Si avvicina la fine dell'era del greggio abbondante
e basso costo. Questo annunciava, nel 2001, un rapporto «politico» delle
lobby del petrolio, di cui fa parte anche il vicepresidente Cheney. E suggeriva,
evidentemente ascoltato, l'uso dell'intervento militare per garantire gli
approvvigionamenti agli Stati uniti
RITT GOLDSTEIN
Un rapporto dell'inizio del 2001, predisposto
congiuntamente dal potente Council
on Foreign Relations (Cfr)
e dal James A. Baker Institute for
Public Policy (Jbipp), metteva in
luce il fatto che gli Usa stanno per finire il petrolio, prospettando anche
l'eventuale «necessità dell'intervento militare» per garantire gli
approvvigionamenti petroliferi. Il Rapporto, un documento politico che
formulava alcune proposte per la strategia dell'amministrazione Bush in campo
energetico, plaudiva anche alla creazione, da parte di Dick Cheney, di una
task force sull'energia con lo scopo di mettere a punto specifici piani
energetici, e suggeriva di considerare la possibilità di includervi una
«rappresentanza del Dipartimento della Difesa». Intitolato «Strategic Energy Policy Challanges for the 21st
Century», il Rapporto congiunto paventa
la fine del greggio abbondante e a basso prezzo. L'industria dell'energia
comincerebbe ad avere scorte limitate. Il Rapporto sollecita
l'amministrazione Bush a rivelare «queste dolorose verità al popolo
americano».
Alcune informazioni
sugli autori del Rapporto. Il Council on Foreign Relations è uno dei gruppi più
potenti tra quelli che influenzano la politica americana. C'è chi sostiene
che sia il più potente. Tra i suoi membri vi sono numerosi esponenti del
governo attuale e di governi precedenti oltre ad alcuni dei più potenti
uomini d'affari sul pianeta, tra cui: Zbigniew Brzezinski, Frank C. Carlucci
(presidente del gruppo Carlyle), Jimmy Carter, Richard B. Cheney (vice
presidente Usa), Henry A. Kissinger, Richard N. Perle, Brent Scowcroft e
molti altri. Per quanto riguarda il James A. Baker III Institute for Public
Policy della Rice University, la sua influenza politica è di natura simile.
Affermando che «non
c'è alternativa. E non c'è tempo da perdere», il loro documento prospetta in
futuro l'esplosione dei prezzi dell'energia, la recessione economica e
scontri sociali negli Usa, a meno che non si trovino le risposte.
Sottolineando l'urgenza delle attuali circostanze, il rapporto prospetta un
periodo di almeno tre-cinque anni per creare le infrastrutture necessarie a
rispondere al fabbisogno energetico dell'America con, in alcuni casi, tempi
ancora più lunghi. Il documento chiede «il ripensamento del ruolo
dell'approvvigionamento energetico nella politica estera americana».
L'accesso al petrolio viene citato ripetutamente come un «imperativo per la
sicurezza».
Il Rapporto fa
anche saltare il mito, molto diffuso, secondo cui gli Usa sarebbero in
qualche modo al riparo dai problemi di approvvigionamento petrolifero dal
Medio Oriente, perché l'America riceverebbe la maggior parte del petrolio da
fonti meno instabili, fuori del Golfo Persico. Secondo il Rapporto, «la
natura globale del commercio e del prezzo del petrolio significa che importa
poco se il petrolio del Golfo arriva in Asia o negli Usa. I trend
mediorientali nella definizione del prezzo e negli approvvigionamenti
influenzerà comunque i costi energetici in tutto il globo».
Il Rapporto rivela
in modo esplicito e dettagliato sia una motivazione alternativa per la guerra
al terrorismo americana, sia la motivazione apparente per molta parte
dell'attuale politica estera dell'amministrazione Bush, la sua cosiddetta oil agenda. Sono state presentate
iniziative per migliorare gli approvvigionamenti petroliferi dal Venezuela,
dalla Colombia, dall'Africa occidentale, dal Caspio e dall'Indonesia.
