MIMMO MUOLO
IL PIANETA DELL'EQUITÀ
Esiste una via "cattolica" alla globalizzazione? Un pool di grandi economisti ne discute da ieri in Vaticano
Dalle proteste nate a Seattle al libero scambio fra le due Americhe: un'etica tutta da riscrivere
Schasching: "Va elaborata una nuova frontiera della dottrina sociale della Chiesa"
La parola globalizzazione sembra avere uno strano effetto, negli ultimi tempi. La pronunci, magari con le migliori intenzioni, e invece vedi spuntare una sorta di nuovo muro di Berlino. Non più per dividere l'occidente dal comunismo, ma questa volta per separare i ricchi dai poveri, il G8 dal popolo di Seattle, Wall Street dalle favelas di Calcutta, di San Paolo o di Lagos. E allora giù polemiche, botte da orbi e scontri con la polizia a ogni riunione dei cosiddetti grandi della terra. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono quelli verificatisi a Quebec City dove è stato firmato l'Accordo che istituisce, a partire dal 2005, un'area di libero scambio in tutto il continente americano (Cuba esclusa).
Sì, la parola globalizzazione, nata per unire, finora ha prodotto prevalentemente divisioni. E lo riconoscono anche gli esperti della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, riuniti da ieri in Vaticano per una sessione plenaria che proprio alla globalizzazione è interamente dedicata. "A giudicarla dai suoi effetti - si legge infatti in uno dei documenti preparatori della riunione - la globalizzazione non appare una competizione alla pari, ma piuttosto come un confronto planetario che produce perdenti e vincitori". E allora, come direbbe qualcuno, la domanda sorge spontanea: "È proprio ineluttabile andare in questa direzione o esiste un approccio alla globalizzazione che, come più volte ha sottolineato il Papa, ne faccia uno strumento a servizio dell'uomo: di tutto l'uomo, non solo quello che i filosofi definiscono homo oeconomicus, e di tutti gli uomini (cioè non solo quelli del primo mondo)?
I 33 accademici nominati da Giovanni Paolo II fin dal 1994, anno di fondazione dell'Accademia Pontificia, ritengono evidentemente di sì. E non lo nascondono. Così il dibattito, nella bella sede dell'Istituzione, la Casina "Pio IV" immersa nel verde dei giardini vaticani, prende subito una piega ben definita. Occorre superare la sterile dicotomia tra quanti ritengono la globalizzazione "la nuova frontiera dell'espansione economica" e gli altri che al contrario la temono "come causa prima di perversi effetti" (emarginazione e impoverimento, in primis). In altre parole, come sottolineano sia il canadese Louis Sabourin, esperto di amministrazione pubblica nel suo Paese, sia l'economista svizzero Paul Dembiski, "la globalizzazione va studiata, conosciuta e governata". E "l'analisi deve
includere", oltre ai più scontati aspetti economici, anche "le dimensioni politica, etica e
antropologica".
C'è lavoro, in sostanza, per gli studiosi della dottrina sociale della Chiesa. Il gesuita Johannes Schasching, della Katholiche Sozialakademie di Vienna, riassume: "Il fenomeno che chiamiamo globalizzazione è una formidabile sfida per aggiornare la nostra dottrina sociale. Si pensi ad esempio alle enormi questioni poste dall'influenza dei mercati finanziari, al crescente divario tra ricchi e poveri, al problema della solidarietà intergenerazionale e alla protezione della natura. Di fronte a simili materie possiamo rimanere inerti? Assolutamente no. E allora bisogna elaborare una nuova frontiera della dottrina sociale".
Sei sono, secondo lo studioso austriaco, i principi-guida. Primo: la globalizzazione deve essere uno strumento per accrescere il benessere dell'umanità in accordo con i principi etici. Secondo: il libero mercato non garantisce automaticamente il bene comune, ma ha bisogno di regole e leggi. Terzo: questa regolamentazione non può essere limitata solo al livello nazionale, ma necessita di accordi e istituzioni internazionali. Quarto: è importante che il controllo del mercato globale sia garantito non solo da autorità nazionali e internazionali, ma anche dalle forze della società civile. Quinto: occorre prestare particolare attenzione ai Paesi in via di sviluppo. In pratica: i vantaggi della globalizzazione non possono essere ristretti alle nazioni privilegiate (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone), ma vanno estesi a quegli Stati che non sono ancora preparati ad entrare nella competizione globale. Sesto e ultimo: la dottrina sociale della Chiesa sottolinea che la somma delle misure economiche e sociali deve basarsi su un insieme di valori etici irrinunciabili, primo tra tutti quello della difesa della dignità umana.
