L'AMBIGUO RAPPORTO DI HEIDEGGER CON IL PENSIERO POLITICO REAZIONARIO

Di Andrea Bertuccioli

    

Heidegger condivideva con il pensiero reazionario, in particolare con taluni esponenti della cosiddetta “rivoluzione conservatrice”, tutta una serie di atteggiamenti interpretativi, di approcci caratteristici nei confronti del mondo moderno e della civiltà industriale.

     Egli infatti rifiutava ogni forma di materialismo o di riduzionismo scientista che riteneva responsabile del declino della comunità, della disgregazione e frammentazione della vita urbana, di quell’atomismo individualistico che ha come conseguenza l’alienazione da ogni dimensione trascendente la singolarità. Heidegger inoltre, come altri, sottoponeva a severa critica gli ideali politici ed economici dell’illuminismo e aspirava in qualche modo a un nuovo ordine sociale, la cui instaurazione avrebbe potuto ricollocare la Germania nel solco della sua vocazione o destino originario. Taluni ideologi ritenevano che i problemi della Germania fossero iniziati nell’età dei lumi e vi si sarebbe potuto porre rimedio con un ritorno ad un assetto sociale preilluministico (Möller van der Bruck, Jünger, Spengler). Altri affermavano che la loro causa risiedeva nel fatto che la Germania era stata corrotta, contaminata dall’insinuarsi di ideali, di nozioni tipiche della civiltà romana, dalla commistione con la cultura latina (Niekisch, Schmitt).

     In questo caso si auspicava un ripresa della cultura e dei valori dell’epoca d’oro della grecità, i soli capaci di dare nuova linfa al “Geist” germanico.[1] Per quanto Heidegger condividesse questo rifiuto verso il mondo romano e l’ammirazione per la grecità, faceva iniziare l’epoca del declino dell’occidente, dell’oblio dell’essere con la metafisica greca, quale viene affermandosi nel pensiero post-socratico a partire da Platone, per culminare poi con Aristotele. Per Heidegger tale confronto (Auseinandersetzung) dei greci con l’essere dell’ente si è delineato nei termini di quella metafisica della rappresentazione (Vorstellung) la quale sta alla base della tecnica nel senso moderno. Heidegger dunque intendeva portare avanti non una ripresa della cultura e dei valori della Grecia classica, riadattandoli al contesto contemporaneo, ma un approccio del tutto originario, nuovo con l’essere dei greci che permettesse di coglierne l’inaudito nella storia della metafisica occidentale e che permettesse poi il superamento della metafisica tradizionale, giunta ormai nella fase culminante del suo sviluppo. E’ noto come tale pensiero del nuovo inizio e del superamento della metafisica abbia condotto Heidegger all’impegno politico diretto nel ’33, dunque ad una valutazione completamente inadeguata degli eventi, fenomeni politici del suo tempo.

     In questa ricerca dei segni di un’epoca nuova che concludesse, ponesse fini a tutti i sintomi di declino, di crisi profonda in cui la Germania, ma più in generale l’Europa, versava, Heidegger si servì di un vocabolario non diverso da quello usato da autori come Spengler, Jünger o Klages: “degenerazione”, “nichilismo”, “declino”, “martirio”, “rivelazione”, “rinnovamento”, “compimento” della missione storica salvifica della Germania.

     Se il vocabolario usato da Heidegger era per certi versi comune con quello degli autori citati, lo sfondo e la portata della sua analisi erano differenti. Infatti per Heidegger la crisi a cui la Germania si trovava a far fronte, affondava le sue radici non nella politica, ma nella metafisica. Occorreva risalire all’origine della comprensione occidentale dell’essere, per poter cogliere l’essenza reale di quel declino inesorabile che si manifesta ormai nei modi più radicali.

     Per poter meglio comprendere sia gli elementi comuni che le divergenze tra il pensiero di Heidegger e quello che possiamo definire il pensiero reazionario anti-moderno, è necessario tracciare un breve excursus, di alcuni dei suoi tratti caratteristici e in particolar modo fare riferimento a quel movimento antimoderno che va sotto il nome di Völkisch.

     Una delle tendenze ideologiche più significative, sorte come reazione alla modernità, in Germania fu infatti il movimento völkisch che fece la sua comparsa sul finire del secolo scorso. Gli autori, i protagonisti di tale movimento, mossi da un sentimento di ripugnanza nei confronti dello spirito egoistico, individualistico, commerciale, materiale della società e dell’economia moderna, proclamavano la necessità di una rinnovata comunione con le forze cosmiche naturali le quali, inaccessibili a una mente puramente razionale, avrebbero conferito nuovo slancio, vitalità, trasformato lo spirito tedesco ormai sempre di più inaridito dal processo di automazione e meccanizzazione del mondo industriale moderno.

     Secondo gli ideologi di tale movimento, queste forze erano all’opera nel linguaggio comune come nell’arte e nella musica, nelle tradizioni, nei costumi sociali, nella religione e soprattutto nel sangue e nel suolo (Blut und Boden) che costituivano il fondamento unitario di un certo popolo (Volk). Preso di per sé l’individuo non era nulla. Esso non poteva realizzare a pieno sé stesso solo preservando la forza vitale cosmica che permea lo spirito del Volk. In questo senso è indubbio che le tendenze di individualizzazione da un lato e spersonalizzazione (uomo-massa) dall’altro favorirono il sorgere del movimento völkisch.[2] L’ideologia völkisch si faceva portatrice dell’idea che la causa dello sradicamento, caratterizzante ormai la vita urbana, cittadina, riposasse nell’imperante razionalismo scientifico, nell’atomizzazione sociale e nella tecnologia industriale. Questi mali poi a loro volta, erano il prodotto delle idee del 1789, così come dello “spirito di Manchester” fra gli ideologi völksch.

     Accanto a nomi quali quelli di Paul de Lagarde, Julius Langbehn e Möller van den Bruck, spicca quello di Houston Stewart Chamberlain, autore di un libro che esercita, soprattutto in Germania una grande influenza sui circoli e movimenti antimodernisti, reazionari: “Lo spirito del XIX° secolo” (1899). In esso emergeva un atteggiamento tipico di certi settori della cultura tedesca rispetto alla storia recente dell’Occidente: “Verso la fine del XVIII secolo, ebbe luogo una grande trasformazione che verrà un giorno probabilmente riconosciuta come la catastrofe più terribile che abbia colpito l’umanità, al punto che c’è da chiedersi se la dignità dell’uomo possa ancora essere salvata. Parlo della meccanizzazione e della conseguente industrializzazione della vita”.[3]

     Molti altri esponenti del movimento völkisch, come i sopra menzionati Langbehn e Möller van den Bruck, si consideravano degli outsiders, al di fuori di quella che era la presunta “comunità tedesca”. Tale marginalità, solitudine veniva interpretata non come un fatto personale o psicologico, ma come un diffuso fenomeno culturale derivante dalla secolarizzazione, dalla civiltà industriale. Una volta constatata la perdita del divino o del sacro nella società, che echeggiava la nietzschiana morte di Dio, si trattava di compensarla attraverso la sacralizzazione, divinizzazione del Volk, facendone così la fonte di senso della vita stessa. Vi era la convinzione radicata che solo una energica rivitalizzazione e restaurazione del Volksgeist, dello spirito del popolo avrebbe potuto preservare la Germania dallo scivolamento nel nichilismo e reinstaurare la grandezza della nazione tedesca. Perciò era necessario l’impegno dei tedeschi, l’assoluta dedizione, anche in termini di sacrifici personali, alla reintroduzione di tali valori: un impegno per il bene comune e al coraggio marziale.