L'amministrazione ha affrontato attivamente la questione petrolifera con
ciascuno di essi, e Colin Powell è recentemente tornato da due paesi africani
produttori di petrolio. Uno dei «passi immediati» che il Rapporto chiede è di
verificare se si possa modificare la politica Usa in modo da velocizzare la
disponibilità di «petrolio dalla regione del bacino del Caspio». Questo
confermerebbe vecchie accuse secondo le quali le questioni energetiche
farebbero ombra all'agenda americana sull'Afghanistan.
Per gli autori
francesi Jean-Charles Brisard e Guillame Dasquie, gli interessi petroliferi
americani hanno convinto l'amministrazione Bush a bloccare le indagini sul
terrorismo e a negoziare con i Taleban, come risulta da un resoconto del 15
novembre 2001 dell'Inter Press Service (Ips). L'obiettivo Usa, ripetutamente
citato, era la costruzione di oleodotti e gasdotti trans-afghani che
avrebbero dovuto permettere l'accesso al petrolio e al gas del Mar Caspio.
Secondo gli autori, e anche secondo un articolo del gennaio 2002 apparso su Le Monde Diplomatique, i tentativi Usa di
comprare e poi di minacciare i Taleban avevano preceduto l'11 settembre.
L'articolo Ips cita gli autori francesi e riferisce che, di fronte al rifiuto
dei Taliban di collaborare, «la giustificazione della sicurezza energetica è
diventata una giustificazione al ricorso alla forza militare», in linea con
quella che il rapporto presentava come una opzione valida.
Una nota a margine
alla questione delle minacce militari Usa è offerta dal Gao (General
Accounting Office), organismo investigativo del Congresso Usa. Questo ha
fatto causa al vice presidente Dick Cheney per ottenere informazioni
dettagliate sui meeting tenuti dalla task force sull'energia. I gruppi
ambientalisti hanno speculato che si sta combattendo la causa, la prima in 81
anni di storia del Gao, per nascondere il livello di coinvolgimento della
Enron nella task force. Tuttavia questo Rapporto solleva ulteriori
preoccupazioni: se, dando seguito alle raccomandazioni del Rapporto, il
Dipartimento della Difesa abbia partecipato davvero alla task force di Dick
Cheney sull'energia, di cosa si sia discusso, con chi, e quando. Questi sono
interrogativi che dovranno avere una risposta.
Per quanto riguarda
la colpa per la crisi attuale essa viene attribuita, sia pure con riluttanza,
alla deregulation dei mercati energetici, e si parla anche
della mancanza di una ampia politica energetica Usa e del fatto che non siano
state adottate misure di conservazione e di diversificazione dell'energia.
Secondo il Rapporto, con la deregulation, le compagnie hanno
evitato l'alto costo rappresentato da una sovracapacità produttiva
nell'industria petrolifera, optando invece per un profitto aggiuntivo. Di
conseguenza, la sovracapacità dell'industria petrolifera nel mondo è scesa da
circa l'8% di domanda globale nel 1990 a «un trascurabile 2% di domanda
globale». Una sfida petrolifera del Medio Oriente alla politica estera Usa
appare come il peggiore incubo della task force.
La maggior parte
della attuale capacità produttiva di riserva, dice il Rapporto, «si trova in
Arabia Saudita», più una parte aggiuntiva negli Emirati Arabi Uniti. Questo
rende l'America sempre più vulnerabile, mentre è in aumento la percentuale
mondiale di petrolio proveniente dal Medio Oriente.
Nel Rapporto si
nota anche che una interruzione nell'oleodotto dell'Alaska «avrebbe lo stesso
impatto di una rivoluzione che tagli le forniture da un importante produttore
di petrolio mediorientale». Il Rapporto paragonava l'attuale situazione
energetica Usa a una automobile che viaggi a 140 km orari con un
ammortizzatore rotto: una situazione buona finché tutto fila liscio, fatale
se si incontra una strada accidentata.
