Trent’anni dopo/Filosofi e sociologi europei a convegno a Roma
Il Sessantotto? Non fu vera rivoluzione

ANTIAUTORITARISMO, antimperialismo, anti- psichiatria, autogestione, critica del lavoro, critica del socialismo reale, democrazia diretta, egualitarismo, immaginazione al potere, rivoluzione sessuale, utopia... Edito da Manifestolibri, un Dizionario della memoria elenca queste parole-chiave: tutte evocanti idee e pulsioni che animarono i movimenti del ’68. Si trattò, come sostiene il generoso libretto, di una "rivoluzione mondiale"? Le scelte ideologiche di quel turbolento periodo hanno lasciato una pur esile traccia nella generazione successiva? O slogan e miti "proletari", concetti e ribellismi di un tempo non troppo lontano, oggi appaiono legati, irrevocabilmente, a uno sfondo culturale affatto estinto?
A trent’anni dall’annus mirabilis (secondo i nostalgici) in cui l’università tentò di prolungarsi nelle fabbriche, si è svolto a Roma un convegno internazionale, al quale hanno partecipato filosofi e sociologi europei. Il primo conferenziere, Claus Offe dell’università di Berlino, ha subito proposto "un esercizio di storia contraffattuale"; si è chiesto, cioè, che cosa sarebbe accaduto, nella cultura europea, "se il movimento del ’68 non ci fosse stato". Stabilita una serie di distinzioni - fra Est e Ovest, fra privato e politico, fra genitori e figli, fra élite e massa, fra scienza e morale -, Offe ha sostenuto che la contestazione di tali dicotomie "espresse e drammatizzò tensioni già in atto nella società". Gli studenti del ’68 "determinarono un rovesciamento dei codici semantici in voga"; ma non furono dei veri rivoluzionari. L’attenzione di Agnes Heller si è soffermata sugli effetti del ’68 nel costume e nella vita quotidiana. "Idee romantiche", ha detto la studiosa ungherese, "speranze di vivere in un mondo senza gerarchie, ispirarono i movimenti di quel tempo. L’ambizione era di ottenere il possibile chiedendo l’impossibile. La postmodernità ha poi assorbito gli atteggiamenti e i desideri della gioventù ribelle".
Anche secondo Alessandro Pizzorno il ’68 fu un anno di speranze collettive "che sfociarono in una specie di rivoluzione culturale". Studenti estremisti vollero sovvertire "il principio democratico, il principio di maggioranza". I nemici dei contestatori furono "i guardiani delle istituzioni private e pubbliche: i politici di professione, i padri, i maestri, i dirigenti e, soprattutto in Francia e in Italia, i partiti comunisti". L’assoluta irrilevanza elettorale dei "gruppuscoli" sancì il loro declino.
Spazio di "liberazione della parola", il magma di discorsi, di situazioni e di avvenimenti che costituì il ’68 non fu, stando al sociologo Michel Wieviorka, "un momento catartico, il superamento di una crisi". L’originaria opposizione degli studenti al comunismo si rivelò, in breve, "una continuazione del comunismo stesso". In società strutturalmente complesse e pluralistiche, "prevalsero i richiami a Trockij, a Mao e alla cosiddetta centralità della classe operaia". I movimenti di contestazione si trasformarono in piccoli partiti extraparlamentari verbosi o violenti. L’aborrita "società dei consumi", ha concluso Wieviorka, "infine li rese inerti".

Da Il Messaggero on line 7 maggio 1998

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