"Tutta la verità

sull'Arte e la Poesia in Italia"

di Alessandro D'Agostini

 

- I -

Molti in Italia scrivono e moltissimi di questi scrivono poesie. Pochi in realtà perseguono ed ottengono fini artistici apprezzabili. Padronanza espressiva, un minimo di conoscenza della letteratura, originalità, sono prerogative possedute in verità da pochi fra coloro che hanno la pretesa o credono, o sperano, dopo aver tracciato su di un foglio delle frasi andando a capo più spesso che in una prosa, di aver composto una poesia. La alfabetizzazione di massa, che pure ha portato i suoi benefici, ha comportato anche una nuova forma di analfabetizzazione. No, questo non è un paradosso. La cultura, e nella fattispecie la cultura letteraria ed umanistica, diffuse senza riuscire ad essere capaci di insegnare la capacità della valutazione e del discernimento presso una massa enorme di persone, ha avuto un effetto massificante. Fra quelli che ricordano o sono in grado di citare passi a memoria ad esempio de "Il cinque maggio" quanti sanno valutare il valore della poesia inteso come valore intrinseco artisticamente parlando, oppure sono in grado poi di valutarne un'altra in relazione a questa, o rispetto a una contemporanea? Quanti sanno che la poesia oltre che noiosa esercitazione mnemonica imposta coercitivamente da un sistema mal congegnato attraverso una sorta di "ricatto sociale", può donare ed essere anche piacere e favorire l'ampliamento dei propri orizzonti e la crescita spirituale? Penso molto pochi.

Quelli che amano la poesia perché hanno sentito la necessità di produrla, spessissimo si limitano a questo e non affinano le proprie capacità con la lettura ed il confronto e, bisogna dirlo chiaramente, quasi sempre a causa dell’infima qualità delle pubblicazioni di poesia contemporanea che ci vogliono far credere tale solo perché recensita o scritta o pubblicata rispettivamente da questo o quel critico, autore o editore di fama riconosciuta. Si pensa che il pubblico sia stupido e che fruisca tutto quello che viene propinato purché possieda delle referenze prestigiose? In parte pare proprio essere così: sì, lo sparuto, elitario pubblico della poesia sembra essere incapace di imporre attraverso un'approvazione dichiarata, o con l'acquisto del libro di poesia un gusto proprio. Quest'ultimo infatti è quasi sempre edulcorato da modelli non scelti liberamente, ma imposti dall'"alto" verso il "basso" ed assunti poi dal "basso" in cerca di punti di riferimento che possano fornire delle garanzie di validità anche se di fatto fittizie. Insomma, il meccanismo referenziale del quale ho parlato più sopra, di legittimazione non meritata (non affatto ottenuta per motivi meritori), funziona benissimo con "il pubblico della poesia" che, avendo accettato in modo prono il presente come il preesistente, sembra disposto a continuare a fruire tutto quello che gli viene fatto passare per buono solo perché proveniente od indorato da questo mondo alto. I modelli errati nei quali è stato incanalato il "gusto" del pubblico (della poesia) sembrano veramente far credere che "l'arte sia morta" come alcuni suoi assassini sostengono perché incapaci di produrne e di valore.

Alcune di queste persone sostengono inoltre che tutto è stato scritto, si insospettiscono e vilipendono la letteratura capace di dare piacere o veicolare dei messaggi, del senso; in verità solo perché loro non hanno nulla da dire e non vogliono che questo nulla sia da altri colmato. Queste persone forse non ricordano qualche libro letto da ragazzi che ha loro procurato piacere? E perché, se il loro intendimento è tale, continuano a riempire delle pagine per poi pubblicarle? Non è contraddittorio il loro voler estenuare una "morte", perpetuare un lutto? Perché hanno cominciato a scrivere? Come mai continuano a pubblicare visti i loro presupposti? Forse desiderano accrescere soltanto il proprio prestigio, fare carriera accademica ed hanno la possibilità per farlo... Si sono mai posti questi poeti il problema della fruizione, della possibilità che quello che scrivono possa raggiungere un pubblico, ed un pubblico che non sia, per dirla con Berardinelli "...di gente che scrive o vuole scrivere poesie e di studiosi"?

