TOTO'

COMICO GENIALE 

TRA TEATRO - CINEMA - POESIA

di Reno Bromuro

 

 

Comico geniale, acclamato per oltre trent’anni in teatro e poi trionfante per un ventennio nel cinema, il principe Antonio De Curtis Gagliardi Ducas Commeno di Bisanzio, ovverosia Totò, può dormire nella pace eterna, lieto di non aver dovuto affidare il suo ricordo ad alcuna “mirabile interpretazione” di personaggi famosi.

 

La continua follia di una maschera

 In quasi mezzo secolo di attività, Totò non fece altro che interpretare se stesso, in altre parole quel tipo, quella maschera, che aveva creato sin dagli esordi e che non mancò certo di perfezionare e di arricchire nel tempo, senza sostanziali mutamenti.

Il suo limite fu onesto, e questa insieme alla recitazione, fu la sua grandezza. Per cui da una parte dispiacque, che sulla scena non provasse a cimentarsi con le figure della grande commedia o almeno, più semplicemente, con le figurine sapide o dolenti di un teatro napoletano che pur doveva avere nel sangue, poiché proprio a Napoli era nato, il 15 febbraio 1898 (da famiglia assai modesta malgrado certe nobili ascendenze che lui avrebbe poi rivendicato per tutta la vita, sino a farsi riconoscere i titoli principeschi già citati), e a Napoli aveva vissuto la sua infanzia e la sua prima giovinezza, fra il brulichio sottoproletario del rione Sanità. D’altra parte non dispiacque ed è anzi motivo di grandi estimazioni, proprio questa sua fedeltà inflessibile a quel suo unico personaggio, a quella maschera, con cui ha saputo sempre imporre la sua grande arte comica anche utilizzando solo gli sketch e i modesti canovacci del teatro leggero e poi dei filmetti in serie. 

    Per un verso ciò consente di ricondurre Totò alla grande tradizione italiana della commedia dell'arte, mentre, per altro verso, ha incoraggiato a paragonarlo, nel cinema, a tipi altrettanto immutabili come Charlot, come il “volto di pietra” di Buster Keaton, o anche come Fatty, Ridolini, Harold Lloyd. Ma com'era, per suo conto, la maschera di Totò?

Nella sua prima e fondamentale fisionomia che risale intorno al 1922, quando il comico otteneva a Roma i suoi primi successi, al Teatro Jovinelli e poi in quel “tempio del varietà” che era allora la Sala Umberto, fu cosi descritta: “Bombetta consunta, tight dalle spalle cadenti, calzoni a saltafosso sotto i quali sforano, per un lungo tratto, le calze rosse: era un abbigliamento che serviva a dare risalto alle disarticolazioni dell'attore, al cravattino messo in moto dalle contrazioni vorticose del suo pomo d'Adamo, alle portentose cadute che consentivano a Totò di piegare indietro e di risollevarsi senza aver mai toccato terra, alla mobilità del suo torace dei suoi occhi che improvvisamente sembravano schizzare dall'orbita, a quel collo di volatile che poteva allungarsi e accorciarsi a piacimento”.  

Si aggiunga, come tratto caratteristico, una appariscente asimmetria del volto, con il naso e il mento “dislocati” a destra, e ancora il piede spesso rampante a terra, ed ecco, tutto intero, il grande Burattino.

Ma Totò non si esprimeva solo con la mimica. Burattino sì, ma parlante, fu attore nel senso pieno del termine, anche se le battute che doveva recitare erano soltanto quelle, modeste, del varietà e della rivista. Ma era proprio di un teatro come questo che aveva bisogno Lui: attore capace delle più folgoranti e irresistibili invenzioni comiche sul filo di una comunicazione con il pubblico che aveva qualcosa di elettrico o di magnetico. Totò dunque era un attore abituato, all'improvvisazione, anche se non sempre, almeno all'elasticità di un canovaccio sempre disponibile. Quando era in teatro non si poteva fare a meno di non andarci tutte le sere poiché la sua interpretazione era mutevole come la faccia e il corpo. Ogni sera era uno spettacolo nuovo, a sé e irripetibile.

