INTRODUZIONE DI SILVERIO TOMEO A "IL CINEMA E IL ’68. LE SFIDE DELL’IMMAGINARIO" DI VINCENZO CAMERINO (BARBIERI EDITORE, 1998)

Un anno che agì a lungo

Sogni ruggenti avvengono in una mente

perfettamente silenziosa. Ora che lo sappiamo, gettiamo la zattera.

(Jack Kerouac)

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Che fine abbia poi fatto il Sessantotto, come e quanto a lungo abbia agito, soprattutto in Italia, può essere interessante - a trent’anni da quell’anno incendiario - provare a comprendere. E’ forse meno interessante sapere che fine abbiano fatto alcuni di coloro che da quell’anno presero abbrivio, quantomeno di minore interesse pubblico, se non fosse per la drammatica vicenda giudiziaria che tiene detenuti Adriano Sofri con Bompressi e Pietrostefani nel carcere di Pisa, sulla base di una sentenza definitiva per l’omicidio del commissario Calabresi avvenuto nel ’72. Tutta la vicenda è maturata in dieci anni, con sette diversi e contraddittori gradi di giudizio, sulla base della testimonianza di un’unico pentito, neppure bene addestrato, ma più sulle ragioni di un pregiudizio sugli attori di ieri, sui movimenti sociali di massa, su un lungo ciclo di protesta. In questo marzo del ’98 questa sentenza definitiva pesa come un macigno, una minaccia, una ritorsione, un sequestro, e arriva a scalfire anche il più fermo ottimismo democratico. D’altra parte questo è un paese che non si è ancora liberato dai lasciti giudiziari dell’emergenza degli anni ’70, come dice la questione irrisolta dell’indulto per i detenuti e i rifugiati all’estero (quasi duecento i primi, più di duecento i secondi) per reati di terrorismo politico, almeno sino a tutt’oggi.

L’onda del ’68 si presentò come un’insorgenza internazionale, forse preannunciata dalle tematiche controculturali e dai primi movimenti dei campus nordamericani, dalla rivoluzione culturale cinese, dalle manifestazioni per la pace in Vietnam, ma comunque inaspettata nella sua radicalità. Si trattò, insomma, di un’ onda marina anomala e inattesa(1) . Trent’anni dopo l’interpretazione di quella rottura resta ancora da elaborare, soprattutto per quanto ci riguarda, per il lungo ‘68 italiano. Il Sessantotto finisce, non tanto paradossalmente, nel 1989 o alla fine degli anni ’70? Fu l’ultima ondata rivoluzionaria del secolo breve o la prima spallata di modernizzazione democratica del secondo dopoguerra? Si trattò di una gigantesca festa collettiva, del dispiegarsi di una comunicazione esplosiva e irripetibile? Ma la domanda decisiva è forse un’altra: perché durò e agì tanto a lungo? Certamente "una specificità del Sessantotto italiano, se lo si confronta con altri paesi europei come la Francia o la Germania, è la lunga durata, che portò al conio dell’espressione "maggio strisciante", cioè di un maggio che dura anni dopo il 1968"(2) .

E’ deprimente, comunque, dover ripetere che il ’68 italiano non fu incubico del terrorismo, né dell’uso delle droghe, e - perché no? - neppure della new age o del disordine amoroso, né degli opportunismi privati di qualche ex campione delle assemblee studentesche, come provincialismi di destra (ma pure di sinistra) mostrano di voler credere. E’ stupefacente, poi, quante cose hanno da ricordare negli anniversari coloro che già all’alba del ’69 erano presi da impegni privati o carriere di partito. Non si tratta di negare ingenuità e confusioni sin nel cuore dell’evento, naturalmente, né occorrerebbe dire che l’anno fatidico che agì a lungo non si è inverato in nessuna formazione o corrente della sinistra politica, anche se i "ragazzi" di quell’anno ne hanno generosamente infoltito la membership, se non altro per motivi generazionali. D’altra parte è innegabile che l’evento-’68 ha cambiato mentalità, costumi, orientamenti, anche culture politiche, modalità comunitarie, stili di protesta, soprattutto in una democrazia e in una società ingessate come erano quelle italiane della fine degli anni Sessanta. Così come è certo che tematiche e soggettività, almeno quelle sul versante utopia-democrazia piuttosto che su quello utopia-rivoluzione, hanno innervato tutto un ciclo di protesta più che decennale e attraversato sindacati, partiti, movimenti, società civile, associazioni, culture e media, tanto che il ’68 rimane destinato a restare incompiuto mentre è in parte portato a termine dalla crisi della prima Repubblica del 1992. Nello spazio desertico della rimozione si giocano tuttora simulacri di esauste battaglie idologiche, distorsioni strumentali di una memoria ancora collettiva, versioni politiciste inattuali, narcisismi che sostituiscono elaborazioni interrotte e difficili con patetiche riaffermazioni dell’Edipo.

