PREMESSA Nel dibattito filosofico che si è svolto nel XIX e XX secolo più volte è stata annunciata la "morte della metafisica". Eppure di metafisica si è continuato e si continua a discutere, anche se certamente in forme nuove rispetto al passato. Tra l’altro, non si è più attribuito a "metafisica" un significato univoco, né quando la metafisica è stata oggetto di critica (e questo è stato l’atteggiamento prevalente nel periodo considerato), né quando se ne è riaffermata la validità o se ne è proposta una ripresa.
LA METAFISICA È criticata perché è un discorso che: È riproposta come 1°) pone come soggetto 1°) "metafisica" della volontà 2°) presuppone di conoscere l’essenza delle cose 2°) intuizione della: 3°) scambia l’essere con l’ente 3°) primato dello spirito come: 4°) è privo di senso 4°) Umanesimo : integrale teocentrico 5°) personalismo 6°) ricerca dell’essere
PERCORSO
Le "metafisiche del Soggetto"
(Da De Bartolomeo-Magni, Percorsi di filosofia contemporanea, cit., p.8)
Molti hanno sostenuto che con Kant si sia definitivamente esaurita la possibilità della metafisica di essere intesa come discorso filosofico che pretende di attingere la realtà metaempirica, con la dimostrazione che alla ragione umana non è dato raggiungere, per via conoscitiva, questa dimensione della realtà. Perciò non è possibile affermare razionalmente né l’esistenza di Dio, né l’immortalità dell’anima, ne parlare del mondo come totalità. Ciò che c’è dietro i fenomeni è inconoscibile.
Ma già le filosofie idealistiche di Fichte, Schelling ed Hegel, pur richiamandosi in vario modo alla filosofia trascendentale kantiana, hanno proposto una filosofia dell’assoluto, quindi una metafisica, sia pure intesa come metafisica del Soggetto.
Nel corso del XIX secolo, oltre all’intensificarsi (da parte degli esponenti del Positivismo, della Sinistra hegeliana e di Marx) delle critiche nei confronti della metafisica, identificata prevalentemente con l’Hegelismo, si è assistito al manifestarsi di forme inedite di pensiero metafisico. Ciò è avvenuto con la "metafisica della Volontà" di Schopenhauer, con lo Spiritualismo (di Maine de Biran e Rosmini), col rapporto nuovo fra esistenza e trascendenza tratteggiato da Kierkegaard, o con gli "sconfinamenti" dagli ambiti strettamente scientifici verso modelli teorici simili a quelli della metafisica di concezioni che pure alla scienza costantemente si richiamavano (l’Evoluzionismo, il Materialismo, ecc.).
Nel Novecento il dibattito sulla metafisica è stato ancor più intenso e aperto a soluzioni nuove. Dal drammatico annuncio nietzscheano della "morte di Dio" fino all’attuale dibattito sul pensiero post-metafisico, numerosissime sono state le prese di posizione critiche nei confronti della metafisica: basta pensare, ad esempio, al peso e all’influenza profonda che sul pensiero del secolo hanno avuto il Marxismo, l’Esistenzialismo e il Neo-positivismo. Ma, anche in questo caso, non sono mancate filosofie che hanno apertamente affermato la centralità della metafisica come modello di comprensione della realtà (si pensi a Bergson), o lo sviluppo di filosofie ancorate alle domande fondamentali della metafisica (ad esempio alla domanda sull’essere) o comunque orientate verso la ricerca dell’assoluto (concepito come trascendenza o immanenza, rispettivamente dallo Spiritualismo cristiano o dal neoidealismo italiano), sempre mantenendo una posizione critica nei confronti della pretesa della scienza di costituire l’unica forma di conoscenza o di comprensione della realtà.
L’infinito
non il finito
a - durata interiore
b - evoluzione creatrice
a - atto puro
b - storia
(Da De Bartolomeo-Magni, Percorsi di filosofia contemporanea, cit., pp.9-15)
È’ soprattutto Hegel che alla tesi kantiana dell’impossibilità di conoscere razionalmente la realtà noumenica risponde affermando che la ragione dialettica può conoscere l’Assoluto, tanto che "la logica si identifica con la metafisica, con la scienza che afferra le cose poste in pensieri, ai quali viene data perciò la facoltà di esprimere l’essenza delle cose". In tal senso, l’assoluto non è più trascendente, come aveva affermato la metafisica elaborata dalla cultura d’ispirazione cristiana dal medioevo in poi, ma è totalmente immanente. L’infinito non è più posto oltre il finito, ma si risolve interamente nel finito: finito e infinito coincidono, l’infinito nient’altro è che la sintesi di tutte le determinazioni finite. La filosofia, intesa come metafisica dell’immanenza, riafferma il suo primato perché soltanto ad essa, al di là dell’apparenza, si manifesta l’Assoluto nel suo farsi e nel suo compimento.
