alla ressa cosmopolita cui aggiungono la luce e i colori dei loro costumi e i gutturali, aspirati e intermittenti suoni della parlata. Fra loro s’incontra spesso la fanciulla turca dai colori marini, chiusa nella suggestione del velo che suscita negli occidentali e soprattutto nei soldati una curiosità morbosa appena frenata dall’educazione o dal timore d’infrangere misteriose regole di costume. A Emilio pare che quelle giovani portino il ciador come un’odiosa costrizione e non desiderino altro che disfarsene per palesare la loro avvenenza, ma forse confonde le sfumature espressive dei loro occhi col proprio desiderio. Forse un po’ di vero c’è nel suo pensiero ch’esse invidino le occidentali dalle vesti moderne e diversamente eleganti, e ben più libere di muoversi e comportarsi.

I due amici vanno a sedersi a un caffè davanti alla Torre Bianca per curiosare il passeggio e godere il golfo col suo arioso movimento di navi e vele. Detta anche Torre del Sangue, su quel misterioso rudere, un tempo pietroso vessillo veneziano, più volte ricostruito e imbiancato, circolano strane leggende mescolate a ricordi storici d’impietosi massacri musulmani legati alle contese della città.

Non meno piacenti delle esotiche musulmane sono le signore occidentali a passeggio con eleganti toilettes, e non meno eleganti di queste sono le impeccabili divise dei loro mariti, alti ufficiali del presidio alleato, tali e tante da stupire, contrastanti con le zotiche monture dei soldati semplici e ancor più con quelle malandate e sozze dei reduci dal fronte. Signore e ufficiali trattano i nostri fantaccini come loro mercenari e i reduci come degli appestati, fanno il possibile per scansare quei poveri eroi ripugnanti e inorridiscono se ne vengono urtati o anche solo sfiorati, come presi dalla paura di un contagio o dalla rabbia di un insulto. Divi dell’uniforme e della spada, divette dei teatrini e dei caffè, mogli ed amanti degli Stati Maggiori, la forma è tutto sulla Promenade del Quai e dentro le loro teste. (torna)

Stagione balneare

Anche se divide la lontananza da casa con qualche amico comprensivo, Emilio si sente solo al campo di Zeitenlik così come nella canea cosmopolita di Salonicco. Un pomeriggio, per lenire la tristezza che il caldo estivo coi suoi forti richiami di libertà sottolinea, si dirige verso il mare. Strada facendo, si accorge che è molto più distante di quanto aveva valutato. Non lo raggiunge mai mentre il calmo specchio pare sempre a due passi. Dopo una lunga marcia fa finalmente ingresso in una spiaggia deserta percorsa solo dall’odoroso sciacquio delle onde che la brezza sospinge sulla sabbia. I sensi, colpiti dagli elementi con cui ha sempre avuto confidenza, lo riportano all’infanzia e agli incontri coi piccoli amici lagunari coi quali remava, si tuffava e coglieva molluschi fra le barene.

Sulla spiaggia la presenza dei dolci bivalvi è dimostrata da innumerevoli coppie di forellini sulla battigia o appena sotto il primo velo dell’acqua. Preso da un impeto di nostalgia e golosità, immerge le dita nella sabbia e ne trae una cappa tonda a forma di cuore grande come una noce con la conchiglia grigia striata di giallo uovo, la sciacqua e con l’unghia l’apre e sta ad osservare il mollusco che reagisce pulsando col viscido corpo aranciato profumato di salso, e ne fa un boccone. La delizia lo spinge a farne una scorpacciata.

L’indomani torna sul posto con gli amici della fureria e una provvista di pane, limoni e pepe. Dopo un’abbondante raccolta, fanno una camminata lungo la spiaggia in direzione della città finché non incontrano un capanno che si rivela una rustica mescita. Attorno a una tavolo di legno con le zampe conficcate nella sabbia e sotto l’inizio di un tramonto che come un frutto matura alle loro spalle, innaffiano i molluschi con bianco canforato di Creta, e con gli occhi fissi sugli scrimoli dell’orizzonte si assentano. Venali ricordi di una vita vegetativa ma indelebili perché fatti di cose aventi eterno valore proprio. (torna)

Si riparla del capitano

La filosofia pratica a cui è improntata la vita culturale italiana dei primi decenni del secolo tra idiotismo futurista e nazionalismo irresponsabile abbina e sincronizza tra loro gli imperativi categorici del vivere dinamicamente e del vivere pericolosamente. Oggi, dopo le bufere di due guerre mondiali e cessato il rischio di una terza, al cui posto scoppiano o si fomentano continue guerre locali, è rimasto solo il mito, che basta e avanza, del dinamismo, in particolare nel mondo degli affari che coi corollari di smania di successo e voglia di denaro forma la santissima trinità cui qualsiasi furbo aspira nella speranza di contare qualcosa e davanti alla quale le escluse masse popolari della piccola e media borghesia si genuflettono.

A quel tempo, al pericolo e al dinamismo (e oggi al solo dinamismo) era (ed è) da aggiungere una difficoltà che solo in parte dipende dall’uomo: l’imprevisto. Fato, natura ed esseri umani sono prodighi di sorprese, raramente piacevoli, più spesso amari intralci sia alle comuni attitudini alla vita nevrotica, sia alle singole aspirazioni alla vita tranquilla. La sorpresa discende in abbondanza dal caso e dalle forze brute della natura, ma spesso risulta dalla cattiveria e stupidità umane e serve a riportare sulla terra l’uomo che osa sognare e a tenervelo saldamente.

Il giorno dopo le dolcezze provate su quella spiaggia vergine in forma d’immagini e odori marini, la dea sorte si reca da Emilio sotto la forma sciatta di un tenente di fanteria. Il tizio, in funzioni ispettive, è incaricato dal Comando di Salonicco di comunicare al furiere qualcosa di spiacevole risalente al tempo in cui teneva la contabilità di una compagnia di stanza nel Trentino impegnata a fronteggiare il nemico austriaco sotto il comando dell’allora, secondo quanto afferma il tenente, maggiore Depretis, ora generale. Il furiere, che era solito prelevare i fondi occorrenti al pagamento della cinquina ai soldati, avrebbe un bel giorno dimenticato nelle tasche dei propri calzoni una certa somma senza più restituirla, ragion per cui il Comando Supremo in Italia, dopo aver disposto l’accertamento contabile, inviava la pratica in Grecia e richiedeva in restituzione la somma all’ex Maggiore, responsabile dell’unità militare. Quest’ultimo, autostimandosi al di sopra di ogni terrena responsabilità e scaricandola di conseguenza verso il basso, la richiedeva ora al furiere di Zeitenlik cui intimava di confessare subito e senz’altro il misfatto.

Emilio, dopo aver dichiarato all’ispettore di non aver nulla da confessare, prende visione del documento d’accusa firmato dal Depretis in cui si sostiene che quando il furiere amministrava ai suoi ordini i conti della Quarta Compagnia, eccetera eccetera. E qui cade, così come l’asino, anche il generale, perché Emilio non era mai appartenuto a una quarta compagnia, che invece l’ufficiale aveva evidentemente e provvisoriamente comandato subito dopo la nomina a maggiore. Inoltre non corrispondono ai fatti né il grado dell’ufficiale, che quando aveva alle proprie dipendenze Emilio era solo capitano, né il numero del battaglione né la località dove sarebbe stato compiuto il reato né altre circostanze. E’ evidentemente l’esito equivoco di qualche pasticcio al quale l’ufficiale arraffone vuole ora sottrarsi infastidendo l’ex furiere della 12ª, colpevole di essere stato testimone e complice delle sue malefatte contabili. Emilio riscontra per iscritto la denuncia rintuzzando l’accusa con circostanziata precisione e con tale fierezza da destare la meraviglia e meritare l’ammirazione di tutto il Deposito, la cui collettiva coscienza si immedesima in lui come in un eroe che sa affrontare col dovuto coraggio le sopraffazioni dei superiori per rendere giustizia ai deboli di fronte ai prepotenti. (torna)

L’incendio di Salonicco: [Nota 60] l’inizio

Ma l’imprevisto venne ora anche in forma grandiosa, mezza naturale e mezza no, a desolare con impeto funesto migliaia di esseri umani inducendoli a riflettere per il resto della loro vita sulla caducità dei beni terreni, i fini reconditi della Provvidenza e le nostre contraddizioni sia pure con tante interpretazioni discordi ma nella comunione di un solo stato d’animo: chi avesse voluto decifrare sulla loro fronte l’interno affanno non vi avrebbe letto altro che odio come centro di gravità d’ogni altro sentimento, un odio contro tutto e contro tutti, che solo dopo molti anni di vita avrebbe potuto tramutarsi nel superiore sentimento di pazienza della vecchiaia.

Il pomeriggio del 18 agosto Emilio sta chiacchierando ai baraccamenti del Comando Deposito, posati sul giallo delle dune ferme nella ruota dell’estate, quando è attratto da una colonna di fumo impennata sul cielo di Salonicco. In un primo momento non ci fa gran caso, gli incendi non sono rari in città e di solito si tratta di un edificio singolo, una casa o un albergo, e stavolta, vista la densità della combustione, potrebbe trattarsi di una fabbrica o un deposito di legname o di gomme per auto o di un magazzino del porto. Ma col passar delle ore il fumo non diminuisce come è successo altre volte, anzi aumenta e la sua base sembra allargarsi. La ruota del tempo si mette improvvisamente a correre, e anche le dune intorno perdono fissità e sembrano modulate da preoccupazione.

