Il Sole 24 Ore-4 AGOSTO 2001

JEREMY SACHS

Benefici, ma gli esclusi restano

Africa e Paesi andini i più penalizzati

Alla vigilia del G-8, i dimostranti e i leader degli ottto Grandi si accusano reciprocamente di non capire la vera natura della globalizzazione. I maggiori Paesi industrializzati sostengono che il processo di internazionalizzazione economica è non solo inevitabile ma anche positivo per lo sviluppo. La protesta ribatte che così si allarga il divario tra ricchi e poveri. Le due parti, in realtà, dicono ciascuna una mezza verità.

I leader del G-8 sottolineano che per un Paese emergente la libertà di commercio è vitale per raggiungere tassi sostenuti di espansione economica: emarginarsi dai mercati internazionali impedirebbe lo sviluppo. La realtà, tuttavia, è più complessa. La liberalizzazione commerciale è una condizione necessaria ma non sufficiente. La globalizzazione aiuta una parte dei Paesi in via di sviluppo (pvs) a crescere, ma lascia ancora più indietro centinaia di milioni, se non miliardi, di persone, tra cui le fasce più povere della Terra. Pretendere che la globalizzazione aiuti tutti indistintamente, da parte del G-8, significa dipingere uno scenario metafisico, che può suscitare una reazione violenta.

Il fattore più importante della crescita dei pvs è l'integrazione nel sistema produttivo globale delle multinazionali. Queste aziende creano lavoro nei Paesi a bassi salari sia investendo direttamente, sia accordandosi con fornitori locali che producono beni in linea con le caratteristiche indicate dalle multinazionali e li esportano sui mercati internazionali, spesso proprio nei Paesi di origine delle grandi aziende. Questo sistema di produzione globale beneficia i Paesi industrializzati in termini di produzioni a basso costo, e i Paesi emergenti creandovi posti di lavoro, esperienza nelle tecnologie avanzate e investimenti. Alla fine del processo, un Paese in via di sviluppo può essere "promosso" dal rango di mero fornitore di componenti a quello di innovatore. La Corea del Sud, Taiwan, Israele e Irlanda hanno avviato la loro rapida industrializzazione una generazione fa, fabbricando prodotti standard per le multinazionali e ora sono economie hi-tech con una propria fisionomia.

Ma il maggiore problema della globalizzazione è che buona parte del Terzo mondo risulta estranea al processo. Nel Continente americano, gli investimenti esteri diretti sono concentrati in Messico, parte dell'America centrale e i Caraibi, vale a dire i Paesi più vicini agli Usa. Il Sud America riceve in misura molto minore questo flusso di investimenti. La conseguenza è che il Messico si è sviluppato molto rapidamente negli ultimi anni, con una crescita accelerata di redditi, posti di lavoro ed esportazioni verso gli Usa, mentre il Sud America è cresciuto molto più lentamente, quando non è addirittura arretrato.

Una situazione simile è presente in Europa ed Est Asia. Le multinazionali europee investono in misura cospicua in Paesi a bassi salari come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, che sono ai confini della Ue, ma molto meno in Romania, Ucraina o Russia, più distanti. Investono in Paesi nordafricani come Tunisia ed Egitto, ma molto poco nell'Africa subsahariana. In Asia, gli investimenti delle aziende di Taiwan si dirigono verso le regioni costiere cinesi, non verso le zone sottosviluppate dell'interno. E il Giappone preferisce i vicini del Far East all'India.

I Pvs geograficamente più prossimi ai Paesi industrializzati godono perciò di vantaggi consistenti rispetto agli altri. I vantaggi naturali in termini di minori costi di trasporto verso i grandi mercati sono spesso rafforzati da politiche commerciali ad hoc dei Paesi industrializzati. Così, gli esportatori messicani hanno un accesso preferenziale al mercato Usa in base all'accordo Nafta, e questo dà al Messico un ulteriore vantaggio sul Sud America. Una situazione simile è quella di cui gode la Polonia verso la Ue, nei confronti della Russia.

Così, nel Terzo mondo la globalizzazione vede alcuni grandi vincitori ma anche tanti perdenti. In effetti, molti Paesi stanno accusando vistosi declini dei loro standard di vita. Un altro problema è che in un mondo in cui la mobilità del lavoro e del capitale è sempre più alta, i lavoratori qualificati si spostano dalle aree remote e depresse verso i Paesi più benestanti e quindi, ad esempio, nonostante l'Africa soffra di devastanti epidemie, migliaia di dottori africani emigrano verso Usa, Europa e Medio Oriente alla ricerca di condizioni di vita migliori. Da questo punto di vista, la globalizzazione peggiora la crisi africana.

Le regioni del mondo più povere e remote - come l'Africa subsahariana, i Paesi andini, l'Asia centrale priva di sbocco sul mare, alcune zone dell'Estremo Oriente - la crisi economica sta peggiorando e interi Paesi stanno soccombendo alle malattie e alla recessione. Un dialogo costruttivo tra i fautori e i contestatori della globalizzazione dovrebbe partire dalla constatazione che questo processo può portare grandi vantaggi ma anche accrescere le condizioni di squallore in cui versano molti Paesi.

Il G-8 dovrebbe affrontare le pesanti realtà dell'Africa, della regione andina e di altri parti del mondo. I leader a Genova dovrebbero impegnarsi a nuove cancellazioni dei debiti dei Paesi più poveri, stanziare miliardi di dollari per combattere malattie come Aids, malaria, tubercolosi, creare nuovi meccanismi per aiutare queste nazioni a sfruttare i benefici delle nuove tecnologie. Se il G-8 mostrerà al mondo di comprendere le due facce della globalizzazione, la buona e la cattiva, e sarà pronto ad aiutare i Paesi più in difficoltà, si potrà iniziare a colmare il crescente divario che ora separa amici e nemici della globalizzazione, e a preparare soluzioni concrete.

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