Ma con Hegel sembra concludersi una lunga fase del pensiero occidentale e della metafisica e pare aprirsi una fase di non ritorno. Come ha affermato il filosofo del ‘900 Gadamer, "la filosofia di Hegel rappresenta l’ultimo potente tentativo di comprendere scienza e filosofia come unità". Egli quindi si chiede: "in generale può darsi ancora filosofia in un senso qualsiasi oltre a quello di teoria della scienza? O forse l’epoca della filosofia è finita nello stesso senso in cui la morte di Hegel (nel 1831) ha segnato la fine dell’epoca della metafisica?"
Le filosofie del finito
In vario modo, contestando e intendendo superare l’approccio e i risultati della filosofia hegeliana, saranno i pensatori della "Sinistra hegeliana" a dichiarare che con la metafisica hegeliana un’epoca della filosofia è terminata o che la filosofia è giunta al termine. In qualche modo l’intento di questi pensatori è comune: riaffermare il finito contro l’infinito hegeliano. Sia che si tratti dell’uomo di Schopenhauer, che cerca di sottrarsi al dominio della Volontà, oppure dell’uomo sensibile di Feuerbach, o dell’uomo storico e sociale di Marx, o del singolo di Kierkegaard, si afferma un orientamento nel quale a essere contestato e superato è lo Spirito hegeliano, che vive e si nutre della vita degli individui, dei gruppi e dei popoli, che astrae da ciò che è "concreto" e sensibile. L’istanza antiidealistica è anche antimetafisica, vede il nemico da battere nella filosofia speculativa, nella sua azione di astrazione, nella sua negazione della realtà concreta, sensibile, storica, individuale ed esistenziale, in nome dello spirito.
La posizione di Schopenhauer si configura insieme come "kantiana" e antihegeliana. Da un lato essa riconferma che l’intelletto non apre la strada della realtà noumenica: l’intelletto si limita a costruire il mondo della rappresentazione. La via alla Volontà come noumeno passa nell’uomo attraverso la corporeità, attraverso l’esperienza della presenza nel corpo di una forza che travalica il mondo della razionalità. Sulla razionalità del reale e, dunque, sul tratto più caratteristico della metafisica hegeliana, Schopenhauer esprime il più totale dissenso: la realtà è effetto di una Volontà cieca e irrazionale, non è affatto razionale. Non solo, Schopenhauer è antihegeliano anche perché pone come fine per l’uomo la liberazione da questo principio infinito e irrazionale. L’uomo non si realizza in quanto si riconosce hegelianamente nella realtà dello Spirito, ma perché e in quanto se ne libera e nega in sé quell’infinito che per Schopenhauer è la Volontà.
Feuerbach colloca la filosofia hegeliana al termine di un processo che dalla teologia vera e propria, passando soprattutto attraverso la filosofia di Spinoza, è giunto infine a una filosofia dell’assoluto che si è affermata come una vera e propria "teologia speculativa". Tale filosofia pone l’infinito non al di là del finito -
La critica di Marx al mistero della filosofia hegeliana segue, in sostanza, la stessa strada di quella fuerbachiana individuando l’obiettivo principale della critica nel metodo della speculazione hegeliana, fondata sull’astrazione.
Anche Kierkegaard critica la mediazione hegeliana, che non riconosce e non può riconoscere l’esistenza di ogni singolo. Tale esistenza, infatti, sfugge completamente ad un sistema come quello hegeliano, perché è irriducibile al pensiero. Inoltre la mediazione della ragione dialettica hegeliana, tutta impegnata nel passato (come un "topo di biblioteca" che nel presente ha solo la falda del suo abito), non ha nulla da dire all’esistente, cioè all’uomo in carne ed ossa, che vive nel presente e che è chiamato a scegliere per il futuro, cioè a decidere della sua stessa esistenza. Poiché Kierkegaard identifica la metafisica con il sistema hegeliano, la sua posizione si configura come antimetafisica.
Inoltre per Kierkegaard - e questa per lui è la cosa più grave - la metafisica hegeliana rappresenta un tassello importante nel processo di progressivo smarrimento del vero senso del cristianesimo, di drammatica deriva della società cristiana verso un cristianesimo ateo. Non solo da Hegel il cristianesimo viene ridotto a puro contenuto razionale ma, attraverso la riduzione e l’identificazione di infinito e finito, viene annullato l’aspetto proprio del cristianesimo che è scandalo e paradosso, in quanto l’infinito irrompe nel finito, Cristo nella storia. Questo evento assurdo la ragione hegeliana non lo può comprendere.
Dalla metafisica alla scienza
Tale dibattito sulla metafisica si svolge in una fase storica che è attraversata da processi che mutano profondamente la società e la cultura dell’Occidente. Con Marx, ad esempio, irrompono nella riflessione filosofica la società industrializzata, il capitalismo e le nuove classi protagoniste: la borghesia e il proletariato. Con Kierkegaard si riflette sulla crisi del cristianesimo, della religione.
