editoriale

Touraine: più idee e meno mercato

Bisogna uscire dalla tirannia del liberismo, sostiene il grande sociologo francese.Senza tornare ai rigidi modelli statalisti
E indica una terza via che renda meno "selvaggia" la globalizzazione

Alain Touraine,"Come liberarsi del liberismo", il Saggiatore, 156 pagine, 22.000 lire

ALLA societa post-industriale, di cui è stato uno dei primi teorici, chiedeva trent'anni fa un supplemento di corporeità e di scienza, per salvaguardare, contro tutte le pressioni, la creatività dell'individuo. Oggi Alain Touraine, a settantacinque anni, sociologo all'Ecole des Hautes Etudes Sociales a Parigi, continua la sua analisi sulla "modernità", sulla crisi della democrazia, sulla trasformazione delle forme di dominio sociale. Il suo ultimo saggio, Come liberarsi del liberismo (il Saggiatore, 156 pagine, 22.000 lire), è un'analisi assai complessa sulla contrapposizione tra rigidità statalista e onnipotenza del mercato. Si parla di movimenti "senza", di intellettuali nell'era della globalizzazione di cui c'è chi proclama le sorti radiose e c'è chi la considera una sventura senza uguali.

Partiamo proprio di qui, professor Touraine: la globalizzazione è un fenomeno che non si può fermare?

"C'è globalizzazione e globalizzazione. Quel processo è nei fatti, i Paesi contrari rischiano di finire emarginati. Però le nostre società vogliono poter contare su se stesse. Cercano elementi in grado di bilanciare l'impetuoso montare della globalizzazione".

Umberto Eco distingue tra una globalizzazione come fatto e una come valore. Sarebbe una sventura non preservare le identità delle diverse culture...

"Ha perfettamente ragione. La globalizzazione è solo un insieme di tendenze, tutte rilevanti, ma poco solidali fra loro. L'affermazione che sta nascendo una società mondiale, essenzialmente liberista, governata dai mercati e impermeabile agli interventi politici nazionali, è puramente ideologica. Smettiamola di denunziare con un unico atto globalizzazione e liberismo".

Uno spauracchio ideologico?

"Si vuol far credere che sulle macerie dei progetti di sviluppo nazionale del dopoguerra, sia stato edificato un nuovo insieme globale, ossia economico, sociale e internazionale a un tempo. Si sarebbe passati dalla società statizzata alla società pianificata con l'economia di mercato. In realtà siamo passati da modelli nazionali integrati a una situazione internazionale in cui le diverse dimensioni della vita economica, sociale e culturale sono esplose, separandosi le une delle altre".

Lei dice che il liberalismo assoluto è un rischio nel momento in cui le nostre società hanno bisogno di trovare significati e finalità.

"Non ho le nostalgie reazionarie di chi rimpiange lo statalismo. Molti paesi devono completare il processo di liberalizzazione. Ma dopo l'ondata liberista navighiamo in un mare diverso. Anche le manifestazione di Seattle mostrano che un modello si è esaurito: quello della fiducia illimitata nei benefici della liberalizzazione degli scambi. La sensazione del liberismo fine a se stesso ha provocato una reazione di cui era stata sottovalutata la portata".

Un suo motivo ricorrente: c'è bisogno di idee, non di mercato...

"Su molte questioni il liberismo ha avuto ragione. A partire dagli Anni Sessanta il modello statalista ha cominciato a perdere colpi.
Però il liberismo assoluto è un rischio nel momento in cui le nostre società hanno bisogno di trovare finalità e significati. La fine della transizione liberista si accompagna a una riscoperta dei fattori indiretti che sostengono la crescita di un'economia complessa. E' necessario ristabilire un certo controllo sociale, tracciare i nuovi confini dentro cui far muovere l'economia".

Per rilanciare lo sviluppo, è necessario rafforzare lo Stato sociale? Eppure ci sono elementi che lo mettono in crisi...

"Il Welfare è costretto a trasformarsi per sopravvivere. Non può essere sacrificato. Resta essenziale per l'Europa che è estremamente attaccata a questo sistema di protezione sociale e non può accettare il suo smantellamento. Il problema è far quadrare la giustizia sociale con l'efficacia economica. E' necessario uscire dalla dittatura dell'economia di mercato, ma senza rigurgiti di statalismo".

Più Stato e meno mercato, allora...

"No. Meno Stato, meno mercato e più iniziative, negoziati, progetti, conflitti propriamente sociali, attraverso i quali si potranno costruire i rapporti indispensabili (e costantemente mutevoli) fra esigenze e possibilità dell'economia e richieste o resistenze dei soggetti sociali".

Uscire dal liberismo per andare avanti, non per tornare indietro.

"Questa uscita non avverrà né all'indietro, né verso il basso, né verso l'alto: essa non può che realizzarsi in avanti, verso la nostra capacità di azione politica che passa anzitutto attraverso la formazione di nuovi movimenti sociali. Il riscatto della politica deve essere guidato dalle nuove domande sociali".

In che senso i movimenti dei "senza" (senza lavoro, senza documenti, senza casa) che lei considera dei nuovi attori sociali, sono la premessa per un inedito egualismo?

"E' la difesa dei diritti culturali e sociali degli individui e delle minoranze lo scopo positivo dei movimenti sociali che si oppongono tanto all'impero dei mercati quanto al dominio di movimenti di ispirazione comunitarista. L'essenziale è riconoscere in queste azioni, che sembrano semplicemente basate sulla privazione, la presenza di una rivendicazione positiva, quindi di un conflitto sociale collocato nel cuore della società e della cultura, anche se questo non deve esimerci dal trascurare le deviazioni e soprattutto le manipolazioni politiche o ideologiche di cui sono vittime questi movimenti ancora scarsamente autonomi".

Lei parla di una nuova responsabilità di conoscenza e di analisi degli intellettuali. Di quale responsabilità e di quali intellettuali? Non si è parlato di "fine degli intellettuali"?

"L'unica famiglia che si stia attualmente indebolendo, al punto da sembrare in via di estinzione, è quella degli ideologi collegata organicamente a una organizzazione di partito. E' fatale: le filosofie della storia e la fiducia nel "partito" artefice dell'avvenire sono irrimediabilmente in declino...".

I chierici di una volta sono chiamati ad analizzare le situazioni storiche concrete, a intervenire nei conflitti e nei dibattiti sociali per farne emergere il senso...

"Dipende dagli intellettuali, più che da ogni altra categoria, se la protesta potrà degradarsi in una denunzia priva di prospettive o se, al contrario, porterà alla formazione di nuovi soggetti sociali e, indirettamente, a nuove politiche economiche e sociali".

Il Messaggero-21 FEBBRAIO 2000

Da Sito Web Italiano per la Filosofia

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