SVEVO, NOI E IL SENSO DELLO SCRIVERE
Di Marina Torossi Teveni
Scriviamo per compensarci della vita, di quello che la vita non ci ha dato, di quello che ci ha dato ma abbiamo perduto, oppure per prolungarla idealmente, per creare una specie di magica protesi di noi che ci proietti al di là dello spazio e del tempo?
Se
percorriamo le idee che improntano le opere dei maggiori autori del Novecento
troviamo prevalentemente, almeno a livello teorico, un'idea riduttiva e
negativa della scrittura. Si scrive perchè non si sa vivere. La scrittura
sarebbe una specie di surrogato della vita. Una brutta copia scipita,
scolorita della realtà, da cui, altri, gli altri, pescano a grandi mani.
Svevo,
ad esempio, a livello teorico condanna la letteratura come un
"vizio", sintomo di inettitudine e di malattia in una società sana
perchè produttiva, chiedendosi provocatoriamente
che posto possa avere la letteratura in una società capitalistica in cui il
potere economico ha soppiantato ogni altro valore, in cui cresce sempre di più
la divaricazione tra realtà e apparenza, tra essere e avere. Eppure, anche
dopo gli insuccessi dei suoi primi romanzi, continua imperterrito a scrivere,
anzi fa di un fittissimo epistolario, che costituisce in un certo senso un
surrogato per chi si è negato qualcosa che pure per natura gli è vitale, un
involontario banco di prova per una ridifinizione del rapporto vita-
letteratura, preparandosi quasi alla stesura di quella "autobiografia che
non è la sua" in cui, in un gioco di specchi, il personaggio-scrittore
compone e scompone l'esistenza ricreando
il passato alla luce delle esperienze successive con la fluidità che la
parola possiede e la sua capacità di dire e nel contempo di non dire, di
affermare ma anche di insinuare dubbi sulla veridicità di quanto affermato.
L'identità
si conquista dunque nella scrittura che conserva la memoria del passato, fissa
il presente e accoglie le fantasticherie del futuro. Grazie alla scrittura ci
si dona l'illusione di scampare alla condanna del non più essere, ci si salva
investendosi nel ruolo di personaggio principale del racconto della propria
vita "un racconto a finale aperto, mai concluso mai definitivo". La
fatica letteraria quindi sottrae al caos della realtà la propria esistenza e
in quest'operazione scrittura privata, scrittura epistolare e scrittura
letteraria si fondono. La letteratura corregge il reale come il ricordo
corregge il passato ricomponendo gli avvenimenti, sempre grezzi, stonati e
disordinati, in una superiore armonia che sfugge nell'atto e nel momento. La
macchina disorganizzata della vita può ricomporsi solo attraverso la
scrittura. I fatti in sé hanno così poca importanza che transiterebbero
meccanicamente nella perfetta indifferenza nella vita dello scrittore per
avviarsi all'oblio più assoluto se non intervenisse la scrittura a
letteraturizzarli. Da queste considerazioni viene paradossalmente sovvertita
da Svevo l’impostazione iniziale di critica nei confronti della letteratura.
Da surrogato della vita quindi a mezzo d'elezione per superare i confini
angusti dell'esistenza, i limiti dello spazio e del tempo.
E'
personale convinzione di chi scrive che la letteratura dovrebbe abbandonare le
posizioni rinunciatarie e nichiliste che hanno connotato tanta cultura del
secolo scorso e aprirsi a prospettive più costruttive e, se mi si consente la
parola, che ai nostri giorni ha il sapore dell'eresia, ottimiste. Basta con
l'infelicità, l'impotenza, tutta la gamma di frustrazioni insoddisfatte che
grondano dalle opere che, a valanga, ci sommergono. La letteratura non
dovrebbe nascere dal non aver vissuto ma dal voler ridelineare (sarà
presunzione?) la vita secondo le idee di chi scrive. Concorderei con Svevo
nell’affermazione che solo la letteratura può correggere la vita,
può riplasmare "l'orrida vita vera", ha quindi una funzione
compensativa, niente affatto trascurabile che si giustifica e si scagiona da sé,
rendendo in definitiva paradossalmente superiore la dimensione contemplativa.
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