Le riflessioni di Vincenzo Camerino sulla filmografia del ’68 e dintorni, dalle premonizioni sino alle tracce più lontane - cioè più recenti - di un anno che agì a lungo, soprattutto in Italia, sono nel segno della difesa dell’utopia radicale di quel movimento e del disincanto di fronte alla rimozione successiva dell’evento, alla sua carica espressiva, simbolica, dissacrante, creativa. Siamo cresciuti leggendo la storia con gli occhi spasimanti del provinciale, nello spazio onirico di una sala cinematografica. Camerino si sofferma ripetutamente sulle tematiche del dissenso, sul disagio degli intellettuali di fronte alla politica come appartenenza, funzionariato, politicismo, giustificazionismo. Dall’angolo della periferia - ed è senz’altro vero - spesso si sono viste piuttosto i vuoti, le ricadute, i riflussi, le rivalse, le desolazioni, le tracce che si perdono, le rimozioni, gli accomodamenti.

Tra i documenti d’annata rimane certamente esemplare uno scritto come Il dissenso e l’autorità di Franco Fortini, datato maggio ’68 per la rivista Quaderni piacentini. Un poeta e letterato già all’epoca cinquantenne guarda con vera attenzione il movimento studentesco, ne coglie la carica utopica più che l’autorappresentazione ideologica, avverte abbastanza la circostanza (che si manifesterà più tardi con maggior tensione) di una sinistra storica che non ha le categorie interpretative per capire l’evento-’68, mette in guardia i giovani studenti dal pericolo di non rapportarsi agli operai, cosa che invece accade esattamente l’anno successivo in forme inedite per un paese occidentale. Per gli eccessi antintellettualistici Fortini avverte che "l’unico modo, per l’intellettuale, di "suicidarsi" è quello di contribuire - da intellettuale, se questo significa col meglio delle sue capacità - alla fine della categoria separata degli intellettuali. Questo alcuni studenti lo sanno. Lo sanno anzi i migliori, credo". Rimane emblematica la vicenda della rivista militante di cinema Ombre rosse di Goffredo Fofi che si trasformò in una rivista militante tout court (con Luigi Manconi) per tutti gli anni successivi, così come una rivista di critica letteraria del periodo, Nuovo impegno di Romano Luperini.

La tematica del dissenso, e delle pulsioni al suo sterminio anche da parte di culture di sinistra, diventerà poi quasi drammatica in quel movimento del ’77, pressocchè solo italiano, ed è documentata dall’appello degli intellettuali francesi contro la repressione in Italia: dall’anziano Jean Paul Sartre a Gilles Deleuze e Felix Guattari, da Roland Barthes a Michel Foucault. Ma lì il vecchio Fortini reagisce con risentimento, dice di non capire, il rigore morale diventa rigidità, teme quello che gli appare ormai come un dissidio, la linea della Resistenza-soggettività operaia gli va per aria, almeno per come se l’era immaginata.(3) Restare legati filosoficamente all’analitica marxista, in buona o cattiva coscienza, già da allora produce incomprensioni.

Il rapporto tra cultura e ’68, in Italia, non fu mai del tutto facile, e non solo sul versante di quanti nelle Università, nei giornali, nella televisione in bianco e nero, si erano già accomodati, avevano già usufruito di una "selezione alla rovescia" in base all’appartenenza e all’essere organici a consorterie di potere (cosa che durerà a lungo e non cessa ancora di smettere). La reazione risentita e irritante di Pier Paolo Pasolini agli scontri di Valle Giulia diventa un paradigma: per lo scrittore-regista conta più il "popolo" e i suoi figli (nella fattispecie in divisa e manganelli) che quegli strani studenti di estrazione piccolo-borghese; per qualche altro intellettuale contano più gli operai, purchè sindacalizzati e di partito.

