DIEGO GIACHETTI

"Come potete giudicar"
Il Sessantotto dei capelloni

"l'impegno", a. XIX, n. 2, agosto 1999
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
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Negli anni sessanta la trasformazione dei costumi e della mentalità giovanile nei confronti di quella degli adulti è rapidissima e precede l'esplosione delle lotte studentesche all'università e la ripresa della conflittualità operaia nelle fabbriche. È tra questi giovani che si diffonde la moda dei capelli lunghi, dei pantaloni di jeans stretti, degli stivaletti a punta e col tacco alto, delle prime minigonne; un modo di vestire "casual", come si dirà negli anni settanta, che rifiuta per polemica e per gesto di irriverenza e secessione dal perbenismo degli adulti, la giacca, la camicia bianca e la cravatta, i pantaloni ben stirati con la riga davanti, le scarpe tirate a lucido tutte le mattine, il paltò, sostituendoli con giacconi militari usati, le camicie colorate, i jeans scoloriti, le sciarpe di lana, gli scarponi. Le foto delle manifestazioni dei giovani di sinistra contro la guerra nel Vietnam nel 1965-66 e quelle che ritraggono gli occupanti delle università italiane a cavallo tra il 1967-68, ci restituiscono ancora l'immagine di giovani certo già contestatori e già politicizzati, ma ancora "per bene" nel modo di presentarsi: portano infatti capelli corti e ben pettinati, pantaloni ben stirati, giacche, cravatte, cappotti, mentre le ragazze indossano tailleur (non certo pantaloni), che ancora non salgono sopra il ginocchio, in mano tengono una composta e lucida borsetta, ai piedi hanno scarpe coi tacchi a spillo. Ben presto i fotogrammi dei cinegiornali del 1968 e del 1969 ci offriranno, dal punto di vista del costume e del modo di vestire, altre immagini e anche nel movimento studentesco la moda dei capelli lunghi o alla nazarena, come dicevano i cattolici del dissenso, dilagherà, accanto ai jeans, i giacconi, le barbe lunghe.

Giovane tra i giovani

È esistito un periodo che ha preceduto la rivolta del '68 nel quale è emerso nel nostro Paese un fenomeno sociale per molti aspetti nuovo, si tratta del ruolo svolto dai giovani. Gli anni del miracolo economico italiano e i primi sintomi dello sviluppo della scolarità di massa pongono le premesse oggettive perché anche in Italia emerga quella che i sociologi americani chiamano la condizione giovanile. Precedentemente o si era bambini oppure adulti e l'unico compito dei giovani, come aveva detto il filosofo Benedetto Croce, era quello "di diventare adulti". Nell'Italia degli anni sessanta, invece, un nuovo ruolo, una nuova identità, si affiancano a quelle codificate dalle istituzioni. Prima si era operai, studenti o qualcos'altro, in una concezione gerarchica e verticale dei ceti sociali, classificati per il ruolo che occupavano nella società. Ora appare un'identità trasversale, quella giovanile, che taglia orizzontalmente ceti, professioni e classi sociali, che tende ad accomunare l'operaio e lo studente, chi abita in città e chi abita in provincia. Un'identità giovanile che nasce dal percepirsi giovane tra i giovani, un qualcosa a sé, separato dal mondo degli adulti, che accomuna e affratella:
Noi siamo i giovani,
i giovani più giovani,
siamo l'esercito,
l'esercito del surf

canta Catherine Spaak ne "L'esercito del surf", del 1964.
Un'appropriazione di identità che avviene mentre l'Italia è coinvolta nel passaggio da un'economia prevalentemente agricola ad una industriale, che comporta fenomeni di inurbamento forzato, con le città che si trasformano in immense periferie che mangiano la campagna, come efficacemente racconta Adriano Celentano nella canzone "Il ragazzo della via Gluck", del 1966:
Questa è la storia di uno di noi,
anche lui nato per caso in via Gluck
in una casa fuori città…
Gente tranquilla che lavorava!
Là dove c'era l'erba
ora c'è una città
e quella casa in mezzo al verde ormai
dove sarà?!

