Editoriale

"La politica non può sciogliere i nodi"-"Troppo confuso il popolo di Seattle"

Un grande cardinale, Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Genova, si occupa di globalizzazione. E il fatto può meravigliare? Fino a un certo punto, se non altro perché Genova è all’ordine del giorno per l’imminente convegno del G8 che si svolgerà sotto il suo cielo. Ed è il caso di parlare di cielo, di protezione del cielo perché l’incontro non si risolva in un disastro, come in realtà ancora minacciano i contestatori che di globalizzazione non vogliono sentir parlare. Invece il cardinale Tettamanzi proprio di questo discute in un libro pubblicato dalla Piemme, dal titolo estremamente chiaro: "Globalizzazione: una sfida". Una fascetta rossa attornia il libro con una chiara indicazione degli obiettivi: "Luglio 2001. G8 di Genova". E penso che in tutto questo ci sia personalmente la mano dell’editore: Pietro Marietti, capace di ottime scelte editoriali. Ma veniamo all’intervista.
Cardinale Tettamanzi, nei suoi rapporti col mondo dei suoi fedeli quanti effettivamente sanno che cos’è la globalizzazione?
"Penso che la conoscenza del fenomeno sia uguale, ed egualmente povera, tra fedeli e non. Mi pare però che la moltiplicazione, quasi frenetica, dei dibattiti in questo scorcio d’anno che precede il vertice di Genova cominci a diffondere una qualche informazione minima. Certo il fenomeno è complesso, con aspetti appariscenti che suggeriscono letture affrettate e superficiali. Per di più viviamo tempi cuciti a misura di spot più che di riflessione, tempi in cui sembra normale schierarsi ancor prima di aver capito. L’attenzione che vedo in tanti giovani allora mi sembra già un dono".
E Lei come gliela spiega la globalizzazione?
"Sono temi che toccano i destini degli uomini, perciò entrano nelle omelie, negli incontri, nelle conferenze. Tante sedi diverse in cui riflettere e partecipare la riflessione. Con accenti diversi e gradi diversi di approfondimento a seconda del contesto e dei destinatari. Del resto il Papa non si trova lui pure a scriverne nelle encicliche, a parlarne nel cuore di una celebrazione eucaristica o a trattarne intervenendo alla Pontificia accademia delle Scienze Sociali, come, ad esempio, lo scorso 27 aprile? La globalizzazione è divenuto un grande capitolo della "dottrina sociale" della Chiesa, ovvero della riflessione e del magistero della Chiesa quanto a convenienza sociale e sua evoluzione".
Non capisco bene quando Lei scrive nel Suo libro dei pochi epuloni e dei tantissimi Lazzari. É il pastore che parla? O anche il cardinale che giustamente affronta i temi sociali ed economici del mondo?
"É l’uomo, il pastore e il cardinale. Sono temi che interpellano la coscienza, tutta quanta. E neppure la dimensione mondiale che correttamente lei evidenzia può indurre a modificare il proprio atteggiamento interiore a seconda dell’estensione geografica, per così dire, della propria responsabilità. Ho scoperto che per indicare la commistione di globale e locale è stato inventato "glocal": non è bello, ma efficace. Ebbene il vescovo che guarda alla sua diocesi o il cardinale che, come lei dice, deve guardare al mondo, riflettono entrambi su un uomo, su un popolo, su una umanità che è coinvolta hic et nunc , qui ed ora, in un processo planetario che tocca qui nascendo altrove o tocca altrove nascendo qui. Diceva
Thomas Merton che "nessun uomo è un’isola"; lo diceva da mistico, ma, proprio per questo coglieva una verità perenne. Forse la globalizzazione è il modo scelto dall’oggi per farlo sentire agli uomini di oggi. In realtà, però, Merton pensava di già alla grazia e al peccato, ai quali purtroppo si pensa sempre meno".
Il suo libro dimostra proprio la necessità di "conoscere" il fenomeno e in esso di prendere posizione soprattutto sul modo di "governarlo".
"Il tema è proprio questo: "conoscere" prima di prendere posizione e "conoscere" per prendere responsabilmente posizione. Con il fine di "governare" perché non c’è fenomeno che evolva rispettando l’uomo e la sua dignità senza che questi lo governi. Io non sono contro la globalizzazione ma contro una certa globalizzazione: come non sono contro il profitto, anzi lo considero un dovere di solidarietà, ma contro un certo modo di generarlo e di distribuirlo. Allora si tratta di governarla, la globalizzazione. Il problema è come. Certamente occorre la politica; ma, per non dar luogo a fraintendimenti, quello che la politica deve assicurare, più che "governo" del mondo, lo chiamerei "governance" del mondo; semplicemente per far capire che non penso ad un ennesimo livello di quella piramide che oggi sale gerarchicamente dal Comune alla Federazione di Stati; penso a qualcosa di diverso, che dobbiamo concepire e realizzare, con fantasia e profonda aderenza alla natura dell’uomo e della società. Ma, ancor prima della politica, vorrei vedere una vera autoregolamentazione degli operatori economici e finanziari alla luce di una sana economia (economia reale o produttiva, per intenderci), perché l’economia, quand’è sana, si trova facilmente in sintonia con l’etica".
Credo che il nuovo governo abbia affrontato con grande senso di rispettabilità la questione: da Berlusconi che è venuto a Genova, al ministro degli Interni e in particolare al ministro degli Esteri, Ruggiero. Mi sembra che abbiano dato buona prova di sé nell’affrontare la questione. E questo è un buon inizio.
"Quanto è stato fatto in termini di dialogo con chi intende avanzare critiche e proposte e in termini di fermezza con chi intende farne occasione di scontro, ancor più la spinta data perché tornino ad emergere i contenuti, mi pare effettivamente positivo e mi auguro che basti ad assicurare un vertice sufficientemente sereno e costruttivo".
Che giudizio dà del cosiddetto "popolo di Seattle"? Dove si fermano le loro ragioni e quali sono i loro errori?
"L’espressione è in uso e la uso spesso anch’io, ma suggerisce un’omogeneità che non c’è. In ogni caso vi leggo istanze assolutamente condivisibili e altre meno riferite alle esigenze dell’uomo. Soprattutto vi scorgo metodi assolutamente corretti e pesanti infiltrazioni di violenza che hanno tutt’altra origine. A tutti poi direi, anche a quelli più preparati per il dialogo: non limitatevi a contestare; per essere coerenti e credibili avanzate proposte e siate disponibili a impegnarvi personalmente. Come abbiamo visto, neppure la dimensione del fenomeno deve distogliere dall’impegno e dall’assunzione di responsabilità per quanto a ciascuno è dato di fare".

Da Il Tempo 6 Luglio 2001

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