L’immaginario del ’68 trova nel cinema la sua più naturale celebrazione, per Camerino, ma poi le ricadute degli anni ’70 e ’80, soprattutto nel cinema italiano, sono appena lenite dai segnali di ripresa, anche minimalista, del cinema più recente dei giovani autori. Eppure il cinema italiano aveva anticipato il ’68 e comunque ne aveva accolto subito le novità, dal cinema d’autore a quello di impegno civile, dal western alla commedia di costume. La contestazione della mostra del cinema di Venezia aveva scosso persino Pasolini, che non aderiva alla protesta, dopo che squadre di neofascisti intervengono a rincalzo degli sgombri polizieschi. In seguito, discretamente, Pasolini produrrà una episodica collaborazione con Lotta Continua per un filmato sulla "strage di Stato". Da Godard al filone terzomondista, dal nuovo cinema dell’est sino alla produzione indipendente degli USA, fu un fiorire simultaneo di fermenti e umori che scardinavano vecchie rappresentazioni della società, della famiglia, dell’autorità, della retorica dell’ordine, del clima prodotto dagli assetti bipolari del mondo del dopo-Yalta. Ma ora, dopo trent’anni, quali tracce - sia pure secolarizzate - è possibile rintracciare nell’immaginario filmico sul ’68? E in particolar modo per quanto riguarda il lungo ’68 italiano?

Una commedia ironica e delicata come Milou a maggio (Louis Malle,1990) ha il pregio di rammemorare il maggio francese come una grande festa, qualcosa che non somiglia a niente, perché è del tutto nuovo, e la cui reale portata rivoluzionaria sta nel rimescolare e rinnovare tutto, ma senza il compito storico di fare nessuna rivoluzione. Scriveva Maurice Blanchot che "il Maggio 68 ha mostrato che, senza progetto, senza congiura, poteva, nell’imprevisto di un incontro felice, come una festa che sconvolgeva le forme sociali ammesse o sperate, affermarsi (affermarsi al di là delle forme usuali dell’affermazione) la comunicazione esplosiva, l’apertura che permetteva a ciascuno, senza distinzione di classe, di età, di sesso o di cultura, di frequentare il primo venuto, come un essere già amato, precisamente perché egli era il familiare-sconosciuto".(4) Ancora più recentemente un film di Stephen Kay del 1997, L’ultima volta che mi sono suicidato, mette in scena, con calligrafia rispettosa e trascinante, sui ritmi del be-bop, una randonné di Neal Cassady, sulla scia di una sua lunga lettera a Jack Kerouac.(5) I film di Malle e Kay, evidentemente distanti per sensibilità e riferimenti culturali, sembrano entrambi riusciti nel senso di "metabolizzare" - o meglio elaborare - l’evento e la memoria. Così come la filmografia americana, nel corso degli anni ’80 e successivi, e non solo con i capolavori di Cimino, Kubrick,Coppola e Stone, è stata in grado di elaborare la memoria del trauma-Vietnam per la democrazia americana. Nel cinema europeo, da Jonas che avrà vent’anni nel Duemila del 1976 di Alain Tanner ad Anni di piombo del 1981 di Margarethe von Trotta a Piccola apocalisse del 1992 di Costa Graves, la capacità di elaborare la luttuosa miscela di tempo, tragedia, piccole soggettività, sentimento collettivo di perdita, non è inferiore al sopravvalutato Il grande freddo (Lawrence Radson,1983). Per il "caso italiano" credo che le cose siano andate abbastanza diversamente.

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Nel clima ancora degli anni ’80 Alessandro Del Lago, su Alfabeta del maggio ’88, rileva come si andava affermando sui media l’idea che "il famoso 68 sarebbe stato un carnevale estemporaneo, una rivolta molesta e populista contro la razionalizzazione inevitabile della società italiana, un abbaglio collettivo di intellettuali straccioni, o, nel migliore dei casi, l’oscuro risveglio di una spiritualità che avrebbe trovato poi in Raijnesh e nel fondamentalismo religioso il suo sbocco". Del Lago non è comunque tenero neppure con gli "equivoci" legati a quella vicenda: il mito politico della rivoluzione, la disponibilità anche solo verbale alla violenza, la scoperta di uno "spazio politico" strumentalizzato dal "partitismo", l’ossessione operaista. Il problema è che la società e la politica, spesso anche la cultura, erano in Italia un carnevale, un "mondo alla rovescia".

