REFERENDUM UN'0CCASIONE A SINISTRA

Di Giovanni Palombarini (Il Manifesto)

 

Anche se i grandi mezzi di comunicazione lo stanno oscurando, il voto per l'estensione dell'articolo 18 alle piccole imprese è un appuntamento cruciale. Una delle rare occasioni che abbiamo per estendere i diritti. Dopo l'anno dei movimenti in difesa delle conquiste, il referendum può rilanciare quelle energie in sintonia conle trasformazioni sociali. Sarebbe incomprensibile a tutti se la sinistra e la Cgil non sostenessero la campagna per il «sì». 

La notizia riportata dai quotidiani negli ultimi giorni è netta: l'80% dei cittadini italiani ignora l'esistenza del referendum per l'estensione delle previsioni dell'art. 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori alle aziende con meno di 16 dipendenti. E' un dato inquietante, che certamente ripropone la questione dello stato dell'informazione nel nostro paese, ma che intanto sollecita l'immediata attenzione di tutti i democratici su un quesito preciso: un'iniziativa che ha a che fare con l'estensione dei diritti di chi lavora può fallire perché i media hanno fin qui mantenuto un sostanziale silenzio sui suoi contenuti e sulle sue ragioni? La scadenza del voto si avvicina e il rischio del non raggiungimento del quorum può essere scongiurato solo se tutti coloro, comunque organizzati, che in questi ultimi mesi si sono mobilitati per la difesa e l'estensione dei diritti, comprese le diverse espressioni della cultura giuridica, sapranno cogliere gli aspetti positivi del referendum. Certo, sono state e sono tante le critiche, le perplessità, e comunque le prese di distanza in vari settori. E però, dopo la decisione della corte costituzionale ammissiva del referendum, è necessario ragionare non solo e non tanto per verificare la fondatezza di queste censure, ma soprattutto per capire cosa conviene fare oggi. Un'analisi spassionata dovrebbe consentire di superare ogni dubbio. 1. Intanto, una prima considerazione già da sola decisiva, che fa riferimento al quadro complessivo del diritto del lavoro, alla tendenza in atto ormai da anni, e alla situazione politica e sociale di oggi. Ebbene, non si ricordano molte iniziative proposte nel corso degli ultimi anni di segno positivo - esterne cioè a una logica puramente difensiva o addirittura di adeguamento a una tendenza neoliberista - per l'affermazione o l'estensione dei diritti, nonostante che nel periodo si siano succeduti governi di tipo diverso. Certo, il 2002 verrà ricordato anche per grandi battaglie, fra le quali la straordinaria mobilitazione in difesa dell'articolo 18: ma si è trattato appunto di una battaglia difensiva. E in positivo? Oggi, quanto a iniziative di segno costruttivo, cioè di avanzamento, è in campo questa iniziativa referendaria. E comunque: a prescindere da questa, quali iniziative fuori da una logica subalterna per la tutela del lavoro sono oggi concretamente possibili? E' vero che all'ordine del giorno c'è il problema della ristrutturazione in corso del mercato del lavoro, che è aperta la questione dei tanti lavori cosiddetti autonomi senza tutele, come sottolineano molti di coloro che criticano l'iniziativa referendaria; e però c'è anche la questione posta dai processi di automazione e dalla diffusione del decentramento produttivo, con il numero sempre crescente di imprese con meno di 16 dipendenti, ma di rilevante dimensione economica e di mercato. Di recente sono state diffuse alcune cifre, secondo le quali attualmente l'art. 18 si riferisce solo al 37% della forza lavoro. E allora, perché una sua estensione dovrebbe essere considerata marginale per effetto dell'innegabile importanza del dilagare dei lavori cosiddetti autonomi? Eppure, è irrisoria la tutela degli ormai numerosissimi lavoratori delle imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti, se è vero che in caso di licenziamento ingiustificato è possibile anche un risarcimento di due mensilità e mezzo della retribuzione, con tutto ciò che può conseguire a una simile situazione anche in termini di precarietà e di accentuazione della sottomissione per il timore del licenziamento. Qui siamo in presenza di posizioni soggettive deboli, in relazione alle quali è facile dire che la situazione può essere corretta con un significativo aumento del risarcimento per il licenziamento senza giusta causa (12 mensilità?). Rimane però il fatto che alle parole e anche ai progetti non si è dato alcun seguito in un recente passato, e che oggi è difficile vedere all'orizzonte concrete soluzioni di tipo legislativo. L'iniziativa referendaria ha una debolezza oggettiva, non c'è dubbio: è un'iniziativa isolata, che è impossibile inquadrare in una complessiva strategia alternativa delle forze di sinistra. Ma ciò dipende dal semplice motivo che oggi una strategia del genere purtroppo non esiste. Proprio a partire dall'articolo 18 una riflessione complessiva potrebbe finalmente aprirsi. Comunque rimane il fatto che si tratta di un tentativo di uscire dall'angolo, e già per questo merita di essere sostenuta.