Valutando in ambito d’ufficialità o “ufficiosità”, accortamente, la produzione poetica ultima, e l’atteggiamento generalizzato dei “signori” della poesia, veri e propri “generali senza truppe”, salvo ovviamente le debite eccezioni, c'è da restare sbigottiti dinanzi alla loro incapacità -o peggio- non volontà di prendere in esame, affrontare il problema della diffusione, divulgazione del "prodotto" poetico presso un vasto pubblico. Pare l'argomento non interessarli granché, per nulla impegnati come sono nel formulare ipotesi di lavoro, ipotizzare stratagemmi e soluzioni. Inoltre, se questi vengono sollecitati dall'esterno sull'argomento rispondono o con luoghi comuni o evasivamente: la poesia non vende, i poeti non sono letti, la poesia sarebbe necessariamente “difficile” e quindi impossibilitata di affrancarsi fasce di lettori più vaste. Mai si sognano neppure di pensare alle proprie enormi responsabilità di fronte a tutta la situazione, o di tentare di invertire questa tendenza negativa, mortifera e controproducente, evidentemente, per loro stessi come per la poesia in sé e per gli altri poeti contemporanei o da venire. La situazione non è di certo delle più rosee, questo è evidente, ma non deve portare i poeti, i critici, i cultori di poesia a dare per scontato che tutto sia destinato a restare come è ora, o debba peggiorare. Soltanto se ognuno di noi singolarmente con un atto di volontà si porrà come precipuo scopo un’inversione di tendenza e comincerà fiducioso a pensare una collocazione della poesia nel sociale, capace di guadagnarsi invadente e importuna come lo sono stati e lo sono i telegiornali, le soap-opera, la merce, un posto nella nostra vita quotidiana a costo di servirsi della stessa violenza subita come ci invita a fare dal trono oracolare della sua follia-lucidità la poetessa Alda Merini, allora sarà possibile guadagnare terreno per la poesia! Che cosa significa violenza positiva? Significa imporre le nostre ragioni -perché lo sappiamo, siamo noi ad avere ragione- ad ogni costo e con ogni mezzo consentito. Basta con la figura dell’intellettuale disimpegnato e lamentoso della sua condizione in ogni occasione, in attesa non si sa bene di quale svolta epocale nella quale continuando a piangere lacrime di coccodrillo egli resterebbe a guardare! Basta con gli individualismi egoistici e carrieristici e l’autocommiserazione! È il momento d'agire tutti congiuntamente con ardore e forza. “Che l'artista sia la fucina dei valori e suo instancabile diffusore e difensore oltre l'indifferenza, l'incomprensione, la generalizzata ostilità, nemici da combattere con caparbietà e costanza non lasciandosi sopraffare, anzi, attaccandoli da ogni fronte in modo inaspettato e di sorpresa; perché la "verità" che è bellezza nell’opera d’arte, la forza del sussulto, dello stordimento e l’estasi da essa dati, non soltanto possono, ma devono avere la meglio sulla terra. Il non lottare per questo presuppone l’accettare in cuor nostro di piombare nelle fauci spalancate delle rinnovate forme di medioevo e imbarbarimento”. (Tratto dal Manifesto-Programma dei “Giovani Poeti d’Azione”). Dobbiamo aggredire come un potente acido la società del conformismo dove il diverso, il pazzo, l’artista è ritenuto necessariamente un perdente, un deviante da evitare o da non prendere in considerazione più di tanto. Inoltre, per il rilancio della poesia -se può essere possibile, come io penso, un rilancio- non bisogna puntare su chi e su ciò che ha la pretesa, o in ragione della risonanza ottenuta, della fama, si può essere indotti a pensare detenga l’arte e la capacità di valutarla e di fatto il potere di imporla, ma su l’arte e la poesia in sé. Nel rapporto con il pubblico, e parlo di un pubblico possibile di allargarsi e non il pubblico di adesso, vincente deve risultare l’arte e soltanto essa.