Qualcuno avanza l’ipotesi di un’incursione aerea o di un bombardamento navale ma nessuno ha udito rombi d’aeroplano o colpi di cannone. Quel giorno non pare essersi verificato nulla di insolito o di anormale, sembra una giornata come le altre, un giorno di guerra lontana, assente come al di fuori della storia che ha bisogno di metterne insieme tanti per lasciare un significato, un pomeriggio qualsiasi in cui però ha preso a fischiare, dando noia ai capelli e agli occhi, il periodico vento del Vardar che soffia ogni mese per tre o quattro giorni dai monti macedoni nord-occidentali verso la pianura e il mare in relazione a qualche ricorrente fenomeno atmosferico locale.

Nel tardo pomeriggio il vento è molto aumentato e prende un fiato più impetuoso del solito riempiendo di veloci particelle di terra l’aria e il gusto della bocca, flettendo e lucidando l’erba dei campi, sgombrando il cielo da ogni straccio di nube e disperdendo rapidamente la parte più alta della colonna di fumo che va continuamente rigenerandosi, e la cui base di fuoco, ancora invisibile di giorno e da lontano, viene alimentata dalle raffiche. Gli abitanti di Zeitenlik sospendono il lavoro e si fermano a osservare la novità da ogni parte del campo.

Verso sera giungono da Salonicco ufficiali in automezzo e soldati ciclisti e riferiscono che l’incendio ha avuto origine nella città alta all’altezza delle mura occidentali dove inizia il quartiere turco, acceso non si sa come né da chi, e va rapidamente propagandosi in basso verso i quartieri nuovi sotto la spinta del vento che soffia fortissimo da nord-ovest verso il mare. Aggiungono che, secondo il nostro Comando, la coincidenza del fuoco con l’inizio delle raffiche del Vardar fa temere il peggio e che bisogna attendersi provvedimenti. All’imbrunire l’orizzonte presenta una vasta aureola aranciata, anche se da quella distanza ancora non si distinguono le fiamme né si sente odore di bruciato perché il vento sorvola gli accampamenti prima d’investire la città.

La gravità della situazione è confermata dal fatto che prima di notte giunge dal Comando Generale Alleato l’ordine di consegnare le truppe negli accampamenti e inviare parti di esse a scaglioni e turni in città con tutti gli attrezzi antincendio disponibili in dotazione a zappatori e artificieri.Contemporaneamente la base italiana di Salonicco richiede a Zeitenlik l’urgente invio di mezzi di trasporto per porre in salvo le merci e le attrezzature dei magazzini. (torna)

Avvio dei soldati

Giunta notte, coloro che sono rimasti al campo, e sono ancora la grande maggioranza, non riescono a dormire dall’agitazione e neppure a stare svegli nelle baracche. Si ritrovano in breve tutti all’aperto sulle dune di cinta a scrutare, attratti da una forza magnetica, quell’orizzonte rosso in cui ora si riesce a distinguere un basso strato di fiamme esteso su quasi tutta la città che sembra disfarsi piano dentro un immenso braciere. Il cielo è caldo e minacciosamente limpido come in certe notti d’inverno, spazzato da folate intermittenti. Si formano gruppi che discutono sulle cause e i modi dell’incendio e sull’opportunità di accorrere sul posto a portare aiuto.

Ma ciò che li anima davvero è un’irresistibile curiosità, quasi inconscio entusiasmo, di vedere da vicino un fuoco di proporzioni gigantesche mai visto prima, il più grande incendio cittadino della loro vita e forse della storia, al cui confronto quello di Troia regge solo perché celebrato, e la convinzione di non potersi limitare ad assistere da lontano e da estranei a un fenomeno unico che vogliono toccare con mano. Vengono presi tutti dalla smania di vivere sul posto e da protagonisti quello che, per loro che non vi sono direttamente toccati non avendo in città né affetti né averi, si annuncia più un grandioso spettacolo che un’immane tragedia.

Così, in piena notte, a piccoli gruppi via via più numerosi, tanto che le sentinelle non tentano più di fermarli, si ritrovano tutti insieme, quasi senza accorgersene, sulla via di Salonicco. E gli italiani non sono i soli. Da ogni accampamento si avviano verso l’orizzonte infuocato innumerevoli altri soldati che marciano quasi meccanicamente sospinti come rispondendo a una chiamata prestabilita. Sotto l’impeto delle raffiche che ne agevolano la marcia e galleggiando nel vento si forma un fiume d’uomini che scorre su una strada stregata dai bagliori provenienti dalla città.

Molti si tengono a braccetto per non smarrirsi nella folla e cantano cori che hanno il potere di tenerli uniti in un unico intento di piacere. Man mano che procedono soggiogati dall’emozione e dalla meraviglia, all’ipnosi del piacere si accosta in molti un sentimento di pietà per le tante vittime che attendono aiuto ma, mentre dall’estetica lontananza si approssimano alla materiale realtà del fuoco, la pietà si associa ad altri sentimenti, si trasforma, imbocca la strada di una neutra impotenza e s’incaglia nei più infidi risvolti dell’animo. (torna)

Fuga degli abitanti

Emilio procede con quelli del suo Deposito, chiuso e nascosto in una moltitudine che ingrossa via via che ci si avvicina alla città, e quanto più gigantesco si presenta il sinistro, tanto più acuta è la voglia collettiva di toccare con mano e per tempo quel fuoco possente e distruttore dietro il quale si nasconde il silenzio della cenere, il nulla da cui ricostruire il tutto.

Già cominciano ad apparire le mura sinistramente illuminate a giorno, battute da strappi d’aria arroventata. Il Vardar soffia sempre più impetuoso, attraversa gli edifici infuocati trascinando con sè scie di faville che scavalcano i tetti come effimere comete e spruzzano fumo e acredine intorno. Entrato nella via Egnazia, il fiume dei soldati si fa irresistibile e prende la corsa penetrando come un fluido in ogni vicolo laterale. Sotto le scie illuminanti che incrociano in cielo i tetti crepitano lasciando cadere pezzi di travi infuocate.

Gli abitanti della città alta fuggono lungo l’allucinato pendio del monte Chortiàtis verso il porto per vicoli chiari come il pomeriggio stringendo al petto i propri valori e frustando davanti a sè somari carichi del possibile con a fianco donne seminude che trascinano fanciulli piangenti, disperatamente aggrappati alle sottane. E dietro a loro scendono anche le fiamme e ruzzolano oggetti arroventati in una rincorsa mortale. Di soffio in soffio il fuoco lambisce ormai i palazzi della città moderna. Le case già bruciate e crollate diventano enormi bracieri che sotto la violenza del vento sembrano sulfurei crateri attivi che propagano le fiamme agli edifici vicini finché intere catene di strade bruciano. Carri con asini o cavalli escono stracarichi da ogni cortile, e qualche animale, imbizzarritosi alla vista del fuoco, scappa via col carico ancora in bilico senza attendere le briglie del padrone, mentre altri danno sgroppate tali da far cadere tutto ciò che il padrone tenta di caricare.

Molti carri si rovesciano in corsa, e uomini e donne, attardatisi a ricercare le loro cose, sono costretti dall’avanzare del fuoco a lasciarle per strada per poter fuggire più liberamente, sicché per il crollo delle case e l’abbandono delle merci e degli oggetti, le strade si vanno ingombrando d’ogni cosa ostruendosi, ostacolando la fuga e aumentando lo scompiglio. (torna)

Comportamento dei soldati e degli abitanti

Nella folla il sentimento di pietà non parla mai da solo, altre voci nel petto e nella psiche si nascondono e si levano a confonderlo, frenarlo, stravolgerlo suscitate da misteriose forze superiori. Dal bivio dell’emozione si diparte solo per pochi la solidarietà, i più percorrono di corsa la più istintiva via di uno sfrenato egoismo. A questo punto, dal fiume di soldati in piena escono innumerevoli sciacalli che, accortisi che in tutte le strade è possibile e facile raccogliere qualsiasi cosa, si mettono a racimolare come forsennati ogni più disparato oggetto con l’ansia di farne pingue bottino, mentre altri penetrano nelle case lasciate incustodite dalla fuga dei proprietari. Emilio si accorge con disgusto che molti soldati hanno con sè uno zaino che gonfiano di refurtiva, quasi che il saccheggio sia stato premeditato.

I più istintivi e semplici si precipitano verso le osterie e i locali che in tanti mesi di permanenza avevano frequentato, trovandone alcuni aperti per la precipitosa fuga dell’oste e della sua famiglia, e ne saccheggiano la cantina, e i locali che trovano sprangati aprono a forza creando un’orgia nell’orgia, mentre altri, più attenti e interessati, penetrano nelle botteghe della via Egnazia.