Anche la lingua usata da Totò rispondeva a tali predisposizioni e abitudini. “Probabilmente - disse un etimologo come Pier Paolo Pasolini - Totò decise di non essere un attore dialettale strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di mimesi del dialetto o del modo di parlare del meridionale emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua burocratica, di lingua militaresca, dei vari gerghi del parlare comune”.

Ed ecco, infatti, le sue celebri battute, sempre attese, sempre ripetute, e sempre oggetto d'ilarità: “A prescindere”, “Sono uomo di mondo”, “Apoteosi”, “Lei non sa chi sono io”. “Siamo uomini o caporali?”.

Mattatore della rivista

Anche con i luoghi comuni, le frasi fatte, le idee ricevute, Totò rifiniva quell'atteggiamento ironico e beffardo che lo portava a ribaltare nella mimica più esasperata la reazione alle abitudini di ogni giorno, agli imperativi delle regole, alle convenzioni di ogni tipo, a ogni sorta d'ipocrisia, d'ingiustizia e di mortificazione. Ma è dubbio che questi concetti fossero afferrati dai grandi pubblici popolari dai quali ottenne un successo rapido e crescente, passando in pochi anni dalle prime macchiette e imitazioni presentate a Napoli (verso il 1920) ai saloni romani del varietà e infine ai palcoscenici del teatro di rivista, tanto da trovarsi già nel 1926 accanto ad una soubrette come Isa Bluette nella Compagnia Maresca n. 2 e da farsi capocomico nel 1933, cominciando a girare l'Italia con proprie formazioni. Ebbe spalle fedeli e intelligenti quali Eduardo Passarelli e Mario Castellani, mentre le attrazioni femminili si chiamavano di volta in volta Adriana Edelweiss, Gioconda Da Vinci, Clary Sand e Clely Fiamma.

    La qualità delle rappresentazioni era quella che era, e Totò non mancava certo di concedere, fra un guizzo e l’altro del suo ingegno, anche i lazzi più facili. Da ogni volgarità e da ogni indulgenza sapeva del resto sempre riscattarsi, soprattutto in un suo celebre finale, quando “si metteva a fare il pupazzo, attraversava e riattraversava il palcoscenico al ritmo della fanfara dei bersaglieri, bersagliere e fanfara lui stesso, dirigeva l'orchestra con strepitosa furia o svagato puntiglio e intimava la chiusura del sipario dopo avere imitato con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo l'esplodere di fuochi pirotecnici in un oscuro cielo immaginario”.

    Totò, comunque, riuscì a ottenere grandi consensi anche dai pubblici più esigenti, e insieme a ricevere le prime serie attenzioni e anche gli elogi di una critica in precedenza distratta oppure ostile, quando iniziò la sua collaborazione con Michele Galdieri, abile autore di tutte le riviste interpretate da Totò (ad eccezione di “Ma se ci toccano nel nostro debole...”, di Nelli, Mangini, Garinei e Giovannini) riviste che tenne in scena fino al 1949 e nelle quali ebbe come partner Anna Magnani: “Quando meno te l'aspetti”, “Volumineide”, “Orlando curioso”, “Che ti sei messo in testa”, “Con un palmo di naso”, “C'era una volta il mondo”, “Bada che ti mangio”.

    Al teatro, poi, Totò sarebbe tornato una volta sola, nel 1956, con la rivista “A prescindere” di Nelli e Mangini, e fu l'addio alle scene di un attore che da qualche tempo aveva iniziato una stagione cinematografica molto intensa.

Alla conquista degli schermi

Già dal 1937 Totò era apparso sullo schermo in Fermo con le mani! e nel 1939 era stato protagonista del film Animali pazzi, diretto da Carlo  Ludovico Bragaglia, per questo Achille Campanile aveva scritto un soggetto sulla misura più fantastica e surreale di cui era capace l'attore, una misura apprezzata anche da Cesare Zavattini che nel 1940 offriva a Totò e al regista Amleto Palermi la sceneggiatura di San Giovanni decollato, tratta dall'omonima commedia di Nino Martoglio.