Per i fondatori del Positivismo, alla luce dei grandi cambiamenti determinati dalla società industriale le dottrine metafisiche mostrano tutta la loro inadeguatezza, il loro anacronismo, la loro funzione di freno allo sviluppo umano. Il dominio della scienza non lascia più spazio alla metafisica. Dove si afferma il primato dei fatti, che solo la scienza è in grado di conoscere, non vi è più spazio per un sapere metaempirico e metafattuale.
Comte, attraverso la legge dei tre stadi, guarda alla metafisica come a uno dei modelli fondamentali di spiegazione della realtà che si sono succeduti nella storia umana. La considera come uno stadio transitorio, intermedio tra quello teologico, "fittizio", e quello positivo, "scientifico". In questa prospettiva storica Comte non condanna la metafisica ma le riconosce un ruolo positivo. Non colloca l’epoca del suo apogeo nel Medioevo, in cui la Scolastica era ai suoi occhi ancilla della teologia, dunque, parte integrante dello stadio fittizio, ma nell’età moderna, dal ‘500 al ‘700, dove essa ha svolto un ruolo decisivo nell’opera di demolizione delle basi intellettuali del vecchio ordine sociale e politico. A riprova della pluralità delle accezioni e delle identità ad essa attribuite tra ‘800 e ‘900, qui la metafisica viene intesa come filosofia "inevitabile" e "indispensabile" dell’età transitoria, il cui compito è operare la negazione assoluta della precedente organizzazione intellettuale, quella propria dello stadio teologico, "fittizio". Il suo è stato un compito essenzialmente critico ed essa ha funzionato come potente strumento di trasformazione intellettuale e sociale. Espressione dello spirito di protesta contro la chiesa e la cultura cattolica, essa ha condotto alla fine non a un esito monoteistico, ma, nei suoi rappresentanti più conseguenti, all’ateismo. Per questa sua funzione dissolvente Comte la apprezza, mentre ne critica l’approdo a principi assoluti. La metafisica termina la sua funzione avendo portato a compimento l’opera demolitrice che si era assunta. La rivoluzione francese, epilogo della fase transitoria, pone fine anche all’epoca della metafisica. Per Comte, la nuova fase di riorganizzazione intellettuale della società che si rende necessaria può essere compito non di un sapere critico, basato su princìpi assoluti, ma della scienza, cioè dell’affermazione piena di uno spirito scientifico nella società e nella cultura.
Più drastico è il giudizio di Stuart Mill, che alla metafisica non riconosce alcuna funzione positiva. Egli critica soprattutto la filosofia idealistica tedesca, che interpreta come la rinascita di un pensiero "magico", prerazionale e irrazionale, pericoloso per la gioventù e capace di bloccare energie spirituali, che, se liberate, sarebbero sufficienti a "cambiare la faccia della terra".
Riprendendo una posizione kantiana, Spencer distingue infine tra il mondo del fenomeno, di competenza della scienza, e quello del noumeno, dell’inconoscibile, che è competenza esclusiva della religione, non della metafisica, cui egli non riconosce più alcuno spazio. Il suo intento è quello di trovare un equilibrio e un accordo tra la scienza da una parte e la religione dall’altra: la mediazione metafisica non serve più.
Il nichilismo e la "morte di Dio"
A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, nel quadro di una crisi complessiva della civiltà liberale, viene meno la fiducia nella scienza che aveva ispirato il Positivismo. Più in generale si afferma un atteggiamento di negazione della civiltà esistente. È il nichilismo, presente nella letteratura oltre che nella filosofia. Figlio della crisi, esso esprime la sfiducia nei principi che stanno alla base dello stato attuale del mondo. Il romanzo moderno da Proust a Joyce, a Thomas Mann comunica - secondo Lòwith - "il nulla dell’uomo moderno, [...] una sconsolata verità sull’uomo, in cui l’uomo in quanto tale scompare". Sembra che i romanzieri sappiano solo sprofondare in se stessi o rappresentare la cattiva realtà in cui vivono.
Anche Nietzsche ha dichiarato la crisi e la decadenza dell’uomo e della civiltà europei e ne ha visto il senso nel Nichilismo. Il pensiero europeo, nel suo sviluppo, si è caratterizzato, secondo lui, per la progressiva svalutazione di tutti i valori. Questo passaggio era necessario: bisognava vivere il nichilismo per capire quale fosse il valore dei "valori" del mondo e della civiltà occidentale. Il pessimismo di fine secolo era solo un preannunzio del vero nichilismo, che aveva il compito di proclamare l’assenza di senso e di valore della nostra esistenza, condizione per l’affermazione di nuovi valori. Così il nichilismo negativo sarebbe diventato nichilismo positivo, attivo, affermazione della accresciuta potenza dello spirito, del primato della volontà di potenza.