Un paio d’ore dopo sono molti gli avvinazzati che vagano per le vie infuocate compiendo vandalismi e molestando gli abitanti occupati a mettere in salvo se stessi e le proprie cose. Capannelli di ubriachi si danno a far smorfie e a deridere i disgraziati che fuggono i quali, incontrandone lo sguardo, ne traggono un senso di orrore come se il Padre Nostro avesse capovolto l’aldilà e installato l’inferno in superficie per mostrare loro quale sarà l’eterno che li aspetta. Più di un soldato, in preda a panico liberatorio, riesce ad agguantare e violentare fanciulle disperse e discinte che vagano piangendo in cerca dei familiari, mentre altri denudano e s’approfittano di bambini che durante la fuga sono rimasti indietro. Gli occhi precisi di Emilio annotano episodi squallidi di cui sono protagonisti un po’ tutti, in primo luogo i militari d’ogni razza e paese, e non solo quelli di colore, e poi gli stessi abitanti, compresi i musulmani e gli ebrei. Nel proprio ventre arroventato la città è divisa in due: le persone, cioè coloro che sono occupati a fuggire, avendo se stessi e qualcosa da salvare, e che concentrano solo paura e dolore, e le bestie, coloro che non hanno nulla da perdere e restano in agguato in attesa della loro forse unica occasione nella vita di sfogare senza ritegno e impunemente il loro istinto di ladri e stupratori. Persone e animali che, in altre ed opposte circostanze, scambierebbero i ruoli...

Intanto il Vardar soffia ancora più forte divertendosi ad alimentare il fuoco e a sollevare faville che crepitano in un vorticoso diavolio di luci e colori, attorcigliando soffocanti pile di fumo, comprimendo e subito liberando e allungando le fiamme in direzione di un mare inutile nella sua immensa e inoperosa riserva d’acqua che si limita a riflettere i giochi di luce del disastro. Il fuoco rovista l’interno dei minareti facendo coi suoi corni capolino dal ballatoio da dove il muezzin suole dirigere cantando il rito cittadino, finché quei bianchi e snelli riferimenti di preghiere non diventano sinistre torce emergenti dal vulcano della città dalle quali danno spettacolo lingue di fuoco danzanti come diavoli ebbri. Le fiamme afferrano chiese, moschee e sinagoghe senza dar torto o ragione e investono anche i quartieri moderni, il Gran Bazar, gli hotels, il Quai e la Tour Blanche avvicinandosi al mare. Quando Emilio giunge al porto, vede che tutti i fuggiaschi si sono colà radunati e assistono con angoscia al rapido progredire dell’incendio e allo svanire di ogni loro speranza. (torna)

Sistemazione degli sfollati

Durante tutta la notte non si è mai udito lo scampanellio dei pompieri semplicemente perché non esistono. Non ci sono prese d’acqua né cisterne perciò, mancando l’acqua e aiutato dal vento, il fuoco è riuscito a scavalcare ogni ostacolo e a superare anche le poche zone d’isolamento create dagli artificieri e zappatori degli eserciti alleati. Vistisi inseguiti dal fuoco fino al porto ed anche qui seriamente minacciati da possibili esplosioni di depositi di carburante, gli oltre centomila fuggiaschi che vi si assiepano si allontanano verso la periferia dirigendosi in massa agli accampamenti militari, unico luogo di riferimento per ogni possibile aiuto e sistemazione.

Ormai tutti hanno rinunciato alle loro cose e badano solo a salvare se stessi. Soltanto dopo aver messo al sicuro le merci e le attrezzature dei magazzini militari, gli autocarri vengono messi a disposizione degli sfollati. Pressato dalla concitazione di un cielo sfavillante e nemico che illumina una massa che si è inesorabilmente avviata e minaccia di travolgere col proprio peso gli stessi accampamenti, il Comando Generale decide di far deviare la colonna dei profughi lontano dagli insediamenti militari, assegnandole una zona dove accamparsi e mettendole a disposizione viveri e tende. Sorgerà così in quel lembo di pianura una nuova tendopoli dalle proporzioni enormi, doppie rispetto allo stesso quartiere del Vardar i cui abitanti straccioni si ritengono fortunati di essere stati esclusi dal furioso percorso del fuoco che ha voluto punire soltanto chi ancora possedeva quello che essi avevano perduto da mesi o da anni. Emilio rientra a Zeitenlik all’alba mentre le fiamme continuano inesorabili a divorare la città. L’incendio si spegne dopo tre giorni assieme al rituale placarsi del vento lasciando su ogni rovina un sottile strato di cenere coprente la fusione delle materie. (torna)

Polemiche

Nei giorni seguenti si accendono sugli spazi farisaici dei giornali le polemiche per stabilire a chi imputare la responsabilità degli innumerevoli reati di furto, scasso, rapina, stupro e molestie d’ogni specie commessi dai militari riversatisi in massa sulla città, e soprattutto quella del mancato soffocamento dell’incendio. La questione dei reati è in realtà un problema di solo puntiglio morale sollevando il quale ciascuno dei presìdi alleati cerca di scaricare la colpa sugli altri e, poiché la cosa interessa in concreto la sola popolazione cittadina che dei reati è stata vittima, è presto lasciata cadere, anche perché è evidente che i misfatti sono da addebitare un po’ a tutte le nazionalità presenti in quel momento in suolo macedone, compresi gli stessi greci, militari e civili, esclusi solo i russi, rimasti isolati nel loro accampamento circondato da fucili spianati per evitare ogni contagio pacifista e rivoluzionario con le altre truppe.

Tutti i paesi sono simili e si comportano similmente perché gli istinti sono patrimonio naturale di tutti con la sola differenza che in alcuni una maggiore educazione, dipendente da famiglia, scuola, stato economico-sociale, cultura e tradizioni, li previene di più mentre in altri una minore educazione li previene di meno. L’attenzione della stampa si concentra quindi quasi subito e solamente sul perché non si sia riusciti a circoscrivere efficacemente le fiamme.

Un incendio di simili proporzioni non era mai stato collocato fra le previsioni dell’accadibile. Il suo verificarsi ha sul momento angosciato e poi indispettito le autorità militari e civili. A nessuno era mai venuto in mente di collegare la probabilità e la pericolosità di un incendio al contemporaneo levarsi del periodico vento del Vardar che certamente si leva laggiù da un’epoca anteriore alla comparsa dell’uomo sulla terra, e di adottare misure preventive in relazione a tale possibile concomitanza. La città, che in quel periodo conta poco meno di 250.000 abitanti senza i contingenti militari, non è attrezzata con mezzi antincendio e non dispone di un vero e proprio corpo di vigili del fuoco. Ciascun Comando alleato accusa l’altro di aver fatto poco o nulla per circoscrivere le fiamme e di essersi occupato solo di mettere in salvo le proprie attrezzature. Dei tentativi di spegnimento sono stati fatti solo quando il fuoco era ormai diventato irresistibile e con l’uso dei soli mezzi in dotazione ai militari, vale a dire dinamitardi e distruttivi previsti dai piani di guerra. Sono stati fatti saltare interi gruppi di fabbricati per isolare i roghi e togliere alimento alle fiamme ma è mancata nei vari punti della città e sullo stesso bordo del mare l’acqua che completasse l’opera. Le uniche condutture esistenti erano le manichette in dotazione alle navi ancorate nel porto i cui comandanti, dopo averle prestate alle autorità cittadine, visto che l’incendio si appressava al porto e minacciava i depositi di carburante, le hanno subito ritirate portando le navi al largo. (torna)

