ADDIO ALLA VOCE PIU' PURA E VERGINE DELLA CANZONE NAPOLETANA

SERGIO BRUNI O L'UOMO DELLA VOLONTA'

di Reno Bromuro

  

Al mio fraterno amico
Sergio Bruni

 

‘A ggente saie che dice?

Ca tu si ‘a voce ‘e Papule

E sa’ che dice pure?

Ca Napule songh’io

Si ti si’ ‘a voce ‘e Napoli,

e Napule songh’io;

chesto che vene a dicere?

Ca tu si’ ‘a voce mia!

               Eduardo De Filippo

 

Sergio Bruni, al secolo Guglielmo Chianese, era nato a Villaricca (un borgo a nove chilometri dalla città e solo tre da Capodimonte) il 15 settembre 1921 da Gennaro e Michela Percacciuolo. La sua è una famiglia poverissima e il piccolo Guglielmo, come racconterà lui stesso nel suo libro «Scontri e Incontri», è costretto a lasciare la scuola a metà della terza elementare perché non ha i libri e ha perso una scarpa dell’unico vecchio paio che possedeva. Mi raccontava mio suocero, fratello del suo amico d’infanzia, ch’era un discoletto simpaticissimo, quando ne combinava una delle sue lui nel richiamare il fratellino, richiamava anche lui e questi, prima fingeva di aver paura poi gli spalancava gli occhioni in faccia e iniziava a cantare e lui, mio suocero si sentiva portato in Paradiso da quella voce d’angelo e gli offriva una caramella. Aveva a cuore quel  ragazzo sempre per strada, tanto che, d’accordo con il padre di Guglielmo decisero, visto che quel benedetto ragazzino non andava neppure più a scuola, di iscriverlo alla scuola di musica dalla quale sarebbero usciti i musicisti della banda di Villaricca. Lui avrebbe voluto imparare a suonare la tromba (il flicorno in si bemolle) perché gli avrebbe permesso di fare bella figura quando avrebbero suonato l’Aida e lui avrebbe intonato la marcia trionfale. Invece il Maestro di musica lo convinse che il clarinetto gli avrebbe dato maggiori soddisfazioni: capitolò ed imparò a suonarlo. Sempre dai racconti di mio suocero, sembra che aveva le mani così piccole che le dita non riuscivano a coprire i buchi e toccare le chiavi del clarinetto e Guglielmo per non farlo fischiare, appoggiava la campana sulla sponda del letto, copriva per bene tutti i buchi che avrebbero potuto far fischiare lo strumento e iniziava a fare le solite scale per dare alle dita la mobilità necessaria per i passaggi da una nota all’altra; ma, come si accorgeva di essere rimasto solo, invece di fare gli esercizi che avrebbe dovuto tentava di suonare le canzoni che più gli piacevano.

A diciassette anni si trasferisce con la famiglia al limitrofo Chiamano, ma Guglielmo, vuoi per stare vicino all’amico d’infanzia, vuoi per qualche fiamma dei primi corteggiamenti, tutte le sere era a Villaricca; ma i suoi amici non erano più gli stessi della fanciullezza, cercava gli studenti convinto che da loro avrebbe potuto sapere quelle cose, che non era riuscito ad apprendere per aver disertato la scuola alla terza elementare; ricambiando le loro lezioni con il canto.

Siamo nel 1943, durante la disfatta dell’otto settembre, si trovava in licenza, era in forza al Novantunesimo reggimento fanteria d’istanza a Torino. A Napoli le voci corrono e raggiungono il popolo attraverso il canto, quindi non fu difficile a Guglielmo sapere che si combatteva per Mater Dei, per i Quartieri, per Piazza Carità: Napoli insorgeva contro i nazisti e Guglielmo forma un gruppo di una decina di giovani come lui, si procura le armi necessarie e il 29 settembre riescono togliere le mine, poste dai tedeschi, dal ponte di Chiamano. Erano sulla strada del ritorno a casa quando s’imbatterono in una pattuglia tedesca, ci fu uno scontro a fuoco e lui fu ferito gravemente. I compagni afferrano una «carrettella» e corrono al 23 marzo, non molto distante. La tempestività dei commilitoni, compagni di giochi e di bagordi giovanili, gli salva la vita.

Qui subentra un racconto di mio padre, che somiglia ad una favola, tanto pare inverosimile. Le pallottole ricevute non avevano colpito solo la gamba, ma sembra (sempre come mi ha raccontato mio padre, era militare in forza alla Croce Rossa e prestava servizio al 23 marzo) che, una pallottola avesse colpito anche la punta della lingua e il labbro superiore. Dopo mesi di degenza, aveva cominciato ad alzarsi e faceva il filo ad un’infermiera. Un giorno questa, che gli era stata sempre accanto notte e giorno, si aggirava per la stanza ma non lo filava, allora lui iniziò a cantare «’O Marenariello», dopo qualche minuto tutto il personale e i degenti autonomi erano fuori la stanza dove alloggiava lui.

Sembra che un medico dicesse di non aver mai sentito cantare le canzoni napoletane con una dizione così chiara e una passione indescrivibile.

Quando fu dimesso dall’ospedale lo convinsero a iscriversi e frequentare la scuola di canto del Maestro Gaetano Lama e del cantante Vittorio Parisi; ed è proprio Vittorio Parisi che qualche mese più tardi, il 14 maggio 1944, lo presentò ufficialmente al pubblico che affollava il Teatro Reale di Napoli. Ottenne un grande successo, però il giorno dopo l’impresario rifiutò di farlo cantare per non disturbare i suoi «artisti scritturati».

