Il mondo alla fine del Fondo
I fondamentalisti del mercato, visti da vicino.
Intervista con Joseph Stiglitz, premio
Nobel, ex-Banca mondiale. Esce per Einaudi il suo libro-denuncia contro i talebani
del liberismo: «La globalizzazione e i suoi oppositori», una mappa dei
disastri del Fondo monetario
ROBERTA CARLINI E STEFANIA CHINZARI
Ciò che è buono per Wall street è buono per il
mondo». Questo sembra essere il motto del Fondo monetario internazionale, che
aggiorna il più famoso detto di Charles E. Wilson a proposito degli interessi
della General Motors e quelli degli Stati uniti. Allora, gli interessi di una
multinazionale dell'auto al posto di quelli del popolo americano (Wilson era
stato presidente della Gm prima di essere Segretario alla Difesa Usa); oggi,
l'imposizione degli interessi della comunità finanziaria nelle istituzioni di
governo dell'economia mondiale, anche in quella Banca mondiale nel cui
ingresso campeggia la scritta «Il nostro sogno è un mondo senza povertà». La
denuncia non viene dai radicali di The Nation né da un marxista europeo, ma
da Joseph E. Stiglitz, economista americano post-keynesiano, già consigliere
di Clinton alla Casa bianca, vicepresidente e chief economist della Banca
mondiale dal `97 al 2000, premio Nobel per l'economia nel 2001. Autore del
libro-scandalo dell'anno, «Globalization and its discontents», appena uscito
in Italia con il titolo «La globalizzazione e i suoi oppositori» (Einaudi, €
19): tutto quel che non va nella globalizzazione e tutti i fallimenti delle
istituzioni del «Washington consensus» (Fondo monetario, Banca mondiale e
Tesoro americano). Fallimenti visti molto, molto da vicino, da quel
professore clintoniano colpito ed emozionato come uno scolaretto al suo primo
ingresso nell'atrio marmoreo e luccicante della Banca mondiale e da quella
scritta delle origini, tanto diversa dal motto di Wilson.
Il suo giudizio
è molto netto: le istituzioni di Bretton Woods, e in particolare il Fmi,
hanno cambiato missione. Dovevano stabilizzare i mercati e rimediare ai loro
fallimenti, sono diventate strumenti di quello che lei chiama il
«fondamentalismo di mercato». Lei è stato in una di queste istituzioni - la
Banca mondiale - per tre anni. Quando è scattata l'ora X? C'è stato un
episodio scatenante della sua critica all'operato del Fmi?
Sì, è stata la
vicenda dell'Etiopia. Un paese con i fondamentali economici a posto: niente
inflazione, crescita al 5%, un governo impegnato nell'aiutare i poveri,
niente deficit di bilancio, insomma un paese che faceva tutto quel che
doveva: eppure il Fondo sospese il programma. Lì è stato molto chiaro che si
aveva a che fare con qualcos'altro, non con la preoccupazione per le
condizioni reali di quel paese. Le motivazioni economiche della sospensione
dell'assistenza erano davvero pessime. In quel caso fui totalmente sostenuto
dalla Banca mondiale, e abbiamo lavorato duramente per spostare le posizioni
del Fmi. Guardi, a volte le cose si presentano più grigie, più sfumate: il paese
non è perfetto, il giudizio è più incerto; ma nel caso dell'Etiopia non c'era
niente di grigio, era tutto chiaro. Allora, stava accadendo qualcos'altro: o
era sbagliata l'economia, o la politica.
Non solo errori,
lei dice. E nel libro denuncia la prevalenza degli interessi dei creditori e
della comunità finanziaria occidentale.
C'è un mix di
diverse questioni. Ci sono stati sicuramente errori economici molto gravi. E'
successo in Indonesia, dove hanno fatto chiudere 16 banche: quello è stato di
sicuro un errore, non è stata ideologia ma stupidità pura. E' stato un errore
tecnico il fatto che hanno sottostimato l'estensione della crisi nel sud est
asiatico. Ma l'insistenza nel non ricorrere alle procedure del fallimento e
nello scegliere invece il salvataggio, proprio nel caso asiatico, nasconde
anche un forte interesse. Quando si è trattato di decidere sulla strategia
migliore, non hanno messo l'accento su cosa sarebbe stato meglio per la
Thailandia, la Corea, l'Indonesia, ma hanno pensato di più a cosa sarebbe
stato meglio per salvaguardare le probabilità che i creditori venissero
ripagati.
A proposito
dello scontro tra interessi finanziari e interesse delle popolazioni locali:
Lula, il candidato anti-Fmi, potrebbe vincere le elezioni in Brasile. Cosa
gli augura e cosa gli consiglia?
Spero che la
comunità internazionale rispetti la scelta della gente fatta con elezioni
democratiche e collabori con il Brasile, sostenga le politiche che lui farà,
le quali rifletteranno il modo di vedere di una gran parte dell'elettorato
brasiliano. Quel che è interessante del Brasile è che sulla maggior parte
della politica economica c'è accordo tra i candidati e i consiglieri
economici; hanno una democrazia viva e una forte discussione sulla politica
economica. Le sfide del Brasile sono molto forti: ci sono stati progressi
significativi negli ultimi anni, ma non hanno ridotto la povertà e
l'ineguaglianza.
E' la prima
volta che una critica profonda alle politiche del Fmi viene da un insider, da
«dentro il recinto». Come è stato accolto dall'establishment e dal mondo
accademico?
Dalla Banca
mondiale c'è stato un vasto sostegno, perché molti economisti lì dentro
condividevano la mia stessa frustrazione nei rapporti con il Fmi. Anche nella
comunità accademica ho avuto un ampio supporto, ad esempio da gente come John
Williamson, che è uno degli inventori della formula del «consenso di
Washington». Persino membri della comunità finanziaria - che metto sotto
accusa nel libro - hanno apprezzato quanto ho scritto.