Visita del Re

"Re Alessandro accompagnato dal Maresciallo di palazzo e tre Aiutanti di campo è arrivato stamattina a Salonicco con treno speciale da Atene. Il treno non si è fermato alla Stazione degli Orientali, ma servendosi del binario della Dogana si è inoltrato per la Via di Mitkra, prolungamento del Lungomare Conduriotis. Erano le nove e mezzo. Il Re, ritto sulla porta del vagone-salone, ha contemplato con aria accorata il lugubre spettacolo che si offriva ai suoi occhi. E’ un giovane alto, bruno, coi baffi corti. Porta un monocolo all’occhio sinistro trattenuto da un cordone di seta nero. L’occhio è bleu-danois, [Nota 61] colore degli occhi di suo nonno, il Re Giorgio. E’ vestito di bianco: pantaloni, giubba e képi bianchi. Sulle spalle le spalline con la corona reale e la lettera B (Basileus) ricamata in argento. Al grido della folla risponde portando con gesto rapido un dito della mano destra sulla visiera del képi. Intanto le truppe alleate si sono ammassate in Piazza della Tour Blanche nell’ordine seguente: a destra, andando verso Viale Re Giorgio, la fanteria greca, i marines francesi, la fanteria serba, la fanteria italiana; a sinistra, i boy-scouts di Salonicco, gli scozzesi, gli inglesi, i mitraglieri alpini francesi, i marines italiani. Sulla piazza, le autorità civili e militari: il signor Argiropulos, i tre membri del gabinetto Venizelos presenti a Salonicco, il generale inglese Milne, il generale francese Marty, il generale russo Artamanoff, il generale greco Zimbrakakis, i consoli di Francia, Inghilterra, Italia, Russia, Romania, Serbia e Spagna, gli ufficiali di Stato Maggiore francesi, inglesi, italiani, russi, greci, serbi, riuniti per nazionalità. Sotto l’ardente sole d’oriente le uniformi dai diversi colori formano un insieme armonioso. A dieci ore precise, i trombettieri francesi suonano l’attenti e le fanterie dei cacciatori suonano la Marsigliese. Le truppe presentano le armi: è il Generalissimo Serrail che arriva. Indossa la bassa tenuta con l’insegna della gran croce della Legion d’Onore. Saluta i presenti gridando: "Abbassate le armi!". Quattro minuti dopo si distingue in lontananza, sul lungomare, la locomotiva del treno reale che avanza lentissimamente. Ancora cinque minuti e il treno sarà all’altezza della Tour Blanche. I trombettieri e le bande suonano l’inno greco. Il treno si ferma. Si apre la porta del vagone-salone, si abbassa il predellino e gli Aiutanti di campo scendono per primi, indi il Re. Tutti salutano, le truppe presentano le armi, la folla grida: "Viva Basileus! Viva Venizelos!". All’uscita dal vagone il Re è ricevuto dal Generalissimo Serrail che gli rivolge parole di benvenuto. Mentre il signor Argiropulos presenta al Re i personaggi ufficiali presenti, il treno viene fatto retrocedere. Preceduto dal Generalissimo Serrail il Re passa in rivista le truppe, poi, sempre accompagnato dal generalissimo francese, s’inoltra per il viale Re Giorgio per passare in rivista serbi e italiani. Terminata la rivista d’onore, il Generalissimo Serrail dice al Re: "Cosa desiderate fare adesso?", "Vorrei visitare le rovine della città". Si chiama l’automobile reale nella quale prende posto il Re coi suoi Ufficiali. L’auto si allontana e si inoltra in città per il Campo di Marte verso il Viale dei Cimiteri. Il Re ha percorso così le strade ove l’automobile poteva passare. Ha assistito ai lavori di ripristino eseguiti dagli zappatori del Genio francese, i quali han fatto saltare, nel momento in cui passava il Re, delle case in rovina. Innanzi all’estensione del disastro, il giovane Re pareva estremamente afflitto. Ha parlato pochissimo, ma un’incrinatura del labbro inferiore manifestava la violenta emozione ch’Egli provava. Il Re ha fatto colazione nella più stretta intimità alla Villa Modiano, ex residenza del Governo provvisorio. Dopo colazione è partito in automobile ed ha visitato tutti gli accampamenti e baraccamenti dei profughi del fuoco. Egli ha personalmente distribuito aiuti considerevoli. Lascerà Salonicco stasera alle sei con un treno speciale. I membri del governo attualmente a Salonicco rientreranno con lui ad Atene." (torna)

La nuova Salonicco

La sepolta Salonicco non poteva avere esequie più degne e i suoi diseredati abitanti onore più alto. L’articolo del locale "Echo de France" del 25.8.17 non poteva essere più cerimonioso, pignolo, civettuolo, filofrancese e francese e al tempo stesso contraddittoriamente filomonarchico, anche se solo in apparenza, visto che il filofrancese Re Alessandro I, secondogenito del filogermanico Costantino I, nipote di Cristiano IX, Re di Danimarca, è stato imposto all’abdicante padre dagli anglo-francesi dei quali non è che una reale figura di paglia. Da notare la cortigianità della cronaca ossessiva nei particolari formali e monotona nella doverosità delle elencazioni. Non c’è nome proprio che non sia sempre preceduto dal titolo. Il generalissimo Serrail ha rilievo quanto il Re, e gli zappatori francesi sono gli unici che sappiano sgombrare, magari al suono della marsigliese, i quartieri di Salonicco dalle case pericolanti. Che il cronista si sia accorto di aver dato giù di humor sul labbro inferiore del Re? Forse sì, ma non anche di aver fatto correre a Sua Maestà il rischio di restare sepolto dalle case in rovina che gli zappatori francesi han fatto crollare proprio nel momento del suo passaggio. Naturalmente mancano le cose più serie per chi non sia esclusivamente un cronista, come qualche considerazione sul disastro o due misere parole di speranza per i poveri sfollati o due parolette di pressione o almeno di esortazione al governo Venizelos e agli Alleati perché facciano qualcosa per gli oltre centomila profughi. [nota 62]

Raffreddatesi le ceneri intorno al più ostinato tizzone e rese agibili dagli zappatori le strade principali, gli sfollati ricoverati nella nuova tendopoli si sono precipitati in città nei giorni immediatamente successivi all’incendio, ciascuno correndo laddove sorgevano la sua dimora o la sua bottega nella vana speranza di tirar su da terra qualcosa. Ma a far pulizia, sottraendogli anche il più scassato mestolo da brodo, ci avevano già pensato da giorni le truppe d’ogni colore e nazione, compresa la sua. Un sospiro ha sigillato la sua rassegnazione ma un moto di odio inespresso gli è rimasto in gola e nel profondo del corpo.

Può darsi che Venizelos, quello della riforma agraria e della modernizzazione del paese, abbia poi fatto qualcosa anche per i poveri abitanti di Tessalonica, ma certo più di lui han fatto essi stessi, soprattutto gli ebrei negozianti e commercianti le cui monete non erano poi così pesanti da richiedere il groppone dei somari per essere portate in salvo. Ad esse è bastato un cofanetto. Fatto sta che in poco tempo Salonicco risorge anche, e soprattutto, grazie a loro. Una città di baracche, si capisce, fatta coi ruderi degli edifici distrutti che gli sciacalli non han potuto portar via. Sotto quelle baracche cova la moderna Salonicco. Le nuove dimore hanno le forme più strane e i colori più appariscenti, ed anche gli abitanti coi loro vestiti rimediati e bizzarri sembrano nuovi. Una popolazione industre. Negozi, bazar, caffè e soprattutto il piccolo commercio ambulante riprendono presto a vivere di vita propria con buon volume di affari, per non parlare dei postriboli della periferia che, essendo rimasti indenni, continuano indisturbati a prosperare. Più tardi riapriranno anche fabbriche, opifici e fondachi. Nella tendopoli resteranno solo i più miserabili e coloro che, per apatia, pessimismo, fatalismo, lassismo, insomma per loro natura non sanno nutrire speranza. (torna)

 

parte quinta

RACCORDO

 

 

Foglio azzurro

Mentre sui fronti esteri ristagna la guerra di posizione, in Italia maturano tra il settembre e l’ottobre del’17 eventi drammatici dal duplice risvolto: militare, perché Cadorna, conosciuti vasti movimenti di truppe austro-tedesche nelle Alpi Giulie, decide giustamente di proseguire la guerra sul solo piano difensivo ma indugia pericolosamente nell’adottare misure concrete ai fini di tale trasformazione strategica, sicché lo sfondamento di Caporetto ci troverà impreparati; civile e sociale, perché il governo comincia a sfornare provvedimenti liberticidi e ad arrestare i dirigenti socialisti sulla cui propaganda si addossa la responsabilità dei mancati successi militari.

Questa è la situazione quando Emilio, che la Provvidenza non ha mai dimenticato, il 15 ottobre si trova un foglio azzurro fra le mani. Non ha mai avuto una licenza dal giorno in cui è partito soldato e muore dalla voglia di rivedere la fidanzata, i suoi cari e la propria città. Quando un essere celeste dall’aspetto di soldato canta il suo nome e gli depone tra le mani quel foglio altrettanto celeste di due settimane di licenza più viaggio, il furiere prova una gioia la cui intensità offusca la nostalgia che lo strazia.

Racimola in fretta e furia gli oggetti personali e si dirige quasi a passo di corsa verso la ormai cinerea Salonicco, dovendo raggiungere al più presto la sede della Base Militare Italiana che organizza i viaggi dei nostri soldati in patria. Arriva appena in tempo per occupare l’ultimo posto disponibile dell’ultimo camion. Partenza immediata. Davanti a lui una fila di camioncini traballanti, carichi di soldati felici, traversa la città e prende la direzione del Vardar sollevando nuvoloni di steppa macedone fino a Sakulevo. Il giorno dopo la colonna giunge a Flòrina dove Emilio, sfuggendo miracolosamente al fronte di Monastir, era salito in treno per Salonicco l’inverno scorso che gli pare un secolo. Ora si accorge che la cittadina è in pratica formata da sue sole file di case prospicienti un sudicio canale. La mattina del 17 la fila di automezzi inizia la salita sulla regione montuosa che porta al confine con l’Albania. (indice parte quinta)

Valico Grecia-Albania

Il tempo è piovoso, quello stesso maledetto tempo che tanto aveva appesantito e incollato al suolo le lunghe marce dell’inverno passato. La strada sale ripida e in pessime condizioni. Superata quota 1500, le ruote degli automezzi cominciano a slittare sul fondo ghiacciato e i margini a franare qua e là sotto il peso dei veicoli in movimento. Su una stretta curva in discesa uno dei camioncini di testa slitta, sbanda e scivola giù per un corto pendio provocando il ferimento di parecchi soldati che, fatti salire su uno degli altri camion i cui passeggeri vengono stipati nei rimanenti, devono riprendere come cerchio vizioso e sfortunato la via di Salonicco fino all’ospedale 151 da dove ritorneranno a Zeitenlik per la convalescenza.