Una percezione d'identità collettiva che comincia a trovare elementi in comune in fatti di costume: la moda dei capelli lunghi, la minigonna, la musica dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bob Dylan e di Joan Beaz, i primi complessi rock italiani, i messaggi pacifisti di Bertrand Russel, la proposta di fare l'amore e non la guerra che arriva dai campus universitari americani in polemica con la guerra nel Vietnam. Fare l'amore per protesta contro la guerra, ma anche per liberarsi dai tabù che riguardano la sfera sessuale, per riappropriarsi, in tutto e per tutto, del proprio corpo e delle proprie emozioni. Il sesso fa capolino in modo nuovo nelle canzoni italiane. Emblematico è in merito il testo di una canzone di Adriano Celentano, "24 mila baci", con la quale partecipa al Festival di Sanremo nel 1961:
Con 24 mila baci
felici corrono le ore,
d'un giorno splendido, perché
ogni secondo bacio te.
Con 24 mila baci
oggi saprai perché l'amore
vuole ogni istante mille baci,
mille carezze vuole allora
Niente bugie meravigliose,
frasi d'amore appassionate
ma solo baci chiedo a te:

Non c'è più spazio per i sentimentalismi stucchevoli o tardoromantici, il rapporto d'amore è velocizzato, simile a quello della fabbrica tayloristica che sforna migliaia di merci usando sequenze lavorative sempre più veloci, tipiche della produzione in serie. Anche l'uso delle parole, unito al ritmo rock, trasmettono un'idea d'amore che riprende i connotati delle filosofie vitalistiche e la cadenza espressiva del futurismo, tesa appunto ad esaltare la velocità e il movimento perenne. Altro che "non ho l'età per amarti/ per uscire sola con te", come si attarda a cantare Gigliola Cinquetti, vincendo il Festival di Sanremo nel 1964. Stando alle parole di "Non è facile avere diciotto anni", una canzone di Rita Pavone del 1963, non è più questo il problema delle giovani ragazze; se mai è un altro, quello di non essere corrisposte, desiderate dal "tipo" che ti piace:
non è facile avere diciotto anni
non è facile amare così
no, non è facile
perché tu non ti accorgi di me

Più in generale l'amore è cantato come leva da utilizzare per cambiare il mondo e gli uomini, come testimonia il ritornello della canzone "Tema", del 1966, dei Giganti:
Viva viva l'amor
è per l'amore che si canta
viva viva l'amor
è per l'amore che si vivrà