Non se ne può più della pseudo-produzione artistica e di questa mediocrità imperante, favorita e legittimata da un sistema degenerato fino a livelli di delirio parossistico. Bisogna far sì che l’applauso sorga spontaneo, fragoroso, e non veicolato, incerto, come si ode spesso adesso per gli autori noti che lo sono diventati nella stragrande maggioranza dei casi solamente per motivi di corruzione: favoritismi, militanze, nepotismo ed altri compromessi.

- II -

Molti autori di talento che avrebbero il diritto di meritare attenzione e pubblicazione, trovano invece, da parte del mondo letterario accademico, letterario editoriale e poetico alto chiuso in se stesso (una sorta di casbah!), ostracismo e rifiuto a priori che si esplicano nell’indifferenza da parte del mondo accademico generalmente passatista legato com'è a curare interessi carrieristici personali, nel disinteresse pressoché totale da parte degli editori per motivi, affermano loro, esclusivamente economici, o per -affermo io - la non volontà di promuovere un prodotto che va pubblicizzato e lanciato prima della sua affermazione rispetto ad un altro, anche se mediocre, "collaudato" e più facilmente smerciabile. Inoltre, da parte di autori che detengono dei privilegi pur non meritandoli, c'è la speranza di mantenerli e quindi che nessun altro autore venga scoperto, pubblicato, conosciuto. Dura vita, quindi, in questo cinico contesto, per il neo-poeta. Se nascesse oggi -e questa non è né una provocazione né un paradosso, ma una realtà- un nuovo Dante Alighieri, impazzirebbe o finirebbe per suicidarsi.