Il veicolo sul quale viaggia Emilio assieme a una ventina di commilitoni resta a un certo punto in bilico con le due ruote laterali oltre il ciglio stradale, per fortuna a motore spento e ruote frenate. I soldati, scesi con una calma fredda come la strada, rimettono a forza di braccia il mezzo sul nastro stradale, e la marcia riprende con sollievo e prudenza attraverso fitti boschi di montagne ormai albanesi. Tra albero e albero s’intravvedono vallate incolte abbandonate al potere della natura. Corrono per un’intera giornata senza incontrare né case né anime salvo gruppi di prigionieri o carcerati intenti a frantumare sassi per ricavarne pietrisco con dei lunghi martelli che muovono lentamente sotto la sorveglianza di guardie armate. Verso sera giungono a un Comando Truppa italiano nel villaggio di Bilishti. Il mattino dopo riprendono il viaggio attraverso un lussureggiante altopiano toccando Còriza e un compatto gruppo di case di sasso bianco addossate le une alle altre chiamato Erzek. Puntano quindi a sud fino a Leskoviku e Perati per poi seguire in discesa il corso della Vojussa in direzione nord-ovest e quello del Dhrino in salita in direzione sud-est. Il 19 salgono fino a Delvina e verso sera arrivano finalmente al porto di Santiquaranta, istupiditi dalla stanchezza, disorientati dalle contorsioni del tracciato stradale dovute alla tormentata orografia albanese e mummificati da cinque giorni di traballamenti, freddo, polvere e fango. S’imbarcano subito su un mercantile italiano nella cui stiva vengono gettati in mezzo a un carico fetido e rumoroso di capre, cinghiali e merci alimentari varie che, dal puzzo emanato, sembrano in completa dissoluzione. (indice parte quinta)

Lungo un’Italia diversa

A notte il piroscafo salpa per una traversata breve, senza incidenti ma senza sonno. Emilio, con la gioia ostinata del ritorno, si rannicchia a prua incurante dei rigori del tempo e degli spruzzi di mare che di tanto in tanto lo raggiungono alle mani e al viso rivolto a un cielo fitto di stelle nel quale la Via Lattea sembra parallela alla rotta. Sbarca a Taranto in tempo per agguantare un treno affollatissimo diretto a nord. E’ solo perché i compagni di viaggio hanno altre destinazioni o hanno trovato posto in altre carrozze. Sosta qua e là secondo gli ordini dei vari comandi militari di stazione e delle ronde viaggianti. Ha così modo di osservare e pensare l’Italia guerriera dopo due anni e mezzo di conflitto.

Ovunque soldati, silenzio, indigenza e dolore sopportato con dignità mentre intorno è fiorito tra i furbi il sottobosco e molti uomini validi e capaci d’impugnare le armi si son messi al riparo in uffici privilegiati o in posti specializzati o si son messi a fare i politicanti o i loro portaborse o il fornitore militare o il vivandiere o la spia o sono impegnati in uno qualsiasi dei numerosi servizi speciali. Ma poiché tutto il male non viene per nuocere, è successo anche che in questi due anni e mezzo di guerra le donne, senza gli uomini, hanno fatto progressi verso la propria indipendenza economica e imparato a fare affari, ad amministrare aziende e pubblici esercizi e, nelle ipotesi più modeste, a lavorare in fabbrica e a condurre automezzi, appropriandosi naturalmente degli stessi vizi dell’uomo come alcool e tabacco, della sua cultura e dei suoi passatempi frequentando cinema e teatri, palestre e sale da ballo e modificando di proprio gusto l’abbigliamento. I loro tradizionali dominatori, rientrati al desco dopo la guerra, si accorgeranno di aver perduta gran parte della quotidiana supremazia. (indice parte quinta)

Venezia

Nella sua città natale Emilio trova una vita più diversa che altrove. A parte il c.d. costume morale già compromesso dal continuo avvicendarsi d’ogni sorta di truppe, si vive una vita tutta speciale nel già caratteristico modo di vivere veneziano. L’Arsenale, i molti depositi di munizioni, il rifugio della flotta e la vicinanza del fronte sono ragione di particolari obiettivi militari.

Le incursioni aeree sono continue e con esse la paura della popolazione costretta a osservare orari, norme e ordini delle autorità militari. Pericoloso è avventurarsi di notte nelle calli completamente buie, sia per il rischio di fare brutti incontri, sia per l’insidia dei canali cui possono ovviare solo i cittadini esperti e pur sempre con l’aiuto della luna o di una torcia. Propizio è invece il buio agli amanti che, dimentichi di ogni rischio, possono godere della sensuale oscurità lagunare e del suo repertorio sentimentale in calli e sottoportici pregni di storie d’amore, appassionati furti di baci, slanci d’abbracci e frementi carezze, contenti di promesse e solennità di giuramenti o turbati da angosciosi ritardi, vuoti di assenze, veli di addii e perfidi tradimenti.

Le due settimane di licenza corrono via veloci e gravide di avvenimenti. Il 24 ottobre, sotto l’impeto imprevisto di 7 divisioni tedesche e 8 austriache che fanno più del doppio delle nostre forze, e favorito dalle sconfitte russe in Galizia e nel settore baltico, il nostro fronte crolla a Caporetto e centinaia di migliaia di soldati depongono le armi e si dirigono verso la campagna veneta. Il fronte rimasto ripiega prima sul Tagliamento e poi, dopo un ulteriore sfondamento nemico, sulla linea del Piave. Le ripercussioni organizzative e morali della sconfitta si fanno particolarmente sentire a Venezia dove la popolazione vive giorni di angoscia nell’incubo di una invasione. In città si sente distintamente tuonare il cannone dal vicino paesetto di Cortellazzo. La vita cittadina si restringe in un’impaurita e autoritaria clausura mentre vengono predisposti i mezzi per l’eventuale evacuazione di una cittadinanza incapace di abituarsi all’idea di abbandonare le proprie ammuffite ma amatissime case. (indice parte quinta)

Saluto gerarchico

Il pomeriggio di uno dei suoi ultimi giorni di licenza Emilio sta passeggiando con la fidanzata e alcuni parenti per le affollatissime Mercerie, quando si sente imperiosamente chiamare per grado alle spalle. Voltatosi, vede un maggiore medico che lo osserva con viso alterato e pare attendere giustificazioni. Gli si avvicina salutandolo militarmente, e quello gli chiede con voce forestiera perché mai sia passato oltre senza salutarlo, al che il caporal maggiore risponde di non averlo proprio visto. Il maggiore, contrariato per l’omesso saluto e ancor più per la risposta, replica di essere sicurissimo di essere stato guardato e con occhio torvo grida all’inferiore che gli ritirerà immediatamente la licenza rispedendolo al corpo. Quindi si guarda intorno ma impallidisce subito dopo aver percepito gli ironici e veneziani commenti della gente che, avendo potuto assistere all’intera scenata per il proprio lento passo di passeggiata, ha formato un divertito capannello che si va rapidamente ingrossando fino ad ostruire la circolazione nella calle, ed esprime simpatia per quel soldato a spasso con la sua bionda ragazza. Accortosi del favore del pubblico, Emilio quieta il proprio risentimento che stava per esternarsi in forme pericolosamente irrispettose verso quel vanesio ufficiale imboscato, che vede improvvisamente allontanarsi con passo celere per la propria strada.

L’ultimo tratto di Mercerie prima di sboccare in Piazza San Marco viene percorso da Emilio, fidanzata e parenti in commenti sulla disciplina militare, mezza idiota e mezza necessaria, ma anche con occhio più vigile. Inutile dire che i loro giudizi sugli eccessi della disciplina sono negativi e indispettiti: stupida ma pur sempre necessaria? Stupida ma opportuna nel solo ambito militare? Questi i temi, cui si aggiungono quelli psicologici del caso, vanità, invidia per la bella bionda del caporale, e quelli della vacuità e del formalismo, attributi inscindibili di ogni gerarchia, nonché il tema delle ingiustizie che l’imposizione della disciplina inevitabilmente comporta come, ad esempio, la punibilità collettiva per le infrazioni individuali e cose di questo genere. Il pratico Emilio conclude che in tutti questi casi il comportamento del soldato deve essere improntato a un giusto equilibrio, contemperando istinto e intelligenza. C’è chi subisce passivamente, chi tollera pazientemente, chi reagisce prudentemente, chi si ribella pericolosamente; per Emilio, la reazione prudente è il comportamento più appropriato. Una cosa è chiara: c’è del negativo nello stesso concetto di gerarchia, ma l’alternativa è l’anarchia che, presupponendo la perfezione, è inapplicabile. Perciò l’imperfezione obbliga alla negatività, e questa realtà va affrontata di volta in volta con senso d’equilibrio e non sotto la luce irrazionale di schemi astratti. (indice parte quinta)

Ritorno in Macedonia

Parte da Venezia col cuore in tumulto. Tragici interrogativi lo ossessionano, fantasmi dolorosi lo accompagnano. Cosa accadrà alla sua città? Quale la sorte dei suoi cari e della fidanzata? Dove potranno andare? Trova disordine e scompiglio nelle stazioni invase da folle di profughi che si accalcano sui treni. Raccontano le loro pene, episodi drammatici, strazianti incertezze. L’intero Veneto sta vivendo sotto l’incubo di un’immensa spada di Damocle. Scende a Bologna, che rigurgita di militari. I cittadini che gremiscono la stazione guardano i soldati come i padri guardano i figli, e fanno gesti di solidarietà per invitarli a resistere, a tener duro per salvare il paese. Lo consola un poco che il duro Cadorna, che di tutto continua a incolpare i socialisti, sia stato finalmente rimosso e sostituito da Diaz.