     Gli scrittori völkisch mostravano un particolare dispresso nei confronti del “Besitzburgertum”, la borghesia proprietaria, simbolo, emblema dell’attaccamento ai valori utilitaristici, commerciali antitetici alle virtù eroico-marziali che essi intendevano esaltare. Un esempio tipico di tale atteggiamento lo si ritrova nel poeta Stefan George il cui elitario, circolo di adepti, il Geroge-Kreis attrasse nel periodo anteguerra numerosi intellettuali, affascinati dal conservatorismo spiritualistico e dalle idee esoterico, mistiche sostenute da George. Secondo tali teorie le popolazioni contemporanee che si ritiene si siano liberate dai vincoli delle relazioni gerarchiche sussistenti all’interno della originaria comunità (Gemeinschaft), sarebbero in realtà cadute vittima delle relazioni economiche impersonali, illuse e ingannate dalle sirene dell’astratta società del commercio, del libero scambio (Gesellschaft). George pensava che la brama di denaro alla base della moderna mentalità degli affari, del business avesse trasformato qualunque cosa, fatto della vita in quantità, in unità calcolabili, assorbendo così il sostrato, la linfa vitale della popolazione e delle cose. Nel 1911 George così si esprimeva:

     “Dopo cinquant’anni di ininterrotto progresso, persino gli ultimi resti di ogni sostanza saranno scomparsi, se non viene al mondo null’altro che la macchia (Makel) del progresso, se attraverso commercio, giornali, scuole, fabbriche e baracche la contaminazione del progresso urbano si è spinta negli angoli più remoti del mondo, e il mondo è stato diabolicamente capovolto, il mondo dell’America, l’antimondo si sarà alla fine imposto”.[4]

     Non tutti ovviamente concordavano sul fatto che la brama di denaro era la forza animatrice di quello che, in un suo celebre libro, Oswald Spengler aveva chiamato il “Tramonto dell’Occidente” (1918-1920). Max Scheler per esempio sosteneva che, quelle che definiva le tendenze commercialistiche della unità moderna, fossero la funzione di una volontà ancora più fondamentale di acquisto, acquisizione, controllo.

     “L’economia capitalistica si basa sulla volontà di acquisizione infinita (come atto), non sulla volontà di acquisizione (come crescente possesso delle cose)”.[5]

     Questa volontà di acquisizione era un’altra espressione della “illimitata tendenza della borghesia cittadina a un sistematico, non solo occasionale controllo della natura e ad un’infinita accumulazione e capitalizzazione di conoscenza al fine di poter controllare la natura e l’anima”.[6]

     Come Scheler e Spengler, l’economista Werner Sombart cercò di trovare un’alternativa all’interpretazione economica di Marx della storia occidentale. Mentre Marx affermava che l’attività economica rappresentava la base, il fondamento per lo sviluppo della “sovrastruttura culturale, gli esponenti dell’area conservatrice speravano di poter mostrare che vi era un altro fondamento oltre quello economico, il quale però non si poteva individuare, cogliere tramite le analisi della razionalità calcolante.

     Costoro non accettavano né il collettivismo comunista né l’individualismo liberale, considerati entrambi espressione ossequiose del razionalismo illuministico. In reazione al clamore suscitato dei propositi di rivoluzione comunista da un lato, e agli altrettanto insistenti annunci di una rivoluzione liberale, modernizzatrice, gli intellettuali conservatori e reazionari dell’anteguerra, iniziarono una campagna in favore di quella che sarebbe poi stata denominata la “rivoluzione conservatrice”.

     E’ stata da più parti notato come le differenti ideologie della rivoluzione conservatrice si facevano promotrici di una visione, di un progetto di “redenzione” o “riscatto” nazionale che nasceva da una comune disaffezione riguardo alla cultura liberale e dal senso di perdita di una fede forte nell’autorità.

     L’emergere di un tale nazionalismo tedesco fu incentivato dalla percezione della necessità di formare una identità tedesca, germanica in opposizione a quello che possiamo chiamare il progressismo, ossia l’insieme delle culture, che avevano basi e fini diversi, del progresso materiale, accusato di voler creare il benessere materiale al costo di un fallimento, di un abbandono definitivo di ogni dimensione spirituale. La critica del progressismo si affermò alla fine del secolo scorso, con Dilthey, che negava vi fosse uno scopo o una direzione sottostante alla base delle epoche della storia del mondo. Al contrario, secondo lo storicismo diltheiano ogni epoca e cultura deve essere compresa nelle sue espressioni specifiche e proprie. Si può interpretare lo storicismo come un tentativo di giustificare lo studio della storia umano di fronte al “disincanto del mondo” per usare una formula di Max Weber, ossia l’opera di svalutazione da parte del sapere razinalistico-scientifico di tutte le grandi “narrazioni” tradizionali e fondative (inclusa naturalmente quella biblica) intorno al senso e all’origine del mondo, in vista di una spiegazione del comportamento umano in termini materialistici (si pensi al darwinismo), tralasciando così le nozioni di finalità, scopo o senso.

     Secondo Dilthey gli esseri umani, in quanto gli unici capaci di autointerpretazione e attribuzione di senso, dovevano diventare oggetto di studio delle scienze umane o dello spirito (Geisteswissenschaften), e non come allora delle scienze naturali. Nella “filosofia della vita” (Lebensphilosophie) di Dilthey, la storia umana può essere compresa soltanto solo se si prende coscienza del carattere unico e proprio dell’esperienza vissuta (Erlebnis) da parte degli individui all’interno di una determinata epoca storica.

     Se l’intelletto razionale è utile nell’individuare regolarità nella realtà materiale, soltanto la comprensione intuitiva, dinamica è in grado di rivelare la dimensione misteriosa della creatività umana e dell’emergere delle culture.

     Le formulazioni diltheiane furono in seguito volgarizzate, rese popolari da taluni esponenti völkisch. Si sosteneva che la critica storicistica dell’idea di un fondamento trascendentale, quale direzione della storia occidentale, facesse tutt’uno con l’idea secondo cui ogni popolo storico è una espressione peculiare della forza vitale eterna.

     Essi si servivano dell’opposizione tra razionalità teorica e vita vissuta per sostenere la convinzione per cui la razionalità avesse distrutto la forza e il fascino del sangue tedesco, rendendolo incapace di competere con la massa in aumento dei “popoli di colore” del mondo.

     Queste concezioni antimoderne erano tutt’altro che limitate alla Germania.

     Altri paesi europei e gli stessi Stati Uniti ne erano influenzati.

     Vaste erano le schiere di intellettuali che lamentavano in questi paesi la degenerazione, la perdita di significato e intensità, la vuotezza della vita borghese nell’Europa fin de siècle.

     La vita aveva perso il suo carattere di avventura, sfida e le spiegazioni meccaniche offerte dalla scienza ai fenomeni della vita apparivano fredde e aride. Sul piano sociale poi l’arte, il mestiere della classe artigianale da un lato, il coraggio, la virtù eroica del soldato dall’altro erano divenuti insignificanti rispetto alla capacità produttiva della catena di montaggio e al potere di fuoco delle armi moderne.

     Taluni aspetti della vita come l’intuizione, la spontaneità, l’estasi e la comunione spirituale parevano irrimediabilmente sminuiti, deprivati del loro significato dalle tendenze emergenti del mondo moderno. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro Nietzsche in Germania, Freud in Austria e D. H. Lawrence in Inghilterra avevano sottolineato l’importanza delle motivazioni istintuali, psicologiche, biologiche e sessuali nei comportamenti umani, messe in secondo piano o addirittura negate dallo spirito razionalistico e repressivo della borghesia.

     Paradossalmente, nonostante l’avversione di molti ideologi völkisch nei confronti della civiltà industriale e della tecnica, una parte significativa di essi – in particolare negli anni successiva la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale – credeva che solo con adeguate, moderne strutture industriali e nuovi, aggiornati armamenti fosse possibile difendere la Germania dall’ostilità delle nazioni vicine e adempiere la missione nazionale a cui era chiamata di dominio mondiale.