Molti di noi, neppure diciottenni, affluirono al movimento rapidamente, per chiamata, senza formazione politica, nel migliore dei casi con qualche lettura alle spalle. Significò subito conoscere molta gente, iniziare lo studio della "dottrina", organizzarsi e organizzare gli altri, cercare di essere un po’ "più cattivi" di quelli più in là con gli anni. La fiammata dell’anno si consumò in fretta, mi trovai subito nel post-68 e, per usare le parole dello scrittore Erri De Luca, "ho avuto anch’io parte di quell’oltranza per più di dieci anni".(6) Soldato a Roma nel ‘71-’72 conosco i gruppi di Franco Russo, Raul Mordenti, Ugo Rescigno, Elvira Cottone e la sua rivista Agricoltura e lotta di classe, frequento il Soccorso Rosso dove Marco Boato teneva relazioni chilometriche sulla "strage di Stato". Impegnato in una sottoscrizione antifascista per il mio gruppo pugliese di formazione, il Circolo Lenin di Pietro Mita, avvicinai Citto Maselli che, gentilmente e con pazienza, non tirò fuori una lira ma, in compenso, mi fornì un elenco con più di cinquanta indirizzi tra registi e attori. Poi la Milano degli anni ’70 e ancora Roma e Bologna nel ’77.

E’ stato detto che con la strage di Piazza Fontana di Milano (16 morti e 87 feriti) il movimento perde la sua innocenza. Si trattò di un atto di guerra, una guerra psicologica non convenzionale, con cui aveva inizio "la strategia della tensione". C’è un prima e un dopo le bombe di Piazza Fontana. Il ’68 non fu "un pranzo di gala", ma non per le pretese istanze eversive dei movimenti, bensì per la repressione poliziesca in Italia, gli arresti e i morti nei paesi a dittatura militare e dell’Est, con più di duecento morti in Piazza delle tre Culture nel Messico delle Olimpiadi. Un filosofo della politica come Salvatore Veca ha ragione, oggi, a dire che da un certo punto di vista l’anno degli studenti fu l’espressione di un conflitto identitario, ma poi aggiunge incomprensibilmente l’accusa di irrazionalismo romantico e quella di una visione utopica anche al di sotto delle utopie organicistiche del secolo che muore. Sarà che non si studiava ancora John Rawls? La verità è che anche in Italia il movimento del ’68 fu un conflitto generazionale e persino esistenziale, contro l’esclusione e quant’altro, eppure, diversamente che altrove, si innestò rapidamente su un lungo ciclo di protesta sociale (tutto il lungo ciclo dei Settanta) e questo accadde, con i passaggi del ’69 degli operai e l’intervento dello stragismo, perché nel paese c’era un alto tasso di conflitto sociale, nonché una vera e propria "guerra ideologica", con punte di "odio di classe", che non riguardavano solo gli "extraparlamentari", nel clima della guerra fredda che ebbe da noi aspetti di guerra civile "strisciante", con il peso di una "epurazione alla rovescia" avuta alle radici della Repubblica negli apparati grazie alle esigenze atlantiche. Oggi si parla di "doppio Stato", di "doppia lealtà" nelle istituzioni, di "sovranità limitata". Comunque il "doppio Stato" doveva essere ben innervato nel blocco di potere politico e nelle strutture se l’unità di crisi che gestì nel 1978 la drammatica vicenda del sequestro Moro era infeudata dalla loggia massonica "Propaganda 2". La peculiare democrazia italiana ha pure retto, in quegli anni, ma pagando il prezzo di andare assai vicino a diventare una "democrazia da stato d’eccezione". E’ anche possibile che in Italia, nel più lungo dopoguerra per un paese europeo, esistesse un conflitto tra libertà e democrazia, più ancora che tra democrazia liberale e giustizia sociale, visto lo scarso peso di culture, politiche e intenzioni riformiste nel dibattito pubblico e negli attori politici, e con una destra e una sinistra ancora lontane dal legittimarsi, ma purtroppo tutto questo venne affrontato con visioni ideologiche e strumentazioni politiche né moderne né democratiche. E comunque il blocco di potere usò oltremisura un anticomunismo non democratico, tanto che si volle vedere nel conflitto sociale e nei movimenti collettivi un rischio inaccettabile.

Come afferma la studiosa della politica Donatella Della Porta, in Italia "il movimento studentesco è il primo movimento della sinistra libertaria", è alla base della famiglia dei movimenti della sinistra libertaria.(7) Nel corso tra il ’68 e il ’69 nascono le organizzazioni della Nuova sinistra, da Avanguardia operaia a Lotta continua alla dissidenza raccolta attorno al Manifesto. Qualche anno dopo, con l’apporto di altri gruppi locali o regionali, il Movimento studentesco della Statale di Milano dà vita al Movimento Lavoratori per il Socialismo. Le organizzazioni nate dal ’68 non sono organizzazioni terroriste. In alcuni casi si può parlare di "comunità militanti". Salvatore Toscano (scomparso nel 1976), che pure arrivava al movimento studentesco con una buona formazione politica, già nel ’68 rifletteva sul ruolo dei movimenti di massa in assenza di una direzione e di una strategia delle sinistre storiche e si poneva il tema della democrazia come quello attuale e strategico per tutta una lunga fase.