Giovane e idealista com’è, gli viene in mente di approfittare del viaggio per visitare, magari di corsa, Firenze, Roma e Napoli, che non ha mai viste. Sale su un treno della Bologna-Firenze, pieno fino all’inverosimile, e si ferma nello spazio trovato in un corridoio. Quando il treno si muove, può sedere sul proprio zaino. Poco dopo gli si avvicina una ronda che riesce a farsi largo fra i viaggiatori. Il foglio di licenza è trovato in regola, e la ronda passa oltre. Sta per appisolarsi quando sente le dita di una mano premergli una spalla come una pinza. S’accorge con fastidio che un signore in borghese lo guarda fisso e ingrugnato. A vedere la faccia indispettita del soldato, il borghese alza il palmo come per dire: "Alto là!", e con l’altra mano alza il bavero del soprabito mostrando un dischetto metallico smaltato che pare tutto screziato di geroglifici colorati. Emilio non capisce a quale specie di polizia quel ceffo possa appartenere, e quel distintivo, anziché chiarire, aumenta il mistero. Deve comunque trattarsi di uno dei tanti agenti incaricati del controllo dei militari e in quel momento drammatico sguinzagliati a caccia di disertori. Prima ancora che il poliziotto apra bocca, gli porge il foglio di licenza, che quello legge e rilegge per dritto e per rovescio osservandone timbri e firme perfino con una lente, dopodiché decide di distendere il grugno, persuaso di non trovarsi di fronte a un disertore o a un fuggiasco di Caporetto, circostanza questa che lo gratificherebbe certo di più che non la noia di controllare i regolari. Tuttavia si mette il foglio in tasca atteggiando il viso a ironico dispetto e chiede al caporale come mai stia viaggiando su un treno non suo. Emilio finge di aver preso il treno di corsa senza neppure guardare i cartelli. Il poliziotto gli ordina di scendere alla prima stazione, che è Sasso, per poi tornare a Bologna col primo treno utile. Nel frattempo tratterrà la licenza e gliela restituirà dal finestrino una volta sceso dal treno. E così fa.

Emilio si ritrova a Bologna a riflettere sulla propria iattura e sul fatto che la stupidità militare sia congegnata in modo da impedire inutilmente a un soldato di visitare le città della propria patria. La cultura è estranea a quel mondo, come anche il sottoscritto ha avuto modo di constatare quando, durante le ispezioni per la libera uscita, gli veniva contestato di avere un libro sotto il braccio.

Il viaggio per Taranto è questa volta malinconico e snervante. Le sue risorse finanziarie sono poi così ristrette da consigliargli di dormire in treno anziché sostare a rifocillarsi nel buffet di qualche stazione.

Giunge a Taranto il 17 novembre. Deve sostare al Comando Tappa in attesa di un piroscafo diretto a Santiquaranta, vigendo l’ordine di far rientrare i militari in Macedonia esclusivamente attraverso l’Albania. Il 25 s’imbarca su un mercantile che lo scarica a Santiquaranta il mattino seguente. Viene fatto salire su un camion che, di tappa in tappa, giunge a Bilishti dove il tenente comandante del posto ristoro, che non ha fra i dipendenti alcun contabile, lo trattiene progettando di farlo rimanere. Ma una settimana dopo un fonogramma circolare ordina che il caporal maggiore tal dei tali venga inviato subito a Zeitenlik. Il tenente, deluso, è costretto a rinunciare al furiere, che ne è invece contento perché l’ufficiale gli sembra ignorante e presuntuoso, inoltre ha visto impressi sui suoi occhi altri vizi dai quali è consigliabile stare alla larga. Infatti, qualche anno dopo rivedrà quell’uomo a Roma in Piazzale Termini: il tenente finge di non conoscerlo. Lo rivede lo stesso giorno nell’atrio di un albergo nei pressi della stazione, e quello finge ancora di non riconoscerlo. Alla ricezione apprende che il tizio ha dato generalità non sue. Il mattino seguente, mentre esce dall’albergo, il tenente lo rincorre, lo ferma e lo saluta con effusione. Subito dopo gli chiede del denaro in prestito per soddisfare imprecisati impegni. Debiti di gioco o cos’altro? Emilio ricambia i saluti con fredda cortesia, ma risponde picche.

Ritorna a Zeitenlik qualche giorno prima del suo terzo Natale di guerra. (indice parte quinta)

Angeli e topi

Il comandante del Deposito si rammarica del ritardo dichiarandosi autore del fonogramma. Ha urgente bisogno del furiere, che va a rioccupare subito il suo vecchio posto al Reparto Armi Varie dove rimarrà qualche mese riordinando l’amministrazione e la contabilità trascurate e manomesse durante la sua assenza. In seguito passerà a coadiuvare l’ufficiale responsabile dell’amministrazione dell’intero Deposito, ottenendo un alloggio tutto per sè in una baracca in muratura e, stimato e rispettato da tutti, sarà ammesso alla mensa ufficiali. Trascorrerà così il rimanente periodo di guerra immerso in un lavoro intenso ma scorrevole e uniforme, conducendo vita claustrale ma in una continua personale tensione dovuta inizialmente alla situazione familiare creatasi con la rotta di Caporetto e poi all’impazienza per la fine del conflitto.

Trova un po’ di serenità nella lettura di alcuni libri che si è portato dall’Italia e nella contemplazione del cielo. Ha ricevuto dal segretario di Serrati la Divina Commedia in una tascabile Edizione Patriottica facente parte della biblioteca dell’"Avanti!". Nelle notti cieche e serene passa ore ad osservare le stelle con l’ausilio di un testo di Astronomia Popolare. Ma i suoi occhi sognano cose che vanno oltre e legano con linee immaginarie gli astri di ciascuna costellazione, e la sua fantasia vaga di sfera in sfera fino a confondere la piccola felicità di una vita con quella dell’infinito. Sente implicata nella contemplazione la sua pur pratica giovinezza, perché le due cose possono benissimo andare insieme, estasi pregna di sensazioni uniche, sconosciute ai bambini e a gran parte degli adolescenti e abbandonate, se mai le abbiano conosciute, dai vecchi, un sentire che fa immedesimare se stessi col tutto, la mente, il cuore e i sensi col grande senso del mondo e fanno venire voglia di scrivere.

Purtroppo talvolta, quando nel sonno sogna la musica celeste, non sono propriamente usignoli né grilli e tanto meno angeli i suonatori dei divini concerti. Un rosicare di denti sulle gallette di marmo del tascapane appeso a un chiodo sul muro sopra la sua testa lo sveglia, riportandolo brutalmente a terra, seguito da squittii, tonfi leggeri e calpestii e dal brivido di sentirsi correre sui capelli e la fronte le zampette rosa dei voraci roditori che fuggono via subito dopo aver misteriosamente percepito il suo risveglio. (indice parte quinta)

Crepuscolo di guerra

Le notizie che ogni cinque giorni riceve con la posta dall’Italia non sono rassicuranti. Madre e sorella sono andate profughe prima a Cairo Montenotte e poi a Campoligure. La fidanzata è a Riccione con la famiglia, le zie sono a Pisa, altri parenti a Torino, Cremona, Milano. A Venezia è rimasto solo suo padre che, come motorista all’Arsenale militare, è esposto al pericolo quasi come un soldato in trincea.

A Zeitenlik il tempo passa fluido e misurato in attesa di una pace che esplode spesso di bocca in bocca per spegnersi subito in mormorii di smentita. La rivoluzione bolscevica, che ha fatto uscire definitivamente la Russia dal conflitto, ha favorito le potenze più reazionarie che nella primavera del’18 possono impegnare gli anglo-francesi in grosse battaglie in Picardia, nelle Fiandre e nelle Argonne. Ma Emilio pensa che anche una vittoria tedesca sulle plutocrazie occidentali sarebbe poca cosa rispetto al miracolo storico della nascita di uno stato socialista. Ma l’intervento americano potrebbe riaggiustare le cose in favore dell’Intesa. In Italia si avverte comunque una generale stanchezza, e anche l’Austria, dopo Caporetto, non ha più fiato ed è ferma sul Piave e sugli Altipiani. Il conflitto si va trascinando nel fango in cui il militarismo ha immerso la propria tracotanza. Re e Imperatori hanno giocato a testa e corona ed ora sono genuflessi davanti all’altare di Pluto. La strategia militare si è esaurita ed è scivolata in secondo piano. La guerra pare ormai condotta solo dalle banche e dall’alta finanza. Vincerà chi resisterà di più potendo ancora attingere oro dalle casse del proprio paese.

Nell’ufficio di Emilio la strategia è rappresentata da un modesto ufficiale capo dell’amministrazione, un marchese siciliano dal nome interminabile. E’ un po’ tonto e si destreggia male fra le carte del suo ministero, ma è svelto nell’imboscare qua e là i suoi compaesani contro la volontà del furiere. Dopo aver tentato di sgambettarlo a favore di un proprio protetto ma inutilmente grazie alla lungimiranza del comandante del Deposito, l’ufficiale si rassegna a diventare amico di Emilio e a starsene tranquillo considerando suo unico dovere quello di essere presente e apporre firme sulle carte che il furiere gli porge.