     Questi reazionari, mentre per un verso salutavano i frutti economici e militari della modernità, per un altro verso rifiutavano le istituzioni liberali così come il razionalismo che è alla base della moderna tecnologia industriale. Autori come Ernst Jünger e Oswald Spengler chiedevano alla Germania di fondare un ordine sociale rigidamente autoritario, gerarchico ed elitario con uno sforzo massimo di costruzione e consolidamento di una nuova e forte tecnologia industriale. Jeffrey Herf, come si è già avuto modo di osservare, ha giustamente denominato tale atteggiamento “modernismo reazionario”.[7]


  C A P I T O L O   I V

 

L’IMPATTO DETERMINATO

DELLA GRANDE GUERRA


     Sebbene un diffuso entusiasmo per la guerra fosse presente in tutti i paesi coinvolti, esso assunse toni ed espressioni particolarmente forti in Germania. La guerra costituiva un’occasione per dare sfogo alle tensioni politiche anteguerra, rompere le rigide consuetudini sociali, dar voce agli istinti aggressivi a lungo soppressi e ottenere l’agognata coesione sociale.

     L’entusiasmo per la guerra contagiò tutti, compresi intellettuali come Herman Cohen e Paul Natrop, che sarebbero poi stati colleghi di Heidegger all’università di Marburgo. Prima della guerra, parlando dello sfruttamento operato dal sistema capitalista della classe operaia, Cohen e Natrop concordavano sul fatto che “la discrepanza tra la realtà della vita nell’età industriale e gli ideali di una “kultur” umanistica dev’essere, se non completamente eliminata, per lo meno fortemente ridotta”.[8]

     Allo scoppio del primo conflitto mondiale, professori e intellettuali interruppero la loro critica delle condizioni interne in Germania e assunsero l’atteggiamento fichtiano di difensori spirituali della patria tedesca. Un commentatore nota che Natrop e Cohen:

     “Utilizzavano la loro filosofia neokantiana nel tentativo di conferire un senso alla conflagrazione in corso. Entrambi avevano partecipato alla formulazione di quelle che divennero note come “le idee del 1914”, ossia l’impegno per la costruzione di un’alternativa filosofica a quella che, innumerevoli intellettuali tedeschi vedevano come l’ideologia della rivoluzione francese e la “dottrina inglese di Manchester”. Paul Natrop in particolare svolgeva un ruolo di primo piano in questo movimento. I suoi “Kriegsschriften”, un tentativo di mettere Kant e la filosofia al servizio della causa tedesca, erano molto letti in Germania negli anni della guerra”.[9]

     Natrop sosteneva che sul fronte orientale la Germania si trovava di fronte le arretrate e moralmente inferiori masse russe, mentre ad occidente aveva le potenze materialistiche, individualistiche e razionalistiche rappresentate da Inghilterra e Francia. La “sacra missione culturale” della Germania “avrebbe dovuto consistere nel preservare l’anima (Seele) tedesca da queste forze estranee ed alienanti. Nel suo celebre libro “Krieg und Aufbau” (Leipzig 1916) Scheler ha tessuto le lodi a questa missione.

     Col progredire della guerra, la sua posizione divenne meno nazionalistica, più moderata, preda tuttavia così come molti altri del fervore e del pathos del momento.

     La sconfitta della Germania non aveva fatto altro che esacerbare le tensioni sociali precedenti la guerra, in particolare il conflitto tra l’ala sinistra delle masse industriali e la piccola borghesia, la classe media  e le componenti reazionarie. Hitler stesso aveva notato come la guerra avesse prodotto un importante risultato: aveva screditato quella parte corrotta della borghesia che aveva impedito quelle misure necessarie alla rigenerazione della Germania. La repubblica di Weimar rappresentò l’ultimo e disperato tentativo di istituire una democrazia di tipo occidentale.

     Esso però era destinato fin dall’inizio a fallire. Per i conservatori, i reazionari, i socialisti, i comunisti, Weimar era soltanto un espediente, un provvisorio in attesa che si verificasse la rivoluzione (di destra o di sinistra). L’assassinio di Rathenau rappresentò un tragico segno del destino della repubblica. Egli si era fatto portatore della speranza che la Germania potesse riuscire nel realizzare la grande sintesi tra un industrialismo estremamente dinamico e una cultura altrettanto raffinata, tra il dominio della meccanizzazione e il regno dello spirito.

     Friedrich Dessauer, un ingegnere, nonché una delle figure di spicco nello “Streit um die Technik”, condivideva l’idea secondo cui il capitalismo puro, orientato al profitto era responsabile del pervertimento delle potenzialità creative, volte al servizio della tecnologia industriale. Molti ingegneri cercavano di fornire un quadro della tecnologia industriale come qualcosa di fondamentalmente affine alle produzioni di quei grandi artisti tedeschi che ebbero una gran parte nel processo di formazione della Gemeinschaft. In quanto opposto alle forze dell’americanismo e della cultura commerciale che corrodono lo spirito, argomentava il figlio dell’inventore del motore diesel, la tecnologia reca i segni, “le tracce di una razza più nobile, di istinti di vita più forti”.[10]

     Si trattava di unire l’eredità idealistica tedesca con la capacità innata di sviluppo tecnologico del popolo tedesco, così da evitare il corso rovinoso, distruttivo che si è imposto in America e Russia.

     Rifiutando gli ideali rivoluzionari che trovavano espressione sia nel capitalismo che nel socialismo, ed esaltando nello stesso tempo i ritrovati tecnologici (che molti avrebbero potuto considerare un prodotto del capitalismo liberale) in un appello alla costruzione di uno stato corporativo, autoritario, molti ingegneri tedeschi di fatti aderivano all’ideale, in un certo senso paradossale, del modernismo reazionario.

     Come si mostrerà in seguito, Heidegger condivideva alcune di queste posizioni, tant’è che egli stesso invocava un nuovo ordine sociale non-liberale che avrebbe istituito nuove modalità di lavoro, tali da trasformare la natura stessa della tecnologia industriale.

     Heidegger considerava la tecnica nell’ottica del pensiero politico antimodernista e perciò, soprattutto il primo Heidegger non la interpretava né come uno strumento neutro al servizio della realizzazione di determinate finalità, né come un segno dell’evoluzione dell’umanità ad un livello più alto, ma come un sintomo inquietante della fase finale nella storia del declino della comprensione della verità dell’essere.

     Tuttavia, a partire dalla metà degli anni trenta cominciò a valutare meno negativamente la tecnica, ed i fenomeni legati alla tecnologia industriale. La missione che la Germania doveva intraprendere costituiva anche un’opportunità di andare incontro ad una trasformazione che avrebbe reso possibile un nuovo rapporto con la tecnica, un rapporto in cui l’operaio diventa un autentico produttore di cose, e non più uno schiavo delle necessità del processo di produzione tecnico. Già nel 1933 in un discorso pronunciato alcuni mesi dopo l’assunzione della carica di rettore Heidegger accennò a questa possibilità di una nuova relazione tra uomo e tecnica nella figura dell’operaio: “Le parole “Sapere” e “Scienze”, “Operaio” e “Lavoro” hanno ricevuto un altro senso ed un senso nuovo. L’Operaio non è, come voleva il marxismo, il mero oggetto dello sfruttamento. La classe operaia (Der Arbeiterstand) non è la classe dei diseredati che si fanno carico della lotta generale delle classi".[11]


C A P I T O L O   V

 

GLI ASPETTI POLITICI DELLA CRITICA

ALLA TECNICA NEL PRIMO HEIDEGGER


     Il pensiero del primo Heidegger e il suo atteggiamento politico sono fortemente influenzati dalla appropriazione critica di molte interpretazioni reazionarie della modernità, che si sono discusse in precedenza. Occorre innanzitutto tener presente che già nel 1919 Heidegger pensava che la sua generazione era destinata a dar luogo ad un nuovo, radicalmente nuovo inizio in risposta agli influssi della tecnica moderna.

