Parole, incomunicabilità e qualche prospettiva

Incomunicabilità, indicibilità del reale, solitudine metafisica del soggetto, sono temi onnipresenti nella grande letteratura del Novecento "Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose!" Le note parole di Pirandello, del 1921, sono emblematiche a questo proposito. E accanto i grandi temi dell'alienazione, dell'assurdo, dell'inettitudine che dominano il panorama della produzione del nostro secolo. Di fronte a una società in decadenza, incapace di costruire e di proporre dei valori, l'artista nella prima metà del Novecento si pone per lo più come coscienza giudicante, spettatore  ironicamente distaccato, talvolta ricorre alla provocazione, talvolta risponde con l'afasia, il silenzio oppure con la decostruzione della lingua. Non vi è più la  fiducia che i secoli passati avevano nutrito nella possibilità di costruire sintagmi logici di pensiero trasmissibili. Nel passato era più facile dopo tutto: le coordinate su cui si costruivano gli assunti del proprio pensiero erano più uniformi, si basavano su certezze condivise, su una trasmissione della conoscenza del passato abbastanza uniforme da cui non si prescindeva e da cui si partiva per costruire  il proprio breve tratto di originale creazione.

     Ma la realtà del nostro secolo è più varia, caotica, confusa. Frastorna l'uomo con un ventaglio infinito di possibilità mentali. E l'artista reagisce a questa situazione con il disorientamento, la solitudine che deriva dal non riuscire a ricostruire i frammenti impazziti del proprio mosaico interiore. E allora le parole fuoriescono in libertà, senza alcuna coerenza logica, oppure i monologhi si intersecano, senza possibilità di contatto, disperati, disperanti. Nella quasi totalità dei casi le soluzioni letterarie sono state improntate alla negatività e alla rinuncia.

     Ma, mentre le voci più significative esprimevano il loro distacco dalla vita e la loro impotenza, i mass media si impadronivano dei sogni degli uomini proponendo loro dei prodotti di sottocultura, di contenuto mediocre,  non certo profondo nè sottilmente inquietante, che conquistavano però, per la loro forza di suggestione, per la loro elementarità, per la loro piacevolezza l'attenzione del pubblico. La lotta contro il dilagare di forme diverse di sottocultura e per la riconquista di un pubblico abbastanza vasto a una letteratura che sia di grado elevato e coniughi la profondità dei suoi contenuti con la gradevolezza penso possa attuarsi proprio allontanandosi da posizioni di una negatività esasperata e in fondo già ampiamente sperimentate.

     E' inevitabile: a una relativa incomunicabilità dobbiamo rassegnarci. Ma possiamo comunque "ingenuamente" affidare i nostri sogni a immagini piacevoli,  coinvolgenti che possano ricreare nella mente del lettore altre realtà. Indubbiamente non saranno le realtà immaginate dall'artista, saranno altre multiformi configurazioni del reale. Ma l'importante è che, dopo aver catturato la fantasia del lettore con una "storia gradevole" l'artista esprima il proprio modo di sentire e attraverso questo metta in crisi le idee accreditate, suggerisca qualche ipotesi nuova, insinui dei dubbi sugli stereotipi correnti. In fondo anche la tradizionale contrapposizione parolaimmagine può essere abbandonata. L'uomo di oggi è abituato a percepire soprattutto attraverso l'immagine. La parola, abbandonando la presunzione di voler esprimere compiutamente ed esaurientemente nei dettagli e definire con esattezza e precisione il mondo interiore dell'artista, può accontentarsi di suggerire delle visioni che il lettore poi completerà con la propria personale sensibilità. Mondi incomunicabili, certo. Relativamente. Ma credo sia un limite contro il quale non possiamo lottare. Forse ha senso solamente lottare per conquistare un relativo piccolissimo spazio di comunicazione. E poi che scopo ha accontentarsi di rappresentare il reale nei suoi aspetti contradditori, multiformi, spesso banali? In fondo le sfumature infinite della realtà tutti le abbiamo sotto gli occhi, non serve alcuno scrittore come mediatore. Per dare un senso all'opera letteraria si può solo ipotizzare che sia necessaria una scelta tra le molteplici realtà e che questa scelta, riduttiva e discutibile per ipotesi, sia necessaria per individuare e rappresentare la personalità di chi la esprime. In realtà non rappresentiamo il mondo, rappresentiamo noi stessi. Un grado di idealizzazione, persino di utopia, penso non siano inconciliabili con il fine che si vuole raggiungere. E poi chiarezza.  Ho già più volte espresso la mia personale convinzione che l'arte non deve programmaticamente perseguire l'oscurità, non deve evitare confronti con il reale, dribblando problemi comunicativi. E' evidente comunque che l'artista nell'esplorare i lati più oscuri del suo essere e manifestarli potrà risultare anche oscuro ma non sarà una sua scelta programmatica, sarà una inevitabile e dolorosa necessità. Come dice Alfonso Berardinelli in "Tutto libri" del 21 gennaio, criticando giustamente l'oscurità deliberatamente perseguita da alcuni poeti  "la fuga dal significato viene accettata dogmaticamente come significativa e così l'oscurità non crea attriti, nè problemi comunicativi interessanti, anzi li annulla, li scavalca". E ancora più in là si spinge Giorgio Manacorda affermando "Non ne possiamo più dei cantori del nulla, non ne possiamo più del nulla e dei suoi sacerdoti". Con un richiamo - a me particolarmente gradito alla chiarezza del mondo classico, addirittura alla poesia di Orazio invocando il significato che si esprima con compiutezza e richiamandosi alla razionalità.  Novità alla fine di questo secolo in cui l'irrazionale è ampiamente prevalso!

 

Marina Tevini  

Pubblicato sulla rivista ZETA NEWS n.35 - 36

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