Guglielmo che non conosce altri lavori, vive momenti difficili e comincia a frequentare la Galleria in cerca di qualche piccola scrittura che non arriverà quasi mai.

L’anno dopo, però arriva al mondo della canzone entrando dalla porta principale, ha partecipato ad un concorso per voci nuove indetto dalla RAI, la finale si svolge il 21 ottobre 1945 al Teatro delle Palme di Napoli, e Sergio Bruni (nome d’arte che gli imporrà il maestro Campese) si classifica al primo posto con 298 voti contro i 43 del secondo classificato. La vittoria gli frutta un premio in denaro e un contratto con Radio Napoli.

Iniziano lunghe prove di dizione e di canto con il maestro Campese, che dirigeva allora l’orchestra stabile della Radio di Napoli, che gli suggerisce di imporsi il nome d’arte in Sergio Bruni, per evitare confusione con un altro cantante che si chiamava Vittorio Chianese.

Il 1948 è per il cantante un anno cruciale per la sua vita e la sua carriera. Il 14 febbraio si sposa con Maria Cerulli che sarà la sua «paziente» compagna per tutta la vita e con la quale metterà al mondo quattro figlie. Nello stesso anno incide per La Voce del Padrone, il suo primo disco che, con il successo di vendita ottenuto gli consente di rimanervi per oltre vent’anni. Inizia la scalata, senza cordata, dopo aver cantato alla Piedigrotta del 1949 è un susseguirsi di successi:  «Vocca ‘e rose» di Mallozzi – Rendine;  «Surriento d’’e nnammurate» di Bonagura – Benedetto; «‘A rossa» e « ‘O rammariello» di L. Cioffi e G. Cioffi; «‘A luciana» e «Chitarrella chitarrè» di L. Cioffi e G. Cioffi; «Vienetenne a Postano» di Bonagura – De Angelis e «Piscaturella» di Pisano – Alfieri .

Con questi successi Sergio Bruni impone, con fermezza e determinazione, il suo stile interpretativo sempre più personale e inconfondibile che gli procurerà grandi consensi, che lo accompagneranno per tutta la carriera.

Ricordo che andando in auto con il Professore Mormorale, il quale aveva scritto la prefazione e fatto pubblicare a sue spese, la mia prima raccolta di Poesie «Note e Motivi» si parlò di canzoni e di cantanti, optavo per Roberto Murolo e lui aggiunse: «non ho nulla nei confronti del bravissimo Murolo, ma per cantare come Sergio Bruni, ci vuole solo un altro Sergio Bruni. Ricordalo, Sergio Bruni è U-Enne-I-Ci-O UNICO.

Era il 1955. Nei primi giorni di settembre riuscii, tramite il fratello di mio suocero (il suo compagni di giochi) ad avere un abboccamento. Mi aprì la porta l’Angelo della casa, che sorridente, e con una gentilezza materna m’invitò ad accomodarmi in salotto e attendere qualche minuto perché il marito si era dimenticato dell’appuntamento e stava facendo la doccia. Quando me lo vidi davanti e mi strinse la mano ebbi la sensazione (al pensiero ce l’ho ancora) di trovarmi di fronte ad un essere di un altro mondo. Questo momento mi seguì negli anni a venire: quella figura e quella sensazione non mi abbandonavano, finché dopo tredici anni scrissi un dramma i cui protagonisti erano persone di un altro mondo, scoperto da Ernesto Cortese nel 1936. Dicevo che ebbi  la sensazione di trovarmi di fronte ad un essere di un altro mondo e così fu. Gli offrii il mio libro di poesie, ancora fresco di stampa, ne lesse qualcuna in religioso silenzio, poi chiuse il libro e disse che la mia poesia era introspettiva, lui credeva che non sarei mai riuscito a scrivere i versi per una canzone. Mi ringraziò per l’offerta del libro e per la dedica e mi congedò togliendomi ogni speranza, ma io non ero andato da lui perché avevo intenzioni di scrivere versi per canzoni, ma non glielo dissi, nemmeno quando il settembre successivo lo incontrai alla festa di San Rocco a Villaricca,parlammo della vita, dei problemi dei figli, dell’incognita del futuro, ma non di poesia o di canzoni.

Era una persona difficile, se volava una mosca si rifiutava di cantare. Ad una festa di piazza in via Stadera a Poggioreale, quando toccò a lui, il pubblico non smetteva di applaudire, fece un cenno con la mano e disse: «si nun ve state zitti nun canto!», gli applausi aumentarono, lui scesa dal palco e si allontanò in macchina.

Tuttavia, ad alcuni amici che lo invitano ad esprimere il suo disaccordo attraverso il giornale, affermava orgogliosamente che lui le risposte le dava con la musica.

Dal 1960 al 1970 viene preso da una improvvisa passione per la pittura e, da autodidatta, come ha fatto con tutte le cose che ha voluto sapere, sia musica, sia storia o letteratura, prende i pennelli e diventa pittore, tiene anche alcune mostre a Napoli e a Roma.

Il comune di Napoli organizza nel 1996 una sua mostra antologica nelle sale del Maschio Angioino. Scrive un libro di ricordi autobiografici, arricchito di poesie in dialetto napoletano, lo intitola «Scontri e incontri» e lo pubblica per i tipi della Tommaso Marotta editore.

«Un pensiero al giorno» è pubblicato l’anno successivo dalla Blado editore, un libro che  testimonia il cammino percorso dal ragazzino semianalfabeta di Villaricca.

Reno Bromuro

 

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