Giovanni Boccaccio, Opere minori

De genealogiis
deorum gentilium

(1350-1375)

 

Il De genealogiis deorum gentilium (cioè, le genealogie degli dei pagani) è un ampio trattato di mitologia in lingua latina in quindici libri inteso a illustrare le discendenze degli dei greci e latini. Il Boccaccio lavorò su quest’opera per più di un ventennio (1350-1375), pur fra varie interruzioni. Composta su richiesta di Ugo IV di Lusignano, re di Cipro e di Gerusalemme, tra il 1350 e il 1359, la prima stesura era di soli tredici libri, ma poi fu riveduta e ampliata, specialmente riguardo le testimonianze greche, durante gli anni del sodalizio (piccola società formata da persone che si dedicano allo studio della letteratura o dell'arte) con Leonzio Pilato (1360-1363); entro il 1367 infine furono aggiunti i capitoli XIV e XV, dedicati a un’accesa apologia del valore superiore della poesia, intesa come una forma di teologia.

Nel proemio, presentandosi nelle vesti di Dedalo che compie un viaggio per ritrovare le deorum gentilium reliquia sopravvissute ai barbari e al cristianesimo, Boccaccio spiega la struttura dell’opera, divisa in XIII libri sulla base delle famiglie genealogiche: i singoli alberi sono rapidamente illustrati all’inizio di ogni libro che si divide in vari capitoli, a illustrazione dei singoli rami genealogici.

La trattazione prende l’avvio da Demogorgone, capostipite di numerose generazioni di dei, semidei ed eroi, e prosegue con i rami di Etere, Celio, Titano, Giove, Dardano, Oceano, Saturno, Giunone e Nettuno fino ad arrivare negli ultimi libri ai rami di Tantalo ed Ercole.

Boccaccio si serve sostanzialmente di tre criteri allegorici:

 

1.   Quello «storico» o evemeristico, per il quale gli dei pagani sono antichi eroi divinizzati (es. Minerva era una ragazza sconosciuta talmente brava a filare la lana che venne considerata una dea);

2. Quello naturalistico, che riconduce l’origine delle divinità alla sublimazione di forze naturali (es. Minerva nacque dalla testa di Giove e simboleggia che ogni sapienza è derivata della sapienza divina);

3.  Quello morale, secondo cui le divinità sono la personificazione di virtù o qualità morali (es. l’Acheronte è la perdita dell’allegrezza e il pavone è la ricchezza).

 

Come scrisse il critico Carlo Muscetta, «al fine di svelare la mundana sapientia che gli antichi avevano nascosto sotto i loro miti, il Boccaccio sistema, come in una vera e propria enciclopedia mitologica, una materia per la quale attinge all’insegnamento diretto di un esperto come Leonzio Pilato, alla letteratura classica, tardo-classica e medievale. Un posto rilevante nella sua informazione occupa pure quel Cicerone delle Tusculanae e del De natura deorum che con la sua posizione eclettica andava incontro all’esigenza del Boccaccio di interpretare la molteplicità degli dèi pagani nel quadro della concezione cristiana dell’unico Dio, cui si riconduce la molteplice costituzione del creato».

Fonte: Carlo Muscetta, Giovanni Boccaccio, in “Letteratura Italiana Laterza”, Roma-Bari, Laterza, (1972) 1974.

 

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