IL SERGENTE NELLA NEVE

Ricordi della Ritirata di Russia

Mario Rigoni Stern spesso ripeteva: «Il nemico è una parola che non uso. Nel Sergente nella neve la parola "nemico" non c'è: parlo di "russi", dico "loro" ma "nemico" mai. Per me quelli non erano nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c'è.
Alla parola nemico preferisco dire "quello che ti è di fronte" e che ti può essere avversario. Ma anche io sono a mia volta un nemico: la parola nemico è abbastanza relativa. I nemici sono uomini simili a noi: anzi hanno qualcosa in più di noi. Nel caso di guerra, dove siamo andati noi in quegli anni dal 1940 al 1945 loro avevano qualcosa in più: difendevano la loro terra ed erano dalla parte della ragione. Noi potevamo essere loro nemici. Mentre loro erano nostri nemici nel senso che ci sparavano, ma giustamente anche».


Nel libro “IL SERGENTE NELLA NEVE” c’è veramente tutta l’essenza della vita di Mario Rigoni Stern: parla di guerra, di natura, di amicizia, di amore per il prossimo, di pace, di conoscenza della terra e del cielo, dell’alternarsi delle stagioni, di animali… Il libro è suddiviso in due parti: Il Caposaldo e La Sacca.
Prima della campagna di Russia aveva già combattuto in Francia e sul fronte Greco/Albanese; perché allora inizia a scrivere un libro su quella esperienza? Perché, come lui stesso disse in un’intervista, si impazziva sul fronte soprattutto per il poco dormire, a volte anche per otto giorni di seguito.
«Mi ero sdoppiato. In quei giorni mi sembrava che un altro Mario mi dicesse le cose che dovevo fare. La vera guerra è stata in Russia».

«Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.
Prima che i russi attaccassero e pochi giorni dopo che si era arrivati si stava bene nel nostro caposaldo».

«Abbiamo i cinque sensi che ci aiutano a ricordare un’ immagine o una sensazione. Nessuna situazione è ripetibile in maniera precisa da come è avvenuta però ci sono delle cose che abbiamo recepito in quel momento e che possiamo stimolare nei ricordi in maniera il più possibile precisa ricordando gli odori, un suono o una musica o uno sguardo».


Senza la staticità del Caposaldo lo stacco procurato dagli avvenimenti narrati nella Sacca non arriverebbe alle vette di estremo dinamismo cui, invece, giunge.
Nel Caposaldo si alternano parti in cui sono descritte le condizioni «strutturali e permanenti» della vita durante la guerra di posizione (ad esempio: «Si stava bene nei nostri bunker» o «La notte era per noi come il giorno») e parti nelle quali la memoria seleziona degli eventi significativi, emblematici o memorabili («Una notte di luna sono uscito…»; «Una notte che nevicava»).

Nella Sacca, invece, il racconto del viaggio si concentra in un «narrato stringente dei fatti», secondo una precisa successione temporale, sebbene il racconto sia privo, in sostanza, di riferimenti cronologici precisi.
Se si escludono i riferimenti al Natale e al Capodanno e qualche incerta definizione temporale («il quindici o il sedici o il diciassette gennaio»), l’unico referente preciso alla macrostoria è costituito dalla battaglia di Nikolajewka, avvenuta il 26 gennaio 1943. Non è casuale che solo in questo caso compaia la data con precisione: la battaglia segna, infatti, l’acme del ripiegamento delle truppe italiane e, ad un tempo, una svolta nel racconto.
Tutto il Caposaldo, ha delle suggestioni che ricordano “Racconti di Sebastopoli” di Tolstoj. In particolare alcuni modelli descrittivi sembrano derivino dal racconto “Sebastopoli nel mese di dicembre”, nel quale vi è la descrizione di alcune trincee.
Anche la seconda parte del Sergente nella neve, La Sacca, contiene delle suggestioni da un racconto dello scrittore russo, precisamente “La tormenta”.

Sergente maggiore, arriveremo a baita? Questa espressione è un vero e proprio ritornello nel romanzo. Di questo si tratta, di tornare a “casa”. Da una “casa”, seppure temporanea come il caposaldo, si è mossa la narrazione di Rigoni, ad una “casa”, finalmente quieta, deve tendere: «Nessuno pensava: “Se muoio”; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavano: “Quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa”».
E, vedremo, proprio sull’immagine di una casa si concluderà il Sergente nella neve.

I russi cominciano a bombardare e sferrano i primi attacchi. Tra una sparatoria e l’altra gli uomini non trovano più animo di scherzare; si interrogano, nell’inquietante silenzio che sembra vaporare dal fiume ghiacciato, sulla loro condizione di soldati e vorrebbero solo tornare a casa. La prima parte, il Caposaldo termina con il ripiegamento ordinato dai comandi supremi per evitare che l’armata italiana sia circondata dal nemico.
Il protagonista viene lasciato solo a coprire la precipitosa partenza dei compagni:
“Ero solo sulla trincea e guardavo la notte buia. Non pensavo a nulla. Stringevo forte il mitragliatore. Premetti il grilletto, sparai tutto un caricatore; ne sparai un altro e piangevo mentre sparavo. Saltai nella trincea, entrai nella tana di Pintossi a prendere lo zaino. […] Mi incamminai verso la valletta. Incominciava a nevicare.
Piangevo senza sapere che piangevo e nella notte nera sentivo solo i miei passi nel camminamento buio. Nella mia tana, inchiodato ad un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale”.