In quest’occasione l’attore appare come frenato dall'ombra del grande Angelo Musco, da poco scomparso, che aveva portato trionfalmente sulla scena la stessa commedia. Più riconoscibile nella sua autentica natura e nella più spontanea effervescenza apparve nell'Allegro fantasma del 1941, in Due cuori fra le belve del 1943, nel Ratto delle Sabine del 1945 e nei Due orfanelli del ’47, dove ebbe al fianco nientedimeno che Carlo Campanini.

Alla fine degli Anni Quaranta il successo cinematografico di Totò esplode in maniera tale da travolgere l'attore in un'attività continua, spesso frenetica, richiesta da una serie vertiginosa di film e filmetti (alla fine saranno più di 100) che i produttori a gara gli vanno allestendo senza sosta, al ritmo inaudito di 6 -7 pellicole l'anno. Sono cifre che aiutano a capire come si tratti per lo più di povere cose, di farse volgari, rozze di struttura e tirate via da registi corrivi quali, fra gli altri, Mario Mattoli, Camilo Mastrocinque, Sergio Corbucci, Mario Amendola e Steno.

   Si ripeteva nel cinema la stessa situazione che Totò aveva prediletto in teatro: si racconta che molto spesso l'attore improvvisava anche davanti alla macchina da presa, magari tenendo in pugno la durata e l'efficacia di una sequenza diversamente preparata o addirittura inesistente sul copione. Ed è grazie a ciò che anche nelle pellicole più scadenti si colgono sempre momenti di un umorismo estroso e che, fra lazzi più facili o risaputi, si accendono di colpo i bagliori delle invenzioni più folli, gli scatti imprevisti di un assurdo che riflette, deforma e sbeffeggia la realtà, sia della vita, della politica e del costume: Totò al Giro d'Italia (1948), Totò cerca casa (1949), Totò cerca moglie (1950), Totò cerca pace (1954), Tempi nostri (1954), Totò a Parigi (1958), Totò nella luna (1958), Totò e Poppino divisi a Berlino (1962); sia quella fittizia, stereotipata, dei successi di moda e dei miti creati dal cinema e in genere dai mass-media: Fifa e arena (1948), Totò le Mokò (1949), Totò sceicco (1950), Totòtarzan (1950), Totò terzo uomo (1951), Totò lascia o raddoppia? (1956), Totò e Marcellino (1958), Totò, Poppino e la dolce vita (1961), Totò e Cleopatra (1963).

L'anima napoletana di Totò

E’ anche vero che il cinema offrì a Totò le occasioni di sfumare, di rendere più sottilmente duttile la sua maschera, adattandola a diversi contesti poetici e umani. Fu così che sullo schermo si ritrovò attore veramente napoletano interpretando tre film, Un turco napoletano (1953), Miseria e nobiltà (1954), Il medico dei pazzi (1954), tratti da commedie di Eduardo Scarpetta. Però il suo incontro con Don Felice Sciosciammocca, il grande personaggio scarpettiano, non avvenne sui binari di una comicità tradizionale. Al contrario, come fu scritto, “Totò dava a Don Felice una carica particolare, fatta di tic nuovi, di ammiccamenti più maliziosi, di famelicità più aggressiva e spericolata. La fame, motivo costante, indistruttibile, del teatro napoletano, viene espressa da Totò con balenante spavalderia, senza la minima ombra di autocommiserazione”.