     Inoltre, il capolavoro stesso di Heidegger, pubblicato nel 1927, “Essere e tempo” costituisce quella che possiamo chiamare una “descrizione” fenomenologica degli eventi della vita di tutti i giorni avente sullo sfondo di una valutazione politica negativa e pessimistica del mondo moderno e della società industriale.Questa inclinazione politica determina poi in parte anche la sostanziale ambiguità che si riscontra nella rappresentazione della vita quotidiana che “Essere e tempo” fornisce. Da un lato infatti l’opera intende evidenziare gli aspetti fondamentali, trascendentali della vita quotidiana, dall’altro queste “descrizioni” sono cariche di una interpretazione politica dei fenomeni della vita quali si presentano nelle specifiche circostanze temporali, storiche della società urbana-industriale. L’ambiguità sorge dunque dal mancato chiarimento della distinzione tra le caratteristiche essenziali o universali della vita del Dasein e i suoi tratti storici, storicamente determinati.

     Risulta di un certo interesse a questo punto esaminare fino a che misura l’interpretazione della tecnica, di questo Heidegger risenta delle idee di Oswald Spengler, che considerava i popoli contemporanei dell’Europa occidentale schiavizzati dai sistemi tecnologici, sfuggiti al loro stesso controllo. A differenza di Spengler tuttavia per Heidegger il “tramonto dell’occidente non era tanto di natura biologico-razziale come tramonto di una razza, di una civiltà, ma metafisico.

Heidegger era persuaso che l’umanità si stesse incamminando in una nuova fase, in un nuovo stadio della storia dell’esser che avrebbe trasformato il rapporto dell’uomo con la tecnica, creando i presupposti per una relazione non servile tra uomo e tecnica.

     Durante i corsi universitari degli anni ‘29-’30, gli anni del crollo dell’economia tedesca dopo il disastro di Wall Street, Heidegger iniziò a evocare quella figura in grado di assecondare, portare a compimento la trasformazione di cui prima. L’abbraccio poi, all’avvento al potere di Hitler, col regime nazista fu soltanto l’ultimo passo, come seguito coerente con le posizioni via via maturate, in una sensazione crescente di minaccia rappresentata dalla modernità.

     Questo senso di minaccia è, come in molti altri esponenti della sua generazione, collegato strettamente alle esperienze e al clima generale della grande guerra. Dopo la fine del conflitto infatti, anche Heidegger credeva che il tremendo battesimo del fuoco costituito dalla guerra avesse prodotto una cesura radicale rispetto alle consuetudini e al mondo, alla società della generazione precedente dell’anteguerra, irrimediabilmente sedotta e corrotta dalle sirene del materialismo e del mercantilismo.

     Fin dai corsi tenuti a Friburgo negli anni 1919-23 emerge il tono di sfida alla modernità che caratterizzerà la sua opera successiva. Heidegger fa riferimento al fatto che comunemente si usa il termine “Kultur” per designare quei popoli storicamente consapevoli del proprio ruolo, quello della formazione (Gestaltung) del mondo, del compimento di grandi cose per mezzo del sapere, della scienza e della tecnica:

     “Alla fine del diciannovesimo secolo, determinate conquiste erano considerate tecnica e i fondamenti teorici che le avevano rese possibili: scienze naturali. Si parla di età delle scienze naturali, del secolo della tecnologia”.[12]

     Come molti autori dell’area conservatrice-reazionaria Heidegger guardava alla Kultur in quanto volta alle conquiste tecniche, non come una vera alternativa, ma come il culmine della disprezzata “Zivilization” illuministica.

     Inaccettabile era poi anche per Heidegger l’ideale dell’uomo istruito (gebildeter Mensch), una figura cresciuta nello studio dei classici e impegnata a tener alti i vessilli della cultura elevata di contro alla volgarità, al carattere commerciale della cultura di massa.

     Nonostante egli stesso fosse un “gebildeter Mensch”, aveva un atteggiamento di estraneità, verso quella che avvertiva come una cultura “artificiale”, in cui si mostrava una comprensione superficiale, in un certo senso di maniera dei classici. Heidegger dunque da questo punto di vista non aveva alcun interesse alla conservazione dell’esistente nella società, che gli appariva come svuotata di contenuti comuni, corrotta da valori estranei alla sua specifica tradizione storica. Questa corruzione, l’origine più prossima di quel processo di modernizzazione, i cui effetti più catastrofici si erano manifestati nell’inferno del primo conflitto mondiale, era da rintracciare nell’epoca dell’illuminismo e di quanto di nuovo esso aveva posto in primo piano: l’autoaffermazione della ragione umana e della libertà. Per Heidegger l’illuminismo era un momento fondamentale lungo il cammino, il piano inclinato che conduce al nichilismo della modernità lungi dall’essere portatore dell’idea di libertà, esso è completamente dominato “dalla scienza naturale matematica… e dal pensiero razionale in genere”.[13]

     La visione universalistica della storia del razionalismo di matrice illuminista, le cui fasi sono state descritte da Comte e Rugot, riducevano l’individuo a un atomo, una particella all’interno di una società monocromatica. In una annotazione, che anticipa ciò che dirà in seguito sul ruolo e compito storico del poeta, Heidegger affermava che “il poeta non era considerato (da parte dei razionalisti) come un formatore (Gestalter) all’interno di un autentico mondo dell’esperienza; ma al contrario come chi apportava migliorie al linguaggio che nella sua raffinatezza ed eleganza portava la gente e la vita ad un livello più elevato”.[14]

     Persino Kant rimase vittima del pensiero illuminista quando parlò della forma razionale e dei fini della storia umana. Il romanticismo tedesco tentò di invertire la rotta, Herder in particolare “vide la realtà storica nella sua molteplicità e pienezza irrazionale e soprattutto l’indipendente valore in sé di ogni nazione, di ogni epoca, di ogni manifestazione storica in genere… La realtà storica non era più vista esclusivamente come una direzione schematica, regolare, razionalistico-lineare del progresso… Il fine stesso del progresso non è più quello di una felicità e una bontà astratte e razionali. Si risveglia la visione di centri e contesti di realtà individuali, qualitativamente originali; la categoria di “proprietà” (Eigenheit) acquista significato e connessa a tutte le forme di vita, questa (vita) diviene per la prima volta visibile come tale”.[15]

     Heidegger sottolinea come Schegel si fosse volto a forme letterarie originarie e autonome. Fiorisce allora la ricerca sui miti e le saghe antiche, i canti della tradizione popolare sono apprezzati, non più visti come manifestazioni di primitivo spirito barbarico. Anche la storia delle singole nazioni è al centro dell’interesse. Schleiermacher notò per primo la valenza propria, delle Geimeinschaft. Heidegger esalta dunque l’epoca dell’idealismo tedesco, per poi evidenziare le conseguenze nefaste del positivismo in cui l’esperienza (Erfahrung) oggettivante della scienza devitalizza (ent-lebt) l’esperienza vissuta (Erlebnis) delle persone.

     Si consideri ad esempio, argomenta Heidegger, il modo in cui la visione geometrico-razionale dello spazio e del tempo e la visione scientifica oggettivante delle cose, trasforma gli strumenti del mondo circostante (Umwelt) in oggetti scollegati dall’esperienza vissuta.

     In alternativa alle tendenze oggettivanti della razionalità, Heidegger propone il “vedere” intuitivo della fenomenologia. La filosofia, più originaria rispetto all’attività frenetica (Betrieb) della scienza, è posta come l’appassionata ricerca dell’origine (Ursprung) autentica e dell’inizio (Anfang) delle cose.[16]

     In “Was ist Metaphysik?” (1929) Heidegger accusa l’università moderna di iperspecializzazione e di positivismo, due elementi considerati distruttivi dell’essenza dell’università, così come della stessa comunità.

     Da parte di alcuni commentatori questo scritto, originariamente una prolusione, è stato interpretato come l’inizio di un cambio di direzione, di una svolta nell’indagine filosofica da problemi puramente teoretici ad ambiti e tematiche più pratiche. Tuttavia è da notare come l’idea della necessità di una radicale riforma dell’università tedesca, fosse già presente nel decennio precedente. Nei corsi già citati immediatamente successivi alla grande guerra, Heidegger così si esprime:

     “Oggigiorno, non siamo maturi per una autentica riforma nell’ambito dell’università.

