QUADRO CULTURALE E LETTERARIO DELL’AMERICA DEI 50’s

L’America allora in crisi resta senza parole, ma magicamente si rigenera dalle proprie ceneri. Si parla continuamente di fine dell’american dream, il sogno americano, ma di fatto, in ambito letterario, è proprio grazie ad esso, alla straordinaria capacità di esorcizzare tutte le spinte un-american, che il sistema si ricompone sempre pronto a inglobare anche quei fenomeni apparentemente solidi come appunto la controcultura degli anni sessanta. Ed infatti Abbie Hoffmann, ex-leader del movement, si è ritrovato ad essere autore di diversi best-seller e, allo stesso modo, Bob Dylan, letterato anch’egli, si è drasticamente commercializzato soffocando quella sua originale chitarra folk con una rumorosa rock band.
La nuova prosperità dell’America e il suo ruolo di primissimo piano nell’equilibrio mondiale hanno determinato tuttavia una palese sensazione che tutto non vada per il meglio: il senso di frustrazione, "malessere dei privilegiati", si estende sempre più. Il mondo letterario alla fine degli anni Quaranta si assumerà quindi l’oneroso incarico di indagare le cause e i motivi di una tale alienazione, suscitando così una notevole ostilità verso il progresso e diffondendo forme di un esistenzialismo a volte esasperato. Il decennio immediatamente successivo al termine del conflitto mondiale sarà ancora dominato dalla grandezza di Faulkner e Hemingway, la cui eredità si perpetuerà ancora a lungo sotto l’opera di Steinbeck e Dos Passos, tuttavia l’industria editoriale, sempre più mezzo di antintellettualismo maccartista, produrrà diversi conformisti best-seller. Eppure in questi anni verranno pubblicati alcuni romanzi sicuramente degni di apparire nella letteratura americana. William Styron scrive Lie Down in Darkness (1951), eccellente prodotto alla Faulkner (quindi il sud, la Virginia), e The Long March (1952), in cui si registra il vero impatto della guerra in Corea sulla mentalità americana. Nel ’45 invece Richard Wright pubblica Black Boy e Carson McCullers The member of the Wedding; Norman Mailer scrive the Naked and the Dead (Il nudo e il morto) nel’48 e nello stesso anno Truman Capote Other Voices, Other Rooms, ma in realtà è ancora il periodo dei Nobel per Faulkner e Hemingway.
Tuttavia nel 1951 esce The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) di Jerome D. Salinger; con esso si può dire che si inaugura una nuova sensibilità americana rivolta ai tempi che stanno cambiando, vivificando temi da sempre facenti parte della tradizione nazionale: l’innocenza, il viaggio, il rifiuto, l’adolescenza, la fuga, la ricerca di identità. Il viaggio letterario si ripresenta nelle pagine di Kerouac. L’esuberanza della sua scrittura ha parecchio da condividere con la prosa salingeriana: la noia quotidiana d’America, l’alienazione, il mondo borghese da evitare e pertanto la fuga e la ricerca, che si fa religiosa, permeata di Buddismo e misticismo. Il viaggio diventa un going nowhere (=andare in nessun posto) fine a se stesso, teso a sottolineare la perpetua rivolta dell’artista, e se non è il tema principale del novel (=romanzo), esso costituisce sicuramente il background di riferimento per i suoi connotati di rito iniziatico o di parabola dell’"io" che conosce se stesso. E non a caso questa cultura del viaggio "on the road" trova nel cinema grande realizzazione, basta pensare, per esempio a Easy Rider (1969) di Dennis Hopper. Al contempo si fa strada l’idea di un’istituzione totale che riesce a ingerire tutto. Torna in mente Kafka e il suo Processo, ma qui si parla di guerra e mondo militare impazzito