Focalizzandosi
sulle attuali limitazioni di forniture petrolifere e le gravi ripercussioni
che si verificherebbero se queste venissero meno, non sorprende che il
documento esprima ripetutamente preoccupazioni sulla dipendenza dal petrolio
mediorientale, esprimendo le incertezze generate dalla «pressione interna»
cui sono attualmente soggetti gli stati del Golfo, con riferimento a un
«anti-americanismo» nella regione. Per affrontare queste questioni vengono
sollecitate anche alternative diplomatiche, considerate in grado di offrire
all'amministrazione delle opzioni in campo politica, ma a partire dall'11 settembre
la politica sembra in sintonia solo con l'opzione, citata nel rapporto,
dell'«intervento militare». Le idee presentate, riguardanti un alleggerimento
del conflitto arabo-israeliano, l'ammorbidimento delle sanzioni contro l'Iraq
e la «riduzione delle restrizioni sugli investimenti petroliferi all'interno
dell'Iraq» restano di segno opposto rispetto alla politica attuata da Bush.
Si potrebbe dire per analogia che è stata offerta la scelta tra un guanto di
velluto e un pugno d'acciaio. Bush usa il secondo.
L'importanza
dell'Iraq come paese produttore di petrolio è menzionata ripetutamente, così
come il bisogno di estendere la produzione irachena nel più breve tempo
possibile per andare incontro alle previste carenze nelle scorte, carenze che
nel breve termine possono essere evitate solo attraverso una maggiore
produzione o conservazione. In sostanza, il Rapporto vede la politica del
Golfo Persico come una minaccia significativa e come un ostacolo a maggiori
approvvigionamenti energetici.
Implicito nelle
preoccupazioni che «gli alleati del Golfo stanno giudicando i loro interessi
in politica interna ed estera sempre più in contrasto con le considerazioni
strategiche degli Stati uniti», e che «appare evidente che gli investimenti
non si stanno facendo in modo abbastanza tempestivo» per andare incontro ai
bisogni globali, c'è il presupposto di quella che è ora diventata una
posizione quasi apertamente accusatoria. L'ovvia implicazione è che se gli
Usa dovessero improvvisamente ottenere un controllo saldo dei siti
petroliferi mediorientali, le compagnie petrolifere americane potrebbero
effettuare gli investimenti necessari a estendere le ricerche e la
produzione. Questo eviterebbe temporaneamente la fine del greggio a basso
prezzo e alla portata.
Quest'estate,
resoconti giornalistici hanno cominciato a dipingere l'Arabia Saudita come un
possibile bersaglio dell'anti-terrorismo. Anche la retorica sull'Iraq è stata
costantemente alimentata prima con una accusa, poi con un'altra, creando
quasi una situazione da «accusa del giorno». Gli addetti alla difesa
nazionale Usa sono stati a guardare mente l'Iraq diventava il «perno
strategico», e si è discusso sempre di più con un'agenda basata sulla
formula: «non solo un nuovo regime in Iraq» ma un «nuovo Medio Oriente».
Condoleezza Rice e Dick Cheney presentano entrambi questo scenario come una
rivoluzione democratica in Medio Oriente, ma preoccupazioni su pressioni
interne da parte delle popolazioni di questi paesi sembrerebbero
contraddirli.
Altre posizioni tra
cui quella di Mo Mowlam, ex ministra del governo Blair, vedono un'invasione
dell'Iraq come destabilizzante per la regione. Il caos che con ogni
probabilità ne seguirebbe fornirebbe il necessario pretesto per una efficace
occupazione Usa degli impianti petroliferi del Medio Oriente. Ma l'invasione
in Afghanistan non ha ancora portato a quegli oleodotti e a quei gasdotti
considerati tanto importanti, e mentre il presidente afghano si fa proteggere
dai soldati americani, nel Rapporto si sostiene ripetutamente che la sola
cosa sicura che sta andando avanti è ciò che è stato chiamato «Il Nuovo
Grande Gioco», la lotta per l'impero.
Copyright Ritt
Goldstein/il manifesto. Traduzione di Marina Impallomeni
(articolo tratto da Il
manifesto del 10/10/2002)
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