     Divenirne maturi è questione di un’intera generazione. Rinnovare l’università significa far rinascere l’autentica coscienza scientifica e un contesto di vista. I rapporti vitali perciò si rinnovano solo tornando alle origini autentiche dello spirito”.[17]

     Due anni più tardi Heidegger affermò che la sua generazione non assomigliava a nessun’altra precedente nella storia tedesca in quanto ogni suo membro sapeva di essere alla fine di una tradizione e di un processo storico e all’inizio di uno nuovo.[18]

     Il tramonto dell’Occidente era una conseguenza inevitabile dell’intrinseco movimento dell’uomo verso la rovina (Ruinanz), dimentico del pensiero originario. Il compito della filosofia dunque era quello di battersi contro questo declino e di consentire al Volk di poter di nuovo entrare in contatto con le fonti prime dell’essere.[19]

     Heidegger condivideva con gli ideologi völkisch la convinzione che il popolo tedesco veniva indebolito e corrotto dagli influssi perniciosi del razionalismo, del liberalismo e delle tendenze estranee al popolo germanico.

     Tuttavia l’interpretazione proposta da Heidegger del significato del Völk era evidentemente incontrastata dalla maggior parte degli autori völkisch.

     L’importanza delle decisioni compiute da intere generazioni, anche se in termini meno enfatici che altrove, è espressa anche in “Essere e Tempo”, scritto in un periodo di relativa quiete tra le due guerre:

     “Soltanto nella comunicazione e nella lotta il potere del destino (Geschick diventa libero. Il destino fatale del Dasein costituisce nella e con la sua generazione il pieno autentico accadimento (Geschehen) del Dasein”.[20]

     Sei anni più tardi Heidegger giungerà alla conclusione che il destino fatale della sua generazione è di sostenere il regime hitleriano.

     Se dunque, a prima vista il capolavoro “Essere e tempo” non contiene una palese presa di posizione politica, una lettura attenta può tuttavia consentire di mettere in risalto l’orientamento antimoderno che la rappresentazione dei fondamenti della vita del Dasein reca con sé.

 

1.             Mondo moderno e cultura di massa in “Essere e Tempo”.

 

In “Essere e Tempo”, dove Heidegger tematizza il rapporto tra temporalità e comprensione dell’essere da parte dell’Esserci (Dasein), l’esistenza forma l’orizzonte temporale o apertura in cui gli essenti dispiegano sé stessi. La concezione dell’esistenza è quella derivante dalla descrizione fenomenologica (Heidegger era stato allievo di Husserl) della vita quotidiana, in cui un individuo esiste in quanto socialmente definito dal comune “si”, il si è qualcuno o si fa qualcosa (das Man).

Gli individui, per usare il linguaggio heideggeriano, i Dasein, che rappresentano la condizione dell’esser gettato (geworfen) nel mondo, sono definiti da una rete di relazioni socio-culturali, la cui piena comprensione è destinata a sfuggirci. Lungi dall’essere un soggetto autonomo e isolato il Dasein è rappresentato come il “si”, il “Man, come sintesi e unione dei sistemi culturali che storicamente si determinano.

Heidegger pensava con Dilthey che la conoscenza, il linguaggio, le abitudini, non fossero fenomeni, accadimenti privati contenuti in un soggetto separato, ma eventi pubblici. Il Dasein è di conseguenza un evento contestuale, relazionale, partecipativo, non il risultato di singoli isolati ego esistenti indipendentemente l’uno dall’altro.

Gli individui si uniformano consapevolmente, volontariamente alle norme sociali in quanto acquisiscono autodefinizione solo in rapporto ad una totalità sociale in cui si ritrovano con la nascita gettati. Dunque la decisione, la determinazione alla scelta (Entschlossenheit) ha una minore importanza se confrontata con le scelte già compiute nel momento in cui si viene al mondo. Ciononostante fin da sempre sta di fronte a noi l’apertura della possibilità della decisione. Per quanto circoscritte, limitate da famiglia, mondo pubblico, appartenenza ad un sesso, ad una classe sociale, lo spazio aperto della possibilità, come possibilità della scelta rimane in quanto orizzonte nell’esistenza del Dasein.

“Essere e Tempo” è caratterizzata da una quantità di descrizioni critiche dell’esistenza inautentica dell’esserci in quanto condizionata dai rapporti e dalle strutture dominanti nella moderna, urbana società di massa.

Heidegger riteneva che nel mondo moderno, con la sua capacità di formare opinioni, comportamenti razionali, di creare bisogni, e valori standardizzati, il Sé pubblico, la dimensione del “Man”, fosse divenuto assolutamente dominante:

“Nell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici, nell’impiego del sistema dell’informazione (giornale), ognuno è come ogni altro. Questo essere l’uno con l’altro (Miteinadersein) dissolve il proprio Dasein nel modo di essere degli altri, in modo tale che gli altri nella loro particolarità e determinatezza spariscono sempre più. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si dispiega la sua vera e propria dittatura. Proviamo piacere e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, guardiamo e diamo giudizi su letteratura ed arte, come si guarda e giudica; ci ritiriamo dalla ‘grande massa’ come ci si ritira, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Dasein determinato, ma tutti (non però come somma), decreta il modo di essere della quotidianità”.[21]

Uno dei tratti fondamentali dell’esistenza del Dasein è il suo essere in pubblico, la dimensione pubblica (Öffentlichkeit), una espressione che si trova spesso in connessione con quella di “società civile” (bürgerliche Gesellschaft). E’ evidente che per Heidegger in una siffatta società non può esser prodotto nulla di autenticamente originale, dato che lo stesso linguaggio è sottoposto ad un processo di degrado e volgarizzazione, tende a diventare chiacchiera o al più scambio di opinioni (Gerede) priva di alcun solido fondamento. Persino negli ambienti accademici è diffuso questo modo di conversare, che talvolta assume anche un tono autorevole.

“Le cose stanno in un certo modo perché qualcuno dice così. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali la incertezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza”.[22]

La chiacchiera esime il Si dalla comprensione autentica delle cose…. “(essa) è la modalità sradicata della comprensione del Dasein”.[23]

Questo sradicamento, altrove troviamo in Heidegger l’espressione spaesatezza (Heimatlosigkeit), ha un legame stretto con ciò che il filosofo ha esperito negli anni della Guerra e in quelli immediatamente successivi della repubblica di Weimar. In un ciclo di lezioni del 1929-30 con riferimento ad un passo da Novalis ebbe modo di osservare:

“’La filosofia è propriamente nostalgia (Heimweh), un impulso ad essere a casa propria ovunque’ (Novalis, Schriften, Frammento 21). Una definizione singolare, naturalmente romantica. Nostalgia: esiste ancora, oggi, qualcosa del genere? Non è forse questa divenuta una parola incomprensibile “persino nella vita quotidiana? L’odierno uomo di città, la scimmia della civiltà, non ha forse eliminato da lungo tempo la nostalgia? E la nostalgia addirittura come definizione della filosofia!”.[24]

In questi anni la riflessione di Heidegger risulta profondamente caratterizzata da questo senso di Heimatlosikeit, di spaesatezza, e nel contempo dall’impulso verso il superamento dell’alienazione, dell’insignificanza e dell’anonimità del Si come dimensione inautentica dell’Esserci.

Il disagio nei confronti delle nuove sfide poste dall’urbanesimo e dalla società di massa emergono con sufficiente chiarezza dai passi citati.

I tedeschi delle grandi città sono “distratti dalla curiosità riguardo a nuovi luoghi, volti, prodotti. Non avendo la possibilità di accedere a più elevate possibilità di scelta, l’Esserci tedesco è soffocato dalla chiacchiera è dappertutto e in nessun luogo. Questa modalità dell’essere nel mondo svela un nuovo modo di essere dell’Esserci quotidiano nel quale esso si sradica costantemente”.[25]

La vita urbana dunque è di per sé stessa sinonimo di sradicamento, inautenticità, il luogo del Si della chiacchera, delle futili curiosità, il luogo che fa da sfondo alla “deiezione” (Verfallenheit) dell’Esserci.