 2. A questo proposito vanno fatte alcune realistiche osservazioni anche a proposito delle possibilità di resistere alle tendenze in atto. Intanto si ricomincia a parlare della modifica dell'articolo 18 dello statuto, nell'ultima versione contenuta nel «patto per l'Italia», evidentemente accantonata solo momentaneamente. Poi, non va dimenticato che sono in corso le procedure di attuazione delle indicazioni del cosiddetto libro bianco. Si va dal lavoro a chiamata al lavoro accessorio o occasionale, dalla possibilità di ripartire un lavoro fra due o più lavoratori per l'esecuzione di un'unica prestazione all'ampliamento del lavoro part time, con l'allargamento delle ipotesi di lavoro intermittente o a chiamata (con inevitabili gravi riflessi per il lavoro femminile, per il quale la determinazione dei tempi di lavoro è ovviamente funzionale all'impegno familiare). Tutto ciò si aggiungerà alle modifiche che sono intervenute nell'ultimo decennio. «Dalla volontà della legge alla legge della volontà», questo è lo slogan che ha già ispirato molti interventi legislativi. Così la legge n.196 del 1997, di disciplina del lavoro interinale, ha introdotto una sostanziosa deroga al divieto d'appalto di manodopera; con il decreto legislativo n.61 del 2000 è stata rimessa alla contrattazione collettiva la possibilità di consentire prestazioni lavorative part time con maggiore flessibilità rispetto ai limiti previsti dalla legge; con il decreto legislativo n.368 del 2000 si sono ampliati gli spazi del lavoro a termine. Insomma, da anni è in atto un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro del quale non si intravede la fine.

 Allora, come non vedere che questa iniziativa referendaria, se avesse successo, sarebbe un «contropiede» di grande efficacia rispetto alla tendenza, contro chi sia pure in modi diversi si è mosso e si muove in favore della adattabilità del lavoratore a qualsiasi situazione determinata per propria convenienza da chi opera esclusivamente, e del tutto liberamente, per il profitto? D'altra lato, va sottolineato che l'iniziativa referendaria propone una questione di principio. Si tratta di un diritto fondamentale oppure no? Se si, come in tanti anche fra i perplessi dicono, allora perché limitarlo alle aziende con più di 15 dipendenti nelle quali opera poco più di un terzo del lavoro subordinato?

 3. Quanto poi ai dubbi circa il possibile esito della consultazione, potrebbero davvero ridursi se solo si riflettesse un attimo sul fatto che dopo il successo elettorale della destra, quando avvilimento e rassegnazione erano diffusissimi, ben difficilmente erano prevedibili la misura straordinaria, e le convergenze, delle diverse mobilitazioni di questi ultimi mesi, da Genova in poi, diverse e dettate dal molteplici ragioni, ma che avevano in definitiva la tutela dei diritti fondamentali. Queste mobilitazioni ci sono state, e hanno avuto il loro peso. Dunque il «sì» può avere successo. Il problema è essenzialmente quello del conseguimento del quorum, per cui è necessario attivarsi subito per una diffusa sensibilizzazione al fine di togliere efficacia al silenzio delle televisioni.

 4. Vi è poi un'altra obiezione che circola, quella della divisione che il referendum determinerebbe o avrebbe già causato fra le forze di sinistra e quelle democratiche. Sul punto si possono proporre un quesito, con riferimento alle prime, e una considerazione, in relazione all'atteggiamento delle seconde.

 Intanto: quali sono le ragioni di una simile divisione? Una riflessione razionale dovrebbe indurre facilmente al loro superamento, se le cose stanno come si è detto. Insomma, chi si divide, e da chi, e per che cosa? Forse pesa ancora il fatto che fra i promotori c'è Rc, che a suo tempo mise in crisi il governo Prodi? Le obiezioni, se potevano avere un valore prima, oggi, con l'iniziativa in campo, appaiono superate. Le scadenze di contrasto efficace ai disegni di radicale ridefinizione delle relazioni industriali dell'attuale governo non sono tante: questo solo dovrebbe interessare a chi si considera di sinistra.

 E poi. Certo, è esperienza di questi mesi, ogni battaglia per la difesa e l'estensione dei diritti avrà sempre bisogno dell'impegno forte del centro democratico. Ma anche questo problema, per la cui soluzione i promotori del referendum dovranno lavorare, va inquadrato nel comune interesse di un'opposizione radicale, su tutti i fronti, alla politica governativa. Questa, sulla vicenda della guerra come sulla questione dell'informazione, sulla giustizia come sull'articolo 18, non è stata messa in difficoltà dalle perplesse obiezioni di alcuni leader dell'Ulivo, ma da grandi mobilitazioni unitarie di massa. Come non trarre un insegnamento, anche da parte delle forze di centro, da queste vicende?

 Dunque, la scadenza elettorale si avvicina. Se il quorum non verrà raggiunto, le possibilità di difesa dei diritti di chi lavora (anche per coloro ai quali il referendum non si rivolge direttamente) si attenueranno. Per il successo è pertanto necessario l'impegno di tutte le forze democratiche.

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Giovanni Palombarini



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