MARCO MAGNI

L'unica faccia del mondo

E' inutile tentare di far emergere gli aspetti positivi della globalizzazione come ha proposto Cavallaro sul "manifesto". Così come è inutile riproporre paradigmi economici che sono stati creati nell'Ottocento sulla base di un altro tipo di società

Leggendo l'articolo di Luigi Cavallaro, (manifesto, 4 agosto), si ha la sensazione che gli economisti spesso dimentichino che le teorie dell'economia politica si trasformano, per il semplice fatto che è la realtà dei rapporti economici a mutare. Le teorie hanno elaborato il proprio apparato interpretativo astraendo i tratti generali dei fenomeni di determinate epoche: la crescita (valore-lavoro), l'allocazione (equilibrio generale), l'occupazione (Keynes), l'inflazione (monetarismo). Cambiando la configurazione dei fenomeni, mutano anche gli approcci e determinati paradigmi risultano inutilizzabili. Le idee del capitale di Marx non sono esenti dagli effetti delle trasformazioni. Occorre domandarsi se, oggi, forse, Marx non abbia già da tempo oltrepassato se stesso, e non occorra stare, quindi, con Marx oltre Marx. Ma la vera risposta che suscita l'articolo di Cavallaro ha a che fare con l'economia politica, e può essere riassunta in una domanda: siamo sicuri di parlare di "liberalizzazione degli scambi commerciali"? Siamo sicuri che il problema possa essere condensato nel conflitto tra l'esigenza delle imprese multinazionali di allargare lo spazio del proprio mercato, e le barriere doganali erette dagli stati nazionali? Io, francamente non lo credo. Le lotte dei movimenti da Seattle a Genova ineriscono la dimensione mondiale della produzione, non del commercio e degli scambi internazionali. Dico questo non perché ero a Genova, ma a partire dai nodi aperti dalla stessa "costituzione" della globalizzazione economica, così come si esplicita nella successione cronologica che va dall'aggiustamento strutturale, alla creazione della rete mondiale dei mercati finanziari, ai trattati del Wto.

E' evidente che quel che si è andato prefigurando è ciò che i francesi chiamerebbero un nuovo "sistema di regolazione" del capitalismo. Un nuovo modello di capitalismo, da leggere in base alle sue leggi di funzionamento. Ciò che costituisce il campo politico di formazione del movimento mondiale è un processo tale da far impallidire non solo le idee di Marx sulla natura e gli effetti del commercio internazionale, bensì gran parte dell'economia politica. Le giravolte di personaggi come Paul Krugman, che alterna proposte keynesiane in politica monetaria alla giustificazione dei salari al di sotto dei limiti di sussistenza della Nike, si spiegano forse con il fatto che è l'economia politica, nella globalizzazione, ad aver perso la bussola. Si potrebbe dire che la globalizzazione dei mercati determina la fine di tutte le teorie del commercio internazionale fondate sulla tesi dei vantaggi comparati. Mi limito a ragionare per punti:

a) la separazione tra produzione e mercati. A varie riprese l'internazionalizzazione del capitalismo ha assunto una funzione espansiva, di formazione di nuovi centri di produzione e nuovi mercati. Così nella fase della rivoluzione industriale e nel secondo dopoguerra, con il "keynesismo mondiale". Dal punto di vista sociale, il principio che guidava uno sviluppo accompagnato dall'apertura estera delle economie, era il fatto che la forza-lavoro impiegata in produzione costituiva già un nuovo mercato di destinazione delle merci. Lo sviluppo capitalistico, cioè, implicava lavoratori che fossero essi stessi consumatori delle merci che producevano. Questo nesso tra produzione e consumo lo troviamo in Marx, così come in Lenin o nella teoria dell'accumulazione del capitale della Luxemburg. Esso costituiva il tratto reale dell'"ambiente" economico (ed epistemologico) in cui scrivevano i classici del marxismo: la tendenza del capitalismo ad uno sviluppo illimitato che avrebbe incontrato prima o poi il proprio limite. Nella globalizzazione avviene esattamente il contrario: nelle fabbriche del Sud est asiatico si producono articoli d'abbigliamento che i produttori non potranno mai comprare. Tutto ciò è compatibile con uno sviluppo quantitativo della domanda del mercato mondiale, di un mercato che è sempre altrove rispetto ai luoghi di produzione. Ma ha effetti devastanti sulla distribuzione del reddito interno alle economie esportatrici e sul livello di democrazia.

b) i trattati di liberalizzazione del commercio (Nafta, Trattato interamericano, Wto) hanno qualcosa a che vedere con l'instaurazione di una logica dei "vantaggi comparati" per cui ciascuno si specializza nelle merci in cui ha un minore costo di produzione, risparmiando reddito attraverso l'acquisto dall'estero di merci in cui un'altra nazione gode di un vantaggio competitivo? In realtà, il soggetto del libero scambio, a differenza delle epoche in cui, nella dottrina di Ricardo, Portogallo e Inghilterra confrontavano i rispettivi costi di produzione di vino e panno, non sono le nazioni, bensì le imprese multinazionali e le diverse agenzie finanziarie transnazionali. Queste ultime costituiscono una unica catena di produzione transfrontaliera, globale, in cui allocano le fasi della produzione secondo la logica dell'ottimizzazione dei costi. In realtà, acquistano forza-lavoro a basso costo, e nello stesso tempo azzerano i costi fiscali e doganali dei nuovi insediamenti produttivi.