L’angoscia (Angst) che è una delle modalità fondamentali dell’essere del Dasein, rivela l’infondatezza (Grundlosikeit) e il carattere anonimo e indifferenziato del Si, come sintomo del non trovarsi a casa propria dell’esserci, del suo sradicamento. E’ stato osservato come questa spersonalizzazione estrema non risulti soltanto da una dimensione psicologica o antropologica, ma rispecchi anche un contesto socio-economico come quello legato alle “anonime grandi corporazioni industriali” e al capitale monopolistico da cui la quotidianità del Dasein descritta da Heidegger è sicuramente influenzata:

“Sein und Zeit” è un’opera su cui sono impressi profondamente i segni della crisi della società tedesca dell’epoca. Il regno dell’esistenza impersonale, che esse descrive, con la caduta in balìa, da parte dell’individuo, di forze “oggettive” incontrollate sembra evocare a tratti (…) quell’altro processo di “spersonalizzazione” di cui parla Rathenau, nel suo abbozzo di analisi, del 1918, delle grandi “società per azioni”. Qui la “spersonalizzazione” della proprietà significa, al contempo, l’acquisizione di un’esistenza autonoma, da parte della proprietà stessa, rispetto ai medesimi titolari del diritto di proprietà. L’impresa assume una vita indipendente come se non appartenesse a nessuno: l’oggetto diviene il soggetto e il soggetto l’oggetto del suo oggetto. Le forze incontrollate della società acuiscono all’estremo quel carattere, lungamente analizzato da Marx, di forze che operano “alle spalle” degli uomini, con la necessità impietosa di eventi naturali”.[26]

Lo stesso Adorno concorda sul fatto che “dal punto di vista sociale il senso di mancanza di significato (o angoscia) è una reazione al diffuso processo di liberazione dal lavoro che si verifica in condizioni di permanente assenza di libertà sociale (nel capitalismo)”.[27]

Da parte marxista dunque se da un lato si riconosce ad Heidegger una certa accuratezza e profondità di analisi nella descrizione della spersonalizzazione dell’esistenza nel mondo moderno, dall’altro vien fatta notare la mancata individuazione o determinazione delle cause politico-economiche alla base di tale processo. Per Heidegger l’interpretazione marxista della spersonalizzazione e dell’alienazione come risultato di determinate strutture e condizioni economiche era altrettanto riduzionistica e semplicistica di certe interpretazioni reazionarie estreme. Inoltre era l’analisi economica e sociale stessa che non viene giudicata in grado di poter gettar luce sul fenomeno moderno dello sradicamento, in quanto a sua volta prodotto della modernità (economicismo). Per Heidegger inflitta la spersonalizzazione è una condizione ontologica derivante dalla tendenza deiettiva (verfallend), del Dasein inautentico, come esserci del Si collettivo e anonimo.

Va da se che tale tendenza, pur iscrivendosi in un quadro storico molto vasto di oblio dell’essere e di distacco dalle origini della verità greca dell’essere, è accelerata ed aggravata dalle dinamiche messe in moto dalla modernità. E’ semmai la deiezione stessa dell’esserci a render possibile il dominio e la manipolazione del mondo da parte delle forze e degli interessi economici, materiali. L’ultimo Heidegger parlerà a tal proposito di nascondimento della verità dell’essere come radice prima del nichilismo del mondo moderno.

Le critiche alla rappresentazione heideggeriana dello stato d’animo diffuso dell’angoscia non vengono però solo da parte marxista, tanto che lo stesso Scheler sostenne che l’angoscia una caratteristica storica, non ontologica dell’esistenza umana:

“Sono convinto che fin da quando Ebraismo e Cristianesimo hanno definito l’uomo occidentale, egli sia vissuto in modo sproporzionatamente maggiore sotto il peso dell’angoscia che ogni altro tipo d’uomo. …. Questo peso dell’angoscia condiziona in gran misura l’enorme attività dell’uomo moderno nel mondo, la sua sete di potere, e la sua illimitata sete di ‘progresso’ e trasformazione tecnologica; inoltre questa angoscia è emersa in un modo assai forte e peculiare nel protestantesimo”.[28]

Heidegger sembra convenire con Scheler e Weber sul fatto che la forte tensione per l’acquisizione della salvezza nella cultura protestante avesse favorito la formazione di quella personalità votata al calcolo e al controllo, necessaria allo sviluppo del capitalismo. L’impulso dell’homo economicus al controllo razionale delle cose al fine della massimizzazione dei profitti non sarebbe che un tentativo di ridurre l’angoscia e l’assenza di significato in un mondo contraddistinto dalla sparizione del sacro, o come direbbe Heidegger, citando Hölderlin, dalla “fuga degli dei”. Vani venivano considerati tutti i progetti politici finalizzati al miglioramento delle condizioni della società.

Come giustamente ha scritto Winfried Franzen, “Essere e Tempo” fa appello agli intellettuali conservatori, sia dal punto di vista teoretico che personal-esistenziale, senza tuttavia richiamarli ad agire in una direzione particolare. Heidegger pare invitarli o incoraggiarli a rimanere degli “outsiders”, senza impegnarsi direttamente e politicamente nell’opera di mutamento della situazione presente. “Il totale distacco è suggerito come possibilità di autoaffermazione. La pubblicità, la politica e la società sono ritenute non solo secondarie, svianti rispetto all’essenziale, ma anche portatrici di corruzione. Il soggetto insicuro, che ha una sensazione di impotenza, può benissimo identificarsi col fatto che il male viene fatto astrattamente ricadere sulla società, senza per questo derivarne la necessità di un miglioramento dell’ordine sociale esistente”.[29]

Certo “Essere e Tempo” esprime una condanna senz’appello della società contemporanea e richiede una rottura radicale, ciononostante il libro non delinea i contorni di un’alternativa reale ad essa. Ciò su cui ci si può, si è chiamati a decidersi sono le condizioni, le circostanze fattuali dell’esistenza in cui ci si ritrova gettati.

“Un decennio dopo le “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, l’ontologia esistenziale (di Heidegger in “Essere e tempo”) potrebbe essere letta come un’enfatica teoria anti-politica dell’esistenza che non necessita di caratterizzarsi veramente come tale”.[30]

Se per un verso nella sua ontologia esistenziale Heidegger richiama alla risolutezza individuale, condannando l’impersonalità della cultura di massa, in maniera tale da sembrare a prima vista in accordo con gli ideali liberaldemocratici, per un altro presenta la dimensione autentica dell’esserci come assolutamente impolitica per lo meno in riferimento alle teorie politiche che all’epoca si contendevano la scena.


2.                L’appropriazione critica di Spengler.

 

Nel corso di lezioni tenute a Friburgo negli anni 1929-30, intitolato “Grundbergriffe der Metaphysik” (Concetti fondamentali della metafisica), Heidegger afferma che lo stato d’animo allora prevalente in Germania era quello della noia (Langeweile) profonda, metafisica. Ai suoi studenti fa presente che “gli stati d’animo sono il ‘presupposto’ e il ‘medio’ del pensare e dell’agire. Ciò vuol dire che risalgono in modo più originario alla nostra essenza: in essi soltanto incontriamo noi stessi in quanto esser-ci”.[31]

Al fine di rivelare lo stato d’animo diffuso nella Germania degli anni ’20, vengono prese in esame le opere di quattro autori rappresentativi di quel tempo: Oswald Spengler, Ludwig Klages, Max Scheler e Leopold Ziegler.