Un giorno il nuovo e blasonato amico di Emilio viene convocato d’urgenza al Comando di Commissariato di Salonicco dove imperversa un colonnello dell’amministrazione notoriamente esigente e burbero. Ancor prima di presentarsi al Comando, il marchese fa mille supposizioni e pessimistiche previsioni per la propria carriera addossandone la colpa al furiere cui addebita improprietà ed errori immaginari nel lavoro e considerandosi già un capro espiatorio. Esce dai baraccamenti la mattina tutto demoralizzato ma vi rientra la sera tutto contento con le guance rosee e gli occhi brillanti. Raduna intorno a sè un capannello di ufficiali e soldati e racconta, puntando ogni tanto il dito su Emilio, di essere stato a rapporto e che il colonnello ha elogiato il lavoro svolto dall’amministrazione del Deposito e lo ha addirittura incaricato di ringraziare ufficialmente il furiere. (indice parte quinta)

Da Zeitenlik a Vladova

Per Emilio a Zeitenlik trascorrono fluidi e lenti anche i mesi del 1918, e non solo a causa della sua impazienza e voglia di pace ma anche perché la macchina amministrativa da lui messa in moto funziona come un ingranaggio bene oliato, con ritmi quotidiani precisi e sempre uguali come al di fuori del tempo.

I malati però aumentano perché la malaria ha ormai contagiato tutti e gli ospedali militari sono così intasati da dover dirottare molti pazienti a Zeitenlik che già ne contiene qualche migliaio. Si può affermare che il corpo di spedizione in Macedonia sia stato rinnovato più volte proprio a causa di questo flagello rivelatosi più micidiale della mitraglia. Ovunque gote, pupille e mani ingiallite, membra scheletrite, movimenti affaticati, orecchie affilate e labbra pallide nell’atto d’ingoiare pillole di chinino. Al momento del rancio sono tutti con la bocca ismorfiata prima di trangugiare la mistura Bacelli. E dopo il rancio sentono l’oppressione di una stentata digestione.

Pur tuttavia l’esercito italiano in Macedonia, che più di una macchina da guerra sembra un immenso convalescenziario, resta superiore al nemico bulgaro che versa in condizioni ancor più pietose, tormentato, oltre che dalle punture dell’anofele, dai morsi della fame. I nostri, nemmeno più capaci di sparare un colpo di fucile, riescono almeno a riempire lo stomaco con scarse razioni di baccalà lesso, conigli selvatici australiani, puzzolenti ovini locali, ceci, piselli secchi e fave verminose. Inoltre, col passare del tempo la guerra sottomarina si è fatta così insidiosa da ostacolare anche il ritorno degli ammalati in patria e gonfiare di conseguenza a dismisura il campo di Zeitenlik. Perciò nell’estate del’18 quasi l’intero Deposito di Convalescenza si trasferisce nel grazioso e salubre villaggio di Vladova sul primo gradino dell’altopiano balcanico ai margini della Macedonia serba, già incontrato da Emilio durante le terribili marce dell’autunno del’16. Qui, su un ampio, erboso terrazzo naturale, nell’aria sottile che promana da gradevoli colline ricche di boschi e di sorgenti, gli ammalati godono di un beneficio impagabile, sostenuti anche moralmente da sempre più insistenti voci di pace. (indice parte quinta)

Da Vladova a Zeitenlik.

I primi ad arrendersi sono proprio i bulgari alla fine di settembre, e mai foglio notizia è corso più veloce tra mani militari e si è diffuso fra le truppe con tanta gioia come se fra le tende e le baracche cantassero gli angeli. Un mese dopo capitola anche la Turchia, sconfitta in Medio Oriente da inglesi e arabi, mentre l’impero asburgico si va dissolvendo in varie repubbliche indipendenti. La guerra nei Balcani è finita mentre nell’alta Europa la Germania è costretta a ripiegare sotto la controffensiva degli anglo-francesi aiutati da oltre un milione di soldati americani e l’11 novembre firmerà l’armistizio con le potenze occidentali. L’Italia, dopo aver sofferto il soffribile per la nuova e ultima offensiva austriaca di giugno e aver poi riconquistato le posizioni perdute sull’Altopiano di Asiago, sul Grappa e sul Piave, si riprende il Veneto, conquista definitivamente il Trentino ed occupa Trieste. Il 3 novembre l’Austria firma a Villa Giusti l’armistizio.

Il Deposito di Convalescenza si prepara a far ritorno a Zeitenlik in vista del rimpatrio. Il contingente prende posto e movimento su una ferroviuzza Decauville di raccordo tra Vladova e la linea per Salonicco, dove transitano sì e no due o tre convogli al giorno. Sarà stata la fatica di quattro anni di guerra o la gioia per la sua fine o la disattenzione che può sopravvenire imprevedibile in qualsiasi momento, fatto sta che su quell’unico binario dove veder transitare un treno è un’attrazione rara che incanta abitanti e animali dei locali villaggi, due treni stanno viaggiando in senso opposto, fortunatamente a passo di gondola. A un certo momento stridore di freni, gran fracasso metallico, finestrini infranti e qualche bernoccolo per chi si trovava in piedi. Emilio, assopito senso marcia sulla sua panca di legno, tiene in braccio la Cassa del Deposito e sull’asse portabagagli ha messo la bandiera del Deposito arrotolata. L’urto frontale lo fa rimbalzare in avanti addosso a un sottufficiale bello grasso che gli ammorbidisce l’impatto, così ne esce illeso e può scendere dalla carrozza malconcia con la Cassa intatta sotto un braccio, lo zaino sulla schiena e la bandiera intera appoggiata su una spalla come un fucile. Dopo qualche ora il treno investito, uno dei due ma non si sa quale, viene trainato e ricoverato nella stazioncina più vicina, e tutti possono riprendere il viaggio sul treno investitore, vincere la rimanente monotonia del paesaggio macedone e riprendere possesso delle vecchie baracche di Zeitenlik. (indice parte quinta)

Fine della guerra

Incominciarono presto ad arrivare dalla Bulgaria i primi prigionieri di guerra, rilasciati a norma delle convenzioni stipulate tra vinti e vincitori. Questi ultimi non erano tuttavia organizzati per andare a raccogliere i propri soldati liberati che furono rilasciati alla spicciolata. Da allora e per alcuni mesi le squallide steppe macedoni vennero attraversate da migliaia di spettri diretti a Zeitenlik, il campo più grande e organizzato di Macedonia, e perciò pigliatutto. Una volta liberati, varcavano il confine bulgaro-greco senza saper dove andare. Un po’ chiedendo la strada e un po’ per istinto, trovarono in molti la via di Salonicco e quindi quella di Zeitenlik, giungendovi in minor numero e in condizioni pietose, affamati o già disabituati al cibo, arrancando nell’ultimo chilometro come concorrenti morenti in un grande finale. Altri hanno invece trovato per strada la loro fine e per essi la pace è stata fatale.

I nostri reduci di Grecia tornarono in patria e si unirono ai sopravvissuti al macello sul fronte italiano. Per tutti, usciti da ogni pena, all’inizio fu gioia. Molti, che la conoscenza di ogni dolore poteva rendere uomini saggi, lo scampato pericolo rese orgogliosi. Ma, mentre si attendevano dalla patria una meritata gratifica, provarono la disillusione della miseria e della disoccupazione. E tornarono pedine in balia di manovre più grandi di loro. Sobillati ancora una volta dalla monarchia che si sentiva in pericolo, vennero convinti a dover fare giustizia di coloro che avevano disprezzato e secondo loro anche sabotato una guerra che, patita fino in fondo ma vinta, era diventata cosa sacra, piedistallo di eroi. Suggestionati da interessate promesse, si convinsero di essere dotati di una volontà di ferro, anzi d’acciaio, di poteri eccezionali con cui arrischiare il dominio del mondo.

Costoro, cui la sofferenza nulla aveva insegnato, divennero presto, in mano al Re e al capitale agrario e industriale, illusi e violenti protagonisti di un nuovo regime Italia più canagliesco del precedente, velato di falso e immaginario, tutto sopra le righe, che nascondeva la paura del socialismo, ma non solo di quello rivoluzionario e bolscevico, ma purtroppo anche di quello, ben più possibile e temibile, d’impronta liberale, democratica e riformista di cui noi tutti, nei più avanzati paesi d’Europa, oggi godiamo. (indice parte quinta)

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Note al testo

Nota 1- Presine da cucina (torna)

Nota 2- Abbreviativo veneziano di Emilio (torna)

Nota 3- "Prendi,..." (torna)

Nota 4- Sagrestani (torna)

Nota 5- Senza mai appoggiare (sulla forcola) il remo (torna)

Nota 6- Fuochi (d’artificio) (torna)

Nota 7- Sarde fritte affogate in cipolle rosolate in olio e aceto (torna)

Nota 8- Vero nome, a quanto si dice, di Gabriele D’Annunzio (torna)

Nota 9- Ottobre 1914: Mussolini cambia linea politica e diventa interventista, deve lasciare la direzione dell' "Avanti!" e il partito. In novembre, finanziato dai francesi, dagli industriali zuccherieri e dal "Resto del Carlino", fonda "Il Popolo d'Italia". (torna)

Nota 10- Ninsiol (lenzuolo) è il rettangolo bianco dipinto sui muri delle case alle estremità delle calli, sul quale sta scritto il nome della calle medesima (torna)

Nota 11- Trattato a carattere difensivo (ufficialmente segreto) stipulato nel maggio del 1882 tra Italia Austria e Germania (torna)

Nota 12- Termine burocratico-militare per "lasciapassare" (torna)