In questo senso, conclude padre Schasching, la sfida della globalizzazione contiene per la
Chiesa, anche una notevole componente ecumenica. "Dobbiamo convincerci sempre più -
sottolinea infatti il gesuita viennese - che tutti questi problemi potranno trovare una risposta
solo attraverso una maggiore tensione verso l'unità da parte delle Chiese cristiane". E allo
stesso modo sarà importante il dialogo interreligioso, come pure "l'apporto di tutti gli uomini
di buona volontà".
Insomma lo scenario prefigurato dagli studiosi della Pontificia Accademia delle scienze sociali (tra i quali figurano anche il premio Nobel per l'economia, Kenneth Arrow, l'economista italiano Stefano Zamagni e l'ex presidente della Deutsche Bundesbank, Hans Tietmeyer) prefigura un profondo cambiamento culturale.
Tutta il fenomeno della globalizzazione spinge in questo senso, ricorda in pratica la nota introduttiva ai lavori. "Il formidabile sviluppo tecnologico, di cui Internet è la punta di diamante, riduce i territori e restringe lo spazio". La conseguenza è "l'uniformazione dei comportamenti culturali, che provoca di conseguenza la resistenza delle culture nazionali", spesso degradate in nazionalismi. E allora, anche su questo campo i cristiani hanno una parola decisiva da dire.
Secondo il professor Pedro Morandè, della Pontificia Università Cattolica del Cile, infatti,
il processo è ancora in via di formazione. E non è affatto scontato che debba vincere "la
pseudocultura della selezione naturale o, se si preferisce, della legittimazione della tirannia
dei più forti sui più deboli". Al contrario, "la possibilità di orientare la globalizzazione verso
la prospettiva di una autentica "ecologia umana" fondata sulla dignità inalienabile di ogni
persona è ancora pienamente realizzabile". E ovviamente dipenderà dall'impegno di ogni
cristiano e di tutte le Chiese dei cinque continenti.
Una strada, aggiunge l'italiano Pier Luigi Zampetti, ordinario di dottrina dello Stato
nell'Università di Genova, è proprio quella di una sorta di rivoluzione culturale e lessicale,
che capovolga il noto principio "pensa globalmente, agisci localmente". "È vero piuttosto il
contrario - "pensa localmente, agisci globalmente" - e bisogna cominciare ad applicare
questa regola, se vogliamo contrastare la tendenza all'omologazione, che è propria di una
globalizzazione lasciata alla sola anima economica". "Pensare localmente - spiega Zampetti
- significa intendere il locale come il luogo nel quale la comunità opera e agisce
universalmente tramite un processo che si ricollega ai diritti dell'uomo".
Meglio allora parlare di universalizzazione, ma non solo per una questione di vocabolario.
La radice della rivoluzione culturale, infatti, sta proprio qui. "Solo i diritti dell'uomo - ricorda
lo studioso italiano - intesi nella loro totalità possono dar luogo ad un processo di
universalizzazione che si differenzia profondamente da quello di globalizzazione".
Universalizzazione significa far riaquistare all'uomo la sua dimensione integrale, sostiene
Zampetti, far prevalere l'economia reale delle comunità locali rispetto ai grandi mercati
finanziari, fa coesistere ampi orizzonti e necessario radicamento, sviluppo e sostenibilità.
Troppo bello per essere vero? Forse, ma in fondo perché non provare? Le parole, come
diceva Nanni Moretti, sono importanti. Perché chi parla male, pensa male. E agisce di
conseguenza.
Da Avvenire 26 luglio 2001
Tratto da SWIF - http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/ces.htm