Un Sessantotto di canzonette

I canali di diffusione della cultura giovanile sono la televisione, la radio, i juke box, le canzonette, alcune riviste pubblicate apposta per i giovani. La televisione veicola fin nei borghi più sperduti (deve magari ce n'è una sola, quella posseduta dal bar del paese) le immagini di giovani antinuclearisti che circondano le prime centrali atomiche guidati da Bertrand Russel, ormai vecchio e paralizzato, su una sedia a rotelle. Dagli Stati Uniti arrivano le immagini della protesta dei giovani americani contro le discriminazioni razziali e la guerra nel Vietnam. Non meno importante per la trasmissione e la diffusione di un sentire comune generazionale è il ruolo svolto dalle cosiddette canzonette di quel periodo, quelle di consumo, scritte per un pubblico vasto e indefinito nei suoi connotati ideologici. Si tenga conto che le canzonette arrivano a lambire ampie fasce del mondo giovanile, giungono, coi loro messaggi, là dove il volantino, il documento, l'azione di protesta del movimento studentesco, delle organizzazioni giovanili legate ai partiti di sinistra, l'intervento dei gruppi minoritari, non riescono ad arrivare. Comunicano sentimenti, stati d'animo, idee che, con l'ausilio della televisione, della radio, dei juke box giungono a tutti i giovani italiani, anche quelli che non abitano nei grossi centri urbani; e sono tantissimi, perché la provincia italiana è grande.
All'inizio degli anni sessanta i juke box sono già quindicimila; la radio fin dal 1960 dedica ai giovani un programma specifico, "La musica dei giovani"; la televisione, sempre in quell'anno, apre un'inchiesta in otto puntate dal titolo "I giovani d'oggi". A partire dal 1962 si propone di anno in anno, con grande successo il "Cantagiro", ideato da Ezio Radaelli, uno spettacolo musicale itinerante nelle varie città d'Italia, ripreso nelle tappe più significative del suo percorso dalla Rai. Nel 1964 inizia il "Festivalbar", una manifestazione canora dove la giuria è costituita da juke box, contemporaneamente la Rai inizia a trasmettere "Il disco per l'estate". Nel mese di febbraio del 1965 apre a Roma il locale denominato "Piper", club pensato per un pubblico giovanile, vi debuttano i nuovi protagonisti del beat italiano, a cominciare da Patty Pravo e Caterina Caselli; i Beatles nel mese di giugno sono in tournée in Italia, suonano a Milano, Roma e Genova e fanno la loro prima apparizione in tv; ad ottobre inizia la mitica trasmissione "Bandiera Gialla", Lelio Luttazzi inaugura la "Hit parade". Nel marzo 1966, una piccola stazione, Radio Montecarlo, inizia a trasmettere in italiano due ore di musica giovane, nel luglio di quell'anno sul secondo programma della radio comincia "Per voi giovani". Fiancheggiano queste trasmissioni di musica giovane e per i giovani due riviste di costume: "Ciao amici", che inizia le pubblicazioni nel 1963, e "Big", che compare nelle edicole nel 1965 e si attesta su una tiratura media di quattrocento-cinquecentomila copie. Entrambe le riviste
1 si occupano dei nuovi cantanti beat italiani, con servizi fotografici, notizie e informazioni relative ai nuovi divi della canzonetta, con riferimenti obbligati al panorama internazionale, soprattutto per i Beatles e i Rolling Stones. Ma accanto a questo aspetto, nella rubrica delle lettere e in alcuni servizi specifici, prevalgono tematiche tipiche del malessere esistenziale e sociale che connotano la condizione giovanile dell'epoca.
I nuovi complessi e i nuovi cantanti che emergono in quegli anni traggono ispirazione da modelli di importazione anglosassone, ma esprimono anche un'autentica vena originale, interpretano la dimensione esistenziale della condizione giovanile. Questo genere di musica diventa strumento di comunicazione politico-culturale in senso lato. Introduce, ad esempio, il nuovo modo di atteggiarsi e di vestirsi, di cui abbiamo già detto; una vera e propria rivolta dello stile, secondo il termine coniato dai sociologi, anni dopo, per definire la moda punk.
L'analisi dei testi delle canzonette rappresenta un modo, fra i tanti, divertente e simpatico, per penetrare nei contenuti e nelle ragioni della rivolta giovanile e generazionale degli anni sessanta. Si possono ascoltare e rileggere quei testi per recuperare i contenuti esistenziali, culturali, di costume e politici di quella generazione. I testi di quelle canzoni, a volte tradotte dall'inglese o dall'americano, parlano di un mondo nuovo e diverso, dell'insorgenza e dell'insofferenza del mondo giovanile verso i genitori e il mondo degli adulti in genere. "Noi non siamo come voi", cantano i The Rokes in "Che colpa abbiamo noi", del 1966, e proseguono denunciando l'insofferenza di vivere in un "mondo vecchio che ci sta crollando addosso", dove la "gente non sorride più"; certo ringraziano le generazioni precedenti per aver dato loro una "bella società, fondata sulla libertà", però, si chiedono, perché "se non pensiamo come voi ci disprezzate, come mai?".
Come potete giudicar,
come potete condannar,
chi vi credete che noi siam,
per i capelli che portiam,

cantano I Nomadi nella canzone omonima "Come potete giudicar", del 1966, mettendo in evidenza la presenza per le strade delle città italiane dei primi capelloni, che la gente per bene si volta a guardare sorridendo con autosufficienza e disprezzo. Sono i poco di buono, i ragazzi di strada, i beat, come li chiamano i giornali e come li cantano I Corvi nel loro disco del 1966, intitolato "Un ragazzo di strada", che porta "capelli lunghi", indossa "i calzoni stretti" e gli "stivaletti" che lo fanno sentire però "cittadino di questo mondo", come canta Gene Guglielmi nella canzone "I capelli lunghi", del 1966.
Altre canzoni segnalano il bisogno di pace universale, che è un riflesso delle paure di una nuova guerra nucleare, come la sfrenata corsa agli armamenti di quel periodo e i ricorrenti contrasti tra le due superpotenze, fanno temere: "mettete dei fiori nei vostri cannoni", cantano I Giganti nel ritornello di "Proposta", del 1967:
perché non vogliamo mai nel cielo
molecole malate
ma note musicali
che formino gli accordi
per una ballata di pace
di pace.