Questo è abbastanza
sorprendente.
Beh, si tratta
comunque di persone che hanno una testa pensante. Gente come George Soros può
aver tirato fuori un sacco di soldi dal sistema, ma comunque riconosce i
fallimenti del sistema. Quanto alle critiche: qualche accademico mi ha
accusato di aver semplificato troppo, cosa normale quando si vuole
raggiungere una cerchia di lettori vasta. E io penso che è meglio
semplificare una teoria complicata che dà una migliore descrizione del mondo
che semplificare una cattiva descrizione del mondo quale quella fornita dalle
teorie del «consenso di Washington». Molte delle questioni che ho sollevato,
come quella della liberalizzazione del mercato dei capitali, le avevo già
scritte 5 o 6 anni fa. Oggi molti economisti si dicono d'accordo con me, ad
esempio circa il ruolo delle istituzioni nel controllare i flussi finanziari.
Questo fa
pensare che le cose possano cambiare...
Si e no. Un esempio
è la discussione recente sul fallimento. Nella crisi dell'est asiatico io
avevo sostenuto un maggior ricorso alle procedure di fallimento, con il Fmi
fortemente contrario. Ora invece ne parlano molto apertamente, il che è
positivo. D'altro lato ancora non capiscono che non puoi avere un
procedimento fallimentare nel quale un creditore centrale - il Fmi - è anche
il giudice del fallimento. Non hanno ancora affrontato gli aspetti
democratici fondamentali della questione. E poi ci sono gli aspetti politici,
con gli Stati uniti che spesso bloccano con il loro veto possibili soluzioni
positive.
Lei chiede «una
globalizzazione dal volto umano». L'augurio è che la formula abbia più
successo di quella del «socialismo dal volto umano». Ma può dirci in sintesi
in cosa consiste «il volto umano»?
La globalizzazione
può avere molti aspetti positivi: la globalizzazione della democrazia, dei
diritti umani; della società civile, della conoscenza. In paesi come quelli
dell'Asia orientale stanno volgendo la globalizzazione a loro vantaggio:
hanno una crescita orientata all'export ma non la liberalizzazione dei
mercati dei capitali; mantenendo una loro impronta, un loro controllo, sono
riusciti non solo a crescere ma anche a ridurre la povertà, rafforzando -
anzi creando - democrazie. In molti posti la globalizzazione rappresenta uno
stimolo alla diversità culturale. Ma purtroppo in tantissimi posti non è
andata così. E non solo per colpa del Fmi. Certo io parlo soprattutto del
Fmi, delle vicende nelle quali sono stato coinvolto, ma anche del Wto, credo
che il suo funzionamento sia la questione all'ordine del giorno oggi. Parlando
più in generale: la globalizzazione richiede che la gente lavori insieme.
Richiede azione collettiva globale. Dunque è totalmente incompatibile con
l'attuale unilateralismo americano. A livello internazionale la democrazia
non vuole dire votare per un presidente del mondo, ma avere un'attitudine di
base democratica. E l'elemento essenziale per farlo è dare la voce: quando si
prendono delle decisioni che hanno conseguenze sulla vita della gente,
occorre che le loro opinioni in qualche modo vengano ascoltate. Il voto è un
modo per farlo, ma non è il solo. Il problema è che l'amministrazione Bush ha
un approccio alla globalizzazione fondamentalmente non democratico,
unilaterale.
E' possibile
che, dopo l'11 settembre e la crisi del capitalismo americano,
nell'amministrazione e nella finanza Usa si veda la guerra permanente come
via d'uscita alla crisi?
No, non penso. Il
terrorismo è un problema, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per tenerlo
a freno, ma occorre andare alle radici del problema, ossia provare a fare
qualcosa contro la povertà, la disperazione, tutto ciò che nutre il
terrorismo. No, non credo che ci sia un grande sostegno alla guerra come via
d'uscita dalla crisi. Credo che ci sia una crescente preoccupazione sul fatto
che nella lotta al terrorismo mondiale stiamo compromettendo i nostri diritti
civili, ci stiamo dirigendo verso un governo sempre più segreto, così minando
i fondamenti della nostra democrazia.
Come giudica la
crisi di fiducia aperta dal caso Enron? E' vero che è «l'11 settembre» dei
mercati?
Il caso Enron
mostra la debolezza fondamentale del fondamentalismo di mercato. Mostra che
il mercato in sé ha problemi di ogni tipo, che riguardano tutti. Mostra che i
mercati non sono autoregolati, hanno bisogno dei governi. E se questo succede
in un'economia con le istituzioni più avanzate, lunga esperienza, un livello
medio di trasparenza, buone informazioni, problemi ancora maggiori possono
sorgere in situazioni più svantaggiate. Non è l'11 settembre, se non nel
fatto che è una sveglia. Non che sia la prima: si sapeva che la deregulation
non funzionava, ma il Fmi l'ha applicata comunque a tutto il mondo. E'
difficile imparare qualcosa dalle esperienze, soprattutto quando prevalgono
ideologie e interessi particolari.
In conclusione,
il suo libro è ottimista o pessimista?
E' un libro
fondamentalmente ottimista. Io sono uno che crede nel potere della
democrazia, della discussione, della trasparenza. Uno dei motivi della situazione
in cui siamo è che il Fmi e la globalizzazione non sono stati sottoposti a
nessun tipo di verifica democratica. Tutto è stato trattato come un problema
tecnico, per esperti. Adesso è cresciuto l'interesse pubblico e anche la
contestazione e la pressione per un cambiamento.
(articolo tratto da Il
manifesto del 10/10/2002)
Indietro
|