E’ tutto il peso, a volte persino luttuoso nella memoria, del lungo ciclo degli anni ’70 in Italia, che nella riflessione, nella cultura, nel cinema, resta difficile e duro alla elaborazione e si avvale ancora oggi di veri e propri blocchi di rimozione. Va considerato prezioso un film come La mia generazione (Wilma Labate, 1996), pur nella sua sobrietà minimalista, sulla base del lavoro di due ex della lotta armata. Al capitano dei carabinieri, umano ma mellifluo e ambiguo, vien fatto dire, alla presenza di Braccio (il terrorista) e del giovane camorrista: "La vita, per esempio, è una parola bella, ma il vissuto è una parola che fa proprio schifo!".

Probabilmente tutta la filmografia di Nanni Moretti, che proviene dalla sinistra extraparlamentare romana, a partire dall’esordio del 1976, è all’insegna dell’elaborazione degli anni ’70. Si tratta di una commedia d’autore incentrata, con l’eccezione di La messa è finita (1985) con Don Giulio, sulla figura di Michele Apicella, eroe quasi fumettistico di un metabolismo identitario che lavora sull’ironia, sulla moralità polemica, sulla relazionalità di gruppo del cosiddetto "personale". Gli ultimi due film appaiono autobiografici, più a mano libera. Diceva Lacan - nel seminario Ancora - che "quel che rende vivibile ciò che chiamiamo rapporti umani, è il fatto di non pensarci". I personaggi di Moretti non fanno che pensarci e parlarne, su e dei rapporti umani. Il regista mette in scena continuamente lo spaesamento dell’intelligenza di fronte alle piccole e grandi apocalissi del quotidiano. Eppure - per usare un gergo psicoanalitico - tutta l’opera di Moretti, negli anni, è attestata su una linea di elaborazione secondaria, qualcosa che via via allude a una possibile razionalizzazione, alla necessità di dare senso all’insensato. Il problema sta solo dalla parte di chi ha creduto di vivere dentro un film alla Moretti, in questi anni, giacchè siamo ben lontani da una elaborazione interpretativa capace di superare resistenze e pulsioni rimosse. Il cinema di Gabriele Salvatores, che pure proviene dal movimento milanese e dal suo Teatro dell’Elfo, si apre da subito al viaggio, alla linea di fuga, a una ironia che non rinuncia a giocare il rischio del moderno, parla anche lui un linguaggio generazionale, si tratta di una elaborazione in progress, che va avanti più è plurale. "C’è anche una donna, tra i nuovi registi del nuovo cinema, Francesca Archibugi, che con l’ambizioso Grande cocomero parte dall’esperienza umana e lavorativa di "uno del ‘68" finito a lavorare nelle istituzioni senza affatto arrendersi, in rapporto ai bambini e ragazzi del disagio, Marco Lombardo-Radice", ricorda Goffredo Fofi, che accenna perplesso all’intenzione di Salvatores di girare un film sulla figura di Mauro Rostagno.(8)

3

La presa di parola, il prevalere del dire sul detto, l’atmosfera festosa del primo movimento studentesco, diventeranno nel corso del decennio successivo un altro linguaggio. Il sapore degli anni ’70, più che un grumo "oscuro", conserva un fondo tragico e irrisolto. Come scrive Erri De Luca parte di coloro che parteciparono a quell’insorgenza - gli adeguatesi - "per adeguarsi hanno dovuto dissociarsi da se stessi, risistemare il loro passato con molta vernice. Se incontrassero oggi il giovane che furono, non lo saluterebbero. Ai figli, che comunque non vogliono sapere niente, hanno raccontato che è stata colpa dei terroristi se il "movimento" è appassito. Chiamano sessantotto tutto il decennio dei settanta". Un nucleo generazionale, per quanto minoritario, diede vita - come è noto - al terrorismo di sinistra, ed oggi ci troviamo di fronte quello che lo scrittore napoletano definisce "il residuo insoluto di una generazione insorta e sbaragliata". Per i terroristi di destra e di sinistra (di entrambi ve ne furono almeno due "generazioni") ebbero un peso sia le subculture con cui si raffiguravano il conflitto sia la chiusura dovuta all’ isolamento dei nuclei clandestini.