All’opera demolitrice del nichilismo negativo appartiene anche il compimento della distruzione della metafisica, ormai giunta al suo epilogo. Drammaticamente e profeticamente tale crisi si manifesta - -nella Gaia scienza - nella dichiarazione dell"’uomo folle" che proclama la "morte di Dio": "Dio è morto. Dio resta morto. E lo abbiamo ucciso noi". Il Dio che muore è il Dio della religione cristiana, ma è anche il principio sul quale si erano fondate quasi tutte le metafisiche dell’Occidente.
Quella proclamazione simbolicamente chiude il secolo XIX e apre il XX secolo, annunziando, al di là del significato che Nietzsche le attribuisce, un fenomeno nuovo: l’ateismo non come scelta di pochi pensatori eretici, ma come fatto di massa.
Così l’Occidente cristiano si scopriva ateo.
Con la morte di Dio il mondo era sciolto dalla catena che lo legava al suo sole. Se da un lato si sosteneva che Dio era colui che imprigionava l’uomo e il mondo, dall’altro si riconosceva che Egli ne era stato, appunto, il sole: principio di ordine del mondo e garanzia di sicurezza per l’uomo. Ora l’uomo non aveva più bisogno di Dio e l’aveva ucciso, Era questo un fatto grande e terribile: privato del suo principio di ordine e di razionalità, l’uomo non aveva più punti di riferimento, la sua condizione era quella di chi precipitava in un nulla infinito, in uno spazio vuoto, in una notte sempre più fitta. Con la "catena" che lo legava scomparivano anche le certezze per l’uomo. Ma l’annunzio della morte di Dio da parte dell’uomo folle era giunta in anticipo, quando gli uomini ancora non erano in grado di prenderne coscienza e accettarne le implicazioni.
La profetica proclamazione dell’uomo folle chiudeva una lunga epoca della cultura occidentale, nella quale la metafisica aveva svolto una funzione negativa. La storia della metafisica, è la "storia di un errore", scrive Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli. L’errore di aver creato un mondo, quello sovrasensibile, considerandolo e affermandolo come il "mondo vero". È Platone il maggior responsabile di questo errore: egli aveva affermato come vero mondo quello delle idee, e l’aveva posto al di sopra del mondo del divenire, che per lui era il mondo dell’apparenza. Quel "mondo vero", "promesso", ha svolto un ruolo importante per l’uomo: è stato motivo di conforto e di speranza. Ma si è dimostrato sempre più lontano e irraggiungibile. Non è stato conseguito e dunque non può essere conosciuto. Si è allontanato sempre più, come perso nelle nebbie kònigsberghesi nelle quali viveva Kant, con il quale si è riconosciuta l’impossibilità di raggiungere e conoscere quel mondo.
Ma la scoperta che quel "mondo vero" era una favola, liberava l’altro mondo dalla sua condizione di "mondo apparente". Ora il mondo reale era quello che fino ad allora era stato considerato il mondo apparente. La morte della metafisica, liberandolo da un inganno e da una illusione, apriva all’uomo lo spazio della realtà.
Nuove tendenze della cultura
La crisi del Positivismo e delle certezze e dei valori del XIX secolo, per quanto riguarda la metafisica, opera anche in una direzione di segno opposto a quella dichiarata da Nietzsche. Sembra riaprirsi uno spazio alla metafisica, che si inserisce in una tendenza culturale che punta di nuovo a cogliere la dimensione profonda della realtà (sia naturale che spirituale), posta di là dai fatti a cui si fermava e si limitava il Positivismo.
Di tale tendenza sono espressione le "avanguardie" artistiche o le nuove tendenze letterarie dei primi decenni del secolo.
Già il Decadentismo si era manifestato negli ultimi decenni dell’Ottocento, soprattutto nei suoi esponenti di punta (Baudelaire, Rimbaud, Maeterlinck, ecc.) come ricerca "d’un mondo nuovo, d’una regione dello Spirito inesplorata e basilare per ogni conoscenza e per ogni morale", esplorazione della realtà condotta non con i mezzi della scienza e della riflessione razionale, ma mediante un’ "attività germinale e alogica", attraverso la musica o la potenza evocatrice della parola.
Ma sotto un altro punto di vista, gigantesca e solitaria si erge la figura e l’opera dello scrittore russo Fèdor M. Dostoevskij, cui hanno guardato generazioni di filosofi di orientamenti diversi, attratti e chiamati a riflettere sui problemi di fondo dell’esistenza umana, della libertà e del male, della negazione e del bisogno di Dio, della rivolta nichilista dell’individuo e dell’utopia cristiana o socialista di costruzione di una società pacifica, a misura dell’uomo. Tanto che proprio lui, che si considerava "debole in filosofia" ma amante della filosofia, è stato considerato, ad esempio dall’esistenzialista religioso russo Berdjaev, come "un vero filosofo, il più grande filosofo russo", per la profondità dello sguardo che ha voluto gettare sulle "cose ultime", sui problemi essenziali del vivere, nella "polifonia di voci" (Michail Bachtin) che ogni suo romanzo e racconto esprime attraverso i personaggi che vi vengono narrati.
