Augusto Graziani

Una storia Italiana

 

Una storia italiana
AUGUSTO GRAZIANI
La crisi della Fiat segna per il nostro paese la fine di un'epoca storica, quella della grande industria e del capitalismo familiare. Nella storia dell'industria italiana, le grandi imprese sono state legate a tradizioni familiari: nomi come Agnelli, Pirelli, Olivetti, Carlo Erba, sono al tempo stesso nomi di imprese e di dinastie di imprenditori. Mentre in altri paesi le grandi imprese sono sopravvissute al declino della dinastia, il destino dell'industria italiana sembra diverso e legato in modo molto più stretto alla sopravvivenza della famiglia. La grande industria italiana, dopo esordi gloriosi alla fine dell'ottocento, aveva cominciato a registrare battute di arresto nella seconda metà del novecento. Di volta in volta, in circostanze non sempre chiare, i tentativi di mettere in piedi un'industria nucleare, o di computers, o di ricerca medico-farmacologica, sono andati sepolti sotto vicende giudiziarie o a causa di decisioni sfortunate. Mentre oggi la Francia può vantare i suoi primati nel nucleare e nell'elettronica (con relative applicazioni all'alta velocità), mentre la Germania conserva gelosamente ottica e chimica fine, all'Italia rimaneva l'automobile, industria di per sé non precisamente di avanguardia, ma pur sempre sede di applicazioni innovative.

Nel corso degli anni, la Fiat si era procurata sostegni in varie direzioni. Gli investimenti pubblici la avevano assistita con una politica a volte sfrenata di costruzioni autostradali, accoppiata a una politica molto più discutibile di oblio dei trasporti ferroviari. Gradualmente, la Fiat aveva acquisito il monopolio della produzione di auto; anche qui il settore pubblico le aveva aperto la strada cedendole nel 1986, «a condizioni molto ragionevoli» (parole di Cesare Romiti) o addirittura, secondo voci dissenzienti, quasi in regalo, l'Alfa-Romeo, produttrice di vetture di alta classe, dinanzi alle quali, in altri tempi, Henry Ford dichiarava di togliersi il cappello. Ancora, la Fiat era stata generosamente assistita con fondi pubblici somministrati per finanziare ricerche e sperimentazioni.

Per ragioni che oggi non sembrano comprensibili, e che gli storici dovranno accertare, anche la posizione di monopolista nazionale assistito non è stata sufficiente a salvare la Fiat dal declino. Indubbiamente, in anni più recenti, molte cose erano cambiate. L'austerità imposta alla spesa pubblica dal Trattato di Maastricht aveva ridotto il flusso di aiuti pubblici. Una politica di ritorno al trasporto su ferro, aveva indotto il gruppo Fiat a spostarsi verso la costruzione di veicoli ferroviari. Anche qui l'aiuto pubblico non era mancato e il gruppo era diventato fornitore di quei pendolini e di quegli Etr 500 che, tra rullii, sobbalzi e scossoni, trasportano i viaggiatori ormai su tutta la rete (parla un povero viaggiatore: quanto più confortevoli le vecchie vetture, pesanti e stabili, ormai umiliate a prestare servizio sui modesti intercity).

Forse questo mutamento di scena aveva indotto un rallentamento nella produzione di nuovi modelli auto e questa, secondo alcuni sarebbe l'origine della crisi. Tuttavia, un osservatore esterno e profano non riesce a reprimere l'impressione che, negli ultimi tempi, la presenza della General Motors, acquirente ormai designato e vorace, e ovviamente voglioso di concludere l'affare alle condizioni più vantaggiose, abbia indebolito lo spirito di iniziativa: chi conosce il proprio destino e lo considera ineluttabile, si impegna assai di meno per modificarlo.


All'Italia resta l'industria di medie dimensioni e la marea crescente di piccole imprese. Anche questa struttura ha i suoi difensori. I sostenitori dei distretti industriali ricordano che sono state proprio le imprese piccole a creare il tessuto produttivo che ha fatto la fortuna della Toscana, dell'Emilia-Romagna, del Veneto, delle Marche e dell'intera linea adriatica dello sviluppo. E, proseguono gli araldi del piccolo, non si tratta soltanto di efficienza produttiva e di capacità di assicurarsi nicchie nei mercati mondiali; si tratterebbe anche, sul piano sociale, di una struttura produttiva più democratica e meno autoritaria. Inoltre, si fa ancora notare, la piccola dimensione, proprio perché permette all'operaio di mettersi in proprio e di avviare un'attività indipendente, diventa uno stimolo e una scuola per la creazione di un tessuto produttivo autonomo. Nessuno negherà che vi è del vero in tutto questo. Tutti ricordiamo infatti le pecche memorabili della grande industria: i famosi cancelli fra i reparti della Fiat e, sempre a carico della Fiat, il processo per le schedature dei propri dipendenti, processo nel quale la difesa giudiziaria dei lavoratori venne presa, fra mille difficoltà, da Bianca Guidetti Serra, grande sostenitrice dei diritti dei lavoratori. Ma non possiamo nemmeno chiudere un occhio sul fatto che, se vogliamo parlare di difesa dei diritti, la grande impresa rimane pur sempre il luogo nel quale il sindacato può esercitare la propria azione e che ogni qual volta una grande impresa chiude i battenti, questa non è soltanto una sconfitta per l'impresa ma anche un indebolimento per il sindacato. Non dobbiamo dimenticare che la piccola impresa è il luogo nel quale i contratti nazionali di lavoro vengono violati, le condizioni di lavoro sono più infelici, le esigenze di salubrità e di sicurezza vengono il più delle volte ignorate (il numero degli infortuni sul lavoro, che cresce con il diffondersi della piccola impresa, parla chiaro).

La General Motors, che si appresta a subentrare alla Fiat auto, è un'impresa americana. Di recente è stata rievocata un'affermazione del famoso Segretario di Stato americano Foster Dulles, il quale predicava che vi sono due modi per conquistare un paese: occuparne il territorio con un'azione militare, o prendere il controllo della sua economia. Gli Stati uniti impiegano, a seconda dei casi, l'una o l'altra strategia. Dobbiamo pensare che la crisi della Fiat incarni anche un atto di conquista? (articolo tratto da Il manifesto del 10/10/2002)




 

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