c) il furto dei saperi e le nuove "enclosures". Il discorso dei saperi e delle tecnologie, che circolano attraverso lo scambio anonimo delle merci, è forse il punto in cui la globalizzazione genera i maggiori paradossi. Accade esattamente il contrario di quel che afferma Cavallaro. Il processo, in questo caso, è assolutamente a macchia di leopardo, dà vita a situazioni qualitative difformi e disparate, nessuna delle quali annuncia, attraverso la circolazione delle merci, la generalizzazione delle capacità produttive e, quindi, una redistribuzione delle ricchezza attraverso il mercato: la Silicon Valley indiana, nella zona di Bangalore, è una zona ad alta qualificazione tecnica che non ha alcun rapporto con l'economia locale. Quando si giunge all'agricoltura (in economie in cui la quota della forza lavoro impiegata in agricoltura arriva, come in India, al 70% del totale), i termini del problema cambiano in peggio: le risorse genetiche, che sono null'altro che il frutto di un sapere sociale millenario, vengono sequestrate attraverso il sistema dei brevetti. Inoltre, l'attuale gestione dell'innovazione tecnologica comporta enormi dislivelli in termini di reddito.

Tutto questo, potrebbe, forse, costituire solamente la fase "selvaggia" della globalizzazione, che apre ad una generalizzazione dello sviluppo attraverso il conflitto? Alcuni, come Arrighi e Wallerstein, nelle loro opere (peraltro grandiose) sull'economia-mondo, sembrano pensare di sì: se la classe operaia occidentale viene marginalizzata dalla nuova economia immateriale e dei servizi nel centro dell'economia-mondo, la classe operaia si accresce e si rafforza nel Terzo mondo, facendo pensare a nuovi inimmaginabili cicli di lotte. Eppure, c'è dell'altro che fa pensare che la storia non abbia alcuna probabilità di ripetersi, che, cioè, il conflitto sociale sarà qualcosa di assolutamente inedito e nuovo dal punto di vista delle soggettività e delle strategie in campo, sebbene l'unica certezza sia la dimensione mondiale e poco altro.

Questo altro sono i mercati finanziari, il ruolo dominante, economico e politico, che svolgono i mercati finanziari nel sistema economico della globalizzazione. Essi, nell'architettura monetarista che si è venuta via via costituendo nei decenni del neoliberismo, si manifestano come l'unico sistema integrato che tenga insieme il tutto della produzione mondiale.

I mercati finanziari possono essere considerati, in senso molto generale, come la principale forza generatrice della "società del rischio". Ma ciò appare come un giudizio generico. In realtà, le crisi finanziarie degli ultimi anni, nella periferia della globalizzazione, dimostrano come le borse mondiali abbiano l'effetto di cancellare ogni nesso effettivo del capitale - tutto il capitale, non solo il capitale estero ma anche il risparmio interno - con il territorio: la congiuntura sfavorevole, o semplicemente la crisi di fiducia, può significare la catastrofe economica, mediante la fuga di un capitale che, per difendere la propria continuità di rendimento, distrugge ricchezza e occupazione. Lo sa bene la Russia, che dall'alleanza tra Fmi e mafie politico-burocratiche ha subito distruzioni di capacità di produzione e ricchezza che nemmeno l'invasione hitleriana, con i suoi venti milioni di morti, aveva saputo provocare.

In conclusione, credo che l'opposizione tra protezionismo e liberoscambio vada liquidata come una rappresentazione prodotta dai guru del neoliberismo, e che la ricerca debba inoltrarsi per diversi sentieri. La questione chiave, a mio avviso, è la rendita, allo stesso tempo politica ed economico-finanziaria, acquisita dai poteri economici dominanti attraverso il controllo dello spazio: la globalizzazione consiste in un rapporto generale, tendenzialmente illimitato, di controllo sul tempo sociale attraverso il dominio globale dello spazio. Una rendita monopolistica resa possibile dalla posizione dominante che ciascuno dei soggetti dell'accumulazione del capitale detiene, potenzialmente, nei confronti del mercato mondiale. L'insieme che ne viene fuori è qualcosa di terreo e spaventosamente coerente dal punto di vista formale, e, nello stesso tempo, di assolutamente caotico. Infatti, è tenuto insieme dalla concorrenza mondiale tra le holding transnazionali, su tutti i mercati, delle monete, delle merci, della forza-lavoro, e dalla gestione politica di breve termine (dei G8, Federal Reserve, Fmi, ecc.) delle relazioni tra gli interessi coinvolti.

Il paradosso della globalizzazione, a mio avviso, sta nel fatto che ciò che ha generato l'innesco di una crisi etica e politica del neoliberismo, è stato proprio il processo di costruzione di un quadro regolativo adeguato al nuovo modo di produzione globale. Il Wto, fornendo un sistema di regole (e di coercizione) coerente e uguale in ogni parte del mondo agli investimenti transnazionali, è il soggetto di controllo dell'incertezza congenita al nuovo modello di accumulazione. Uno spazio liscio e omogeneo in cui gli investitori conoscano "a priori" le condizioni generali di redditività di ogni investimento. Ma il nuovo modello comporta l'azzeramento delle libertà, la fine tendenziale di ogni potere di controllo delle società sull'insieme delle proprie risorse. Le ragioni della rivolta sono figlie della natura "impossibile" del nuovo modello di regolazione globale.

Da Il manifesto 18 agosto 2001

Vedi in http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/economia.htm

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