Interamente napoletano, sempre a suo modo. Totò fu anche in Napoli milionario (1950) di Eduardo De Filippo e in “L’Oro di Napoli" (1954) di De Sica dove, fra i diversi personaggi e tipi ideati da Giuseppe Marotta, ritagliò da par suo, con tratti memorabili, lo schizzo eccentrico di “o pazzariello”. E si tocca così il capitolo più nobile del cinema di Totò, quello in cui si possono raccogliere i non molti film in cui l'attore si trovò a collaborare con registi seriamente impegnati, sia pure a diversi livelli: Rossellini in Dov'è la libertà? (1953), Franciolini in Racconti romani (1955), da Moravia, Bolognini in Arrangiatevi!(1959), Lattuada nella Mandragola (1965), Monicelli in Guardie e ladri (1951) in collaborazione con Steno, in Totò e Carolina (1955), nei Soliti ignoti (1958), in Risate di gioia (1960) e finalmente Pier Paolo Pasolini in Uccellacci e uccellini (1966), anziché con i soliti mestieranti sbrigativi.

Quasi sempre, però, nell'incontro con autori che certo non si mettevano al suo servizio e si preoccupavano soprattutto di girare il loro film, Totò parve in disparte, con una presenza viva e a volte mirabile, ma in qualche modo un po' isolata nel suo personale ritaglio. Fanno eccezione Guardie e ladri, grazie anche al contributo inventivo di scrittori come Brancati e Flajano, dove l'attore non potrebbe meglio risaltare nei panni di un estroso e amenissimo mariuolo (con Fabrizi ottimo antagonista come brigadiere), e soprattutto / soliti ignoti, forse il capolavoro in assoluto del cinema comico italiano, dove Totò ha uno spicco particolare, accanto a Gassman, a Mastroianni e a Memmo Carotenuto, nella banda sgangherata che esce clamorosamente sconfitta dall'incauta e spropositata impresa di compiere un colpo grosso.

Le singolari incarnazioni pasoliniane

    In Uccellacci e uccellini la genialità dell'attore si è invece sposata compiutamente con quella del regista-autore. Pasolini ha infatti chiesto a Totò di spogliarsi di ogni sovrastruttura piccolo-borghese e di restituirsi, da una parte, alla sua matrice più popolare, proletaria o sottoproletaria e, dall'altra, alle sue più pure disposizioni di burattino fantastico e snodato, capace del più stupefacente mimetismo. E l'attore si prestò stupendamente a raffigurare il simbolo dell'uomo più semplice e più umile che cammina e cammina, nello spazio dei poveri e degli emarginati, insieme con il figlio, interpretato da Ninetto Davoli, alla ricerca di un'autentica verità, e che tanto rifiuta le petulanti «lezioni» di un corvo parlante (simbolo a sua volta di un intellettualismo saccente, arido e vacuo) da finire con il mangiarselo, quell'uccellaccio nero e insopportabile. Il film, e con lui Totò, raggiunge la sua più bella fantasia, e la più lirica tensione è in una lunga parentesi nella favola di due fraticelli seguaci di San Francesco in cui padre e figlio si immedesimano. Totò diventa così un frate Cirillo che si propone di predicare il messaggio d'amore evangelico fra gli uccelli e che tanto appassionatamente si vota a questa missione da riuscire a comunicare prima con i falchi, dei quali apprende a ripetere le strida, e quindi con i piccoli passeri, una volta compreso che, per avvicinarli, non basta imitarne il cinguettio ma bisogna saltellare lieti e leggeri a loro guisa. Così Totò, in una sorta di finale sublimazione (si può considerare Uccellacci e uccellini come il suo vero congedo, non essendone l'episodio successivamente interpretato nelle Streghe altro che uno sbiadito e un po' confuso ricalco) quando mancava poco più di un anno alla sua morte, avvenuta a Roma il 15 aprile 1967, è rimasto come fissato nell'atto di un balletto lieve, ilare, buffo ma anche struggente, intento a ripetere il linguaggio delle più miti e fragili creature. La misura della grande comicità è del resto assai prossima a quella dell'innocenza.

