Avvenire
-2 OTTOBRE 2001SE IL GLOBALE FA PAURA
di GABRIELE DE ROSAUn mondo commerciale instabile, con milioni di persone in fuga dalla povertà e dai conflitti
L'ottimismo basato sulla fiducia nello spontaneismo del mercato è in crisi: un intervento di Gabriele De Rosa
Parrà strano, ma poco sappiamo ancora oggi dei risultati del G8 di Genova, di quel che hanno deciso dopo Seattle e Goteborg. I quotidiani hanno continuato a lungo a dedicare la loro vetrina ai "fatti di Genova", alle varie inchieste, alle audizioni, alle deduzioni e alle controdeduzioni. Ma di che cosa si sia effettivamente discusso a Genova fra i capi di Stato e di governo e i rappresentanti dell'Unione europea, ancora non sappiamo. Renato Mannheimer, in alcune ricerche preliminari, ha potuto cogliere una "lamentela generale per la mancata informazione su cosa stessero davvero facendo e discutendo i partecipanti al G8".
In effetti, un comunicato finale fu emesso dai G8, nel quale si legge una serie di impegni, o meglio, una serie di promesse sul "da farsi". Testo in cui si avverte perlomeno una certa attenzione "per i poveri del mondo" e per il problema della loro inclusione "nell'economia globale". "Includere i paesi più poveri nell'economia globale - leggiamo nel comunicato finale - è il modo più sicuro per rispondere alle loro aspirazioni fondamentali". Si parla anche di un "approccio strategico alla riduzione della povertà", di "alleggerimento del debito pubblico", ecc. Si afferma che i "sistemi di governance aperti, democratici e responsabili, basati sul rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, sono precondizioni per uno sviluppo sostenibile ed una solida crescita".
Abbiamo quindi un mucchio di promesse d'impegno, che sono già qualcosa rispetto a quell'impressione di nullità, di genericità, che è stata sollevata dalla radicalità di certe violente contestazioni anti-global. Quel che poi leggiamo nel comunicato finale sull'ambiente mi pare notevole, anche tenendo conto dell'urgenza crescente che pongono i gravi cambiamenti climatici che stanno avvenendo con il danno di tutti, ricchi e poveri, cambiamenti che richiedono veramente una soluzione globale. Il rifiuto da parte americana del protocollo di Kyoto aumentava le nostre perplessità, tuttavia i G8 ribadiscono i loro sforzi per produrre un risultato finale "che protegga l'ambiente" ed assicuri "una crescita economica compatibile con il nostro obiettivo comune di sviluppo sostenibile per le generazioni presenti e future".
Certo, sono promesse di impegni, più che delibere concordate e definite. Tuttavia offrono il campo per una seria animazione del dibattito in seno all'opinione pubblica. Mettersi in trincea, oppure passare all'offensiva aperta per un'avversione pregiudiziale alla globalizzazione, come se essa non fosse in qualche modo l'effetto del crollo, insieme con il Muro di Berlino, di tutta la storia del protezionismo, dello statalismo monopolistico, del capitalismo fordista, che hanno accompagnato le vicende dell'economia capitalistica mondiale nell'età industriale.
Di questa realtà i G8 mi sembrano pienamente consapevoli. Quel che, però, manca nei discorsi e nell'elenco delle promesse d'impegno è la valutazione realistica di quel che è oggi la globalizzazione, così come essa si va articolando e muovendo, quali siano realmente le forze che sostengono la globalizzazione, tutta neo-liberista, in cui quel che può stupire è una sorta di ottimismo che alimenta lo sviluppo imprevisto fino ad una decina di anni fa, delle imprese transnazionali: uno sviluppo associato a quello dell'elettronica, delle tecnologie e della comunicazione, che sembra aver svuotato il ruolo centrale dello Stato sociale, considerato né più né meno che un residuo di un passato arcaico. Ottimismo quando si ritiene che l'economia globale, con un'incredibile generosità e spontaneità produttrice possa risolvere, utilizzandole, le immense forze che getta in campo il flusso abbondante delle migrazioni.
Troppe cose sembrano non ancora sapientemente calcolate nei pro e nei contro della via della globalizzazione spontanea: le incertezze dei mercati finanziari, a cominciare dall'area del dollaro, il fortunoso andamento dei mercati azionari, la concorrenza sempre più forte ed incisiva della produzione asiatica, ed in ultimo i kamikaze con la loro firma omicida che sconvolge le borse, tutti fattori che dovrebbero sollecitare un ripensamento sui rischi di questo sconfinamento dell'economia oltre il campo della politica e dei suoi poteri d'intervento sul territorio.
C'è tutta una letteratura vastissima su questi problemi, che indaga sul mercato mondiale, il quale invoca un solo dio, quello neo-liberista, che conosce e ammette niente altro che la propria legge, estranea alle pretese della politica di realizzare in qualche modo un sistema di governance. Norma invalicabile per la globalizzazione come potere diretto del cosmo del privatismo internazionale è l'emarginazione della politica, l'esclusione dello Stato sociale, con la sua connotazione tradizionale che lo fa gestore della spesa redistributiva della ricchezza nella società. Tutto viene rimesso all'automatismo del mercato, che apparentemente non conosce regole, meno che mai quella del Welfare, in realtà conosce solo una regola, del mercato come momento d'identificazione di forze impersonali, non collocabili in una determinata geografia politica, con la sua mobilità senza limiti e confini. Niente a che fare con l'internazionalismo classista, nemmeno con i principi della comunità internazionale, dello statuto dell'Onu e delle varie Carte sui diritti umani e i suoi vincoli.
Certo, le premesse d'impegni dei G8 non vanno nel senso di una globalizzazione tutta consumistica, come quelli che abbiamo descritto: promettono, in realtà, un coinvolgimento operativo dei Paesi poveri, soprattutto richiedono il realizzarsi di quel sistema di governance che presuppone a sua volta la tutela dei diritti umani, ovunque e comunque, infine una più intensa capacità di restituire alla politica il suo ruolo di produttore di regole in tutto il mondo insieme con i Paesi poveri, perché la parola mercato non abbia il significato di una libertà illimitata, in nessun modo determinata, dove tutto sarebbe possibile.
Varrebbe la pena, a questo punto, chiedersi in che modo si concilierebbe questa informe realtà in una globalizzazione la cui caratteristica fondamentale è la mobilità, un "flusso diseguale di mutamenti - di capitali di materie prime, di merci, di uomini in fuga per la povertà o per la paura della guerra", come ha scritto Carlo Galli e come tutti quotidianamente apprendiamo; in che modo si concilierebbe questo ambito commerciale instabile, ad esempio, con la politica dell'Unione europea di allargamento ai Paesi dell'Est e del Sud-Est, impegnato a tracciare nuovi confini che mirano a ristabilire "uno spazio politico in cui non tutto è possibile", uno spazio, cioè, in cui i poteri globali delle grandi imprese devono uniformarsi all'evidenza di una politica spaziale che non si identifica con il solo valore consumistico e che prevede, invece, sistemi di governance basati sul rispetto dei diritti umani?
Da
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/economia.htm