Allora, ci sono almeno due questioni. Una è quella delle culture politiche del decennio, di cui già si discuteva all’inizio degli anni ’80: le disavventure dell’ autonomia del sociale o del politico, il catastrofismo terzinternazionalista e la concezione dell’operaio sociale e dello Stato-piano, la cultura della solidarietà nazionale e la presenza strategica del "partito armato", l’intraducibilità dell’equazione ‘68-nuova sinistra. Erano forse ancora non del tutto chiari gli equivoci della "liberazione comunista", per quanto va detto che i movimenti e la maggior parte delle organizzazioni non erano teneri con il "socialismo realizzato". Non bisognerebbe neppure dimenticare il peso del partito filosovietico nel PCI, né la pesante eredità togliattiana, né l’assenza di categorie della sinistra storica per capire i movimenti collettivi. Un’altra questione è quella sistemica, cioè come i movimenti collettivi interagirono nel rigido sistema politico italiano, come ebbero a radicalizzarsi e, in alcuni casi, ad essere l’unica opposizione visibile. In un clima caratterizzato dal pessimismo democratico e dall’assenza di risposte riformiste non è inventato il paradosso, individuato da Donatella Della Porta, per cui "l’ideologia della sinistra libertaria assunse i toni di un profondo fondamentalismo" a cui andrebbe forse aggiunto il surriscaldamento della guerra ideologica. In Italia "la tragica storia del terrorismo può essere spiegata guardando all’interazione fra movimenti radicalizzati, contromovimenti violenti, e uno Stato che, per un certo periodo, fomentò i conflitti anziché innescare processi di de-escalation". Della Porta aggiunge l’aspetto di gruppi radicali che divennero "imprenditori di violenza" rispetto alla radicalizzazione in cui si trovavano aree di movimento.(9) Rimarrebbe da rimarcare un giudizio morale, sui ferimenti, le uccisioni, le ritorsioni a proposito dei terroristi di sinistra? Ma perché e come sentirsene ancora obbligati? Non è stato già detto, è necessaria una coazione a ripetere, e a che scopo? Quando nella storia compare il Terrore ogni cittadino ha, per così dire, diritto alla morte - scrive Maurice Blanchot nel 1949. Secondo questa concezione dell’azione rivoluzionaria, come passaggio dal nulla al tutto, affermarsi dell’assoluto come evento e di ogni evento come assoluto, i Terroristi, pur vivi, "agiscono non come in mezzo ai vivi ma come esseri privi d’essere, pensieri universali, pure astrazioni che giudicano o decidono, oltre la storia, in nome della storia stessa". Per quanto ci riguarda non bisogna rimuovere che è esistito un terrorismo di sinistra, un terrorismo della destra radicale spesso interfacciato a un terrorismo "di Stato" o degli apparati, comunque sempre coperto e impunito (a questo riguardo sono degni gli studi di Franco Ferraresi, scomparso quest’anno, mentre sono spesso inutilizzabili quelli della scuola che ha origine nell’area filosovietica del PCI). Il triste computo dei morti, tra il 1969 e il 1982, con un impennata tra il 1977 e il 1979, è di molte centinaia, incluse le morti per stragi e quelle accidentali. La legislazione di emergenza consentì di andare ben oltre la repressione "di risposta", giacchè, con il sostegno di teoremi giudiziari e di una ideologia dell’ordine che consentiva "di largheggiare", si andarono a colpire quelle che si ritennero, a torto o a ragione, aree di contiguità. Ne fecero le spese soprattutto i teorici operaisti e i militanti dell’area dell’Autonomia. In ogni caso quella legislazione consentiva aggravi pesantissimi di pena, ed oggi appare forzato tenerla in vita.