oppure di manicomio (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, Qualcuno volò sopra il nido del cuculo, 1962). Ma anche il romanzo diviene istituzione totale e intrappola l’autore provocando nella sua poetica quella specie di fuga, quel prendere le distanze che lo portano a negarsi come autore oppure a liberare il linguaggio buttandosi nello sperimentalismo più assoluto, come per esempio nel caso di William S. Burroughs. I suoi romanzi The Naked Lunch (Il pasto nudo), The Nova Express (Nova express), The Ticket That Explosed (Il biglietto che esplose), Junckie (La scimmia sulla schiena) sono costituiti infatti da un linguaggio "sminuzzato" e non controllabile dalla "Polizia Cosmica" che conosce tutto di tutti. Il romanzo assume maggior complessità, diventa un mosaico il cui oggetto è il quotidiano presente, provvisorio e approssimato, si accelera fino alla velocità dei computers nel tentativo forse di tastare il limite tra individuo e realtà esterna. Inevitabilmente quindi i generi letterari si mescolano provocando la contaminazione di forme "alte" con "sottogeneri" popolari. Per quanto riguarda gli autori di colore invece, ci si trova di fronte a una letteratura cresciuta in un continente diverso fatto di nuovi problemi. Esiste una certa narrativa, a cui fa capo Richard Wright e LeRoi Jones (Amiri Baraka), che si impegna nella sperimentazione al di là delle semplici considerazioni nazional-vittimistiche. La cultura orale del jazz, del blues e dello spiritual non era semplice folklore, ma anzi seria riflessione sulla perdita di identità, sulla invisibilità dell’"io" di fronte agli altri. Abbiamo autori come Al Young (Sitting Pretty,1976), Ishmael Reed (Yellow Back Radio Broke-down,1969) e Alex Haley (Roots,1975).
Ma chi non pare aver sofferto di una qualsivoglia sorta di crisi, è la poesia. Nonostante le sue fasi alterne, l’immagine che se ne può cogliere è che essa è fatta più di poeti che di poesie. Accanto ad una tradizione post-eliotiana, rappresentata da W.H. Auden, R. Wilbur e R. Lowell, ritroviamo i poeti della " Scuola di San Francisco", o meglio, i Beats, che si trovano di certo più vicino a un’anima totalmente americana, quella di Walt Whitman (Leaves of Grass, Foglie d’erba).
Si rifiutano metri e strutture per poi soffermarsi ampiamente sul linguaggio cercando una liberazione di questo stesso, soprattutto nella sua forma orale e che pertanto deve fare i conti con problemi connessi con la respirazione e coi ritmi, con la realtà dell’atto fisico e della concretezza delle immagini. Si vede quindi uscire di scena William Carlos Williams, Robert Frost e poi Charles Olson per lasciare il posto ai grandiosi readings (=letture) di poesia di Allen Ginsberg (Howl, 1956) e Gregory Corso (Bomb, 1960), oltre che agli urli delle proteste dei sit-in, al grido degli slogan delle manifestazioni, alle parole e versi della musica folk-rock. La crisi qui si manifesta con l’introduzione più o meno diretto delle religioni orientali coi loro haiku, le meditazioni Zen, o la scrittura sotto l’effetto di allucinogeni, o nella musicalità e nella liberazione sessuale. Tra i Beats troviamo inoltre Lawrence Ferlinghetti, Gary Snyder, Philip Lamantia, Phil Whalen e Michael McClure e, accanto a loro, occorre ricordare Frank O’Hara, Sylvia Plath e David Schwartz.
Nella poesia è stata vista l’ultima spiaggia, il mezzo più adatto per esprimere le tensioni, luogo privilegiato dell’evento puro, spazio concreto da ritualizzare; essa si è fatta più riflessiva, un po’ per paura di essere commercializzata e dimenticata e un po’ per una propria vocazione alla solitudine.