La guerra eventuale e quella che già c'è, viene denunciata da parte dei giovani perché ammazza i giovani, è il caso della notissima canzone di Gianni Morandi "C'era un ragazzo", del 1966, "che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", che muore nel Vietnam, dopo essere stato richiamato alle armi, strappato dalle cose bella della sua vita: la musica, la gioia, le ragazze ("aveva mille donne").
Giovani che si sentono parte e carichi del destino di tutto il mondo, partecipi alle vicende sovranazionali, legati assieme dalla musica e dall'idea di una società nuova e diversa, meno ipocrita, più giusta, dove non si inseguano strade consumistiche "che non portano a niente", ovvero conducono alle "auto prese a rate", ai "miti dell'estate", dicono i Nomadi con le parole di Francesco Guccini, in "Dio è morto", del 1965; fa bene la nuova generazione a non credere più
nei miti eterni della patria o dell'eroe...
/nella/ politica che è solo far carriera
/nel/ perbenismo interessato, /nella/ dignità fatta di vuoto

In un'intervista dell'epoca
2 Franco Ceccarelli, chitarrista del complesso Equipe 84, racconta che la canzone che più ha successo nelle balere frequentate dai giovani è quella di Francesco Guccini che s'intitola "L'antisociale":
odio le carriere di concetto
l'autorità costituita,
il miracolo economico,
il frigorifero e l'automobile,
l'essere per bene e gli intellettuali
l'impiegato con la cravatta,
non voglio le gran dame,
ma solo le puttane,
odio essere alla moda,
i tipi supercorazzati,
il bravo onesto padre di famiglia,

mentre "cantiamo queste parole si scatena sempre un pandemonio", conclude.
La musica, il sentirsi giovani in rotta col vecchio, col passato, coi genitori, con le nuove giovani donne che rivendicano il diritto di poter scegliere, provando, qual è l'uomo migliore, senza essere giudicate, come dice Caterina Caselli nel 1966 in "Nessuno mi può giudicare", trascina e strappa dalla noia della vita i tanti giovani italiani, li fa sentire parte di un universo nuovo, dai paesi della provincia alle città, da Milano, Roma, Torino a Londra, a Parigi, ai campus americani. Nell'estate del 1966 quella che genericamente possiamo chiamare la moda beat dilaga. Dall'Inghilterra arriva la minigonna per le ragazze, i pantaloni stretti e le camicie colorate per i ragazzi. I complessi impazzano e conoscono un relativo successo. Le case discografiche pubblicizzano i cantanti capelloni, la moda dei capelli lunghi e delle minigonne si diffonde.
In quell'anno molte canzonette invitano i "ragazzi tristi" dell'omonima canzone di Patty Pravo, le "bambine sole" cantate dai Profeti, quelli che non han "più parole", né "pensieri", che si sentono soli, che invocano "Una lacrima per piangere" (Corvi), ad unirsi, incontrarsi, stare assieme, cominciando a "suonar le chitarre e cantare" (Equipe 84), perché non possono né debbono accettare di "stare soli, mai", perché un giorno cambierà, perché "quando si è giovani così", bisogna "stare insieme, parlare tra di noi, scoprire insieme il mondo che ci ospiterà", conclude Patty Pravo. Queste canzoni trasmettono un messaggio positivo, ottimistico, i giovani cambieranno il mondo, valga per tutti questo passaggio tratto dalla nota e già citata canzone di Francesco Guccini cantata allora da I Nomadi, "Dio è morto":
io penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata,
ad un futuro che ha già in mano, a una rivolta senz'armi.

Il mondo sta cambiando e "cambierà di più", cantano nel 1966 i The Rokes in "La pioggia che va" (ripresa anche da Caterina Caselli):
Non vedete nel cielo
quelle macchie d'azzurro, di blu.
È la pioggia che va
e ritorna il sereno.
Se non ci arresteremo, se uniti noi saremo
molto presto un nuovo sole sorgerà…
e col tempo sopra il mondo,
come il sole del mattino, un amore universale sorgerà.