In effetti anche nel Novecento, attraverso il romanzo o la poesia (come attraverso le arti visive e musicali), si sono riproposti con forza temi e immagini della realtà che sono familiari al pensiero metafisico.
Si pensi, ad esempio, all’intera opera dello scrittore Franz Kafka, o a uno dei suoi più celebri racconti, Metamorfosi, nel quale si descrive la vicenda di un personaggio, Gregor Samsa, che un mattino, risvegliandosi, scopre improvvisamente di esser diventato un gigantesco insetto. Da qui la "normalità" del mondo in cui l’insetto-Samsa vive viene a interrompersi. Le regole della quotidianità sono sconvolte: atteggiamenti, parole, gesti, eventi si succedono secondo sequenze logiche diverse. La narrazione offre una dimensione nuova - "metafisica" - della realtà, descrivendo i processi indotti nella realtà stessa dal mutamento di una variabile (nel nostro caso, la trasformazione di un commesso viaggiatore in un insetto). La vicenda, che si svolge descrivendo l’incapacità della "cerchia umana" in cui vive Samsa di accettare il fatto della metamorfosi, si conclude con la morte dcl "mostro" e la realtà sembra tornare come pacificata e ricomposta dal ritorno alla "normalità" del vivere. Eppure, proprio attraverso quella metamorfosi, la narrazione ha consentito di gettare uno sguardo sulla natura autentica (mostruosa?) dell’ordine in cui prima Samsa viveva e che ora appare solo convenzionale.
Lo stesso si potrebbe dire per molti altri autori. Ad esempio per Marcel Proust, la cui opera fondamentale (Alla ricerca del tempo perduto) costituisce un vero e proprio rivolgimento degli schemi "lineari, "sequenziali", nei quali è normalmente concepito lo sviluppo del tempo nella vita quotidiana o nella pratica scientifica. Il tempo della memoria attraversa i flussi della coscienza, li dispone in forme via via diverse, fa riemergere ciò che appariva definitivamente rimosso e, con esso, apre prospettive e forme di rappresentazione del tutto diverse della realtà. In esse il passato viene vissuto come un presente e acquista un significato e delle qualità del tutto nuovi, quindi vede aprirsi orizzonti di possibilità che non erano mai stati prima esplorati. L’autentico significato dell’opera sta forse nel titolo dell’ultimo volume, Il tempo ritrovato, nel quale è messa in luce proprio questa possibilità di riscoprire e far nostri, anche attraverso la casualità della vita quotidiana (ad esempio il sapore di un biscotto, il suono d’una voce o di un brano musicale...), forme dell’esistenza e dimensioni della realtà che gli schemi della razionalità scientifica impedivano, in precedenza, di intendere.
Lo stesso potrebbe naturalmente dirsi per le altre arti. Un solo esempio: il grande pittore astratto Paul Klee descrive l’artista come colui che, durante il processo creativo, tende a deformare la realtà data. Non attribuendo a essa il "carattere necessitante" con cui i critici realisti (e la stessa razionalità scientifica) guardano alla realtà, l’artista "forse, senza volerlo, è filosofo; [...] egli dice: nella sua forma presente, non è questo l’unico mondo possibile! Per cui egli contempla le cose, che la natura gli pone sott’occhio già formate, con occhio penetrante. E quanto più a fondo egli penetra, tanto più gli si imprime nella mente, ai posto di un’immagine naturale definita, l’unica, essenziale immagine, quella della creazione come genesi. [...] E va ancora oltre. Egli, restando nell’al di qua, si dice: il mondo ha avuto aspetti diversi, e aspetti diversi il mondo avrà".
Il ritorno della metafisica
Proprio l’incapacità di andare oltre i fatti è uno degli argomenti rivolti contro la scienza e uno dei motivi che fa derubricare la scienza da sapere per eccellenza a pseudo-sapere. Addirittura si nega che il suo compito sia di natura conoscitiva e se ne afferma uno meramente pratico. Se la scienza non occupa più lo spazio del sapere principe, di nuovo si apre uno spazio per la metafisica, che riafferma il suo ruolo e rivendica le sue prerogative nei due versanti dello spiritualismo (Bergson) e del Neo-idealismo (Croce e Gentile). Pur con toni e modalità nuove vengono riproposte concezioni che già appartenevano alla cultura del XIX secolo, che però si misurano con questioni ed esigenze nuove.