Il  Poeta viene fuori

     Come Poeta, Totò è ricordato più per le poesie e canzoni più popolari «Malafemmena» e «’A livella», che non per quelle poesie di alto lignaggio, cioè con la P maiuscola, che ha diviso in poesia di «Umanità» cui fanno parte ‘A livella, Ricunuscenza, ‘A mundana e Dick. Tra queste spicca per contenuto poetico e trasfigurazione della vita reale in Arte «’A mondana», dove narra la storia tragica di una donna che per fame è costretta a prostituirsi e per farlo giunge a Napoli da Afragola, in autostop, altrimenti « ‘o pate, ciunco… ‘into a ‘nu lietto/ senza lenzole, cu ‘na cupertella./ E ‘a mamma ca campava pe’ dispetto/ d’ ‘a morte e d’ ‘a miseria. Puverella», morirebbero di fame. Anche il linguaggio non è più l’idioma di Eduardo, quello di Di Giacomo è ormai sorpassato, ma il linguaggio del popolo che deve capire appena letto e non essere costretto a prendere il vocabolario per sapere il significato di una parola. «’A mondana», ho detto, è una lirica per tutti e la chiusura è tanto tragica quanto più alto è il senso poetico trasfigurato in Arte «V’ ‘a mettisseve ‘into ‘a casa vosta/ chi pe’ disgrazia ha avuto fa’ ‘a puttana?»

   Un’altra lirica che merita il medesimo posto tra le grandi opere è «Sarchiapone e Ludovico» , dove affronta il problema della vecchiaia in forma metaforica e la tragicità del finale fa lacrimare il cuore, non per la morte di Sarchiapone, «che chiude ll’uocchie e se jetta abbiscio» ma per la dolcezza lirica che eleva la storia stessa alle alte vette della poesia. Tra le pause dei puntini sospensivi è tutta la disperazione del Poeta per la impossibilità di fermare il tempo.

  Afferma Carlo Nazzaro  nella presentazione alla raccolta che porta il titolo della poesia più celebre «’A livella» «… le poesie di Totò sono corollari ed effusioni di infinite malinconie e nostalgie e tenerezze e ironie che l’esigenza del palcoscenico sopprime e la telecamera crudamente recide».

Alla domanda, che pizzica di provocazione, fatta da Xavier Wheel "A livella" può essere davvero definita a tutti gli effetti vera ed autentica Poesia, e Totò, si può considerare a tutti gli effetti un vero Poeta?

Totò è il Poeta della leggiadria, a volte drammatica altre tragica, nelle poesie meno conosciute o sconosciute del tutto. Prendiamo il viaggio dalla seconda lirica della raccolta «Ricunuscenza», che narra una storia onirica, che ad un certo punto raggiunge le alte vette del lirismo puro:

«Lassame! – lle dicete – o vvì ca i moro? –

E chianu chiano mme mancava ‘a forza,

‘o core mme sbatteva… ll’uocchie ‘a fore,

mentre ‘o serpente cchiù stregneva ‘ a morza!»

«’A Mundana» , cui ho accennato più su; «Dick» vedete la tenerezza poetica che trasfigura in Poesia pura i sentimenti di un cane:

«Povero Dick, soffre ‘e che manera!

Porta pur’isso mpietto stu dulore:

è cane, sì… ma tene pure ‘o core

e ‘o sango dinto ‘e vvene… vo’ ‘a mgliera…»

Seguono le poesie dedicate a Napoli che sono frizzanti di dolcezza e di malinconia insieme, per il canto poetico passato cui hanno dato voce Bovio, Taglieferri, Di Giacomo, Valente…

La classica ciliegina sulla torta sono le brevi poesie d’amore, dove il sentimento espresso non è amore individuale, ma si universalizza con una naturalezza inattesa, proprio perché, Totò sa giocare con l’ironia, anche se amara, anche se dolce, anche se sentimentale. Esse hanno titoli emblematici e si raffigurano in ciò di cui parlano: «Si fosse n’auciello», «Balcune e lloggie», «Ll’ammore», ecc…  

 

Reno Bromuro

Se anche voi amate il Principe Antonio De Curtis in arte Toto', visitate questo bellissimo sito a lui dedicato:

http://www.antoniodecurtis.com 

potrete così leggere o ascoltare, le sue bellissime Poesie


 

Per informazioni

Scrivete a Guido Ferranova E-mail:

guidoferranova@tiscalinet.it