D'altronde gli stessi Rokes, dopo essersi uniti al pianto dei giovani e delle giovani incomprese dai genitori e dagli adulti, promettono nel 1966, in "Piangi con me": "domani forse cambierà vedrai". E lo stesso Luigi Tenco nella sua filosofica ricerca esistenziale in "Vedrai vedrai", del 1965, aveva cantato:
Vedrai vedrai
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà.

Certo bisogna insistere, perseguire con determinazione e caparbietà l'idea di una società nuova e diversa, prepararsi alla lotta dura, anticipando uno slogan di Lotta continua che invita alla "Lotta dura senza paura":
Batti i pugni
non fermarti mai
fino a quando ciò che vuoi avrai.
Batti i pugni per protesta

ne vale la pena, perché, conclude il passo della canzone dei New Dadà "Batti i pugni", del 1966: "chi comanda il mondo siamo noi", cioè i giovani.

I capelloni italiani

La stampa nazionale rileva l'esistenza di un movimento beat, dei capelloni, a partire da episodi che accadono nel 1965 e nel breve spazio di due anni si contano cinquecento inchieste giornalistiche sul fenomeno, certo tutte "estremamente generiche"
3, piene di luoghi comuni e di facile perbenismo, ma che rappresentano di per sé un dato che segnala l'emergenza di un evento nuovo. Nell'agosto del 1965, a Roma, in piazza di Spagna un gruppo di giovani, soprattutto francesi, inglesi e tedeschi, dopo aver vagabondato per varie città europee, si fermano nella capitale riunendosi sulla scalinata della piazza. Discutono, dormono sugli scalini, suonano la chitarra. Indossano blue jeans aderenti, magliette colorate, scarponi col tacco alto e giubbotti fantasiosi, portano i capelli lunghi. Per alcuni mesi non accade nulla e il via vai di capelloni prosegue. Un giorno di novembre un capellone e un militare vengono alle mani. Scoppia una rissa, interviene la polizia, quasi tutti i beat stranieri vengono fermati e rispediti al loro paese col foglio di via. L'episodio è ripreso da tutta la stampa nazionale. In un articolo scritto sulla terza pagina del "Corriere della sera" del 5 novembre 1965 da Paolo Bugialli si può leggere: "Sono brutti [...] infestano la scalinata di Trinità dei monti [...] tipi di apparente sesso maschile che portano i capelli lunghi quasi come le donne [...] secondo una moda mutuata dai Beatles, i quattro giovanotti che l'Inghilterra anziché premiare, avrebbe dovuto [...] esiliare in Patagonia [...].
Essi, dicono, esprimono il tormento della bomba e bisognerebbe buttargliela [...]. D'ora in avanti verrà esercitata una stretta sorveglianza sulle scalinate e alle frontiere [...] Non si entra in Italia coi capelli lunghi".
L'unica a intervenire in loro difesa, in quei giorni, è la scrittrice Elsa Morante in una lettera che invia a "La Stampa" di Torino l'11 novembre 1965: "Non vedo nessun oltraggio nella foggia dei capelli lunghi e del vestiario dimesso [...] foggia, la suddetta, già confortata da innumerevoli esempi illustri, tra i quali, per citarne solo due, Dante Alighieri e Giuseppe Garibaldi".
Nei mesi seguenti vari articoli e pseudo inchieste giornalistiche segnalano la presenza dei capelloni nelle varie città d'Italia, in particolare a Firenze, a Milano e a Torino. Nelle notizie relative alla cronaca cittadina, che i giornali danno, ogni qualvolta si parla di giovani, il termine "capelloni" è spesso associato, del tutto arbitrariamente, a quello di ladri, spacciatori e teppisti. Molti di questi articoli sono dedicati ad un fenomeno nuovo che si manifesta in quei mesi e che rappresenta un indicatore di un profondo disagio che investe la condizione giovanile, si tratta delle fughe da casa di giovani adolescenti, minorenni che se ne vanno per protestare contro la loro famiglia, suggestionati anche dalla cultura del viaggio e del nomadismo:
io, vagabondo chi sono io,
vagabondo che non sono altro,
soldi in tasca non ne ho
ma lassù mi è rimasto Dio