Bergson, ad esempio, afferma l’esigenza di riprendere possesso di noi, che viviamo la maggior parte del tempo all’esterno di noi stessi nel mondo dominato dagli oggetti artificiali e dalle macchine prodotte dall’intelligenza umana. Il mondo è dominato dal pensiero immobilizzante e dal linguaggio classificatorio. Ma fuggire da questo mondo, in cui la coscienza langue e intristisce, per recuperare la dimensione più autentica della coscienza, quella della durata pura, della creazione continua, della spontaneità imprevedibile, è possibile solo mediante la metafisica, che apre lo spazio dello spirito al di là della materia, che abbandona la via dell’intelligenza a favore dell’intuizione. Così la metafisica diventa la via che fa diventare liberi, che restituisce all’uomo il senso della propria esistenza.
Diverso è il percorso indicato dal Neoidealismo italiano, che muove dalla riforma della dialettica hegeliana, pur con esiti diversi in Gentile e Croce. Gentile rivede la dialettica hegeliana riconducendola all’Io in atto, al pensiero pensante. Siamo a una dialettica dell’atto., a una metafisica dell’io di stampo fichtiano, nella quale si afferma che "intendere, anzi conoscere la realtà spirituale, è assimilarla a noi che conosciamo", perché "l’oggetto si risolve nel soggetto". Croce mantiene di Hegel lo storicismo assoluto e la concezione dell’immanenza dello spirito, pur intendendo il divenire dello spirito come processo che si realizza attraverso momenti distinti. La vita dello Spirito si realizza continuamente, nel movimento del Tutto, attraverso le opere dei singoli che dentro questa totalità divengono immortali, perché "ogni nostro atto, appena compiuto si stacca da noi e vive di vita immortale e noi stessi siamo immortali perché aver vissuto, è vivere sempre". Vivere come momenti di un Tutto, vivere come parti di una storia del mondo, che è un mondo duro, fatto di lotta e di sofferenza, ma che è l’unico mondo per noi. Altri - quelli che promettono le religioni - non ne vorremmo perché siamo legati all’immanenza. In Croce la metafisica è il fondamento di una "religione" laica austera, che non fa concessioni e che spinge l’uomo a vivere e ad accettare di vivere nell’unico mondo per lui possibile
Il dramma dell’Umanesimo ateo
L’affermarsi della scienza e della rivoluzione comunista improntano di sé il Novecento: almeno questo è quello che sembra evidente a molti intellettuali e pensatori intorno alla metà del secolo. Vi sono filosofie che fondano o si inseriscono in questi movimenti storici. Sono il Positivismo di Comte, il Materialismo storico di Marx, ai quali si può aggiungere, con un suo spazio autonomo, la filosofia di Nietzsche. Questi indirizzi di pensiero contribuiscono potentemente alla crisi e alla critica della metafisica, e, pur nella diversità degli intenti che perseguono e delle concezioni che elaborano, hanno come elemento comune e centrale l’ateismo. Alla metà degli anni ‘40 esce in Francia un libro di Henri De Lubac, intitolato Il dramma dell’umanesimo ateo. Vi si lancia il grido d’allarme perché "l’umanità occidentale rinnega le sue origini cristiane e si allontana da Dio". Si riconosce che l’ateismo dei pensatori sopra indicati è un ateismo positivo, organico, costruttivo, non puramente critico. E un antiteismo, nel senso che Dio viene visto come un rivale, come il nemico della dignità dell’uomo. Qui sta il dramma dell’Umanesimo ateo: ritiene che per affermare l’uomo si debba negare Dio. "L’uomo elimina Dio per poi prendere egli stesso possesso della grandezza umana, che gli pare ingiustamente tenuta da un altro. In Dio egli abbatte un ostacolo per conquistare la sua libertà". Ma il risultato di questo rifiuto di Dio è "la distruzione della persona umana". L’uomo, che vuole organizzare la terra senza Dio, la organizza contro l’uomo.
Anche Maritain condivide la tesi che l’ateismo contemporaneo sia un antiteismo, una sfida a Dio, una lotta continua contro Dio. In nome della propria libertà, per diventare adulto, l’uomo ritiene di dover negare la trascendenza della legge morale, qualunque fine ultimo e, dunque, anche l’essere trascendente che è Dio. Prevale così l’immanenza assoluta. Ogni valore è mutevole: quello che ieri era lodato, domani potrà essere criticato. Così facendo l’uomo non realizza la sua libertà, per affermare la quale aveva "lottato" contro Dio, ma la perde, la sacrifica a vantaggio della totalità storica, sociale o cosmica che sia. Secondo Maritain la responsabilità di questa progressiva degenerazione dell’idea di Dio è del pensiero borghese, dei tre riformatori Machiavelli, Lutero e Cartesio. Contro il pensiero moderno Maritain riafferma il valore perenne del tomismo e dunque della metafisica tomista, metafisica dell’essente, metafisica "esistenzialista", non metafisica delle essenze ma dell’uomo nella sua individualità. Un Esistenzialismo autentico, perché, affermando il primato dell’esistenza, non nega le essenze e le nature. Contro l’Umanesimo ateo si afferma un Umanesimo integrale.