“Ognuno in Italia”, recita la costituzione, “è libero di esprimere il proprio pensiero”, ma questa costituzione non specifica in che modo e come venga garantito questo diritto alle categorie più deboli non legate a poteri forti o possibilità economiche autonome. Chissà, forse si pensa che abbia da dire solo chi lo può dire, o si lascia che la provvidenza aggiusti tutto. In verità le cose stanno in questo modo: ci viene detto che abbiamo dei diritti e lo si dà per scontato, ma di fatto non ci vengono garantiti in alcun modo. Un notevole filosofo (William Godwin, 1756-1836) ha affermato che la democrazia non è una forma giusta di governo, perché essa non è altro che la supremazia di una maggioranza dominante su di una o più minoranze oppresse. Inoltre, i soggetti politici oggi nascono e si consolidano, pare, esclusivamente per tutelare meschini interessi economici. Le posizioni culturali finiscono per essere solo un contorno da esibire ed ostentare come secondario e fragile apparato di riferimenti sbiaditi e ridotti a “cliché” durante le “spettacolari” e non fondanti schermaglie politiche fra fazioni di interessi, esclusivamente economici, che riducono la dignità degli individui al loro costo sociale, alla loro più o meno grande capacità d’autonomia nel sopperire alle proprie necessità esistenziali. L’arte, vista come elevazione della coscienza dal “personale” della ricerca e l’atto creativo del Singolo, al “collettivo” della società organizzata, è un’arte che necessita, per essere accettata, di un alto grado di civiltà, intesa come permanenza negli individui di una intricata rete di valori e di attribuzione di valori alle cose del mondo. E non mi sembra purtroppo che la società odierna occidentale vada verso le condizioni che possano permettere la diffusione di tali valori o che si prefigga simili intenti di umanizzazione dei soggetti. Tornando alla nostra democrazia rappresentativa e parlamentarista, debbo aggiungere, inoltre, quello che tutti sanno: in essa acquisiscono il diritto, perlomeno di essere riconosciuti come “minoranza”, solo quei gruppi di individui capaci e disposti a organizzarsi sino a divenire “soggetto politico”, o delle quali istanze si vogliano far carico le organizzazioni politiche esistenti; ma non è accaduto -almeno sino ad oggi- per i poeti. Per questo, chi è poeta, di fatto, è privo di diritti e capacità di interazione e proposta in favore della Poesia e della propria categoria. Per questo la proposta di un “Partito dei Poeti”, avanzata qualche tempo addietro per televisione (Dario Bellezza ne parlò, credo, nel ’95), ben lungi da essere solo una provocazione, (e sarebbe comunque legittimo) è anche, se vogliamo, una ipotesi realizzabile e -previa una volontà in tale direzione- possibile e capace di tradursi in realtà. Chi si occupa di dedicare oggi ore di programmazione televisiva al mutamento -attraverso l’arte e la poesia- e soprattutto la nuova arte e la nuova poesia, (l’unica in grado di essere valida testimonianza del presente) dello spirito degli uomini appartenenti allo stesso popolo? Nessuna forza politica nel suo programma. Chi tutela realmente gli artisti e i poeti che meritano diffusione e sostegno in ragione di un’utilità sociale ed un valore intrinseci indipendentemente dalla traducibilità economica delle loro produzioni? Chi tutela le ragioni profondamente etiche dell’esistenza degli artisti e della produzione nella storia di nuove opere d’arte, non riferendosi ad un criterio discriminatorio e non fondato che è quello assunto da una logica mercenaria, oggi l’unica logica universalmente presente e imperante in specie nella nostra nazione? Temo che queste domande possano avere come sola risposta nessuno. Ma chi dovrebbe rispondere a queste domande? Chi dovrebbe e potrebbe davvero garantire per l’arte e gli artisti migliori condizioni e prospettive di esistenza e di vita: le istituzioni. Problematiche così grandi che investono la coscienza stessa di una collettività vanno affrontate su larga scala e non demandandole alla autorganizzazione e al volontarismo più o meno spontaneistico di gruppi con pochi mezzi e che si trovano nell’indifferenza generale di fronte ad infiniti problemi nel tentativo di portare avanti un progetto culturale e di rinnovamento serio. Tuttavia, al di là dell’asservimento e conseguente coaptazione presso le elités culturali dominanti, o una carriera accademica, anche essa non priva di compromessi, per il giovane artista, poeta, intellettuale vi sono poche strade da battere. In primo luogo la rinuncia ad un ruolo che ci si è scelti per una sincera vocazione supportata da un non indifferente impegno, e un conseguente senso di frustrazione e sconfitta che poi si sconta sentendosi costantemente incapaci o marchiati indelebilmente come da un sortilegio che impedisce di compiere la missione per la quale ci si sente destinati, dall’altro il continuare, a scapito di rovinare per sempre la propria vita, ad occuparsi di letteratura, poesia, arte, critica senza risultati, o almeno risultati che vadano verso il professionismo, un qualche pur minimo conseguimento di legittimazione o la possibilità di vivere di arte. Possibilità che nel mondo occidentale ai più sembra completamente preclusa.

Qualcuno si chiederà, a questo punto, dopo una tale analisi della situazione della cultura in Italia, perché continuare a scrivere, perché continuare con delle operazioni culturali a fare incontrare i superstiti del pensiero e del pensare nella speranza di dare vita ad un dibattito culturale che oggi nel mondo della cultura ufficiale è totalmente assente? Perché noi siamo artisti, poeti, intellettuali fino in fondo e fino in fondo vogliamo impegnarci per un risveglio delle coscienze che porti alla comprensione che qualora sarà possibile uno sforzo congiunto e costante da parte anche di pochi spiriti illuminati, poi altri li seguiranno sulla scia di un esempio nobile e necessario. Per questo noi Giovani Poeti d'Azione apriamo il dibattito a quanti vorranno intervenire dando una testimonianza o un contributo sulla giustezza della strada da noi intrapresa per essere sempre di più e più forti all’alba del nuovo millennio. 

Alessandro D’Agostini

Tratto dal sito del Movimento "Giovani Poeti d'Azione" -

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