così cantano I Nomadi nella canzone "Io vagabondo". Una vera e propria "epidemia di fuggiaschi da casa", come scrivono i giornali, sembra sconvolgere in quei mesi la vita per bene delle tranquille e normali famiglie italiane appena investite dagli effetti del boom e del benessere: "Odio il nuovo frigorifero, la nuova televisione, il divano con le poltrone, mio padre e mia madre. E me ne andrò di casa", scrive nel suo diario Maurizio, uno studente di vent'anni; il diciottenne Riccardo, invece, conclude in questo modo la lettera che ha lasciato al padre prima di andarsene di casa: "Così andrò via. Non te la prendere. Vivi e lascia vivere. Ti prego solo di una cosa. È l'ultimo favore che ti chiederò nella vita e hai il dovere di farmelo: non denunciarmi. Addio"
4.
Molto interessanti per ricostruire le ragioni di questo malessere esistenziale che porta a gesti clamorosi di rottura con la propria famiglia, quale la fuga da casa, sono le pagine di diario di questi giovani adolescenti, le lettere che inviano ai giornali e quelle che lasciano ai genitori prima di andarsene. È possibile ritrovare questi documenti nelle pagine della rivista "Mondo beat", "Big", ma anche, per stralci, in articoli di giornali dell'epoca, che sovente riportano passi di lettere o pagine di diario di adolescenti, nelle riflessioni dei sociologi e degli psicologi, che sovente usano questo tipo di fonti per provare a capire le ragioni del disagio nei rapporti familiari e tra giovani e adulti. Un disagio che la canzonetta ha subito recepito e descritto: "La mia famiglia è gente bene/ con mamma non parlo, col vecchio nemmeno", sintetizzano I Giganti in "Proposta", del 1967, mentre i Rokes, in "Piangi con me", del 1966, si rivolgono ai giovani incompresi dai genitori parafrasando le note parole di Gesù:
Se ti fanno un po' soffrire
perdonali perché
non sanno cosa fanno
io soffro come te
se il tuo sorriso triste
non li ha convinti mai
tu non li devi odiare
perdonali se puoi
qualcuno deve amare
e lo faremo noi

Nel 1966 si forma un vero e proprio movimento beat, dotato di un minimo di organizzazione, che promuove iniziative di protesta sociale e di lotta. Il 17 luglio, ad esempio, a Torino i beatniks organizzano la Marcia per la pace universale, che si conclude con incidenti e arresti di dimostranti da parte della polizia. Il 12 ottobre a Milano vengono arrestati diciannove capelloni con l'accusa di aver scritto slogan pacifisti sui muri. Il giorno dopo sul "Corriere della sera" per descrivere l'accaduto si usano queste parole: "Rastrellamento di 19 zazzeruti". Il 4 novembre, in occasione della festa della vittoria giovani pacifisti, provos e beatnik organizzano manifestazioni a Torino, Bologna e Milano, così raccontata nelle pagine di diario di un protagonista: "Sono stato a Torino per fare una manifestazione di protesta con gli amici. Verso le nove mentre eravamo ai giardini a discutere con i beats di Torino è intervenuta la 'zia Polly'. Siamo scappati. La 'zia Polly' ne ha beccati cinquantaquattro, e li ha portati dentro: io mi sono messo in salvo"
5.
Con questo tipo di iniziative i beats o capelloni tendono a marcare il loro impegno sociale, distinguendosi da quella che altrimenti rischia di essere solo una moda, un modo di vestire e di atteggiarsi. La cantante Evy si fa interprete di questa esigenza con la canzone intitolata polemicamente "L'abito non fa il beatnik", del 1966:
è inutile che vesti male
che dormi sulle scale
[...]
se domani cambierà moda
anche tu cambierai
non saprai di cosa si tratta
ma tu la seguirai
[...]
si è beatnik per mentalità
non basta il vestito
ma tu non l'hai capito