Un accenno particolare merita la diffusione delle religioni orientali, di frequente reinterpretate in chiave moderna. Esse hanno costituito un passaggio obbligato per buona parte della popolazione americana del dopoguerra. In particolar modo bisogna porre l’attenzione sul Buddismo Zen, branca giapponese del Buddismo, che durante gli anni Cinquanta, per poi arrivare al boom di totale misticismo dei "figli dei fiori", fu considerato come una risposta positiva da dare al mondo. C’è nello Zen infatti un atteggiamento fondamentale antintellettualistico, di elementare e decisa accettazione della vita nella sua immediatezza, senza tentare di imporre rigide spiegazioni che la irrigidirebbe sopprimendo il suo libero fluire nella sua positiva discontinuità, perché infatti la scienza moderna ha ampiamente dimostrato l’infondatezza della continuità classica, di leggi universali. Improvvisamente qualcuno ha incontrato lo Zen, dottrina resa autorevole dalla propria età, che insegnava che l’Universo è mutevole e indefinibile; l’ordine degli eventi è un’illusione della nostra intelligenza che tenta di fissarlo in schemi impossibili. Ma proprio nell’accettazione gioiosa di questa condizione risiede la saggezza, l’illuminazione, e la crisi eterna dell’uomo nasce non perché egli cerca di definire il mondo senza riuscire, ma perché egli non deve. Lo Zen inoltre sostiene la presenza della divinità nella moltiplicità di tutte le cose e che la beatitudine non consiste nel sottrarsi al flusso della vita per svanire nell’incoscienza del Nirvana, ma nell’accettare tutte le cose e nel vedere in ognuna l’infinità del tutto, essere felici di un mondo felice. L’uomo occidentale ha visto nello Zen l’invito a rinunciare ai modelli logici per prendere diretto contatto con la vita. Per questo motivo oggi si usa distinguere tra Beat Zen e Square Zen. A questo, "quadrato", ortodosso, si rivolgono persone che avvertono di aver trovato una fede; a quello, invece, si sono diretti i Beats trovando in esso un rifiuto all’american way of life. Ma, senza accorgersi di non aver fatto altro che adottare i modi esteriori di un conformismo orientale, i poeti della generazione "battuta" hanno sbandierato lo Zen come la giustificazione dei loro vagabondaggi e delle loro intemperanze. E Kerouac afferma: "Questi nuovi puri poeti si confessano per la semplice gioia della confessione. Sono FANCIULLI... Essi CANTANO, cedono al ritmo. Il che è diametralmente opposto alla sparata di Eliot che ci consiglia le sue costernanti e desolanti regole come il ‘correlativo’ e così via, nient’altro che un insieme di stitichezza e infine di castrazione del maschio bisogno di cantare liberamente".
In campo artistico figurativo invece ci si trova di fronte a una svolta decisiva dopo il‘45. Nasce una nuova pittura americana che prende il nome di Espressionismo astratto o Action-painting, Pittura-azione: una pittura priva di immagini, antiformale, di improvvisazione e libera nell’uso di varie tecniche. L’Espressionismo astratto è in stretta relazione con la crisi di valori di questo periodo di guerra crudele, che produce negli artisti l’ossessione della libertà e il bisogno della riflessione esistenzialistica. I grandi maestri sono Habbie Hoffmann, Jackson Pollock, Robert Motherwell, Mark Rothko e Clyfford Still. Il primo di questi può essere considerato il capo stipite della scuola, avendo introdotto i nuovi criteri dell’intensità e della pulsazione cromatica. J. Pollock invece, influenzato dal surrealismo e dall’inconscio, scrive: "La sorgente della pittura è l’inconscio. Mi avvicino alla pittura nella stessa maniera in cui mi avvicino al disegno, in maniera diretta, senza studi preliminari ... quando dipingo non ho esatta percezione di ciò che sta avvenendo, è dopo che mi rendo conto di ciò che ho fatto" e poi aggiunge: "L’artista moderno vive in un’età meccanica e noi abbiamo mezzi meccanici per rappresentare gli oggetti della natura come la macchina fotografica o il cinema. L’artista moderno, mi pare, lavora ed esprime un mondo più profondo - in altre parole esprime l’energia, il movimento le forze primitive". Per quanto riguarda gli ultimi tre infine, ci si trova di fronte a opere in cui, eliminato ogni simbolismo, si cerca di allargare al massimo il campo del quadro per portare al massimo l’impatto col colore che diventa "trascendentale".
