ALESSANDRO MERLI

Globalizzazione anti-povertà

Un rapporto si contrappone alle tesi dei contestatori

I fautori della globalizzazione si preparano al contrattaci. Non nelle piazze, dove il movimento no-global ha ben altra capacità di mobilitazione e dove anzi istituzioni come il Fondo monetario e la Banca mondiale hanno ceduto altro spazio riducendo a soli due giorni la propria assemblea annuale di fine settembre a Washington per timori di disordini. La difesa della globalizzazione, almeno nei confronti di quella parte del movimento disposta a ragionare, avverrà con argomentazioni dettagliate e il più possibile documentate. La Banca mondiale ha schierato uno dei suoi economisti di punta, David Dollar (autore di articoli sul ruolo della crescita economica nella riduzione della povertà) per preparare un rapporto che sarà presentato il mese prossimo a Washington, dal titolo "Globalizzazione, crescita e povertà". La tesi di fondo è che la globalizzazione è una forza poderosa per la riduzione della povertà. La globalizzazione, sostiene Dollar, ha contribuito a ridurre le diseguaglianze fra i Paesi, anche se non fra ricchi e poveri all'interno dei singoli Paesi.

Il presidente della Banca mondiale, Janics Wolfensohn, nel pieno della discussione dei mesi scorsi sulla riduzione del debito dei Paesi più poveri. ha insistito più volte sulla necessità che le barriere commerciali contro l'export dei Paesi del Terzo mondo vengano abbattute. E il G7 nel documento elaborato dalla presidenza italiana "Oltre la riduzione del debito" ha accentuato il tema dell'apertura commerciale, oltre che della necessità che i Paesi ricchi aumentino gli aiuti ufficiali. Lo stesso summit di Genova ha preso un impegno per il lancio di un nuovo negoziato commerciale nell'ambito della Wto alla riunione del prossimo novembre a Doha.

Questa è anche la posizione della Banca mondiale, che però, nel rapporto redatto sotto la guida di Dollar, ricorda che i Paesi in via di sviluppo possono giovarsi anche della liberalizzazione unilaterale dei commerci. Si tratta di un punto su cui mettono l'accento da tempo diversi studiosi sostenitori del libero commercio. Il loro decano, Jagdish Bhagwati della Columbia University di New York, afferma che la protezione dell'industria nazionale spesso adottata nei Paesi poveri finisce per creare un atteggiamento anti-esportazioni che in ultima analisi danneggia la crescita e che il protezionismo dei Paesi ricchi non giustifica comunque quello dei Paesi poveri. Lo stesso Bhagwati incita i gruppi della società civile, a partire dalla Chiesa, che tante energie hanno speso nella campagna contro il debito, a investirne altrettante in una campagna contro il protezionismo: una sorta di Jubilee 2010 contro il protezionismo che faccia seguito a Jubilee 2000 contro il debito.

Un'altra voce che si è levata di recente dal mondo dell'Accademia in difesa della globalizzazione è quella di Donald Hay, dell'Università di Oxford, che, in uno studio pubblicato nel numero appena uscito di "Economic Journal" prende in esame la liberalizzazione commerciale messa in atto dal Brasile a partire dal 1990. Lo shock della liberalizzazione, ammette Hay, fu enorme per le 300 imprese manifatturiere prese in esame dal suo studio: la loro quota del mercato interno cadde del 25%, mentre l'import cresceva e i profitti crollavano di fronte alla concorrenza internazionale. Le imprese brasiliane. però, hanno risposto alla sfida aumentando la produttività del 50% nel periodo 1990-94.

Dopo un calo iniziale, la produzione industriale recuperò fortemente mitigando l'impatto sull'occupazione. Al tempo stesso, i consumatori beneficiarono di riduzioni dei prezzi in termini reali, oltre che di maggior scelta e di migliore qualità dei beni disponibili sul mercato, soprattutto nei settori dei beni di consumo durevoli.

La ricerca conferma, sostiene Hay, il sospetto che il protezionismo avesse un impatto negativo sull'efficienza del settore manifatturiero, il che è dimostrato dalla relativa facilità con cui, dopo l'apertura commerciale, la minaccia della concorrenza internazionale ha portato a guadagni dì produttività. Il miglioramento medio 50%, secondo l'elaborazione dell'economista di Oxford, è da attribuirsi per il 22% all'abbandono dei controlli sulle importazioni, per il 10% alla riduzione progressiva delle tariffe, per i 5% alla ripresa economica e per i 13% alla liberalizzazione generale dell'economia brasiliana.

Da qui agli incontri del mese prossimo a Washington, la controversia è comunque destinata ad accendersi ulteriormente. Alcune organizzazioni non governative che hanno ottenuto una bozza preliminare del rapporto della Banca mondiale hanno già espresso valutazioni negative sull'indicazione ai Paesi poveri di ridurre le barriere commerciali, anche se sono d'accordo sull'invito analogo rivolto ai Paesi ricchi.

Da Il Sole 24 Ore 15 agosto 2001

In http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/sum.htm

 

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