Un altro blocco di memoria che si vuole rimuovere (ma il rimosso tende a ritornare), o "giustificare" in modo rozzo o sofisticato, è quello della vicenda dei governi di solidarietà nazionale dal 1976 al 1979, il III e il IV governo Andreotti, entrambi con Cossiga ministro degli Interni, che si dimette dopo l’affare Moro solo per poi guidare due brevi legislature come presidente del Consiglio. In un clima dove agiva una concezione della democrazia eccezionale e sulla scia della teoresi del "compromesso storico" il PCI e il PSI appoggiano prima con l’ astensione (la non-sfiducia) e poi con la fiducia, senza far parte dell’esecutivo, i due governi guidati da Giulio Andreotti. Qualche anno prima, nel ’73, Enrico Berlinguer sulle pagine di Rinascita, sull’onda di una indebita interiorizzazione dei fatti del Cile, pone la necessità e l’urgenza - utilizzando il paradigma dell’ unità resistenziale - di un nuovo grande patto tra le forze popolari che raccoglievano la maggioranza del popolo italiano. Per la FGCI degli anni ’70 il "compromesso storico" era, addirittura, una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista. A ridosso delle elezioni politiche del 20 giugno 1976, prima dell’escalation del terrorismo di sinistra, come ricorda anche Miriam Mafai(10), le sinistre raccolgono il 47% dei voti, ma in un sistema elettorale proporzionale e in un sistema bloccato, con la DC ancora primo partito (il "sorpasso" avverrà alle europee, a ridosso della scomparsa di Berlinguer, ma sarà emotivo ed effimero). Si forma, allora, il primo governo di solidarietà che lascia senza sponde democratiche e riformiste qualsiasi conflitto e opposizione, senza peraltro dare nessuna leva di potere alla sinistra o praticare alcuna riforma. Il PCI degli anni ’70, accettando quella grande alleanza, consentì alla DC di riorganizzarsi e si confinò nel ruolo ingrato di difendere quei governi dalle critiche dei movimenti collettivi e dall’opinione pubblica progressista.(11) E’ inverosimile l’idea che quella politica avrebbe portato a una Grossa Coalizione che avrebbe ridisegnato le regole del conflitto e portato a una democrazia competitiva o dell’alternanza. Continuare a parlare di "democrazia compiuta", con aggettivo mortuario, rimanda alla nefasta teoria togliattiana della "democrazia progressiva". Ciò che avvenne è che dalla sconfitta della sinistra il PCI, tornato all’opposizione, inizierà il suo declino elettorale accentuando un suo ruolo di consociativismo subordinato, con l’affermazione del pentapartito. Poi la crisi del sistema dei partiti e il crollo di un regime a democrazia oligarchica, con elementi di corruzione su larga scala.

La Commissione Stragi si avvia alla chiusura - dopo dieci anni - in modo pressocchè inconcludente, al di là di giudizi storico-politici presenti persino sui libri di testo delle secondarie. Nella relazione, quella presentata nel ’95, viene proposta una tesi peregrina: la cosiddetta "svolta del ‘74", per cui, avendo abbandonato ipotesi golpiste, le forze "coperte" dell’atlantismo decidono di usare gli "opposti estremismi" per meglio stabilizzare una situazione di blocco di potere politico. Intanto in quegli anni tramontano fascismi e dittature militari in Europa, non solo per concessione statunitense ma per via di un processo democratico che si andava emancipando dalla pesante eredità della guerra. Dopodichè si passò da ipotesi paragolpiste all’ipotesi di una democrazia da "stato d’eccezione", e questo anche grazie al prevalere di una cultura di democrazia eccezionale, ben presente nel PCI di Berlinguer, con in più la velleitaria pulsione a "farsi Stato".

Quando si dice che la parte utopica e l’autorappresentazione "rivoluzionaria" dei movimenti collettivi del decennio non rappresentavano istanze negoziabili, si coglie una parte di verità (debolezza delle culture, radicalizzazione reattiva). Rimane che c’era l’assenza di una classe dirigente capace di accogliere o promuovere istanze riformiste. Ciò malgrado le nuove soggettività, l’originalità del femminismo italiano, il risveglio democratico nelle professioni e nella cultura, lasceranno affluire forme di politicizzazione e modalità democratiche destinate ad andare avanti. Qualità della democrazia, cittadinanza, nuove culture istituzionali, non erano ancora patrimonio delle culture politiche dell’epoca.