Accanto al fenomeno beat inteso come costume, moda, musica di protesta si va formando un "beat di strada, che costituirà la nostra prima vera rivolta giovanile"
6. A Milano i beats cominciano a ritrovarsi in Piazza Duomo e alla stazione del metrò di Cordusio. Un gruppo di capelloni affitta un negozio in viale Montenero e lo trasforma in un luogo di incontro e di ospitalità per i capelloni di passaggio nella città. Il 12 novembre stampano a ciclostile, con l'aiuto degli anarchici, tra i quali Giuseppe Pinelli, il primo numero della rivista "Mondo Beat" (ne usciranno sette numeri fino al 31 luglio 1967). Le ottocento copie della tiratura iniziale vengono date ai ragazzi che stazionano in piazza del Duomo e alla stazione Cordusio perché le diffondano nelle città italiane durante i loro viaggi. La lettura dei numeri della rivista "Mondo Beat" è interessante e serve per documentare la cultura di questo movimento7.
Dalle pagine della rivista emergono le tematiche tipiche del movimento beat (che ha anche altri punti di aggregazione attorno ad Onda verde, di Andrea Valcarenghi), dentro il quale sono presenti le influenze del movimento hippies americano, provos olandese e della disobbedienza civile anglosassone. L'"ideologia" dei beatniks è fatta di pacifismo, antimilitarismo, rivendicazione del diritto all'obiezione di coscienza, richiesta di riconoscimento dei diritti civili quali divorzio, pillola, aborto, libero amore, critica della famiglia, della scuola e di tutte le istituzioni in genere per il loro autoritarismo, critica della politica partitica, esaltazione della partecipazione diretta e non delegata, proposta di esperienze di vita comunitaria e di gruppo, esaltazione della cultura del viaggio, di una sorta di nomadismo alla ricerca di nuove esperienze e nuove dimensioni di vita che fanno sentire questi giovani cittadini del mondo, ripresa e interesse per il misticismo e le filosofie orientali, denuncia della società capitalistica, del consumismo, rivolta contro quegli stereotipi sociologici che all'epoca presentavano i giovani come la "gioventù delle 3 m" (moglie-mestiere-macchina), introduzione di una dimensione esistenziale, personale, individuale quale punto di partenza per analizzare i ruoli sociali, le funzioni e l'intero sistema sociale. Partire da sé, dal proprio vissuto, come si dirà in seguito, cambiare prima di tutto se stessi se si vuole davvero cambiare la società. Il modello di società di cui genericamente è portatrice la cultura beat è alternativo ma parallelo a quello dominante. L'obiettivo non è tanto quello di uno scontro frontale col potere e con le istituzioni dominanti, quanto quello di instaurare una comunità alternativa, un modo diverso di vivere, capace di insediarsi sul territorio, seguendo le inclinazioni umane e sociali degli individui. Una strategia che mira a liberare dall'interno la società, sottraendo progressivamente "territori" al "nemico", insediandovi nuove comunità di individui e nuovi rapporti sociali e personali tra i soggetti.
Il movimento beat milanese organizza manifestazioni pubbliche contro il militarismo (26 novembre 1966) per la non violenza e il pacifismo. A Milano il 18 dicembre 1966 centinaia di giovani chiedono di entrare in Questura con le braccia alzate in segno di resa per poter armare la polizia con un fiore. Vengono caricati dagli agenti e si registrano cinquanta fermi. Il 4 marzo del 1967 inizia uno sciopero della fame dei redattori e sostenitori della rivista "Mondo beat" per protestare contro i fermi e gli arresti dei giovani che vendono il giornale per le vie di Milano e nelle altre città. Il 7 marzo duecento giovani bloccano il traffico sedendosi per terra e inalberando cartelli con sopra scritto "Basta coi fogli di via", "Non schedate le nostre coscienze", "Meno santi più preservativi". Protestano gli automobilisti: "Andate a lavorare", "Ci vuole la frusta, barboni" urlano, secondo quanto riferiscono i giornalisti; la polizia carica. Il 2 aprile si svolge una manifestazione di circa duecento giovani capelloni che inalberano cartelli con sopra scritto "I capelli lunghi non sono anticostituzionali", "Meglio un beat oggi che un soldato domani". Il 23 aprile 1967 viene affittato un terreno in via Ripamonti e nasce una tendopoli di capelloni. 17 maggio, il "Corriere della sera" denuncia, scandalizzato, la tendopoli, definendola "Nuova barbonia", abitata da "zazzeruti e anarcoidi senza famiglia". Un giornalista de "La notte" si inserisce nel campo e pubblica una serie di articoli dai titoli significativi quanto a pregiudizio: "I bacetti delle bambine", "La donna facile", "Dormire in quattro?", "Noi suonavamo, lei si spogliava", "Un urlo straziante". L'ultimo servizio del 3 giugno viene pubblicato col titolo "A barbonia city c'è libertà di imparare tutti i peggior vizi: si diventa facilmente omosessuali e ogni tanto arriva la droga". Il 12 giugno la polizia, assistita dal Servizio immondizie domestiche del Comune di Milano, fa irruzione nel campeggio e lo rade al suolo. Alcuni abitanti dei condomini vicini gridano: "Bravi, distruggete il porcaio", "Bruciateli vivi".
Questo episodio segna emblematicamente la fine del movimento beat milanese, un movimento la cui composizione sociale era di giovani con bassa scolarità, pochissimi gli universitari, figli di famiglie di ceto medio e operaie. Una composizione sociale che anticipa di dieci anni quello che, in pieno movimento del '77, verrà chiamato proletariato giovanile
8 e che testimonia quanto fosse vera una contraddizione che già all'epoca denunciava il ragazzo di strada dell'omonima e già citata canzone dei Corvi, rivolgendosi ad un'immaginaria coetanea beat di famiglia medio-alto borghese:
Io sono quello che sono
non faccio la vita che fai
io vivo ai margini della città
non vivo come te.
Sono un poco di buono
lasciami in pace perché
sono un ragazzo di strada
e tu ti prendi gioco di me