Tale movimento è importante perché è stato il primo ad avere una forte influenza su tutto il mondo occidentale. Ma alla fine degli anni Cinquanta Jasper Johns e Robert Rauschenberg attaccano l’Espressionismo astratto per il poco rilievo dato all’esaltazione della soggettività. Si producono opere in cui si assemblano oggetti quotidiani e frammenti di pittura tradizionale in uno schema definibile come New Dada. E a una tale partenza è riconducibile la Pop Art, che consiste nell’elaborazione di artefatti della grande comunicazione (fotografie, pubblicità, fumetti, oggetti di consumo) in immagini o oggetti di grandi dimensioni realizzate con colori elementari e gradevoli. Il collegamento riscontrabile degli artisti pop con gli espressionisti astratti è la scelta dei grandi formati volti ad indicare la trascendenza dell’opera dalla percezione sia dell’esecutore che dell’osservatore. Andy Warhol usa oggetti di consumo ripetuti con minime varianti su una stessa base cromatica; James Rosenquist riprende il quotidiano in maniera non scolastica, non formale; Tom Wesselmann utilizza un colore piatto con tonalità accese per descrivere attimi di vita quotidiana; Claes Oldenburg amplifica le dimensioni degli oggetti fino a una misura che ne distrugge l’identità; Jim Dine interviene direttamente sulle cose di cui scopre una dimensione significativa.
E allora via verso gli anni sessanta, gli anni dei teen-agers, i minorenni, che cominciano a scegliere nuovi idoli, un costume di vita, un modo di vestire, amare, ballare, pensare sempre più staccato da quelli della generazione precedente e soprattutto dai genitori. E il loro senso di disaffiliation (=distacco) risulta essere aggravato dalla mancanza di una propria cultura giovanile a cui potersi rifare, da poter imitare, con cui potersi identificare. Il mondo dei teen-agers infatti era costretto a ripiegare su ciò che già esisteva, su qualcosa per cui essi non avevano dovuto contribuire affatto. Dapprima fu il jazz, in quanto espressione di una cultura oppressa, con la sua negazione di norme e regole, col suo carattere decisamente aggressivo e l’odio per i borghesi, square. Inoltre i protagonisti di tale musica erano veri e propri idoli da seguire con la loro sregolatezza, intensità emotiva e energia vitale. L’esempio più significativo è quello di Charlie "Bird" Parker, padre del be-bop, ampiamente dedito all’alcool e alle droghe, viveva sempre sul piano della ricerca estrema di emozioni. Venne così ad essere un punto di riferimento per tutta la cultura sotterranea d’America insieme a Dizzie Gillespie e al jazz di Ornette Coleman, Charlie Mingus e Archie Shepp. Ma a tale musica si avvicinarono di fatto solo quei "giovani intellettuali bianchi affamati di ritmo", lasciando fuori i teen-agers che non sentivano il be-bop come qualcosa di loro e inoltre questo risultava essere un’espressione troppo difficilmente comprensibile. Il be-bop quindi fu sostanzialmente una componente fondamentale della Beat Generation che in esso riscopriva il delirio di comprendere il magico fluire della vita nell’improvvisazione folle e travolgente dei suonatori neri.
Pertanto si capisce la necessità di creare una nuova musica, il rock ’n’ roll, derivato dalla fusione di musica country e blues, espressione culturale per eccellenza del proletariato americano nero. Il blues singer infatti, pur scrivendo la musica e le parole, si pone al di sopra di essa, è come se si annullasse esprimendo le esperienze della collettività: alienazione, solitudine, eros, insoddisfazione, vagabondaggi e violenza. E’ questo il punto di partenza del rock ’n’ roll. Infine l’ultimo fenomeno da registrare è quello del "menestrello" dell’underground, il folk-singer, che esprime un’esperienza collettiva intima, esistenziale e spesso inconsistente. Tuttavia il grande pregio della folk-music sta nella sua genuinità riattivando l’interesse per un filone che poi avrà molta influenza sulla pop-music successiva. Fu Bob Dylan, seguito poi da Joan Baez, ad iniziare tale processo con l’immagine di "cantante di protesta", figura che di fatto egli non ricoprì mai; egli infatti non esprimeva l’esperienza di un popolo, ma quella di un individuo sensibilissimo di fronte ad avvenimenti socio-politici e che canta le sue poesie, perché proprio di poesie bisogna parlare.
E così le liriche del rock ricevettero una forte dose poetica e intellettuale che si fuse coi temi già tipici del blues.

"Perché qualcosa sta succedendo
Ma tu non sai che cos’è,
Non è vero, Mister Jones?"
(Bob Dylan)

Da: http://digilander.iol.it/laBeatGeneration

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