COME VESTIVAMO

La moda , alla fine degli anni 60, aveva compiuto notevoli cambiamenti. I giovani avevano smesso di vestirsi da beccamorti, ovvero con lo stesso tipo di vestito nero-camicia bianca-cravattina , che li accompagnava dalla I Comunione alla Laurea, al matrimonio e al funerale. I colori vistosi e gli stili fantasiosi importati dall’Inghilterra caratterizzavano l’abbigliamento del tempo libero, mentre, per le attività lavorative e di studio, era comunque consigliabile un abbigliamento più sobrio. Magari con un po’ meno di grigio e blu, ma , comunque, sempre secondo il canone camicia-giacca-cravatta. Ma a parte la vivacità e l’anticonformismo, il nuovo stile presentava gli stessi inconvenienti del vecchio, dal punto di vista della praticità e del valore simbolico-sociologico.

Dopo le prime manifestazioni si andò affermando una nuova concezione del vestire che teneva principalmente conto della:

1-Praticità, in quanto gli abiti vengono scelti in base a criteri di economicità, robustezza, isolamento termico, possibilità di movimento, resistenza allo sporco.

2-Eliminazione delle differenze sociali: un movimento in cui confluiscono studenti di tutte le classi sociali e che, sin dall’inizio si incontra con gli operai e le fasce più povere della popolazione, non può accettare abiti costosi e firmati tra i suoi militanti.

3-Necessità di identificazione socio-culturale: quindi un modello di "uniforme non formale" che comprendesse il richiamo sia ai miti internazionalisti della guerriglia sudamericana, sia ai miti anarco- esistenziali ispirati ai modelli del dissenso nordamericano.

Quindi via libera ai blue jeans, un capo d’abbigliamento sino ad allora riservato ai bambini e ai lavoratori manuali (il tessuto jeans era di origine genovese e si era largamente diffuso per la sua robustezza alla fine dell’800 tra i contadini e gli operai del Nordamerica) e di bassissimo costo (le migliori marche costavano l’equivalente delle attuali diecimila lire). Le camicie e i pullover privilegiavano colori militari (proibito il nero per ovvie ragioni) con fazzoletti rossi che evocavano il look dei partigiani. Il mitico eskimo, giaccone di taglio militare con il cappuccio, un modello simile a quello usato nella guerra di Corea dai soldati americani, apparirà verso la fine dell’anno e soppianterà tutte le giacche, giubbotti e giacconi, tutta roba che, in ogni caso, doveva avere un aspetto molto vissuto. Ai piedi scarponcini tipo Clark, stivali coi lacci , e scarpe da ginnastica, allora a prezzi stracciatissimi.

Va infine notato che mai, prima d’allora ed in seguito si è mai verificata a tal punto la totale mancanza di differenziazione tra look maschile e femminile, anche nelle acconciature, e questo portava, alle volte e in determinate prospettive visuali, a spiacevoli sorprese. Ad evitare equivoci la maggior parte dei maschi portava barba e baffi, anche per imitazione dei personaggi idolatrati, quali Lenin, Stalin, Che Guevara e Fidel Castro, ma forse e, soprattutto, per inconscia evocazione del carattere misticamente trasandato che tali ornamenti del viso hanno sempre evocato, da Gesù Cristo ai Mujaiddin.

Non tutti, infine, si uniformavano a tale stile. Gli ‘ideologi’, (generalmente marxisti-leninisti o trozkysti) vestivano giacchette striminzite e lise con camicia e golfino a V regolarmente sfilacciato, mentre ai motociclisti era concesso il giubbotto di pelle (marrone) anche se tale tipo d’indumento era decisamente tipico della destra fascista. Le minigonne, poi, erano sempre molto ben tollerate, ma c’è da dire che se ne faceva uso solo nei mesi più caldi dell’anno. Ci fu poi un gruppo, quasi una setta maoista, che ebbe un discreto successo nel 1969, che imponeva ai suoi adepti un look sobrio, pulito e "proletario". Inutile dire che ebbe vita breve, giacchè il 68, fu sostenuto e non solo caratterizzato, dal cambiamento estetico.

VM

http://www.informagiovani.it/30anni68/30vestivamo.htm

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