PERCHE' NASCE UN LIBRO?
Di Marina Torossi Teveni
Difficile dire perché nasca un libro. Dietro c’è il bisogno di esprimere attraverso personaggi e vicende delle idee, di raccontare la propria visione della vita. Dietro c’è la volontà di lottare con la parola per piegarla ad alludere a quello che si sente.
Ma, a libro concluso, si fa strada anche la sensazione che non tutto quello che volevamo esprimere è stato detto, la percezione che, mentre scrivevamo, inevitabilmente cambiavamo e cambiava anche il mondo. Quello che avevamo scritto era solo una parte. Incompleta. Così, a grappoli, nascono le storie. E quella che segue vuole sempre completare e rettificare la precedente. Nuovi personaggi. Diversi, che non elidono i precedenti ma in qualche modo li integrano, li completano.
Scrivere è un’attività che non dà mai il senso dell’appagante completezza. A libro finito c’è sempre la voglia di ricominciare. Eppure si ha la certezza che il libro è finito. Che il discorso limitato e circoscritto è concluso.
Ma la vita e il nostro approccio alla vita, sempre vario e mutevole, presuppongono altre rielaborazioni. Altre riletture.
Perché la vita ha bisogno di rielaborazioni. Di riletture. La vita è occasione, scintilla. Ma è l'arte che la ridelinea, la ridefinisce. Nella vita c’è un che di arruffato che la parola pettina. (O arruffa ancora di più. Ma chiedendosi perlomeno il senso di quell'arruffare).
Sono e sarò sempre sostenitrice di un’arte che non sia mero compiacimento estetico, ma che affronti i nodi esistenziali, si confronti con quelli che sono gli eterni problemi dell’uomo. Non in forma sistematica ( non sarebbe la sede ) ma attraverso vicende e personaggi.
Spesso ho l’impressione che mie storie non sia io a scriverle ma che in un certo qual modo si scrivano da sole, mi percorrano, mi possiedano (con grande piacere da parte mia) e che io sia soltanto un tramite.
Quello
che scrivo mi rappresenta ma in modo non facilmente percepibile.
Bisognerebbe ridurre, graffiare, arrivare al nocciolo. Là sì, ci sono,
ma molto in fondo.
Questa
è la mia esperienza. Gli altri chissà da quali molle sono spinti. Non
so quanto si possano riconoscere nelle mie parole ( mi piacerebbe
saperlo). Certo che scrivere è per così dire un atto ( dissennato?)
d’amore (in fondo doniamo brandelli di noi che saranno capiti, non
capiti, deformati… come d’altronde avviene in ogni forma di
comunicazione) e anche un atto di presunzione: in fondo nel riscrivere la realtà
apportiamo le nostre correzioni (modifiche o integrazioni) nei confronti
di una realtà spesso alquanto discutibile.
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