Di particolare rilevanza ed interesse risultano le annotazioni su Scheler e Spengler. Heidegger individua così quello che è a suo avviso il dato essenziale della ‘profezia’ spengleriana nel “Tramonto dell’Occidente”:

“Tramonto della vita a causa e per mezzo dello spirito. Ciò che lo spirito soprattutto in quanto ragione (ratio) ha prodotto nella tecnica, nella economia, nella trasformazione totale dell’esistenza simboleggiata dalla metropoli, si volge contro l’anima, contro la vita, la soffoca e la costringe al tramonto e al declino”.[32]

La diagnosi heideggeriana sullo stato delle cose si mostra qui fondamentalmente affine a quella di Spengler. Anche molti anni dopo, dopo la fine della seconda guerra mondiale Heidegger osserva che:

“Che oggi si torni a dar credito alla sentenza di Spengler sul tramonto dell’Occidente si deve, oltre che a numerose cause esteriori, al fatto che la sentenza di Spengler non è che la conseguenza negativa, anche se giusta, delle parole di Nietzsche “il deserto cresce”.[33]

La parola deserto usata da Heidegger, citando Nietzsche contiene un’ampia gamma di riferimenti, dallo sfruttamento e devastazione della terra, al tramonto del sacro, la fuga degli dei, all’oblio della verità dell’essere ritenuto il momento culminante della metafisica come pensiero sull’ente che sfocia poi nella fase estrema del nichilismo moderno.

Tuttavia, per Heidegger il “Tramonto dell’Occidente” fatto risalire a partire dal declino del pensiero presocratico, è di natura essenzialmente metafisica, riguarda il destino dell’essere quale si delinea nell’arco di pensiero tracciato dalla metafisica; non ha perciò alcuna connotazione biologico-razziale o storico-antropologica. Non una civiltà, ma un’epoca della storia dell’essere (o meglio dell’oblio dell’essere) è al tramonto.

Spengler invece, influenzato da Nietzsche, Darwin e Schopenhauer, sosteneva che il movimento originario dell’occidente verso il dominio tecnico del mondo e di conseguenza il suo declino hanno a che fare con i cicli di ascesa e caduta delle civiltà nella loro lotta per la vita, per la propria autoaffermazione vitale.

Heidegger vedeva una tale interpretazione naturalistica della storia-destino delle civiltà e della loro cultura come conseguenza di una sviante concezione metafisica dell’uomo come “animal rationale”.

Pur non condividendo il metodo e l’impostazione di base di Spengler, il primo Heidegger andò sempre più concependo la propria opera filosofica come un tentativo di fornire un quadro di riferimento filosofico ai sintomi di declino, esposti e divulgati da questi.

Nel corso del 1921-22 l’epoca presente è descritta come una tra le più antifilosofiche:

“I discorsi su decadenza, tecnicizzazione (Bergson, Spengler) sono così confusi che i fenomeni in cui, per cui e in virtù dei quali la decadenza è prodotta non sono positivamente messi in questione”.[34]

Pur avendo considerazione di Spengler, in quanto importante espressione dello Zeitgeist, Heidegger fa notare: “La mancanza di Spengler: filosofia della storia senza lo storico ‘lucus a non lucendo’. Nel suo tentativo di ricostruire una storia dell’essere Heidegger cercherà proprio di delineare quella filosofia della storia, la cui essenza aveva osservato in Spengler.

Un ulteriore rimprovero all’autore del “Tramonto dell’Occidente” era quello di servirsi di un’interpretazione superficiale delle dottrine di Nietzsche.

L’intento spengleriano di determinare i “tipi morfologici” della storia è indice del suo tener fermo ad una concezione quasi scientifica, perciò fuorviante, della storia.[35]

Spengler “intende secondo Heidegger ‘tramonto’ (Untergang) nel senso di un mero giungere alla fine (zuendegehen) come estinzione biologicamente rappresentata.

Gli animali periscono (gehen unter), quando si estinguono. La storia tramonta in quanto ritorna nel nascondimento (Verborgenheit) dell’inizio, vale a dire non tramonta, nel senso dell’estinzione, perché in questo modo non può mai tramontare”.[36]

Per Heidegger dunque il tramonto dell’Occidente non è qualcosa di inevitabile, di necessario in quanto la storia non è costituita dall’esistenza umana o dalla vita animale. Non si tratta cioè di un aspetto della ripetizione biologica delle forme culturali, ma all’opposto di una dimensione di quel ciclo creativo di ripetizione (Wiederholung) che comporta un andamento di ritorno verso la fonte primaria (Ursprung) della storia, ma anche un muoversi in avanti verso un nuovo inizio storico.

Malgrado le critiche che muove a Spengler, rilevante è il debito di Heidegger per quanto concerne l’interpretazione spengleriana della tecnica moderna, come manifestazione ultima, della volontà di potenza.

Quanto si legge nel testo “Mensch und Technik” si avvicina molto a quanto Heidegger ha scritto e detto sulla questione della tecnica.

“Costruire un mondo per sé stesso, essere lui stesso Dio – era il sogno dell’inventore faustiano, da cui poi derivarono tutti quei progetti di macchine, che giungevano il più vicino possibile all’obiettivo inattingibile del moto perpetuo. Il concetto del bottino degli animali da preda viene pensato fino in fondo. Non questa o quell’altra cosa, come il fuoco rubato da Prometeo, ma il mondo stesso con il mistero delle sue forze, viene sospinto nella struttura di questa cultura. Chiunque non fosse posseduto da tale volontà di onnipotente dominio sulla natura, doveva avvertirla come una diavoleria, così da percepire costantemente e temere la macchina in quanto invenzione diabolica”.[37]

Nella sua audace ricerca, l’uomo faustiano concepisce la natura come una riserva di materie prime, il cui solo valore consiste nella loro utilizzabilità al servizio delle sue ambizioni titaniche.

Per Spengler la società moderna era destinata a diventare una sorte di macchina calcolatrice, i cui membri eseguono meccanicamente i compiti loro assegnati. Non sfuggono all’autore tedesco nemmeno le conseguenze catastrofiche che la tecnica moderna provoca riguardo all’ambiente naturale. “Non si guarda più una cascata senza trasformarla nell’idea di una centrale elettrica. Non si vede più una valle piena di greggi al pascolo senza pensare in termini di valutazione della loro provvigione di carne... né si guarda alla bella opera d’artigianato degli abitanti di un luogo senza il desiderio di sostituirla con un moderno procedimento tecnico”.[38]

Se si pone il brano succitato a confronto con un passo di Heidegger degli anni cinquanta, si noterà come l’argomentazione e il tono, lo sfondo interpretativo siano i medesimi:

“La centrale idroelettrica non è costruita nel Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una riva all’altra. Qui, è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale. Esso… è produttore di forza idrica in base all’essere della centrale… (resta lì) solo come oggetto ‘impiegabile’ per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su (bestellt) una industria delle vacanze”.[39]

Similmente anche Heidegger mette in guardia da un sistema della tecnica (Gestell) che ha acquisito e va sempre di più acquistando il completo dominio e controllo oltre che sulla natura, sugli uomini stessi, nonostante la pretesa illuministica e positiva dell’uso dei mezzi tecnici al fine di consentire all’uomo di divenire il “signore del mondo”.

Il genere umano si sarebbe, in questa visione, abbassato allo status di un animale mai sazio di potere, avendo perso ogni legame con l’autentica, originaria capacità ontologica di “lasciar essere le cose”.

Spengler invece imputava all’esaurimento della vitalità dei popoli occidentali, la fine tragica a cui la loro civiltà si approssimava.

Per cui, il frutto stesso dello spirito europeo d’invenzione, la tecnica sarebbe stata coltivata e sviluppata da altri, più vitali popoli, quali quello giapponese o in generale dagli asiatici. Tuttavia l’utilizzo da parte di questi popoli della tecnica si sarebbe risolto in un’arma di difesa della supremazia acquisita contro la razza bianca.

Infatti soltanto all’uomo europeo è proprio l’impulso faustiano alla tecnica e alla scoperta e la capacità di estenderlo, svilupparlo ed applicarlo in senso creativo. Similmente, secondo Heidegger, la tecnica è qualcosa di essenzialmente occidentale, proprio per il suo carattere originariamente metafisico.