Per diverse ragioni il movimento del ’77 venne spinto alla radicalizzazione: le date simbolo, comunque, rimangono la manifestazione nazionale del 12 marzo a Roma e il convegno del 22-23-24 settembre a Bologna, oltre a quelle dei lutti. Un anno breve, il più rimosso, come è stato detto. Non ci si limitava a riverificare le culture precedenti, ma si metteva in gioco, con la consapevolezza del conflitto, un po’ di tutto: stili di organizzazione, incrostazioni ideologiche, pesantezze economiciste, ottusità di partito, rendite di posizione. Il ’77 fu abbastanza dissimile dai movimenti della fine degli anni Sessanta, è ingeneroso e sbagliato farne matrice del terrorismo di sinistra. Furono pesanti le ricadute, anche esistenziali, della fine di quel movimento . Si trattò di una insorgenza con una pluralità di soggetti, stretto tra repressione e radicalizzazione, malamente forzato da chi si illuse della pratica della "lotta armata". Tra le tante cose il ’77 fu creatività, l’esperienza di nuove forme di linguaggio e comunicazione, la messa in crisi delle organizzazioni della nuova sinistra, la voglia di farla finita con il clima inattuale della guerra fredda, la necessità di superare le appartenenze. Sarebbe il caso di riesaminare quegli anni, all’interno di una perodizzazione più ampia, attraverso lo studio della dialettica dell’inclusione-esclusione, sia per le forme molecolari della cittadinanza che per quella della rappresentanza politica. Il movimento del ’77, allora, "è questo, la gioia, la dissacrazione e l’ironia, attraversate dalla desolazione, dalla rabbia, dalla disperazione"(12). Nello spazio tra memoria e dimenticanza, agiscono ancora la negazione e la rimozione, la giustificazione e la banalizzazione, di fronte alla necessità di rivolgersi senza risentimenti al passato e alla responsabilità di chiudere il Novecento.

Il lascito degli anni ’70 è un lascito eterogeneo, per le culture che si misero in gioco e la pluralità di esperienze, e comunque di autonomia culturale. La mentalità critica e disincantata, la concezione non ingessata della democrazia, l' attenzione sociale, sono aspetti irreversibile del lascito di quel ciclo di impegno. A partire dal ’68 si è sviluppata la sinistra della società civile, al di fuori della sinistra storica, e che non nasce dai partiti ma dalla politicizzazione e dall’autonomia di nuovi soggetti sociali e politici. La questione di "un passato che non passa" viene sollevata dal lascito giudiziario legato all’emergenza, che riguarda detenuti da venti anni, che diventa automatismo nella giustizia e distorsione delle garanzie. Senza il coraggio e l’autorità democratica di fare i conti con gli anni bui della Repubblica ha libero corso il tentativo, che ancora agisce, di ridurre a una vicenda giudiziaria un lungo decennio di conflitto. Quando si chiuderà quel ciclo, all’inizio degli anni’80, la qualità della democrazia si svilisce, la democrazia italiana accentua caratteristiche oligarchiche, parte della sinistra storica viene direttamente cooptata nel blocco di governo, il resto languisce nell’accomodamento consociativo. E’ singolare che personalità democratiche e istituzionali ritengono all’ordine del giorno una "soluzione politica" per i reati di corruzione usciti fuori dal ’92 o improbabili e inattuali "pacificazioni" riferite agli albori della Repubblica piuttosto che un atteggiamento di responsabilità democratica per la chiusura del lascito emergenziale di quegli anni, necessario a una concezione "mite" del diritto e della giustizia come equità.

1 Per la mole di schede, foto e filmati è utile riferirsi al CD-Roma ’68 Una rivoluzione mondiale del "il Manifesto-media ‘68".

2 Dalla voce "Il Sessantotto" della storica Luisa Passerini, in AA.VV. La politica italiana. Dizionario critico 1945-95 a cura di Gianfranco Pasquino (Laterza, 1995).

3 In Nello Aiello, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991 (Laterza, 1997).

4 Maurice Blanchot, La comunità inconfessabile (feltrinelli, 1984).

5 La lettera è leggibile in AA.VV., Battuti & beati, a cura di Emanuele Bevilacqua (Einaudi, 1996).

6 In Aquilone e Piegàti, da Alzaia (Feltrinelli, 1997), da cui prendo liberamente le citazioni successive.

7 Donatella Della Porta, in Movimenti collettivi e sistema politico in Italia (Laterza, 1996), soprattutto pp. 21-98.

8 Da Benchè giovani. Crescere alla fine del secolo (Edizioni e/o, 1993).

9 Succintamente nella voce "Il terrorismo" in La politica italiana 1945-95, op. cit.

10 In Dimenticare Berlinguer (Donzelli, 1996).

11 E’ un po’ l’interpretazione di Sergio fabbrini nella voce "Il compromesso storico", sempre nel Dizionario critico 1945-1995, op. cit.; meno convincente è quella, pur non giustificazionista, di G. Pasquino in 1945-1996. Profilo della politica in Italia (Laterza, 1996), con annesso CD-Rom.

12 Marco Grispigni, Il settantasette (il Saggiatore, 1997).

(marzo, 1998)

da http://utenti.tripod.it/sam51/CINEMA68

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