Così si conclude Il Caposaldo, su un’immagine emblematica, che rappresenta l’ennesimo trauma dell’abbandono di una “casa”, di una tana. Ed è, a ben guardare, un’immagine di rabbia: un uomo solo nella notte che spara nel vuoto due interi caricatori .

Tutta la Sacca è un camminare (è un’immagine costante):
“Si andava con la testa bassa, uno dietro l’altro, muti come ombre. Era freddo, molto freddo, ma sotto il peso dello zaino pieno di munizioni si sudava. […] Nel buio freddo [il vento] trovava noi, povere piccole cose sperdute nella guerra, ci scuoteva, ci faceva barcollare. […] Si camminava uno dietro l’altro con la testa bassa. […] Ed era molto freddo. […] Ma si camminava. Un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro, un passo dietro l’altro. […] Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo”.
“Si camminava; squadra per squadra, plotone per plotone. Il sonno, la fame, il freddo, la stanchezza, il peso delle armi erano niente e tutto.
L’importante era solo camminare. Ed era sempre notte, era neve e solo neve, erano stelle e solo stelle”.


Fin dall’inizio del ripiegamento, il corpo registra il freddo, il vento, la fatica del camminare. Le condizioni sono infernali, così come dall’ Inferno dantesco (che Rigoni porta nello zaino fino in Russia) sembrano uscire le figure degli alpini: «sembravamo una colonna di ombre»; «bestemmie, richiami, urli nella tormenta».
Gli alpini camminano come automi, spinti da una forza di sopravvivenza che viene dalla disperazione, senza conoscere il percorso che stanno effettuando. Rigoni scrive:
“Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un paese delle retrovie dove c’erano magazzini e Comandi. Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retrovie. I telefonisti, gli scritturai e gli altri imboscati sapevano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose”.
Nella neve, nel vento, nel freddo, carichi come muli, gli alpini si trascinano di chilometro in chilometro, di villaggio in villaggio, di isba in isba. Regnano la confusione e la desolazione.
La solidarietà umana arriva anche dai russi quando bussando ad isba apre una donna russa:
“Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando intorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mnié khocestsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto e me lo porge. Io faccio un passo in avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. […] Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’ esserci stata tra gli uomini. […] Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato gli uomini a saper restare uomini.”

“Su un carro è accovacciato il generale Reverberi che ci incita con la voce. Poi egli scende e cammina da solo davanti ai carri impugnando la pistola.
Da una casa sparano con insistenza. Da quella sola casa. «Ci sono ufficiali?» grida il generale verso di noi. Ufficiali forse ve ne sono, ma nessuno esce. «Ci sono alpini?» grida ancora. E allora esce un gruppetto di dietro ai carri. Andate in quella casa e fatela finita» ci dice. Noi andiamo e i russi se ne vanno”.

«Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari amici mi hanno lasciato in quel giorno»

Il sergente è ormai definitivamente «arido come un sasso» e, come un sasso viene rotolato in un torrente, così egli può riprendere il cammino. Di qui comincia il racconto del singolo, che riuscirà ad arrivare in salvo nelle retrovie. In salvo, ma privo di una precisa identità, irriconoscibile a se stesso, al se stesso di prima della guerra:
“Qualcuno mi mette in mano un rasoio di sicurezza e un piccolo specchio. Guardo queste cose nelle mie mani e poi mi guardo nello specchio. E questo sarei io: Rigoni Mario di GioBatta, n. 15454 di matricola, sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone 55a compagnia, plotone mitraglieri. Una crosta di terra sul viso, la barba come fili di paglia, i baffi sporchi di muco, gli occhi gialli, i capelli incollati in testa dal passamontagna. Un pidocchio che cammina sul collo. Mi sorrido”.
La storia della sacca finisce qui. Rigoni riassume in poche righe il viaggio che dall’Ucraina conduce gli alpini in Russia Bianca. Si cammina ancora.
L’immagine finale su cui si chiude il Sergente nella neve è carica di valenze simboliche. Rigoni passa le ore in un’isba, sdraiato sotto una finestra, a guardare il soffitto e ad ascoltare le voci della nuova tana: voci cordiali di una ragazza e del suo bambino.
“La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lì vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. […] Il bambino dormiva nella culla di legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il sole entrava dalla finestra e rendeva la canapa come oro; la ruota del mulinello mandava mille bagliori; il suo rumore sembrava quello di una cascata; e la voce della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore”.