Nota 13- Corredo militare (torna)

Nota 14- Ossia condizionata dall’inviolabilità dei diritti della nazione italiana (discorso tenuto a Roma il 6.1.15 dal conte G.Della Torre, presidente dell’Unione popolare tra i cattolici d’Italia) (torna)

Nota 15- Formula in cui si riassumeva la posizione neutralista più volte espressa dal PSI, prima e dopo l’entrata in guerra dell’Italia (torna)

Nota 16- Capo del governo (torna)

Nota 17- Ministro degli esteri (torna)

Nota 18- Espressione con cui i nazionalisti giudicarono l’esito della Conferenza per la pace di Parigi in cui prevalse il progetto wilsoniano del rispetto delle nazionalità, e quindi l’opposizione alle mire italiane su parte dell’Istria e della Dalmazia, ma anche l’ostilità alle nostre mire su Fiume che, anche se abitata in prevalenza da italiani, non era compresa nel segreto Trattato di Londra (cfr. nota 30) (torna)

Nota 19- "Salve, o popolo di eroi...", così comincia la strofe di una nota canzone fascista (torna)

Nota 20- L’8 maggio 1915 V.Emanuele III dichiarò che, se la Camera avesse bocciato l’intervento italiano a fianco dell’Intesa, avrebbe abdicato (torna)

Nota 21- Il 1º agosto 1914 il governo dichiara ufficialmente la neutralità italiana (torna)

Nota 22- Cappotto lungo, allargato verso il fondo (torna)

Nota 23- Copricapo militare rigido a forma cilindrica con visiera e col velo pendente dietro la nuca (mappina) (torna)

Nota 24- Ghette (torna)

Nota 25- La prima quindicina di maggio 1915 vede D’Annunzio, Mussolini e Corridoni impegnati in grandi discorsi a favore dell’intervento, discorsi che culminano il 14 maggio con manifestazioni intimidatorie antigiolittiane (torna)

Nota 26- Sentenza attribuita, se non erro, ad Anatole France (torna)

Nota 27- Massimalismo: corrente del PSI che, in opposizione a quella riformista, propugnava il c.d. programma massimo, privo d'ogni compromesso con la borghesia, per l’instaurazione del socialismo; Settarismo: nel PSI coincideva con la posizione di Bordiga e, in genere, con ciò che Lenin chiamava "estremismo, malattia infantile del comunismo" (torna)

Nota 28- Il Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915 tra Italia, Francia, Inghilterra e Russia, prevedeva l'ingresso dell'Italia in guerra a fianco delle potenze dell'Intesa entro un mese dalla firma in cambio di notevoli compensi territoriali: Trentino, Sud-Tirolo fino al Brennero, Trieste, Gorizia, Istria, gran parte della Dalmazia, protettorato sull’Albania, possesso di Valona, isole del Dodecaneso, bacino carbonifero di Adalia in Asia Minore e alcune colonie dell’Africa tedesca (torna)

Nota 29- Cfr. pag. 390 di "1916 - Mancò un soffio - Diario inedito....", citato nella mia introduzione (torna)

Nota 30- Misura, espressa in gradi, per regolare il puntamento del cannone in funzione della distanza (torna)

Nota 31- Paga che si dava al soldato ogni cinque giorni (torna)

Nota 32- La Germania sopra ogni cosa al mondo (torna)

Nota 33- Commilitoni (torna)

Nota 34- "No bugiardo, bugiardo no!" (torna)

Nota 35- Spedizione punitiva (torna)

Nota 36- In gergo ferroviario la pesante leva di ferro, dotata di un grosso peso alla propria estremità, che, sollevata e girata, scosta gli aghi (le punte) di un deviatoio permettendo a un convoglio di istradarsi su un diverso binario (torna)

Nota 37- La prima ipotesi (far affluire l'esercito al Brennero) è stata avanzata dall’agente del servizio segreto inglese Max Salvadori (cfr.Max Salvadori, "Breve storia della Resistenza italiana", ed.Vallecchi, 1974), la seconda (far saltare le gallerie e i ponti alpini) dallo stesso gerarca nazista Göbbels nel proprio diario (torna)

Nota 38- Tale verbo latino sta a significare il percorso delle deduzioni logiche discendenti da certe premesse, percorso che viene detto, appunto, calcolo logico. Leibniz è considerato il fondatore della logica moderna (logica simbolica) (torna)

Nota 39- Artiglieri (torna)

Nota 40- Il "terribile", fortificatissimo monte Biavena, alto m 1617, che sorge sopra l’abitato di Mori, a nord-ovest di Rovereto. Da esso gli austriaci dominavano la Val Lagarina e i monti circostanti, tenendoli sotto il tiro delle artiglierie. (torna)

Nota 41- Fanti (torna)

Nota 42- Bombe che incorporano grossi pallini di ferro che schizzano via a ventaglio quando il bossolo esplode toccando terra (torna)

Nota 43- Tiratori scelti (torna)

Nota 44- Le bombarde col loro alzo quasi verticale sono adatte a squarciare i terrapieni col massimo pericolo per coloro che stanno acquattati nelle trincee (torna)

Nota 45- Cfr. pag. 215 del testo di K.Schneller citato nella mia introduzione (torna)

Nota 46- Testo citato di K.Schneller, pag. 218 (torna)

Nota 47- Svignata (torna)

Nota 48- Enciclopedia Vallardi, pubblicata in 12 volumi dal 1924 al 1925 (torna)

Nota 49- Testo citato di K.Schneller, pag. 293 (torna)

Nota 50- Testo citato di K.Schneller, pag.393 (torna)

Nota 51- Testo citato di K.Schneller, pag.390 (torna)

Nota 52- La camera formata da una paratia sotto il primo ponte delle navi, dove si trova il boccaporto del deposito delle polveri (torna)

Nota 52bis- Su questo avvenimento ho inaspettatamente ricevuto recenti informazioni (luglio '99) dall’ing. Romano Sansone, che, marito della nipote del Capo Furiere di 2ª classe Criscuolo, uno degli imputati al processo, ha svolto ricerche presso l’Ufficio Storico della Marina degli Stati Uniti e l’Archivio Storico della Marina Militare Italiana che hanno portato a importanti chiarimenti.

La sciagura provocò 250 vittime sui 1100 uomini d’equipaggio. L’inchiesta attribuì il sinistro ai servizi segreti austriaci in concorso con traditori italiani. Imputati furono: il commerciante Vincenzi, latitante durante il processo, che sarebbe stato eliminato dai servizi segreti austriaci perché sospettato di doppio gioco; il Commissario di P.S. Cimmaruta; il citato Capo Furiere Criscuolo, che era stato tratto in causa da una corrispondenza del Vincenzi col Cimmaruta, e che, al momento della disgrazia, si trovava sulla corazzata; il comandante della nave, Picenardi, responsabile di non aver saputo prevenire il sabotaggio.

In attesa della conclusione del processo, il Criscuolo si fece tre anni di prigione dopodiché dovette affrontare il mondo con le stimmate del presunto traditore, finché nel 1920 morì, soppraffatto dalla disperazione d'essere stato accusato. Il processo, protrattosi per tre anni, terminò nel giugno del '20 con un’assoluzione per tutti gli imputati per mancanza di prove. Alla morte del Criscuolo lo Stato italiano integrò la di lui vedova nel sistema pensionistico della Marina. Il comandante Picenardi, prodigatosi nell’assistenza ai naufraghi, morì per le ustioni riportate e s’ebbe una Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Vi furono conseguenze nelle alte sfere: Il Duca degli Abruzzi, responsabile della marina italiana, lasciò l’incarico, e l’ammiraglio Cutinelli, capo della 1ª Squadra navale, fu esonerato (torna).

Nota 53- Assenzio (torna)

Nota 54- Viva Kerensky (torna)

Nota 55- Pace! (torna)

Nota 56- La stampa (torna)

Nota 57- Probabilmente termine dialettale in uso a Salonicco per "ciador" (il velo che le donne musulmane portano sul viso) (torna)

Nota 58- La rivoluzione scoppiò il 12 marzo ’17 (27 febbraio per il calendario russo) e portò al potere i socialdemocratici di Kerenskij (agosto ’17). Lo zar dovette abdicare e venne instaurata una repubblica parlamentare. La guerra venne proseguita fino alla rivoluzione di novembre ma con scarso impegno (vasti settori dell’esercito parteggiavano per i bolscevichi e volevano la fine delle ostilità) (torna)

Nota 59- La televisione (torna)

Nota 60- L’incendio di Salonicco (settembre del 1917) resta indelebile nella storia della Grecia contemporanea perché fu davvero colossale e distrusse quasi l’intera città che, prima del sinistro, custodiva una suggestiva impronta musulmana. Oggi ne fanno cenno i maggiori testi turistici (torna)

Nota 61- Blu danese (torna)

Nota 62- E' tuttavia doveroso riferire che non mancarono aiuti tangibili per la popolazione colpita dall'immane tragedia.. Di tali aiuti beneficiò in modo preponderante la comunità israelita, che ricevette dal governo francese 100.000 franchi contro i 10.000 delle comunità musulma, greca e quella dei sinistrati originari dell'asia Minore e della Tracia, oltre ad altre associazioni. (torna)

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Inserito nel sito di digilando.it di Libero nel sett.2005.

 

 

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