Ma ciò implica che l’inizio della parabola di declino dell’occidente è ricondotta indietro di venticinque secoli, all’epoca della nascita della metafisica in Platone; su questo punto le strade di Spengler e Heidegger divergnono completamente. Per il primo infatti il vertice della civiltà occidentale fu raggiunto quattrocento anni or sono, in epoca rinascimentale con l’emergere del tipo dell’uomo faustiano-industriale; per il secondo gli ultimi quattrocento anni rappresentano l’inizio di quella fase nuova nella storia dell’essere come oblio (a partire da Bacone e Cartesio) in cui in maniera crescente viene sempre di più velata la natura dell’essere dell’ente come verità, in cui l’ente si avvia a diventare oggetto, come oggetto (Gegenstand) a disposizione dello sguardo, dell’inquadramento tecnico-geometrico, calcolante delle cose.

A questo proposito Heidegger accusò duramente Spengler di aver rinnegato le conclusioni pessimistiche a cui era giunto nel “Tramonto dell’Occidente” per abbracciare l’idea di un “Socialismo prussiano”[40] quale argine, rimedio temporaneo al declino. Questo è considerato dal filosofo di Messkirch come un segno del fatto che Spengler non sapeva ciò che voleva.

“Non era tutto inteso in maniera così fosca, l’attività incessante (Betrieb) può continuare indisturbata….”.[41]

A salvare la Germania e più in generale l’Occidente dal declino, non erano certo le fantasiose formule politiche alla Spengler, ma un radicale nuovo inizio, iscritto nel destino dell’essere, e in grado di introdurre una nuova relazione tra uomo e tecnica in tutte le sue forme.

Anche nei confronti di altri autori del pensiero conservatore-reazionario Heidegger non risparmia critiche, è il caso per esempio di Klages.

Nel già citato corso universitario del 29/30, a proposito del libro di Klages “Der Geist als Widersacher der Seele” (lo spirito come oppositore dell’anima) Heidegger afferma che il libro è un buon esempio di cosa non si dovrebbe intendere con “ritorno alle origini” come risposta al carattere distruttivo della razionalità.

“Liberazione dallo spirito qui vuol dire: ritornare alla vita! Ma la vita viene intesa nel senso dell’oscuro ribollire degli impulsi, concepito al tempo stesso come il terreno propizio per l’elemento mitico”.[42]

Il rifiuto di ogni richiamo ad una primigenia vitalità è motivato dal fatto che questa costituirebbe una forma di naturalismo o peggio biologismo, erede per Heidegger del naturalismo illuministico.

Heidegger non manca poi di cogliere come la ricezione di Nietzsche sia di Spengler che di Scheler risente della non ‘distinzione’, in questi autori, tra la nozione di “vita” in generale e quella di “esistenza umana” come essere nel mondo, progetto (Entwurf), per usare un’espressione di “Essere e Tempo”. Si assiste ad una lettura in termini biologici del pensiero di Nietzsche, quando invece Nietzsche si serve di formule mutuate dalle scienze naturali (darwinismo) come metafore per indicare aspetti e problemi che vanno al di là dell’ambito meramente biologico-naturale.

Heidegger legge invece la nicciana “volontà di potenza” come ultima e potente elaborazione da parte del pensiero della tradizione metafisica dell’idea di dominio, soggiogamento totale del mondo e delle sue risorse, tramite la tecnica. Sotto questo aspetto quella che agli occhi di Heidegger si va delineando come un’organizzazione mondiale estesa della Volontà di potenza, in quanto dominata da modalità e procedure di carattere tecnico, rappresenta la minaccia più grande della modernità, proprio in virtù della sua portata planetaria, quindi tanto più omologante, portatrice di sradicamento e perdita di patria. Ad attirare l’attenzione di Heidegger su questo incontro tra il dispiegamento planetario della tecnica in quanto volontà di potenza e l’uomo moderno, è stata l’opera di Ernst Jünger “Der Arbeiter” (“L’Operaio”, 1932).


[1] Su questo si veda: D. LOSURDO, La comunità, la morte e l’Occidente: Heidegger e l’ideologia della guerra, Torino, 1991, pag. 150 ss.

 

[2] Su questo si veda il lavoro di G. MOSSE, The crisis of German ideology: intellectual Origins of the Third Reich, New York, 1964, trad. it. Milano 1984.

[3] Cit. in RODNEY STACKELBERG, Idealism debased: from völkisch ideology to national socialism, Kent, 1981, pag. 12.

 

[4] Cit. in Christian Graf von Krockow, Die Entscheidung: Eine Unter-suchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Stoccarda 1958, pagg. 37-38.

 

[5] MAX SCHELER, Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre, Sociologia del sapere, trad. it., Roma, 1967, cit., pag. 133.

[6] Ibid, pag. 118.

[7] J. HERF, Il modernismo reazionario, op. cit..

[8] AA.VV., cit. in Political Symbolism in modern Europe, New Brunswick, 1982, pag. 64 contributo di Tim Keck, Pratical Reason in Wilhelmian Germany: Marburg neo-kantianan thought in popular culture.

[9] Ibid., pag. 74.

[10] Cit., in Herf, op. cit., pag. 231.

[11] Cit. in J.M. PALMIER, Les Écrits politiques de Heidegger, Parigi, 1968, pag. 123.

[12] M. HEIDEGGER, Zur Bestimmung der Philosophie. Comprende i corsi del semestrale invernale ed estivo del 1919; Francoforte 1987 vol. 56/57 GA, pag. 130.

 

[13] Ibid., pag. 132.

[14] Ibid., pag. 133.

[15] Ibid. pagg. 133-134.

[16] Ibid., pagg. 37-41.

[17] Ibid., pag. 4.

[18] M. HEIDEGGER, Phänomenologische Interpretationen zu Aristeteles. Einführung in die phänomenologische Forschung – corso del simestre invernale 1921-22 Francoforte, 1985, GA vol. 61, pagg. 73-74.

[19] Ibid., pagg. 131 ss.

[20] M. HEIDEGGER, Sein und Zeit,  Tübingen, 1927, pagg. 384-385.

[21] Ibid., pagg. 126-127.

[22] Ibid., pag. 168.

[23] Ibid., pag. 170.

[24] H. HEIDEGGER, Grundbegriffe der Metaphysik, op. cit., pag. 7.

[25] Sein und Zeit, op. cit., pag. 173.

[26] LUCIO COLLETTI, Il marxismo e Hegel, Bari, 1969, pag. 331.

[27] T.W. ADORNO, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen Ideologie, Francoforte, 1964, pagg. 35-36.

[28] MAX SCHELER cit. in Heidegger, The Man and the Thinker, Chicago, a cura di Shean , 1981, pag. 143.

[29] W. FRANZEN, Von der Existentialontologie zur Seinsgeschichte: Eine Untersuchung über die Entwicklung der Philosophie Martin Heideggers, Neisenheim am Glan, 1975, pag. 71.

[30] Ibid., pag. 73.

[31] Grundbergriffe der Metaphysik, op. cit., pag. 102.

[32] Ibid., pag. 105.

[33] H. HEIDEGGER, Was heisst Denken? Tübingen, 1954, cit. trad. it. Che cosa significa pensare? A cura di G. VATTIMO, Milano, 1989, pag. 56.

[34] H. HEIDEGGER, Phänomenologiche Interpretationen zu Aristeleles, op. cit., pag. 26.

[35] Si veda a questo proposito Hölderlin Hymnen ‘Germanien’ und ‘Der Rhein, Francoforte 1980, vol. 39 GA, pag. 227

[36] M. HEIDEGGER, Parmenides”, Francoforte, 1982, pag. 168, vol. 54 GA.

[37] OSWALD SPENGLER, Der Mensch und die Technik: Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, Monaco, 1932, pag. 69.

[38] Ibid., pagg. 78-79.

[39] M. HEIDEGGER, “Vörträge und Aufsätze”, in particolare il saggio “Die Frage nach der Technik”, op. cit., pag. 23.

[40] OSWALD SENGLER, Preussentum und Sozialismus, Monaco, 1919.

[41] M. HEIDEGGER, “Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles”, op. cit., pag. 74.

[42] M. HEIDEGGER, Grundbegriffe der Metaphysik, op. cit., pag. 105.

 

Andrea Bertuccioli


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