Allo stesso modo Mounier, il maggior teorico del Personalismo si riconosce nell’opposizione contro il mondo e il pensiero borghese. Egli rivendica il valore e la centralità della persona, soprattutto contro l’individualismo borghese egoista ("la metafisica della solitudine integrale") che è il "regime dell’anonimato, dell’irresponsabilità e della dispersione, dell’egoismo e della guerra". Un individualismo che ha sostituito alla persona un’astrazione giuridica senza sostegni, senza stoffa, senza contorno, senza poesia, intercambiabile, abbandonata alle prime forze che capitano", come il capitalismo, "con la sua monotona unità di misura: il denaro". L’individuo è per Mounier la "dissoluzione della persona". La persona umana è realtà spirituale, ma incarnata, è un assoluto, che non può mai essere considerata come mezzo né da altre persone (come hanno affermato il Fascismo e il Nazismo) né da una collettività (come ha affermato il comunismo). La persona non si chiude in sé, ma si apre agli altri, rischia per amore: "vocazione, incarnazione, comunione sono le tre dimensioni della persona
L’esistenza e l’essere
Se la prospettiva cattolica è quella di una persona che si apre alla trascendenza, e in questo rapporto si realizza secondo il modello di un umanesimo teocentrico, nell’Esistenzialismo sembra prevalere la prospettiva della finitezza dell’uomo, di un uomo che non ha più l’orizzonte della trascendenza e del mondo e si ripiega su di sé, sulla sua insuperabile finitezza. Questa è Io sfondo del "decadentismo-esistenzialismo", per usare un’espressione di Norberto Bobbio.
L’uomo, secondo Heidegger, è un essere-per la morte, l’autenticità della sua esistenza sta nel prendere coscienza e nell’accettare questo suo limite costitutivo. Nello spazio dell’uomo, nel mondo dell’esserci, non vi è posto per Dio. L’Esistenzialismo si presenta come Esistenzialismo ateo.
"Se Dio non esiste, allora tutto è permesso". Questa affermazione di Dostojevskij viene considerata da Sartre come il principio dell’Esistenzialismo. Non c’è Dio, non c’è una natura umana creata da Lui, non ci sono valori oggettivi e assoluti, non c’è né bene, né male. L’uomo è costretto a essere libero, a scegliere, ad assumersi la piena responsabilità di ciò che fa, per se stesso e per tutta l’umanità: è questa situazione che genera angoscia nell’uomo.
L’analisi dell’esistenza umana in Heidegger, nella sua opera fondamentale del primo periodo, Essere e tempo, momento e condizione essenziale per il raggiungimento dello scopo della filosofia: la ricerca dell’essere. Ma la ricerca dell’essere non è quella di cui si è occupata la metafisica occidentale da Platone in poi: quella ha sempre attinto l’ente, mai l’essere. L’essere sfugge e non può che sfuggire alla metafisica, al discorso della razionalità occidentale, in quanto tende a rivelarsi in modo enigmatico e sfuggente solo nella poesia. Non nella critica della metafisica di Nietzsche, ancora impigliata nella metafisica, ma nella propria riflessione Heidegger vede definitivamente svelata l’essenza della metafisica e superata la sua pretesa di conoscere l’essere.
Anche per Jaspers la filosofia è la ricerca dell’essere. Ma l’essere non è l’essere-del-mondo, non è neppure l’essere dell’uomo in quanto esistenza possibile. Neanche noi uomini siamo "l’essere in cui tutto l’essere si esaurisce". E così dobbiamo cercare l’essere, quasi lo avessimo perduto e lo dovessimo riconquistare, facendo i conti con la "lacerazione dell’essere", perché "non ho mai a che fare con l’essere, ma sempre con un essere". Se voglio trovare il senso dell’essere lo devo cercare in un essere, con cui, in quanto esistenza possibile, sono in rapporto, che non è esistenza, ma Trascendenza. Ma non posso afferrare e comprendere e conoscere questa Trascendenza. "Se cerco di comprenderlo non afferro nulla. Quando poi tento di andare in fondo fino a giungere alla sorgente dell’essere, cado nell’assenza di terreno. Non pervengo mai a ciò che è come ad un contenuto del sapere. Tuttavia questa profondità senza fondo, vuota per l’intelletto, può diventare piena di significato per l’esistenza". La metafisica occidentale - almeno nella forma in cui la tradizione filosofica ce l’ha fatta conoscere - non ci può aiutare nella ricerca dell’essere. La filosofia diventa la chiarificazione delle vie che portano dall’uomo come esistenza possibile alla Trascendenza.
Un discorso privo di senso
Drastica è la condanna della metafisica da parte dei filosofi del Neopositivismo o Empirismo logico. E innanzitutto di Wittgenstein, il filosofo che alcuni considerano l’ispiratore della prima fase del Neopositivismo, quella del Circolo di Vienna.