A partire dall'autunno 1967 gli studenti universitari cominciano ad occupare le università, inizia quello che convenzionalmente chiamiamo il '68, prevale di lì a poco la politicizzazione dell'impegno e della militanza, che sembrano segnare una rottura, una separazione rigida fra la dimensione politica e quella impolitica, tipica dei beats e dei capelloni. Così almeno appariva agli osservatori di quel momento, fra i quali Pier Paolo Pasolini, il quale segnalava come, data la situazione italiana, il movimento beat non poteva incidere più di tanto come fenomeno della contestazione giovanile, perché "in Italia ha avuto una grande importanza la Resistenza e ha ancora grande importanza la critica che il marxismo fa alla società. I giovani che non vanno d'accordo con i padri borghesi hanno già dunque pronte tradizioni (la Resistenza) e le forme (le proteste razionali del marxismo) per rivoltarsi"
9.
Oggi questo orientamento di ricerca storiografica viene però contestato e messo in discussione da quanti sostengono esattamente l'opposto, e cioè la stretta relazione tra i due fenomeni: "Dallo studio approfondito di alcuni fermenti e comportamenti non conformisti presenti nell'universo giovanile italiano, a partire dagli anni '60, [è] possibile cogliere alcuni dei temi che in seguito esploderanno con forza [frutto] di una contaminazione di campi [che hanno costituito] una sorta di `romanzo di formazione' della generazione che sarà protagonista del '68"
10.
Senza ombra di dubbio il legame tra quelle tematiche, quelle idee, quei modi agire costituiscono l'eredità lasciata e ripresa dai movimenti giovanili del 1977, dal movimento delle donne e dal Partito radicale degli anni settanta. Nei movimenti di quegli anni emerge una caratteristica specifica già contenuta nella cultura giovanile degli anni sessanta, quando, forse per la prima volta nel nostro Paese il movimento viene, inteso come insieme di individui che non si "considerano parte di organizzazioni o di tradizioni, ma piuttosto di movimenti: concetto, questo ultimo, che sta ad indicare non solo l'assenza di schemi tradizionali di gerarchia e di leadership, ma anche la mobilità fisica, la fluidità e la disponibilità dei suoi aderenti"
11.
È un'osservazione interessante e intelligente anche se fatta non da uno storico o da un sociologo dei movimenti politici e delle loro culture, ma da uno studioso attento di "canzonette", Gianni Borgna.


Per un approfondimento sui beats apri la pagina Brevi note sulla "Beat generation"

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