Per Wittgenstein "di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere". E nello spazio di ciò che può essere detto la metafisica non c’è. Non c’è perché ciò che può essere detto sta nello spazio dei fatti, occupato per intero dalla scienza naturale. Non c’è perché la metafisica non si preoccupa e non è in grado di dare significato ai termini che usa. La filosofia, in quanto chiarificazione del linguaggio, non può che criticare la metafisica e ogni discorso che vada al di là di ciò che può essere detto, si tratti di Dio e del fatto che il mondo c’è o dell’esistenza dei valori.
La metafisica torna a essere eliminata dai filosofi neopositivisti perché tutte le sue asserzioni non rispondono e non possono rispondere al principio di verificabilità: non c’è conferma sul piano empirico delle tesi metafisiche. Carnap afferma che non si può andare dall’esperienza a ciò che è oltre, a ciò che la trascende; la metafisica, che pretende di farlo, usa dei concetti illusori, perché non fondati su ciò che è empirico o fisico. Inoltre l’analisi logica dei concetti smaschera l’insostenibilità di ogni discorso metafisico, costruito su un’arbitraria inferenza da fatti empirici a fatti non-empirici, attribuiti a una realtà sovra-empirica.
Da questi filosofi la metafisica è identificata con la filosofia, se con questo termine s’intende un sapere che pretende di conoscere l’essenza delle cose, la vera realtà. Dirà ancora Carnap che affermazioni come quella di Talete che l’acqua è il principio di tutte le cose o le tesi di Heidegger sul nulla non sono né vere né false, perché stanno al di là di ciò che ha senso: si tratta solo di poesia, non può certo accampare alcuna validità conoscitiva.
L’abisso che separa la scienza dalla metafisica è invalicabile: da una parte c’è il discorso dotato di senso, dall’altra parte quello che è privo di senso.
La metafisica non è falsificabile
Se il Neopositivismo criticava radicalmente la metafisica per la inverificabilità delle sue proposizioni, la situazione cambia con Popper che, criticando proprio il principio di verificabilità, propone un altro criterio di demarcazione tra scienza e metafisica e, tutto sommato, riconosce un ruolo positivo alla metafisica.
Popper nega che il confine tra scienza e metafisica dipenda dal fatto che le asserzioni scientifiche sono dotate di senso, mentre quelle metafisiche sono prive di senso. Alcune teorie metafisiche sono significative - come e il caso dell’Atomismo - anche se ve ne sono altre, come quelle hegeliana, che sono prive di senso. Il fatto è che bisogna abbandonare la connessione tra verificabilità e significato, anche perché, secondo Popper, da questo punto di vista anche le teorie scientifiche, come quelle metafisiche, sono inverificabili, in quanto non suscettibili di essere confermate mediante l’uso del metodo induttivo. Bisogna passare dal principio di verificabilità a quello di falsificabilità, in base al quale ogni teoria è scientifica quando accetta e consente di accertare la possibilità che l’esperienza, anche solo una esperienza, possa confutarla. Dunque una teoria per essere considerata scientificamente valida deve prevedere la possibilità di un controllo e di una smentita mediante l’esperienza. Le teorie metafisiche sono pseudoscientifiche e da criticare in quanto sono inconfutabili, cioè non sono suscettibili di essere falsificate, di esporsi a controlli empirici.
Detto questo, comunque, la demarcazione tra scienza e metafisica non è così netta, perché "le idee metafisiche sono speso precorritrici di quelle scientifiche": lo dimostra il caso dell’Atomismo che, da concezione metafisica, è divenuto in seguito parte integrante della fisica. Inoltre la ricerca scientifica è guidata da programmi di ricerca metafisici. Può essere considerato tale il "principio di causalità" o "legge causale". "La credenza nella causalità è metafisica" ed esprime (appunto in termini metafisici) la decisione dello scienziato di non abbandonare mai la ricerca di leggi, ipostatizzando, cioè elevando al rango di principio, in quanto tale inconfutabile, una regola dell’attività di ricerca dello scienziato. Così inteso, tale principio svolge una funzione positiva, regolativa della ricerca scientifica. A differenza di un’altra "metafisica" scientifica, quella dell’Indeterminismo, che, secondo Popper, "sbarra alcune strade di ricerca possibili", perché esprime delle "proibizioni" che "pongono limiti alla possibilità di ricerca" e, perciò, va criticata e rifiutata.
La questione della metafisica resta del tutto aperta. Si parla di pensiero post-metafisico (come ha fatto ad esempio Habermas per affermare l’esigenza di una visione non più "totalizzante" della realtà, o addirittura di morte della metafisica nella cultura e nella filosofia contemporanee.
Ma si afferma anche che la domanda metafisica - almeno come domanda di un senso della realtà cui l’obiettivismo scientifico non può fornire risposta - è insopprimibile per l’uomo.
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